La scuola italiana come la vorrebbe EDUSCOPIO. Aziendalistica, liberistica, competitiva, dominata dalle leggi del mercato

 

di Francesco Sirleto

 

“La scuola è aperta a tutti” (art. 34 della Costituzione italiana).

“È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (Art. 3 della Costituzione italiana).

“ … Altri hanno in odio l’eguaglianza. Un preside a Firenze ha detto a una signora: “Non si preoccupi, lo mandi da me. La mia è la scuola meno unificata d’Italia”. Giocare il popolo sovrano è facile. Basta raccogliere in una sezione i ragazzi “per bene”. Non importa conoscerli personalmente. Si guarda pagella, età, luogo di residenza (campagna, città), luogo d’origine (nord, sud), professione del padre, raccomandazioni. Così vivranno nelle stessa scuola due, tre, quattro medie diverse. La A è la “Media Vecchia”. Quella che fila bene. I professori più stimati se la leticano. Un certo tipo di genitori si dà da fare per metterci il bambino. La B è già un po’ meno e così via. Tutta gente onorata. Il preside e i professori non fanno per sé, fanno per la Cultura. Neanche quei genitori fanno per sé. Fanno per l’Avvenire del bambino. Farsi strada a gomitate non sta bene, ma se si fa per lui, diventa un dovere sano” (da Lettera ad una professoressa, di don Lorenzo Milani e i ragazzi di Barbiana, 1967).

 

 

In Italia, Paese nel quale tutti sono in disaccordo su tutto e nel quale si discute e si litiga continuamente (fino ad arrivare agli insulti più tremendi), vi è almeno una cosa che suscita, improvvisamente e come per magia, un consenso universale: l’annuale classifica “delle scuole migliori d’Italia” di EDUSCOPIO (indagine promossa, finanziata e supportata, anche con grande battage pubblicitario, dalla benemerita Fondazione Agnelli, si sa un’autentica indiscussa autorità – non si capisce tuttavia per quali meriti speciali – nel campo della promozione dell’istruzione e della cultura). Di fronte all’annuale classifica pubblicata da Eduscopio tutte le diatribe, tutte le polemiche, tutte le interminabili querelles che caratterizzano il dibattito pubblico in Italia, cessano, immediatamente, come “per incantamento”. Non ci sono più Destra e Sinistra, Conservatori e Progressisti, Liberisti e Statalisti, juventini e interisti, romanisti e laziali, al cospetto del Verbo emanato da Eduscopio. Siamo tutti egualmente consenzienti, tutti egualmente sulla stessa barca, tutti lestissimi a sottoscrivere, senza il benché minimo dubbio, il valore indiscusso e incontrovertibilmente scientifico dei risultati dell’indagine Eduscopio. Anche la stampa, sia quella tradizionale (cartacea o televisiva), sia quella più innovativa (quella che ritrovi sul web), quella stampa che si divide su tutto, quella stampa prontissima a mettere cartesianamente in dubbio l’universo mondo, di fronte a questo nuovo Evangelo, si genuflette senza alcuna eccezione e senza che sulle sue ormai pallide guance appaia il benché minimo rossore.

Come, infatti, non dare ragione e non consentire alle sapienti parole che accompagnano, a mo’ di illustrazione, le tabelle e i numeri nei quali si dipanano e si sviluppano gli esisti della insostituibile ricerca sul campo realizzata annualmente da Eduscopio? “Eduscopio è utile – così troviamo scritto in questa preziosa relazione – perché consente allo studente (allo studente? Quale studente? Quello impegnato nell’ultimo anno della media inferiore?) di comparare le scuole dell’indirizzo di studio che interessa nell’area dove risiede (ad esempio, aggiungiamo noi, nell’area tra Tor Bella Monaca e Tor Sapienza, oppure nell’area tra Borgata Ottavia e Primavalle), sulla base di come queste preparano per l’università o per il mondo del lavoro dopo il diploma. Ha successo perché le informazioni che contiene sono frutto di analisi accurate a partire da grandi banche dati (certo, di fronte a “banche dati”, come puoi nutrire il benché minimo dubbio o perplessità?), perciò oggettive e affidabili (anche l’oste, quando parla del proprio vino, lo definisce oggettivo e affidabile). Inoltre, è di facile consultazione e aiuta chi non si accontenta del “passa parola” e, in modo particolare, quelle famiglie che non possono contare su reti sociali e culturali forti”. Quindi, deducendo da queste ultime parole, dobbiamo presumere che l’indagine EDUSCOPIO si rivolge principalmente a quelle famiglie socialmente e culturalmente svantaggiate? Le famiglie residenti nelle periferie delle grandi città? Questa, a mio avviso, è la rivelazione più impressionante del nuovo Evangelo.

Deve essermi sfuggito, evidentemente, un fenomeno noto soltanto agli organizzatori di Eduscopio, quel fenomeno che, da quando la Fondazione Agnelli ha cominciato a pubblicare i risultati dell’indagine “sulle migliori scuole d’Italia” ha visto migliaia e migliaia di genitori dei quartieri periferici delle grandi città (genitori che, ovviamente, “non possono contare su reti sociali e culturali forti”) fare la fila, nei mesi invernali, davanti alle segreterie di scuole famose del centro (es.: Tasso, Visconti, Virgilio, Righi, ecc.), per iscrivervi i loro pargoli tredicenni, ansiosi, questi ultimi, di frequentare per cinque anni una scuola che assicuri loro un vero, autentico, successo, tanto negli studi universitari quanto nel mondo del lavoro (se, putacaso, non avessero voglia di proseguire gli studi dopo l’agognato diploma di maturità).

