Quale «Illuminismo»? Ragione, diritto d’esistenza e movimenti sociali

Il dibattito sollevato sulle pagine del quotidiano italiano «La Repubblica», nell’ormai lontano 2000 – dunque prima del 11/09/01 – sull’Illuminismo e la necessità di «nuovi Lumi» per il nostro tempo ha avuto una discreta risonanza non sui soli media, portando infine all’edizione del libretto a cura di E. Scalfari, Attualità dell’Illuminismo, Roma-Bari, Laterza, 2001. Dalla distanza di ciò che nel frattempo è storicamente accaduto – Le rivoluzioni arabe, le nuove guerre in medio oriente, Daech ecc. – il tono del dibattito, tuttavia, non sembra uscire dal terreno di vecchi luoghi comuni su un’Età dei Lumi come «Età della Ragione» a tutto tondo, la cui immagine non tiene presente, anzitutto, il retaggio del processo storico di formazione della ratio illuministica e del suo rapporto al concetto di diritto. E del diritto dei popoli, in particolare.

Avere comunque iniziato a discutere di questi temi è stato un bene e il sintomo di un bisogno, nella sinistra italiana (e oltre), di fare chiarezza sulla propria provenienza, non solo ideale.  Si è parlato di Lumi che «non sono più di moda nel nostro secolo» (E. Scalfari, 8/12/2000) ma da riattivare, magari, chissà? con un’opera di marketing contro-contro-illuministica (eco della «critica della critica critica» di marxiana memoria?). Funzionerà? Ci manca, la bella «Ragione» del secolo decimottavo! da erigere contro integralismi, risorgenze superstiziose, nuovi assoggettamenti, particolarismi. D’accordo. Ma, come è stato notato (F. D’Agostini, Il Manifesto, 15 febbraio 2001), la filosofia (e il presente storico) «non ha il proprio futuro alle spalle». La déraison futura come la individueremo? Questo è un primo problema che riguarda un possibile «nuovo Illuminismo». Come ? Opponendo un Illuminista ideale, senz’altro seguace di Rawls o di un Kant habermasiano, ad un Torbido-Postmoderno, il primo ovviamente più simpatico del secondo (S. Maffettone)?

Da un lato, c’è la difesa “illuminata” di un’etica pubblica e la fiducia in un uso pratico della «ragione» (e che cos’è, qui, nel contesto dell’etica pubblica, ratio?), dall’altro il relativismo a-moralistico, scettico New-Age, del libertario preso all’interno del proprio clan. Troppo facile optare per il primo a scapito del secondo. Sono tentativi generosi di messa a fuoco, ma hanno i connotati delle caricature anti-storiche, implausibili per eccesso di riferimento all’oggi. Givone, ad esempio, sostiene che «il progetto illuminista qual è possibile ricavare dall’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert (…), risponde a una doppia esigenza: diffondere un sapere tecnico-scientifico e contrastare un sapere tradizionale giudicato retrivo, mitologico. Evidente il nesso tra questi due aspetti. E come non ammettere che il modello di conoscenza privilegiato, finisce col diventare esclusivo di tutti gli altri ? (…) qualcosa non ha funzionato nel progetto illuminista».

Non ci sembra un giudizio fondato: la tesi di Givone finisce col riproporre lo stereotipo dei lumi rovesciati in barbarie (Adorno-Horkheimer), da ri-rovesciare (chissà come) con un atto di buona (e crociana, idealistica) volontà. Stesso afflato idealistico si percepisce nei Lumi «deboli» di Gianni Vattimo o nel «cuore battente» per un Illuminismo sempre da ricuperare di Dahrendorf : sarebbe la ragione incompiuta dell’Enlightenment  (inglese) quella da perseguire, piuttosto che la Ragione-dea dei francesi «intesa come qualcosa di definitivo». Afferma infine, saggiamente, Scalfari: va smitizzata l’immagine di un’età dei Lumi come «una sorta di impero della Ragione astratta contro la concretezza della vita, delle emozioni, dei sentimenti». E ha mostrato nel Sogno di una rosa, che accompagna la riedizione a cura di Daria Galateria del Sogno di d’Alembert (Sellerio, Palermo, 1994), quanto sia necessaria una simile demitizzazione.

Ora, va spesa una parola di critica di queste posizioni, pure legittime e intelligenti, che tuttavia inquadrano idealisticamente il problema della ratio illuministica, senza riguardo alle forme e alle condizioni materiali del processo storico che la generano, ricollocandone appunto quelle varie forme in ciò che «illuminato» o «illuministico» (ancora) non è. Ragione è, in generale, la maniera in cui «si fa» una determinata cosa. Ratio, è metodo riconosciuto, in linea di principio da tutti, valido ed efficace, per compiere un’azione costruttrice, misuratrice delle cose. Dalla lingua corrente, nel latino classico Ratio medendi è «metodo di cura».  De temporis nostri studiorum ratione, «Sul metodo degli studi del nostro tempo», è il titolo di un celebre scritto anticartesiano con cui Vico propose un nuovo metodo per l’uso della storia.