Gli organizzatori di Eduscopio ci garantiscono inoltre che “Le analisi e i confronti di Eduscopio si riferiscono a due compiti educativi fondamentali: 1) la capacità dei licei e istituti tecnici di preparare e orientare gli studenti a un successivo passaggio agli studi universitari; 2) la capacità di istituti tecnici e istituti professionali di preparare l’ingresso nel mondo del lavoro per quanti, dopo il diploma, non intendono andare all’università e vogliono subito trovare un impiego”. A questo proposito devo confessare una mia grave carenza: ignoravo, infatti, che i suddetti compiti rientrassero tra i compiti educativi fondamentali. Ero infatti convinto che tali compiti rientrassero nel novero delle conoscenze e, in generale, del complessivo bagaglio culturale che la scuola è chiamata a fornire ai suoi giovani utenti. Al contrario, ero convinto che i compiti educativi fondamentali consistessero nella formazione dello studente alla cittadinanza attiva, nella trasmissione e nell’acquisizione di quei valori che sono alla base della convivenza civile e che sono inscritti, a lettere di fuoco, nei principi fondamentali della Costituzione: libertà, democrazia, solidarietà, apertura alle diversità e alla molteplicità delle culture, spirito critico e orientamento alla ricerca, e così via. Evidentemente mi sbagliavo, oppure sono portatore (ormai insano) di una visione del mondo e di una cultura  retrò, stantia insomma. Una persona che ancora crede che una buona scuola si vede dalla capacità che essa dimostra di aiutare i propri alunni (soprattutto quelli più svantaggiati e che presentano una molteplicità di problemi) ad affrontare e, possibilmente, a rimuovere tutti quegli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e l’eguaglianza di tutti i cittadini. Ero, e rimango, convinto altresì che la scuola, essendo aperta a tutti, debba necessariamente essere la scuola dell’inclusione, misurandosi quotidianamente con i problemi, con le difficoltà, con gli svantaggi (psicologici, sociali, a volte fisici) che moltissimi alunni, soprattutto coloro che non possono contare su “reti sociali e culturali forti”, si portano dietro anche all’interno delle mura scolastiche. C’è però un’altra possibilità: che a sbagliarsi siano tanto gli organizzatori di EDUSCOPIO (portatori di una visione aziendalistica, liberistica, competitiva, per la quale ciò che conta non è il riferimento ai valori costituzionali, quanto piuttosto le leggi ferree del Mercato, leggi indiscutibili perché naturali) quanto coloro che prendono per oro colato gli esiti delle indagini EDUSCOPIO, senza preoccuparsi delle premesse – niente affatto scientifiche, ma molto ideologiche (nel senso negativo del termine, vale a dire “falsa coscienza”) – sulle quali vengono realizzate simili operazioni.

Note a Marc Augé, Prendere tempo – Un’utopia dell’educazione (Castelvecchi 2016)

di Fabiola Pavia

 

Nato a Poitiers il 2 settembre 1935, Marc Augé è considerato uno dei maggiori intellettuali contemporanei. Sociologo, antropologo, etnologo, le sue opere hanno influenzato profondamente la letteratura e la filosofia europea della seconda metà del ‘900 e dei primi decenni del nuovo millennio. Tra le principali pubblicazioni dell’autore: In the metro (1986); Non-luoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità (1992); Disneyland e altri non luoghi (1997); Le forme dell’oblio (1998); Diario di un senza fissa dimora (2011).

Con la teorizzazione della surmodernità, intesa come ulteriore evoluzione del postmoderno, Augé ha cercato di dar voce e senso ai diversi fenomeni che imperversano nelle società complesse contemporanee: l’accrescimento del senso di solitudine nonostante lo sviluppo e il potenziamento dei nuovi mezzi di comunicazione, la questione dell’oblio, l’aberrazione della memoria e, soprattutto, i non-lieux. Il concetto di “non-luogo”, coniato da Augé nel 1992, si riferisce a tutti quegli spazi o ambienti anonimi, quali aeroporti, sale d’attesa, stazioni, banche, non identitari, non relazionali e non storici, costruiti appositamente per adempiere a un determinato fine e che, pur non possedendo una specifica identità, incarnano l’espressione par excellence della socialità nel mondo contemporaneo, in cui la difficoltà e, in alcuni casi, l’impossibilità di relazione si accompagna alle “nuove opportunità di incontro” offerte continuamente dai non-luoghi stessi.

Nel testo Prendere tempo – Un’utopia dell’educazione, Augé, incalzato dalle sollecitazioni di La Porta, affronta la questione dello statuto di non-luogo di Facebook e dei social in generale. Lo svago e la mancanza di calcolo e impegno che caratterizzano l’uso dei social, afferma l’intellettuale francese, generano un particolare tipo di spontaneità che ci fa ignorare il tempo e questa spontaneità si manifesta come una tendenza particolarmente pericolosa essendo il tempo, assieme allo spazio, elemento fondamentale in campo educativo. Le relazioni richiedono tempo, l’apprendimento richiede tempo, l’assimilazione, la consapevolezza richiedono tempo: la spontaneità si esplicita come una virtù infantile che deve necessariamente essere educata. Bisognerebbe “pensare di nuovo nel tempo”, “prendere in mano il tempo” per affrontare le nostre inquietudini.

A questo proposito, Augé prospetta il suo programma pedagogico u-topico, fondato su una rivoluzione copernicana delle emozioni e dei sentimenti. Del resto, afferma l’autore, la conoscenza, ovvero ogni tipo di sapere, implica tanto una dose di razionalità quanto una dose di passione e l’idea di una verità “globale”, di “certezze” incrollabili, non è solamente illusoria ma ha da sempre causato “l’infelicità umana”. Al contrario, la “realizzazione dell’uomo” deve passare per la conquista di verità relative, “costruite e verificate”, che non siano semplicemente frutto di calcolo e raziocinio, ma che siano anche vissute e sperimentate nel concreto delle passioni. L’u-topia, in questo senso, è un segno di razionalità, essendo tutti condannati, per natura, a non poter vedere “mai quello che accadrà in seguito, dopo di noi”.

Personalmente ritengo estremamente interessante l’attenzione rivolta ai sentimenti, in particolare a quello di solitudine in una società che si trasforma e che diventa sempre più connessa. Siamo immersi, infatti, in una condizione di solitudine comunicante, in cui tutti siamo connessi online ma al contempo disconnessi quando siamo offline, ovvero nel mondo reale. In tale posizione, tanto rischiosa, non possiamo che incorrere in sentimenti di marginalizzazione, di esclusione, che i nuovi mezzi tecnologici potrebbero, invece, limitare. Ed è per questo che Gardner, in Generazione App (2014), cercava di comprendere la psicologia dei moderni navigatori del web. Le nuove tecnologie consentono di risolvere i problemi più disparati e di far fronte quindi alla complessità del mondo contemporaneo che l’uomo cerca continuamente di esorcizzare tramite l’utilizzo di risposte semplificate che derivano spesso dall’utilizzo di tali app: non a caso McLuhan (Gli strumenti del comunicare, 1964) considerava le app come vere e proprie estensioni delle capacità fisiche e cognitive dell’individuo. Gardner invita quindi ad utilizzare questi strumenti con consapevolezza, necessaria in quanto le app potrebbero andare ad intaccare l’intimità tra gli individui, la formazione dell’identità e del Sé del soggetto e a compromettere lo sviluppo delle relazioni (oggi sempre più offuscate da quella che chiamiamo computazione ubiqua, interazione tra l’uomo e la macchina) che, come ricorda Augé, richiedono tempo. Tutto ciò è perfettamente espresso dal neologismo dei non-luoghi: luoghi senza identità, persone senza identità. Siamo stati resi schiavi di una tecnologia che ha preso il sopravvento sull’autonomia dell’uomo che andrebbe recuperata attraverso la consapevolezza. Come nel mito della caverna di Platone, l’uomo moderno che riuscisse a liberarsi dalle catene, non per forza e, sicuramente, non facilmente, guadagnerebbe rispetto nel trasmettere la “verità” agli altri. Come l’uomo della caverna è schiavo delle ombre proiettate al suo interno, l’uomo contemporaneo è schiavo delle pseudo-relazioni che instaura grazie ai nuovi media. L’importanza del medium sta nell’uso che se ne fa.

Per quanto riguarda la spontaneità credo pienamente nell’affermazione di Augé per cui “non c’è nulla di più spontaneo della violenza”, spesso legata anche all’utilizzo di game, videogame o contenuti proposti dal web: secondo Bandura i protagonisti di film, romanzi e serie televisive, hanno una forte influenza sul comportamento degli individui, i quali vengono spinti, in seguito ad un’attenta osservazione, all’emulazione. L’arte di calcolare il tempo, di prendersi il proprio tempo, al giorno d’oggi è un’arte sempre più ardua da praticare, a causa dei nuovi mezzi tecnologici che ci fanno vivere in un mondo di spontaneità immediata, ma la relazione fra le persone richiede tempo. Prendere del tempo significa “non incalzare”, “non andare di fretta”, ma anche “prendere in mano il tempo”, “gestirlo”, “padroneggiarlo”.

Ricardo Antunes “La politica della caverna” (3 Novembre ore 11.00-13.00)

Il colpo di Stato che ha deposto Dilma Rousseff nel 2016 è stato il primo passo di un tragitto culminato nella vittoria elettorale di Bolsonaro nel 2018. È iniziata così una nuova fase di dominio in Brasile, una sorta di “controrivoluzione preventiva” che può verificarsi anche quando non vi è alcun rischio di rivoluzione. Come definire, quindi, la proposta del “nuovo governo”? Quali errori sono stati commessi perché lʼestrema destra uscisse vittoriosa dalle elezioni dopo quasi quindici anni di governo del Partido dos Trabalhadores? Cosa ci si può aspettare da questa combinazione di potere autocratico, neoliberismo e forte presenza militare? Antunes offre una lucida riflessione sulla politica di Bolsonaro, rintracciandone la genesi nella storia del Brasile dellʼultimo mezzo secolo.

Estratto

A quasi venti anni dallʼelezione di Lula, Bolsonaro si è presentato come un “perdente” e di fronte al crollo di altre candidature borghesi di centro e di destra, è diventato lʼunico in grado di opporsi al rischio che sarebbe stata la “vittoria del Pt e dei rossi”. Il “Capitano”, come viene solitamente chiamato dai suoi accoliti, è una specie di Trionfo delle caverne. Sembra essere il critico più radicale del “sistema”, ma di fatto ne è la reale manifestazione.

Ricardo Antunes

(San Paolo, 1953)

Professore Ordinario di Sociologia presso lʼUniversità di Campinas, in Brasile, e Visiting Professor presso lʼUniversità Ca’ Foscari di Venezia. Autore di numerosi libri tradotti in vari Paesi del mondo. In Italia sono già usciti: Il lavoro in trappola (2006), Il lavoro e i suoi sensi (2016) e Addio al lavoro? (2019). Collabora con il Movimento dos Trabalhadores Sem Terra, dove è Professore alla Scuola Florestan Fernandes.

 

 

 

FEMMINISMI A CONFRONTO. Note a margine a “Siamo tutti diversi!” di Teresa Forcades

di Miriam Borgia

 

Una donna islamica che coscientemente e volontariamente indossa il velo non è sottomessa a nulla; il suo gesto equivale a quello dell’uomo islamico che sceglie di indossare il turbante. L’influenza semmai, a questo livello, è della tradizione religiosa: in un atto volontario l’uomo e la donna sono assolutamente eguali. Una donna che sceglie di recitare nel mondo del porno non perde di credibilità, non lede la sua dignità, e tuttavia si dice che una tale donna sfregi il suo corpo ed accondiscenda inconsapevolmente al patriarcato che la vuole come solo corpo, mentre un attore non riceve le stesse critiche. Ma il punto non è il diverso trattamento che in questo mondo viene riservato all’attrice e all’attore, bensì il puro rapporto della donna con il suo diritto ad autodeterminarsi. Non è forse lo stesso definire una donna libera vittima del patriarcato accondiscendere al patriarcato stesso? Ugualmente, una donna può decidere di diventare madre, moglie, modella, leader, regista, suora e contemporaneamente femminista. Non c’è un femminismo univoco, ce ne sono molti, equivoci, solo apparentemente ossimorici in sé eppure inaspettatamente convergenti.