In breve: la ragione, quella illuminista geneticamente, ha a che fare col fare. È conto, calcolo, prima; misura di quantità e di rapporti, interessi, vantaggi, utilità, poi. In un progressivo astrarsi, è maniera di concepire tutte queste cose, è capacità di raziocinarle, rifletterle, spiegarle: passarle al vaglio del pensiero (logos). In uno scarto ulteriore, la ratio è facoltà di capirsi, di conoscere i propri poteri e limiti (Kant). Il cammino di costruzione della ratio del fare dura da circa un millennio e mezzo, tempo di maturazione di una civiltà tecnologica (i greci e i latini si fermarono sulla soglia). Il processo d’autocomprensione invece è cosa recente. L’evoluzionista direbbe: è un processo adattativo che nasce per le mutate, recenti condizioni storico-biologiche nelle quali l’uomo tende a contenere gli esiti della razionalizzazione del mondo, al fine di renderli vantaggiosi rispetto alla condizione presente che minaccia anche esiti rovesciati, dopo decine di migliaia di anni di non-ragione.

Sta di fatto che l’Illuminismo in quanto momento storico concreto ha messo in moto l’ultima fase del processo, nella quale ci troviamo ora. Con la cosiddetta «Età dei Lumi» entra in scena la storia della ragione, storia di uomini inventori e produttori delle proprie esistenze (Engels), fuori dei miti delle origini e degli imperialismi dei poteri, uomini che s’interrogano (e lavorano) sui modi di gestire gli atti, le conseguenze della propria stessa razionalità. E ha prodotto, tale ragione nuova, due secoli fa, una Rivoluzione. Il nesso ragione illuministica-rivoluzione politica (dei diritti umani) è l’aspetto più vistosamente dimenticato nei contributi degli autori di Attualità dell’Illuminismo.

In nome di questa ragione produttrice d’esistenza, ad esempio, nell’aula dell’Assemblea Nazionale, a Parigi, il 2 dicembre 1792, Maximilien Robespierre pronunciò il suo celebre «discorso sulle sussistenze» che fondò il primato del diritto d’esistenza dei popoli sul diritto di proprietà. Qui possiamo individuare anche l’inizio di una nuova tradizione della ratio occidentale. Punto di arrivo della filosofia illuministica nel suo insieme e punto di partenza. Affermò Robespierre:

Nessuno ha il diritto di ammassare montagne di grano per trarne profitto, accanto al proprio simile che muore di fame. Qual è il primo scopo della società? Tener fermi i diritti imprescrittibili dell’uomo. E qual è il primo di questi diritti? Quello di esistere. La prima legge sociale è dunque quella che garantisce a tutti i membri della società i mezzi per esistere. Tutte le altre leggi sono subordinate a questa legge. La proprietà è stata istituita o garantita solo per cementarla: è innanzitutto per vivere che si hanno delle proprietà (…). Gli alimenti necessari all’uomo sono sacri quanto la vita stessa; tutto ciò che è indispensabile per conservarla è una proprietà comune alla società intera. Solo l’eccedente è proprietà individuale, abbandonato all’industria dei commercianti. Ogni speculazione mercantile che si faccia a spese del mio simile non è affatto un commercio, è un brigantaggio e un fratricidio!

 

Nel «diritto d’esistenza» di cui parlò Robespierre si può comprendere, oggi, il diritto ad una casa, ad un lavoro decente, insomma il diritto alla «felicità pubblica», per usare i termini della stessa filosofia illuministica settecentesca (Verri, Beccaria). Robespierre salì a capo del governo giacobino nel biennio 1793-94. Chi esercitò il «terrore» sotto la Rivoluzione? Vexata quæstio storiografica. Il «terrore» non lo esercitarono i soli giacobini ma, ancor prima, i controrivoluzionari armati e appoggiati dalle monarchie europee che quel diritto d’esistenza volevano, a tutti i costi, affossare. Le esperienze che seguiranno la caduta di Robespierre (1794) — Babeuf, Buonarroti, Congiura degli Eguali, bonapartismo, ecc.  — segnarono la nascita (una delle nascite) del movimento operaio internazionale, sull’onda dell’universalismo e del cosmopolitismo illuminista.

Per lo storico, certo, esistono tanti Illuminismi, tutti egualmente determinanti: quello delle corti, dei nobili riformatori, dei despoti illuminati, dei borghesi imprenditori, degli «artisti meccanici», dei filosofi naturali, dei libertini ecc. e quello dei rivoluzionari. Quale Illuminismo resta visibile ai nostri tempi? Il comun denominatore, sul terreno culturale, va cercato nel definitivo trionfo del diritto naturale – esistenza, libertà, solidarietà ecc. etsi Deus non daretur, «anche se Dio non ci fosse» – con la sua penetrazione, a partire dalla fine del Settecento, nella struttura delle istituzioni europee. Tale penetrazione rimane incompiuta, ancora oggi, per la maggior parte delle istituzioni nazionali del pianeta. Là dove è avvenuta, faticosamente, e pagata a caro prezzo dai filosofi, dagli intellettuali, dagli uomini delle classi lavoratrici, ciò è stato possibile anche senza rivoluzioni cruente, seguendo la spinta avviata dall’89, nel diritto.