TERESA FORCADES: la teologia queer

Come si può definire “queer”? Teresa Forcades traduce la complessità del dogma trinitario cristiano riutilizzando il concetto di “homo viator” dell’Esodo, cioè un individuo in continuo viaggio, dunque costantemente in via di definizione, applicandolo infine all’esistenzialismo ed approdando al tentativo di una teologia queer. Soltanto nello scandalo cristiano dell’incarnazione è possibile dare spazio alla complessità degli individui nella loro sessualità: soltanto il cristianesimo, nell’anormalità di un Assoluto incarnato, può dare spazio al concetto di queer. La riflessione che conduce Forcades è rivoluzionaria, sebbene non pionieristica – lei stessa si ispira ad Elizabeth Schüssler Fiorenza, autrice di But She Said, opera di ermeneutica biblica femminista -: parte dalla considerazione che Dio non sia necessariamente uomo dal momento che Gesù lo chiama soltanto “padre”, che più che fare riferimento al suo genere indica intimità, amore: se Cristo fosse stato concepito da un uomo ed una donna la cristificazione sarebbe vincolata e ridotta ad un rapporto interpersonale e per di più eterosessuale. La grandezza dell’incarnazione di un dio assoluto e senza genere nel grembo di una donna vergine sta nella sua paradossalità e, dunque, nella sua eterodossia, diversità, umanità: ecco la teologia queer. Nell’assoluta inconoscibilità e distanza di Dio e, contemporaneamente, nel suo farsi carne nel grembo di una donna vergine, sta tutto la teologia queer; la ricchezza e diversificazione degli individui ha a suo capo la complessità della teologia cristiana. Restando nella dogmatica cristiana, la teologa propone anche una mariologia alternativa a partire dalla verginità di Maria. Risolve la paradossalità di una donna madre e vergine in una diversa considerazione del rapporto tra Maria e Dio: la sessualità non è soltanto genitale, fisica, ma anche spirituale. L’amore tra Maria e Dio è avvenuto così, speciale ed unico nel non comprendere la fisicità, con una scelta libera e volontaria della donna di farsi madre di Gesù. C’è dell’eroticità anche in questo, sostiene la teologa, come c’è eroticità nel misticismo religioso o nell’estasi di Santa Teresa d’Avila di Bernini. E poi si pone l’accento sulla libera scelta di Maria: si considera la storia cristiana come patriarcale, mentre si dimentica che la figura di Maria, donna libera che per puro atto di fede e non senza titubanze ha accettato la richiesta di Dio, possiede una portata rivoluzionaria al pari del mistero della Trinità. Eppure si tratta di una donna. La Chiesa resta misogina e patriarcale, sottolinea Forcades, ma Maria è una moderna femminista. Moderna e vergine: apparentemente ossimorico, se non si considera la verginità come liberazione, come una rivendicazione di autodeterminazione e libertà. Per Maria, come per Teresa, la libertà sta nel non volersi donare, è non darsi all’altro da sé, per cui si supera il concetto di verginità come integrità corporea e si rivendica il suo dinamismo; in questi termini, sottolinea, può essere vergine anche una donna: fa riferimento ad alcune donne sposate che, in seguito alla predicazione dei domenicani e dei francescani, per non concepire la loro realtà come inferiore a quella delle vergini rivisitarono la categoria della verginità come qualcosa di accessibile anche per loro. In altri termini, se si elimina l’equazione della verginità con l’integrità corporea, se si libera la donna dall’ “esse ad”, cioè dall’essere esclusivamente per l’altro – per l’uomo – e se si definisce la verginità come un ritrovato spazio di autodeterminazione ed indipendenza dall’altro da sé, allora ogni donna può essere vergine. La modernità di tali affermazioni sta nell’essere estremamente vicine alla lotta che il femminismo laico ha condotto contro il presunto valore della verginità: una donna vergine non è più integra di una non vergine, e parlarne in tali termini equivale all’asserire che la donna, nel rapporto sessuale con l’uomo, si perde. E allora la verginità va decostruita, le va sottratta l’accezione meramente fisica. Chiaramente in Teresa e nel femminismo laico si hanno due esiti diversi, perché dallo stesso presupposto, cioè che la verginità fisica sia assolutamente sopravvalutata, nel primo caso si conclude che ci sia una verginità spirituale superiore a quella fisica, e nel secondo che il sesso per la donna non sia disprezzo di sé. Il punto in comune è che non si parla dell’uomo, si considera la donna in quanto tale e per un istante non in quanto relazionata all’uomo: sia nella verginità che nella sessualità la donna compie una libera scelta soltanto per se stessa. Posto ciò, non dovrebbe più stupire la varietà di temi trattati parallelamente e con gli stessi esiti da Teresa Forcades e dal femminismo odierno della Women’s March e del movimento #MeToo. Nelle sue parole si trova, con piacevole stupore, una teologa che lotta perché l’aborto sia depenalizzato, perché ogni donna porti sempre con sé nella borsa una pillola del giorno dopo, perché le unioni omosessuali possano essere celebrate anche in chiesa. La sua considerazione dell’aborto, in particolare, contiene una complessità sconvolgente: in quanto cristiana resta ferma dell’idea che l’aborto sia un atto tremendo, ma in quanto femminista e socialista ritiene che debba essere depenalizzato dalla stessa Chiesa. Numerose femministe di oggi o del movimento degli anni ’70 si sono dichiarate pro-aborto, ovvero assolutamente a favore della pratica, non considerandola in sé come un omicidio ma neanche come un atto tragico per il feto. Si intravedono almeno tre sfumature diverse sulla questione e Forcades prende una posizione da cristiana e da femminista: è impossibile affiancarla sia alle femministe radicali pro-aborto sia al conservatorismo cristiano che considera l’aborto come un vero e proprio omicidio. In questa sua posizione sfumata – non appoggia l’aborto ma lotta perché le donne che ne hanno bisogno ne possano usufruire – c’è un’apertura straordinaria, è l’affermazione che è possibile anche una posizione ulteriore: Forcades celebra la molteplicità delle voci nell’affermare una “terza via” rispetto all’essere o contro o a favore dell’aborto. Per queste sue affermazioni è stata ripresa dalla Santa Sede che le ha chiesto una retractatio; a tali rimproveri, invece, ha risposto con una forte explanatio dove confrontava l’aborto con un’altra questione cara alla Chiesa. Partendo dal presupposto che i due diritti fondamentali riconosciuti dal magistero siano il diritto all’autodeterminazione e il diritto alla vita, il quale ha la precedenza sul primo e da cui si conclude che l’aborto debba essere vietato – la madre non potrebbe disporre della vita del figlio in virtù di una sua autodeterminazione – Teresa portava l’esempio di un padre che non è stato obbligato dalla Chiesa a donare al figlio un suo rene compatibile, proprio in virtù del diritto all’autodeterminazione -. Alla sua lettera il magistero non ha mai risposto. Su una tematica molto cara al femminismo odierno, comunque, prende una posizione decisa, ovvero che la maternità surrogata sia da combattere. Anche questa volta, però, lo afferma da femminista, oltre che dal punto di vista medico: c’è una relazione madre-figlio di cui non può disporre neanche la madre e che comincia nella pancia dal momento del concepimento. Il figlio si nutre della voce della madre, risponde ai suoi stati d’animo e fisici, e il figlio di una madre surrogata sarà sempre il figlio di quella madre surrogata, mai della madre adottiva. Indipendentemente dal fatto che questo punto di vista sia condivisibile o meno, l’argomentazione che conduce è geniale: come nel caso dell’aborto non si può semplicemente vietarlo e fare del corpo della madre un oggetto di cui può disporre la Chiesa, così nel caso dell’utero in affitto non si può fare del feto un oggetto di desiderio e soprattutto economico. All’interno del saggio affronta anche un’altra tematica dove si trova d’accordo con un certo femminismo relativo al mondo della moda: la critica alla labioplastica. Essa è chiaramente un tentativo di adeguarsi ai parametri, e in questo specifico caso quelli dell’industria pornografica, che stabiliscono come debba essere il cosiddetto corpo perfetto femminile. Con la labioplastica “le donne vengono trattate come barbie, diventano schiave di un modello imposto loro dal mercato”, sostiene Forcades. È impressionante quanto ciò suoni identico alle dichiarazioni di modelle scappate o cacciate da Victoria’s Secret che le voleva tutte magrissime, al limite dell’anoressia e della sanità mentale, agli esempi di modelle curvy come Ashley Graham, o di modelle transgender come Valentina Sampaio. Chi stabilisce i criteri del corpo perfetto e perché bisogna adeguarvisi? Forcades parla di amore, fisicità, limiti e retroterra del celibato senza alcun senso di vergogna; si apre anche riguardo le sue esperienze con la sessualità e dalle sue parole non traspare mai la colpa. Racconta che all’inizio del noviziato si era innamorata e parlandone con la badessa aveva ricevuto soltanto parole di comprensione e pazienza, perché era una fortuna che avesse avuto quell’esperienza proprio in quel periodo, perché in quel modo poteva sperimentare vividamente la complessità della vita monacale e del celibato che la accompagna, dell’amore per Dio che richiede una scelta esclusiva come qualsiasi altro rapporto amoroso. Non c’è alcun accenno pudico e autopunitivo al peccato perché essenzialmente non si tratta di peccato. La riflessione di Forcades ricorda molto quella di Eloisa nell’epistolario al suo Abelardo in cui, da sua brava allieva, esclude il peccato dall’amore completo, carnale, sessuale, intellettuale, spirituale nei confronti dell’amato soltanto perché l’intenzione dietro l’atto era pura e comunque accompagnata dalla fede. Si trattava di una fede inevitabilmente più debole del suo amore verso Abelardo, (“io che ho sempre amato Abelardo più di Cristo”), e forse proprio per questa sua assolutezza impossibile da leggere come un male agli occhi di Dio, l’unico che conosce l’intenzione nell’animo umano. La legge, la morale, la pudicizia della legge umana crollano necessariamente di fronte ad una devozione assoluta. Si tratta soltanto di smettere di parlare della sessualità in termini di peccato e di considerare la possibilità che anche un uomo o una donna di chiesa possano innamorarsi senza per ciò andare contro Dio: agli occhi di Forcades la Chiesa deve accettare questa sfida e considerare che la vita monacale impone la rinuncia alla famiglia, e quindi implicitamente impone l’astinenza, ma questo è un discorso che vale soltanto se procreazione e sesso restano inscindibili. Ormai il sesso non è solo relativo alla costruzione di una famiglia, è innanzitutto componente di una relazione amorosa, e poi volto alla procreazione, e allora il discorso andrebbe riconsiderato fermi nel presupposto che la Chiesa sia una realtà storica, fallibile, umana e che debba fare i conti con questa sua storicità. Mi ricollego a quest’ultimo punto per ritrattare, con le parole di Forcades, l’argomento iniziale, ovvero il rapporto tra il mondo cristiano e quello queer. Le radici antropologiche del presunto andare contronatura dei rapporti omosessuali, dei transgender e in generale delle questioni di genere – accusa rivolta anche da parte di Camille Paglia, nota “femminista anti-gay” – risiedono nel concetto della sessualità binaria, accolto anche dal cosiddetto “femminismo della complementarietà”, secondo cui esistono soltanto due generi e un solo orientamento sessuale dal momento che l’unico fine della sessualità è la procreazione. Il punto è, ancora una volta, che sessualità e procreazione si incontrano sì sulla stessa strada, ma sono originariamente indipendenti; inoltre, il sesso possiede una complessità impossibile da ridurre alla coppia uomo-donna. Esistono il sesso cromosomico, gonadico, genitale: ad esempio sul piano cromosomico oltre a xx e xy esistono anche xxy e x0, sebbene rarissimi, (e questi due ultimi sessi cosa sarebbero? Maschi o femmine?) E poi esiste il sesso psicologico che apre al problema della transessualità, ed infine la dimensione del desiderio che moltiplica gli orientamenti sessuali. Esiste una diversità al di là della dualità, seppur rara, seppur minoritaria, esiste un Altro che richiede spazio, apertura, riconoscimento, e questo oltre ad essere il messaggio dei gay pride è in origine il messaggio cristiano: “in Cristo non c’è ebreo, gentile, schiavo, maschio o femmina”, scriveva San Paolo nella lettera ai Galati.