Ma il problema «quale Illuminismo?» si mette meglio a fuoco inquadrandolo nella storia dell’ingresso definitivo delle masse — con le loro passioni «illuminate», emancipate — nell’agone politico-istituzionale. Dopo la Rivoluzione francese, l’intelligenza progressiva delle masse, gettando «più luce» (Goethe) sulla processualità del loro divenire, nel presente trovò realtà grazie ad una pratica razionale del diritto — inteso alla maniera del Discours des subsistances di Robespierre — che s’incorporava via via alle nuove istituzioni democratiche (fase storico-biologica adattativa della ratio). Tale pratica non era (e non è) contenibile nella sola idea di nazione, alla quale il diritto rivoluzionario, una volta istituzionalizzato, legò la propria origine. L’idea di Stato/Nazione —  universale laico (e borghese) che avrebbe «conciliato» e «superato» definitivamente i particolarismi (Hegel) — è oggi entrata in crisi. Il concetto stesso di «diritto» o di «diritti imprescrittibili dell’uomo», usciti vittoriosi dalla prima fase del processo adattativo, di conseguenza, vacillano scossi da potentati economici e localismi di varia natura.

Ciò nondimeno, la portata rivoluzionaria del diritto in quanto tale non s’è storicamente esaurita, qualora la s’intenda come la fase evolutiva, bio-politica, più avanzata della storia umana e dell’umanità tutta intera («globalizzata», come s’usa dire) , al di là dello sforzo di recupero di un ideale riconciliativo di Stato-Nazione. Fra luci ed ombre, si delinea qui il quadro mobilissimo dei nostri tempi, con i nuovi problemi aperti.

L’Illuminismo sembrerebbe ridursi, per gli intellettuali coinvolti nel dibattito di Scalfari, antecedente al 2001, ad un affare di moda, di preferenza verso questo o quello «stile di pensiero». Si tratta, secondo noi, piuttosto di una questione aperta che chiama in causa il concetto di lotta per il diritto e di progressiva estensibilità della sua portata laica e rivoluzionaria, contro quelle forze storiche che tale spinta di lotta vorrebbero, anche oggi, vedere estinta. Oggi, i Forum sociali e i movimenti riunitisi a Porto Alegre, le lotte dei sem terra, dei sans papier, dei contadini del Chiapas, degli operai italiani (articolo 18 del codice del lavoro) ed europei che tengono fermi i diritti del lavoro penosamente conquistati ecc., cos’altro sono (e saranno) se non lotte per il diritto d’esistenza? Quando parliamo – da intellettuali, da filosofi –  di Illuminismo, ci pare necessario dover ricordare, primariamente, il processo di adattamento bio-politico della ratio ai tempi, sempre nuovi, della critica della/alla «ragione presente» che si pretende data, fissata, istituzionalizzata una volta per tutte. E il pensiero va così agli illuministi più coerenti, ai grandi riformatori (Montesquieu, Beccaria), ai materialisti (Diderot, Helvétius, D’Holbach), agli enciclopedisti (D’Alembert, Voltaire ecc.), ai radicali (Meslier, Naigeon) e infine ai rivoluzionari del 1789-94 (Danton, Saint-Just, Robespierre, Fabre d’Eglantine, Hebert, Chaumette ecc.) che hanno fondato, nella prassi, il concetto del diritto e la sua ratio in divenire.

Il resto del discorso su «Lumi inattuali», alla moda o fuori moda è, per dirla con Hegel (Fenomenologia dello spirito, II, 6, b), «fatuità della cultura», «spirito estraniato a sé stesso».

La religione della libertà. Riflessioni su Carlo Azeglio Ciampi

A livello di principi e valori – meno, sotto il profilo dell’esercizio delle pratiche religiose – l’Italia, con la Costituzione del 1948, è stata fra i soggetti che più e meglio ha saputo valorizzare la religiosità umana, ricomprendendola tra i diritti inviolabili ed assistendola con uno specifico diritto: quello di professione di fede religiosa, in forma individuale e associata (art. 19 Cost.). Sotto il profilo, invece, dell’attuazione effettiva delle tutele e garanzie connesse alla libertà religiosa in una dimensione sociale plurale sempre più marcata – alla luce dei nuovi bisogni concreti da soddisfare originati in matrici culturali nuove (Islam), ma sempre più massivamente partecipi dello spazio politico nazionale ed europeo – assistiamo alla stentata emersione di un modello oggettivo di Stato laico che, incentrato sulla promozione delle libertà di religione di tutti, renda praticabile una politica «attuativa» della Costituzione quale luogo di affermazione e di equilibrato bilanciamento di valori essenziali per la vita delle istituzioni e della stessa società civile.Per leggere il testo integrale in formato PDF clicca: qui

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Punti di sintesi per un ragionamento.

 

La questione si pone a partire dalle forme di partecipazione democratica “diretta” (referendum, “rete”, e in un certo senso anche i sondaggi…) rispetto alle quali le perplessità circa la loro opportunità (vedi Brexit) sono spesso state motivate con argomenti di carattere “sociologico – culturale” (genericamente intese).Credo che questo sia certamente un profilo importante, ma non quello decisivo.Quello decisivo lo definirei “strutturale”, poiché riguarda la differente incidenza della “grandezza” spazio-temporale nella determinazione, definizione e identificazione della realtà, e della sua conseguente percezione, da parte dell’ uomo (per ora senza ulteriori specificazioni) .  Mi spiego.

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Multiculturalismo e dialogo interreligioso Brevi considerazioni di natura giuridica

Lo scopo di questa breve riflessione è quello di offrire all’attenzione del lettore alcuni spunti per una ricognizione giuridica attorno al tema, sempre più di grande attualità, del c.d. “dialogo interreligioso”. Questione da sempre tenuta in massima considerazione da parte della Chiesa post-Conciliare, a partire dalla “fiamma accesa ad Assisi” da Giovanni Paolo II (ottobre 1986), e oggi – soprattutto a seguito dell’uccisione di Padre Jacques Hamel, parroco della chiesa di Saint-Etienne-du Rouvray, vicino a Rouen (Normandia) – da Papa Francesco […]

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Penisola, arcipelago, deterritorializzazione. Dove va il filosofare italiano?

 

La natura storica della filosofia italiana si è divisa, da tempo, tra “deterritorializzazione” (R. Esposito) e “universalizzazione”. La storia della frammentazione dei comuni, all’epoca del Basso Medioevo prima e il destino delle divisioni interne, nonché della sottomissione a potenze straniere, dopo, ha fatto dell’Italia, anche dal punto di vista filosofico, un terreno di continue sperimentazioni per nuove sintesi riguardanti il senso del mondo. In primo luogo un senso della natura, poi della storia e della politica, maturati nel contesto della riscoperta delle arti e delle filosofie greco-romane, all’epoca del Rinascimento. Questo aspetto “deterritorializzato” e cosmopolita della filosofia italiana, incentrata sul senso della natura e della storia si è conservato fino ai nostri giorni in una maniera del tutto originale. Gli assi fondanti il filosofare italiano sono, infatti, rintracciabili all’interno dei principali centri geo-storici intorno a cui lo stesso filosofare si è deterritorializzato, ovvero le diverse “capitali” del pensiero italiano. Se ne possono reperire sei o sette: Roma, Milano, Torino, Napoli, Firenze – Pisa, Lecce – Bari, Calabria – Sicilia.

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Riflessioni e osservazioni sulla stagione che viviamo

Parlerò “fuori dai denti” e anche con espressioni “fuori dai denti”. La situazione internazionale sta avendo una accelerazione estremamente pericolosa.

1. La questione turca.
In questa si tocca con mano la pochezza del ceto governante europeo, che ora si straccia le vesti per la “vendetta” di Erdogan e lo minaccia di chiudere definitivamente le sue aspirazioni europeistiche. Non ha capito forse che “quello”, di queste minacce, “se ne sta fottendo”? Per anni i governanti europei hanno civettato con lui, fino a dargli in mano l’arma di ricatto del fenomeno migratorio, con quella stessa miopia che i medesimi governi ebbero negli anni ‘30 con Hitler. E Erdogan ha aspirazioni “imperiali” da sultano ottomano. La sua possibile intesa con Putin, altro aspirante “imperatore” (ex sovietico), chiuderà l’Europa in una morsa tra Mediterraneo a Sud-Est e Russia a Nord-Est. Se questa è una prospettiva estremamente possibile, Erdogan diventa una spina nel fianco della NATO e può ricattare chi vuole e sicuramente rimanere insensibile ai “richiami” dell’Europa. Qui poi un’altra ipocrisia: quella di condannare i colpi di Stato. Mieli che sul Corriere scrive che i cambi di governo avvengono sempre per via elettorale! Sì, certo, in regimi politici stabilmente democratici; ma quello di Erdogan lo era e lo è? o non era solo un regime? e basta!. E poi. La caduta di Saddam e Geddafi non sono stati forse colpi di Stato? E prima ancora: l’avvento della Repubblica in Italia non è stata preparata forse dalla Resistenza; il “plebiscito” è avvenuto quando il vecchio ordine era stato eliminato con la forza e perché la guerra è stata vinta! In questa vicenda si vede come il male europeo, la dipendenza dalle agenzie di rating con tutte le conseguenze nefaste che ha prodotto nella coscienza della gente e sulla relativa “qualità della vita”, sta conducendo ad una possibile implosione della Unione. Le chiacchere, insomma e purtroppo, stanno a zero. Il fatto è che non disponiamo da tempo di una classe dirigente di effettivo profilo “politico” e nel mondo è venuta meno quella istanza di dialogo e di pace che aveva alimentato la politica del dopoguerra, anche in presenza della “guerra fredda”. E’ una classe dirigente formatasi nel clima del dominio della negoziazione affaristica e del capitalismo finanziario, che vive il giorno per giorno. E’, infatti, il modello operativo affermatosi con la negoziazione affaristico-finanziaria, poiché essa realizza i suoi fini di lucro proprio nel “giorno per giorno”. L’unità di tempo non è quella della progettualità politica, ma quella delle “variazioni speculative” calcolate sull’immediato: il contingente, appunto. Il che si riverbera, ovviamente, anche nelle modalità di esecuzione della politica interna. Ma di questo tra poco.