THE HANDMAID’S TALE: libertà di e libertà da

Il 4 ottobre 2018 a Verona è stata approvata una mozione anti-aborto che ha incontrato l’opposizione di alcune donne del movimento “Non una di meno”, le quali hanno protestato vestite con una lunga tunica rossa e un copricapo bianco. Si trattava di un esplicito riferimento alle ancelle di The Handmaid’s Tale, la serie tv tratta dal romanzo di Margaret Atwood, letteralmente delle “incubatrici viventi” nelle mani della teocrazia dispotica – e finora distopica – di Gilead. Gilead si instaura con lo scopo di sopperire alla crisi della natalità e divide la società in uomini, sempre al comando, e donne, a loro volta suddivise in base alla loro fertilità: ci sono le “mogli”, vestite di blu, colore della purezza, apparentemente sterili ma facoltose in quanto mogli dei comandanti, le “marte”, vestite di grigio, colore dell’invisibilità, relegate a svolgere le mansioni di casa, ed infine le “ancelle”, vestite di rosso, colore della fertilità e del sangue ma soprattutto l’unico colore che spicca e le rende riconoscibili a distanza e che rende impossibile qualsiasi tentativo di fuga. Poi ci sono le “non-donne”, in quanto non-fertili destinate ai lavori forzati nei territori contaminati: “una donna non fertile è come un fiore da potare”, dice Serena, moglie del comandante Fred Waterford. In Gilead lo stupro è legalizzato: il romanzo della Atwood si apre con il racconto biblico di Giacobbe e Rachele la quale, sterile, ma desiderosa di un figlio tutto per sé, invita il marito a concepirne uno con l’ancella. In Gilead la scena biblica viene replicata alla lettera: le ancelle, abusate dal padrone, giacciono come in un rituale sul grembo della padrona di casa. Prestano il loro grembo ai desideri della donna. Le ancelle di Gilead, appunto, sono delle incubatrici, madri surrogate il cui stupro – perché di questo si tratta – non solo è legalizzato ma anche obbligatorio. La serie tv, come il romanzo, è semplicemente sconvolgente e difficilmente digeribile nei temi e nei toni, ma apre al problema della maternità surrogata e a quello dell’autodeterminazione della donna, già affrontati con Teresa Forcades. June, la protagonista, è ribattezzata “DiFred”, ovvero “di proprietà di Fred”, tanto la sua persona è ridotta al suo mero utero, tanto che ci si chiede: il suo corpo è ancora suo? Non c’è più autodeterminazione se una donna non può scegliere che vestiti indossare perché la divisa è obbligatoria, come sistemarsi i capelli perché questi sono un segno di vanità e vanno coperti, nascosti, legati dimenticati, se truccarsi, se sposarsi, chi amare – chiaramente l’omosessualità è un altro obiettivo polemico di Gilead perché non porta alla procreazione -, se leggere, attività concessa solo agli uomini, se avere figli. Zia Lydia, posta all’educazione delle ancelle, spiega che esistono due diversi tipi di libertà: nel tempo precedente a Gilead, ovvero quando June si innamorò di un uomo sposato, l’omosessualità era accettata e la fertilità calava pericolosamente, c’era libertà di, mentre sotto Gilead si è conosciuta la libertà da, cioè libertà dal sesso, dalla vanità, dalla possibilità di scelta che è problematica. [1] Al di là del problema della libertà umana e della donna, chiaramente soppressa, nei bambini che le ancelle partoriscono e che devono consegnare alla rispettiva Moglie c’è tutta la drammaticità dell’argomento precedentemente affrontato: il figlio appartiene sempre alla madre biologica, e se le Mogli insistono nel dire che i bambini partoriti, allattati, svezzati dalle loro ancelle siano i loro, comunque non saranno mai i loro bambini, a maggior ragione se, come in Gilead, vengono strappati via senza il consenso della vera madre. Ovviamente i problemi della maternità e del corpo della donna hanno un peso diverso nella serie tv e nel romanzo che nella nostra società, The Handmaid’s Tale è un racconto drammatico e innanzitutto distopico, ma è interessante notare come Teresa Forcades e Margaret Atwood affrontino lo stesso tema da presupposti diversi eppure con esiti simili. Occorre ricordare, inoltre, che Atwood è stata accusata di essere un “cattiva femminista” dalle sostenitrici del movimento #MeToo dal momento che ha criticato l’accanimento verso gli uomini sospettati di violenza sessuale sia prima di essere processati sia dopo essere stati assolti. “Se le donne vogliono avere più diritti i diritti innanzitutto devono esistere”, ha sottolineato, il che ci fa riflettere su quanto spesso i movimenti femministi partano con dei presupposti corretti e poi manchino di profondità intellettuale e filosofica e si perdano nello scagliarsi contro le molestie sessuali ed in generale le violazioni al corpo e alla persona femminile. Probabilmente può fare più danni un cattivo femminismo, irrazionale e forte soltanto della correttezza dei suoi principi, che Donald Trump o Harvey Weinstein. E c’è più femminismo nell’affermazione della Atwood che nelle t-shirt con la scritta “we should all be feminist” firmate Dior.