2. La questione della democrazia partecipativa come “forma di governo” .
Sarò “politicamente scorretto”. Ogni forma di governo è valutabile non per ragioni “ontologiche”, ma per caratteristiche funzionali: il modello è efficace, quando riesce a fronteggiare le aspettative di ordine sociale proprie del paradigma del “politico”. Occorre, quindi, guardare al contesto “fattuale” nel quale va ad operare. Nelle democrazie il contesto di effettività che misura l’efficacia funzionale è quello rappresentato dalla “partecipazione”. Perché quest’ultima funzioni, sia come desiderio della gente di far sentire la propria voce (partecipazione al voto), sia come qualità del consenso-dissenso, occorre quella preliminare omogeneità dell’ambiente sociale, fatto di stabilità e diffusività di “visione del mondo”, nella quale valutazioni valoriali, culturali e identitarie, e le relative aspettative di vita, costituiscono un cemento che viene immediatamente vissuto, prima ancora che elaborato intellettualmente. Ne segue che la democrazia partecipativa è un modello “gestionale”, non fondativo (non lo è mai stato nella storia), ed è inidoneo a fronteggiare mutamenti che possono essere anche epocali. I mutamenti, quelli veri (vedi le rivoluzioni!), sono sempre stati compiuti da élites intellettuali, capaci di progettare per un tempo che vada oltre il semplice presente. E al popolo non è mai stato chiesto di votare; lo si chiede dopo: a mutamento avvenuto nel quadro di un costituita stabilità. Nel quadro, cioè, di una nuova “effettività”. Perché una democrazia partecipativa svolga il suo ruolo regolativo occorrono, allora, due condizioni di fatto: la prima, già detta, è quella di una sufficiente omogeneità sociale, che determini un’auto-comprensione identitaria sufficientemente stabile nella sua cornice esterna di riferimenti. La seconda, strettamente connessa, consiste nella presenza di enti intermedi (soprattutto i partiti nel senso vero della parola) come mezzi per realizzare “idealmente” la mediazione tra istanze individuali e bisogni collettivi costruiti certamente da diversi orizzonti ideali, ma all’interno di comuni regole del gioco.

3. Altra questione: il “mercato”.
Anche questo è un modello che, per essere positivamente efficace, ha bisogno di un contesto di fatto nel quale funzionare. Finora ci siamo scannati, nelle modalità espressive che le diverse sedi imponevano, nella polemica mercato privato / intervento pubblico. Oggi è una alternativa priva di senso interpretativo. Il punto è altrove. Mi spiego. Perché il mercato mostri la sua capacità economicamente regolativa occorre che, nei fatti, vi siano soggetti sufficientemente omogenei, per capacità produttiva e per regole imprenditoriali e gestionali, rispetto alle quali la disciplina del lavoro è parte integrante. In altre parole, perché il profitto sia un fine positivo soprattutto a fini sociali, deve realizzarsi tra soggetti pari e in un comune quadro di regole del gioco. Lo Stato nazionale, nel quale il mercato nacque nella “modernità” e si è sviluppato fino al XX secolo, fino ad essere invocato come toccasana delle economie dei paesi liberi ed anche come “ostacolo” per la realizzazione di una effettiva giustizia sociale ne è stata la cornice ordinamentale, sia interna che internazionale. A questo proposito, si tenga conto dell’importanza che ha avuto sulla stabilizzazione delle democrazie parlamentari del secondo dopoguerra quel riformismo che aveva come obiettivo la stabilità sociale attraverso la redistribuzione del reddito. La globalizzazione economica, spazzando via, nei fatti, i “confini” ha messo nel nulla la cornice-condizione delle “regole del gioco” e della sufficiente parità delle “squadre” che partecipano ad un medesimo campionato. La globalizzazione, allora, ha trasformato il mercato in una competizione a tutto campo nel quale l’unico fine dei contendenti è quello di diventare sempre più forti per essere competitivi e vincere. Che saltino le regole del gioco è la conseguenza logica della mutata situazione di fatto, con i riflessi ovvi sulle politiche sociali e del lavoro, che producono fragilità sociale per l’incertezza delle aspettative di vita dell’uomo comune. Insomma il nuovo mercato è una lotta a coltello, nel quale il più forte vince. Le regole? Si è mai visto che le norme abbiano davvero impedito l’affermarsi del “fatto”? Perché le norme realizzino la loro funzione regolativa occorre che vi sia una “credenza nella legalità” nell’ambiente che le ospita. Con la globalizzazione, che costituisce il tramonto del paradigma ordinamentale, le cose non stanno più cosi. L’equilibrio negoziale spinge i contendenti ad essere sempre più potenti; le regole non contano! 4.La questione italiana. La domanda è: come si riflette tutto questo sulla situazione italiana? (e non solo, ma mi occupo solo di noi). I sintomi li conosciamo: alto astensionismo, incertezza nell’interpretazione dei risultati elettorali: populismo, protesta, voglia di nuovo, crisi di un modello di sinistra, voglia di più sinistra, voglia di destra conservatrice e così via… Direi che occorra cambiare il punto di osservazione interpretativa e guardare a come si andato trasformato l’ambiente sociale italiano. Il dato che appare (almeno a me) è che quella italiana è non sia più una “società”, ma un semplice ambiente umano sfibrato. Le cause mi sembrano essere due. La prima. L’affermarsi di una diffidenza reciproca unita ad un integrale calcolo utilitaristico (aspetti che stanno rovinando soprattutto la crescita e la formazione umana e culturale dei giovani), a cominciare dai rapporti privati, ha fatto venir meno la voglia di stare insieme: l’esito è il radicarsi, nella mentalità comune, di un individualismo assoluto che ha come obiettivo il far fronte quotidianamente alla incertezza e precarietà della propria situazione personale. La mancanza di quel modello partitico, di cui ho detto sopra, impedisce che l’individualismo diffidente e competitivo possa trasformarsi in una rinnovata istanza di socialità, certamente arricchita dalle diverse “visioni del mondo”, e che si ripristini una “credenza nella legalità” che è andata perduta da tempo. Per esempio: quanti conoscono la parola “ordinamento”? Credo ben pochi, forse solo coloro che lo praticano per ragioni professionali; quando lo conoscono, e non sono solo esperti, invece, di micro-settori normativi (ma questo è ancora un altro discorso). Secondo punto. La partecipazione al voto del cittadino comune è determinata dalla percezione che egli ha del tempo e dello spazio che formano il proprio contesto di vita: è quel “quotidiano”, del quale ha percezione e quindi controllo. I tempi e gli spazi della politica sono “altri”: sono quelli, o meglio dovrebbero essere “altri”. Quelli propri della “progettualità”, che vanno oltre la percezione del quotidiano. Una classe effettivamente politica si misura propria sulla sua capacità di andare oltre il quotidiano ed elaborare una progettualità socio-politica. I Partiti “veri” servono a questo: a colmare lo scarto tra la percezione della realtà del cittadino comune ed la progettualità politica. Nell’epoca dei sondaggi e nella connessa trasformazione dei partiti in agenzie elettorali, votate ad inseguire il quotidiano, questa funzione è venuta meno, determinando quella solitudine dell’uomo comune, che non avverte più se stesso come cittadino. Resta attratto dalla possibilità di far sentire la propria voce, ma non più come appartenente ad una “società”, ma come individuo che fa quotidianamente i conti nella propria tasca. Insomma si afferma la politica dell’ “orto di casa” di casa propria. E questo vale per l’Italia come per l’Europa e anche per gli Stati Uniti. Questa è una delle cause della pochezza di una classe politica interna ed internazionale di cui hi detto sopra; che si aggiunge a quella prodotta dalla potenza direttiva delle agenzie di rating, che, sia pure per ragioni diverse, hanno ridotto la politica all’inseguimento del “profitto”, ovviamente nel quotidiano. Ancora come conseguenza, ne deriva l’aridità pragmatica dell’agire nel puro contingente, che dirige sia le scelte dell’uomo della strada, sia quelle del politico di professione. Un’ultima osservazione relativa al caso italiano. L’assenza di una appartenenza sociale emerge anche un altro fattore: l’anglofilia lessicale, soprattutto nel ceto governante, è la dimostrazione di una insipienza culturale. Una lingua, infatti, non è solo un fatto lessicale; è, assai diversamente, la trasformazione semantica di una cultura che si esprime in un modello di pensiero. La lingua inglese, nelle caratteristiche determinatesi soprattutto nel ‘900, veicola una visione del mondo economicistico-pragmatica e tecnologica del tutto “fuori” dalla visione del mondo europeo-continentale. Ne segue che l’anglofilia linguistica non è solo un imbastardimento lessicale, ma diviene un meticciato culturale, privato della propria “storia”, nel quale si resta colonizzati dalla cultura che si afferma attraverso la lingua. Chi frequenta i metodi referaggio universitari questo lo sperimenta continuamente. In definitiva, uno degli aspetti per i quali la politica evapora al rimorchio dei potentati finanziari è perché non ha più una sua identità culturale, testimoniata dalla lingua. Con una differenza, però, tra il caso italiano e quello degli altri paesi europei. Spagna, Francia e Germania non hanno rinunciato né imbastardito il proprio idioma nella trattazione degli affari interni; l’Italia, invece, usa l’Inglese per qualsiasi attività, sia pubblica che privata; anche le pubblicità commerciali o le insegne dei negozi parlano all’inglese. Questo è un altro e gravissimo indizio che non esiste più, nell’uomo comune, il senso di una appartenenza  sociale e di una consapevolezza storico-culturale.