CAMILLE PAGLIA: l’anti-femminismo

Camille Paglia è un’accademica, antropologa, filosofa, lesbica e femminista – o quasi – statunitense presa a modello talvolta dai democratici e talvolta dai repubblicani. Scrive all’incipit del suo Sexual Personae: arte e decadenza da Nefertiti a Emily Dickinson che “in principio era la Natura”, rivisitando la traduzione biblica di Lutero per denunciare certi comportamenti a sua detta contronatura adottati dalla comunità lgbt, quali le adozioni da parte di coppie omosessuali e il cambiamento di genere. Vuole “codici morali e civiltà, perché senza di essi saremmo sopraffatti dalla tirannia della natura” e con queste parole sembra richiamare Freud in Il disagio della civiltà ma anche Nietzsche in La gaia scienza che più che demolire la morale, come spesso si afferma, la decostruisce e ne svela l’utilità: i codici morali servono perché garantiscono la società civile che è l’unica forma di aggregazione sana che conosciamo. Camille Paglia, dunque, ritiene certe richieste della comunità lgbt, come il cambiamento di genere o l’adozione gay, destabilizzanti moralmente, oltre che contronatura. Già con Forcades, tuttavia, si è affrontato questo presunto andare contronatura: il sesso cromosomico, gonadico, genitale e psicologico aprono ad una sessualità sfaccettata ed impossibile da ridurre alla dualità. La dualità, definitivamente, non è “naturale”, cioè una realtà ontologica necessaria, ma semplicemente una pratica necessaria per la procreazione: è fuorviante e dannoso confondere la natura con la necessità. La tematica aprirebbe ad un’altra enorme questione filosofica: cos’è natura e cos’è cultura. Pensiamo che una palazzina sia frutto di tecnica mentre l’attività del castoro che costruisce la sua diga è natura; i pesci pagliaccio cambiano sesso dopo una certa età, ma il cambio di sesso per gli esseri umani è contronatura; un quarto delle coppie di cigni neri australiani è costituito da due papà, ma le adozioni gay sono contronatura. Dalla semplice osservazione, quindi, è più facile evincere che i rapporti tra lo stesso sesso sono naturali, mentre l’omofobia è un prodotto culturale, sorto specificamente sulle orme del cristianesimo che, in linea contraria rispetto al paganesimo greco-romano, ripudia il sesso e lo confina alla procreazione. L’idea per cui l’omosessualità sia contronatura deriva, paradossalmente, da una concezione di naturalità distorta dalla cultura: difatti, è noto che sia nel mondo greco che nel mondo romano fossero delle pratiche comunissime, adottate dai soldati lontani in guerra per anni e dalle ragazze dell’isola di Lesbo per fini educativi. Soltanto l’uomo fa distinzioni, solleva problemi, stabilisce cos’è natura e cos’è cultura, cos’è bene o male. Tuttavia, lasciando soltanto accennato il conflitto tra natura e cultura, Camille Paglia si è sempre battuta per la libertà della donna ed è stata apprezzata e citata da un’altra donna, molto più celebre, sebbene non per essere femminista bensì per essere innanzitutto una delle modelle più apprezzate al mondo.

EMILY RATAJKOWSKI: “sexual and serious”