Dis-integrazione europea, dalla piramide alla rete

1. Terrorismo e nuovo slancio.

Dopo i recenti, drammatici fatti terroristici, si è visto qui e lì, un rinnovato slancio solidaristico nell’intesa fra popoli occidentali ed una maggiore solidarietà all’interno dei vari Stati europei. Ad esempio, mi risulta si sia offerto alla Francia qualche sforamento del patto di stabilità per spese legate alla sicurezza. Eppure, se è indubbio che questo costituisca un dato positivo, è altrettanto vero che tutto ciò è ben lontano dal rappresentare un rilancio dell’integrazione europea – e, del resto, nessuno è giunto a conclusioni tanto assurde. Non è, infatti, né sarà mai possibile fondare o consolidare un’unione sulla paura. Non deve essere necessario sentirsi aggrediti da qualcosa di esterno per percepire di far parte d’un ordine comune e nessun gruppo deve aver bisogno d’un nemico per nutrire amicizia al proprio interno.

2. Crisi.

Pertanto, riflettere sull’Unione europea – piuttosto che cantare le lodi a qualcosa di compiuto – comporta purtroppo la necessità di soffermarsi su un’integrazione chiaramente in crisi. La crisi economica scoppiata ufficialmente nel 2008, infatti, non è stata importante soltanto per sé, nella sua capacità cioè di abbattere sull’Occidente una sferzata tale da contrarre i consumi e determinare una significativa ristrutturazione sociologica delle classi sociali, insieme alle loro abitudini di vita. La crisi economica ha prodotto anche un altro effetto, non meno grave del precedente. Essa, cioè, più profondamente, ha fatto emergere le difficoltà politico-strutturali dell’Unione Europea. La stessa maniera in cui quest’ultima ha affrontato la crisi, inoltre, ha messo a nudo in maniera chiara la fragilità della sua struttura non soltanto istituzionale ma anche – parallelamente – simbolico-culturale. Infatti, ben difficilmente, a mio parere, la crisi di integrazione europea può esser fatta risalire a motivazioni esclusivamente finanziarie, legate alla crisi dell’euro o alla questione complessa del debito sovrano dei paesi più deboli all’interno dell’Unione – eclatante il caso della Grecia e del braccio di ferro fra AlexīsTsipras e le Istituzioni europee -, quanto piuttosto, e la faccenda è più seria, ad una crisi di coesione e di fiducia da parte dei cittadini, emersa in maniera abbastanza chiara – con l’unica eccezione forse del voto italiano – alle ultime consultazioni di voto europeo. Il dato più significativo emerso dalla crisi – ciò che non ha fatto altro che potenziare gli effetti negativi della crisi stessa – è stato l’incertezza legata alla maniera di tenere insieme le grandi capitali finanziarie europee con le cosiddette periferie. Un dato si è imposto con chiara evidenza: la distanza piuttosto grande fra paesi con abitudini culturali e capacità economiche decisamente importanti e paesi che invece arrancavano – anche perché soltanto recentemente affrancati da sistemi non completamente democratici, e con abitudini clientelari decisamente diffuse. Inoltre, dato anch’esso piuttosto sconfortante, è venuto al pettine il problema della maniera fortemente problematica – partendo dalle premesse dell’Unione europea – in cui le istituzioni europee dovessero trattare la relazione fra economia e solidarietà all’interno dell’Unione. Nei casi più eclatanti – come nella già ricordata crisi greca – si è arrivati ad un passo dalla fuoriuscita o espulsione di un paese (e, ovviamente, nel caso della Grecia la fuoriuscita avrebbe avuto un valore storico-simbolico altissimo) dai paesi dell’Unione stessa. Una delle risposte più significative alla crisi è stata la stesura di un trattato, nel marzo 2012, un cosiddetto fiscal compact che costituisce una versione più severa – anche perché accompagnato da un pacchetto legislativo che prevede severe misure punitive nei confronti dei paesi “inadempienti” – degli accordi precedenti. Il significato simbolico del fiscal compact, tuttavia, va ampiamente al di là della sua, pur rilevante, incidenza concreta. Esso infatti, nella percezione più diffusa, ha significato la segregazione degli stati più deboli inchiodati a manovre di bilancio improntate all’austerity e fortemente penalizzanti nei confronti di mansioni il cui pieno svolgimento era apparso imprescindibile per un normale vivere civile. Sono fioccati così tagli alle scuole, alle università, alla sanità, alle pensioni e agli stipendi pubblici e a tutto ciò che da diversi decenni seguiva l’onda lunga inaugurata dalle politiche espansionistiche del welfare state. Sul piano simbolico, inoltre, il fiscal compact ha dato un durissimo scossone alle sovranità nazionali soprattutto dei paesi più deboli, costretti a circoscrivere le decisioni politiche all’interno di un alveo di agibilità legislativa decisamente ristretto. Bastano allora forse questi brevi cenni per far maturare l’idea che la crisi dell’UE non sia destinata ad andare nella direzione di facili risoluzioni. La mia convinzione – peraltro piuttosto diffusa anche come sentire comune all’interno dei popoli dell’Unione – è che, per fondare organismi politici e portarli avanti, sia necessaria la condivisione non egocentrica da parte dei pochi e che certamente, inoltre, non bastino a tal fine le rigide regole dell’economia che guardano agli stati come “società di capitali”.

3. Ritorno agli Stati nazionali?
Una delle soluzioni alternative è quella che viene prospettata dai movimenti e partiti anti-europeisti, ossia la fuoriuscita dall’Unione europea. Io credo che non sia questa la strada da seguire. Se si pensa, infatti, alla conformazione attuale della geopolitica a livello globale, si comprende agevolmente che è impossibile – venendo da una delusione europeistica – ritornare alla politica delle sovranità nazionali integrali. In questo senso, non è immaginabile né auspicabile, a breve, un ritorno agli Stati Nazionali. All’interno di un mondo complesso, come quello connotato dalla globalizzazione, è fin troppo facile supporre che la “disintegrazione” dell’Unione Europea potrebbe provocare danni mortali a degli Stati che da soli poco sono in grado di opporre ai giganti presenti oggi in ambito globale e che promettono di essere ancora più numerosi e potenti domani. Tutto ciò, mi sembra impossibile sul piano storico e assolutamente sconsigliabile sul piano politico-economico. Sarebbe abbastanza autodistruttivo, infatti, in un mondo strutturato sulla sovranità politico-militare di paesi che costituiscono veri e propri continenti, ritornare a forme politiche vecchie di secoli. Io direi, perciò, che per uscire da una crisi – piuttosto che proporre soluzioni emotive, populistiche o particolaristiche – occorra invece anzitutto comprenderla nei suoi presupposti. Ed è proprio questa, temo, l’operazione più impegnativa, poiché mentre gli effetti della crisi sono sotto gli occhi di tutti, le sue cause sono spesso lontane e, ancora più spesso, appaiono enigmatiche.