Sul suo profilo Instagram compare una foto che la ritrae ad una manifestazione femminista in posa con un cartellone che cita Camille Paglia: “the enemy is not lipstick but guilt itself: we deserve lipstick if we want it and free speech. We deserve to be sexual and serious or whatever we please”. Arrestata nel 2016 alla protesta contro l’elezione di Brett Kavanaugh alla Corte Suprema, racconta che “anche donne di sinistra che supportavano pienamente l’obiettivo della mia protesta fecero dei commenti sul fatto che non indossassi il reggiseno sotto la canottiera bianca: secondo loro, il fatto che il mio corpo fosse visibile screditava in qualche modo il peso del mio atto politico”. Racconta, inoltre, che sessualità, sensualità e nudità non sono mai stati dei taboo nella sua famiglia. Figlia di un artista e di un’insegnante di letteratura, viene portata alla fama mondiale dal videoclip di Blurred Lines ed il suo profilo Instagram oggi è il trionfo di una sensualità che non si vergogna di mostrare ma che rivendica orgogliosamente. Moglie, imprenditrice e femminista, sostiene che “si può essere moglie e casalinga e credere nell’uguaglianza come si può essere profondamente religiosi e credere nel diritto di una donna di scegliere: il mio messaggio è semplice”, il che evidenzia una concordanza inaspettata con tutta la riflessione di Teresa Forcades. Tuttavia, non la si conosce propriamente perché socialista, attivista e appartenente ad un femminismo davvero riflessivo ma per le foto che la ritraggono – per quanto, sia chiaro, non stiamo parlando di una studiosa ma di una donna intelligente che cerca di trasmettere un messaggio attraverso il suo stesso corpo -. Eppure le immagini possono avere un grande impatto comunicativo, la sensualità dei suoi scatti è un preciso messaggio politico, ed è questo il motivo per cui ha scelto di portare quel femminismo intellettualmente più approfondito sul social network, se il social non si interessava ad esso. Dunque, tra i suoi primi piani e la sua linea di costumi che pubblicizza, in data 8 agosto 2019 compare anche una sua foto in posa con le braccia sollevate, ascelle non depilate in mostra e un suo articolo pubblicato su Harper Bazaar che accompagna lo scatto dove scrive, citando Camille Paglia in Sexual Personae: “the female body’s unbearable hiddenness applies to all aspects of men’s dealings with women. What does it look like in there? Did she have an orgasm? Is it really my child? Who was my real father? Mystery shrouds women’s sexuality.” Inoltre, continua con una riflessione personale: “I’m positive that most of my early adventures investigating what it meant to be a girl were heavily influenced by misogynistic culture. Hell, I’m also positive that many of the ways I continue to be “sexy” are heavily influenced by misogyny. But it feels good to me, and it’s my damn choice, right? Isn’t that what feminism is about, choice?” Il messaggio è che non esiste una scelta giusta, non esiste qualcosa che rende una donna più o meno femminista o addirittura “cattiva femminista”: finché si tratta di una decisione libera e personale è la decisione giusta. Nuovamente, cosa stabilisce che una donna islamica non sia libera, che un’attrice nel porno non sia libera, che una monaca non sia libera? E se i parametri di un certo femminismo diventassero anch’essi, in una dialettica paradossale, gli ennesimi modelli imposti dalla società?

FLEABAG: come (non) essere una cattiva femminista

Phoebe Waller-Bridge è regista, sceneggiatrice e attrice protagonista nella serie tv che ha segnato un punto di svolta nel “dramedy” inglese per le modalità con cui si è occupata di femminismo. Nella prima stagione Fleabag è una giovane donna ossessionata dal sesso, apparentemente incapace di intrattenere una relazione amorosa seria, disperata per la recente morte della migliore amica, con problemi finanziari e famigliari per un padre vedovo incapace di comunicare con lei e per una sorella che si presenta come il suo opposto – ha un lavoro stabile, è sposata e si ritiene realizzata – ma che soffre quanto lei. Dunque, una serie tv drammatica e psicologica, eppure estremamente comica per la penna e per l’interpretazione di Waller-Bridge. Fleabag si chiede: è una buona femminista una donna instabile sotto tanti aspetti della propria vita? Le buone femministe gridano che non bisogna inseguire il corpo perfetto, che bisogna essere salde in sé senza un uomo a cui appoggiarsi, che bisogna prendere in mano la propria vita e dimostrare che anche una donna può fare carriera. Ad un incontro di femministe viene chiesto: “alzi la mano chi scambierebbe cinque anni della propria vita per il cosiddetto corpo perfetto” al che Fleabag e la sorella, Claire, alzano la mano spontaneamente mentre il resto della platea le guarda e giudica. “Siamo delle pessime femministe”, sussurra Fleabag ridendo. È una pessima femminista anche Claire, con evidenti disturbi alimentari e una forte insoddisfazione verso l’orribile marito. Waller-Bridge esplora le difficoltà e le contraddizioni in cui si incorre nel declinare nella vita quotidiana i parametri di quel femminismo che vuole le donne come colonne incrollabili. D’altra parte, “i capelli sono tutto”, rimprovera Fleabag al parrucchiere che ha rovinato la chioma della sorella, “distinguono una buona giornata da una cattiva giornata”. Restando nella serie tv, è possibile anche ritornare su un tema già affrontato con Teresa Forcades, ovvero il celibato nella Chiesa. Nella seconda stagione Fleabag è già una donna diversa: più stabile, salda, meno ironica e pungente, comprensiva e capace di prendersi cura anche della sorella. Si tratta di una stagione completamente diversa dalla prima perché Fleabag sembra aver superato l’onta di cattiva femminista e la riflessione sulla contraddittorietà degli striscioni del femminismo viene lasciata in sospeso, mantenendo la domanda aperta e non fornendo un’esplicita soluzione: si assiste invece ad una storia d’amore particolare, controversa e problematica tra la protagonista ed un prete. Soprannominato “the hot priest”, quest’ultimo costituisce, paradossalmente, la prima relazione sana, dolorosa ma arricchente per Fleabag. Tra i due sorge immediatamente l’ostacolo del celibato, superato, non senza lotta da parte di lui, soltanto nel penultimo episodio, e nel finale di stagione emerge una riflessione sulla natura della fede e del suo rapporto con l’amore “terreno”: al matrimonio del padre di Fleabag con la fastidiosa matrigna, il prete pronuncia un’omelia sulla fatica di amare, sul dolore e i bivi che l’amore può porre di fronte, omelia che sembra dedicata all’amata (“being a romantic takes a hell of a lot of hope”) la quale, invece, comprende immediatamente che il riferimento era a Dio. Teresa Forcades raccontava che, quando all’inizio del suo noviziato provava dei sentimenti per un ragazzo, si rese conto che la cosa più forte che aveva vissuto fino a quel momento restava l’amore per Dio. Si trova allora perfettamente d’accordo con l’“hot priest”, il quale capisce di non ricambiare fino in fondo i sentimenti di Fleabag, sul fatto che Dio non impone affatto un amore esclusivo nei suoi confronti perché l’amore umano semplicemente non è esclusivo: la fede, la vita monacale, l’astensione richiedono una scelta, non una cieca obbedienza. Non è un peccato nei confronti di Dio il rapporto tra Fleabag e il prete e nelle parole di quest’ultimo, come nelle parole di Teresa Forcades, non c’è alcun senso di colpa, nessuna purezza perduta, c’è soltanto tutta la difficoltà e il coraggio di affrontare i propri sentimenti e di amare sinceramente Dio o un’altra persona in seguito ad una libera scelta. Agli occhi di un vero cristiano, Dio non richiede un amore incondizionato né opprimente, al contrario permette al prete di lasciarsi trasportare da Fleabag per riscoprire la sua fede ancora incrollata e ad Eloisa di abbandonarsi ad Abelardo perché conosce l’intenzione pura del suo animo. Il problema a monte, che Forcades affronta sia nel libro sopra citato che nella sua attività di teologa, è che la religione non è un percorso prefissato e imperturbabile: sia come fenomeno privato sia sottoforma di un’istituzione comprende continuamente scelte, ripensamenti, rivisitazioni, umanità, in quanto innanzitutto è un fenomeno umano. E allora la Chiesa deve perennemente calarsi nella storia e riconsiderare il celibato, l’aborto, l’omosessualità, o non sarebbe ministro tra l’uomo e l’Assoluto, come la voleva Hegel, ma un’imposizione dall’alto di leggi esteriori ed eterne.

CALARSI NELL’ESSERCI

La rivoluzionarietà di Teresa Forcades sta nell’essere contemporaneamente una monaca benedettina dalla parte delle ancelle di The Handmaid’s Tale e contro la falsa cristianità di Gilead, dalla parte delle donne vittime di violenze sessuali o semplicemente di gravidanze indesiderate e contro il conservatorismo cristiano, dalla parte del socialismo (Marx, spiega, era innanzitutto cristiano) eppure convintamente cristiana. Si tratta di una figura paradossale che presenta tesi paradossali: il punto è che il paradosso è la cifra della società civile, (“nulla di eguale esiste”, scriveva Nietzsche). Forcades ne riconosce l’importanza e lo rinsalda teologicamente spiegando che la polivocità umana deriva dalla polivocità divina, che il mistero – perché non riducibile a logos – dell’Incarnazione suggerisce che neanche l’uomo sia limpido, duale, logistico. La pericolosità dei concetti e dei principi è che si risolvano in affermazioni apodittiche: il movimento #MeToo nasce per denunciare gli abusi sessuali sul corpo di alcune donne e per richiedere una maggiore sicurezza e pretendere che certi diritti vengano garantiti, ma acquista una tale forza, una tale giustezza, una tale non confutabilità da rimuovere mano a mano tutte le sue premesse, da ritenere di non doversi più giustificare, di potersi distaccare dalle cose e fissarsi come dogma. Il presunto femminismo di certi slogan stampati sulle t-shirt, come “feminist af” o “the future is female”, che premesse ha ormai? È stata accolta la tacita tesi per cui se si vuole difendere i diritti della donna e aderire a questa grande ondata di femminismo – che fa moda – basti leggere Freeda, nota rivista al femminile, e scegliere di non depilarsi per ledere al patriarcato. Un femminismo che non si cala nel mondo di volta in volta, una filosofia che non si cala nell’esserci delle cose, sono destinati a crollare: ecco, dunque, perché Fleabag non riesce a stare al passo con questo femminismo apodittico. Il rischio della razionalità è che può diventare irrazionale se non si confronta continuamente con i fatti: l’intera Fenomenologia dello Spirito di Hegel è un viaggio all’interno di una ragione mai fissa; Schelling evidenziava come accanto al logos esista un esserci che gli è irriducibile e di cui si deve prendere atto; La dialettica dell’Illuminismo illustrava gli esiti tragici del logicisimo. Teresa Forcades richiede alla Chiesa di confrontarsi con i fatti e soprattutto con la storicità che le appartiene; ugualmente il femminismo necessita di mantenersi riflessivo per non rischiare di restare un vuoto slogan. Questo rischio sembra già essersi fatto concreto se a Emily Ratajkowski viene fatto notare che manifestare per i diritti della donna con il seno in vista comporta una perdita di credibilità, se a Margaret Atwood viene criticato di essere una cattiva femminista per non essersi accanita contro degli uomini assolti dall’accusa di molestia. La riflessione sul pluralismo deve acquisire e mantenere toni, voci, punti di vista, esiti strutturalmente plurimi. Prendere coscienza, inoltre, del fatto che esistano femminismi diversi e diverse donne che partecipano alla riflessione femminista, dovrebbe demolire gli slogan che ossessionano Fleabag, tra i quali: la vera femminista non deve lasciarsi sedurre dal corpo perfetto, deve riconoscersi oltre la maternità, deve uscire dalla clausura domestica, deve fare carriera al pari dell’uomo, deve prendere possesso del suo corpo e della sua sessualità, in breve deve guadagnarsi indipendenza dall’uomo. I discorsi rischiosi, in tal senso, sono dunque essenzialmente due: a) la donna è forte se rifiuta tutto ciò che le cade addosso dalla società; b) come nel femminismo del secondo dopo guerra, bisogna valorizzare la differenza femminile. Teresa Forcades dimostra che nel primo caso si va in contro al fallimento necessario: ribalta la verginità, il celibato, celebra la polifonia dei sessi, degli orientamenti e dei dogmi cristiani ma lei stessa non rifiuta il ruolo, apparentemente denigrante, di monaca, anzi lo veste orgogliosamente. Emily Ratajkowski, moglie e modella, rivendica la sensualità della donna: del corpo femminile dispone innanzitutto la stessa donna, in quando donna ed in quanto individuo. Nel secondo caso, invece, attraverso l’ipervalutazione della donna per risollevarla dalla morsa del patriarcato si incorre nel non riconoscimento dell’uomo. Simone de Beauvoir, nel suo Il secondo sesso (1949) denunciava la realizzazione nella storia di un rapporto asimmetrico tra uomo e donna, per cui dalla coppia originaria, come unità fondamentale, la donna da altro (altra metà) dell’uomo diventava Altro, oggetto trasceso e strutturalmente subordinato al soggetto. Il pericolo sta nel cercare di superare le disuguaglianze creando altre disuguaglianze simmetriche ed opposte alle prime; la sfida, che Forcades rivolge anche alla Chiesa, sta nel cercare le uguaglianze nelle diversità, per non ricadere in una dialettica di discriminazione.

Note:
[1] Per eliminare eventuali equivoci occorre evidenziare una questione, cioè che la libertà da di zia Lydia potrebbe somigliare vagamente al concetto di verginità come liberazione di Teresa Forcades. L’enorme differenza sta nell’uso della libertà: nel caso di zia Lydia, è un discorso propagandistico e assolutamente pericoloso volto alla giustificazione di un regime teocratico, soppressivo e macchiato di crimini; nel caso di Teresa la libertà è libertà in ogni senso, della vergine e della non vergine, e soprattutto è un discorso di ispirazione biografica, nato dalla sua precisa condizione di suora.