4. La sovranità dell’economia.
Dopo la fine della lunga fase che convenzionalmente definiamo di “guerra fredda”, il reaganismo e il thatcherismo ci hanno catapultato in una stagione storico-politica che – è noto a tutti – definiamo neo-liberale. Ora, non è possibile risalire qui alle cause che hanno provocato l’avvento di questo genere di visione del mondo, tutto fondato sull’ipertrofia dell’individuo, fin all’individualismo più radicale, e sulla contrazione estrema della presenza e dell’importanza dello Stato, con la perdita consequenziale di significato di nozioni quali solidarietà e giustizia sociale. Ciò che conta, dal mio punto di vista, è sottolineare che l’Unione Europea così come noi la conosciamo si è sviluppata proprio all’interno di questo orizzonte culturale e non c’è dubbio che il contesto l’abbia seriamente condizionata se non addirittura integralmente strutturata. Si tratta, tuttavia, a mio parere, di un contesto piuttosto misero. Se guardiamo all’Europa contemporanea, infatti, l’Europa delle comodità borghesi, della tecnologia e della piccineria individualistica chiusa all’interno di gruppi escludenti, l’Europa che non va a votare e che si dichiara orgogliosamente estranea alla politica, si ha davvero la sensazione che, arrivando a questo punto, ci siamo persi per strada qualcosa di importante. Abbiamo smarrito tante virtù – diciamolo francamente – che erano tipiche dei nostri padri: la concretezza, il coraggio virile, il senso lucido ma volitivo della tragicità della vita, la capacità di affrontarne i disagi e di gioire per la bellezza che si accompagna all’etica civile e alla responsabilità verso se stessi e verso le istituzioni. Mi chiedo, pertanto, se non siano proprio questi (non)valori, portati oggi al punto di massima estensione pratica, a costituire il rischio maggiore (non soltanto) per l’Unione Europea. Temo inoltre che, in un tempo che si vorrebbe secolarizzato e libero da qualsiasi divinità, permanga invece, e con una forza che non ha precedente storico, un imperativo religioso che non trova alcun dissidente degno di essere considerato. La religiosità del contemporaneo rischia di costituire un nuovo monoteismo – ma non è quello del Dio medioevale cristiano, bensì quello triste e oligarchico del grande (e piccolo) capitale. Ed è proprio questa divinità che ha creato e crea condizioni di guerra e non di pace all’interno del mondo contemporaneo e che, venendo all’Unione Europea, ha contribuito fortemente a determinare la crisi dell’integrazione, rendendo peraltro più difficili le possibili soluzioni. Se questo è lo status questionis, io direi allora che occorra volgere lo sguardo altrove e cercare di cogliere almeno qualche indicazione generale per uscire dalle aporie che ci sono davanti.

5. Siamo davvero individualisti?
La scelta a me sembra, pertanto, fra un’Europa che considera se stessa come una molteplicità di stati sovrani isolati gli uni dagli altri, uniti soltanto dall’appetito compatto e monolitico di tipo finanziario, e un’Europa capace, invece, di rifondarsi sulla base di un nuovo inizio che, attenzione, non potrà che essere rinvenuto nel nostro passato e nelle nostre radici. Il passato, infatti, non è un serbatoio ma una fonte. Una fonte che dà vita ad un corso d’acqua storico che perviene fino a noi. Occorre dunque, anzitutto ricordarsi che quella fonte – sia nella sua origine greca, sia nella fondazione moderna della nostra civiltà – era connaturata all’idea di una incessante ricerca e da sentimenti di speranza, lontanissimi dall’immagine di una civiltà soddisfatta dell’assoluta “idiozia” dei propri desideri materiali. La nostra civiltà, inoltre, si è da sempre caratterizzata in virtù di una peculiarità decisiva. Essa, cioè, si è perennemente posta come una forma culturale “particolare” che ha in sé l’”universale”. Nel nostro Occidente, di conseguenza, non c’è nulla che non abbia avuto e non abbia la vocazione ad interessare – fin talvolta ad inglobarla in sé – qualsiasi realtà posta esteriormente. D’altro canto, è vero anche il contrario: non c’è alcuna realtà identitaria nel nostro mondo che non sia suscettibile d’essere frammentabile in diverse realtà antagonistiche. In altre parole, non riusciamo a concepire differenze che non trovino una chiave di lettura unitaria, proprio mentre qualsiasi posizionamento troverà certamente una forma decostruttiva capace di metterla in crisi. In fondo, ciò di cui stiamo parlando non è soltanto la matrice della prassi storica (e del divenire) ma è anche l’essenza stessa della libertà e della democrazia. La cultura occidentale è diventata la forma di vita più forte del pianeta non per il suo integralismo, oggi economicistico, ma per la sua libertà e – vorrei dire una parola molto forte – per la sua iconoclastia. È diventata forte, cioè, per la sua portata democratica e perfino “anarchica” – per la sua capacità di emancipare gli individui e di considerare tutti, a prescindere dal genere e dagli orientamenti religiosi, ugualmente preziosi per la comunità. Siamo figli dell’illuminismo – tutti – e l’illuminismo poneva la ragione e non una fede – laica o secolare che sia – a sostegno della politica. Siamo eredi di una cultura che trova la differenza nell’identità e l’identità nella differenza. Raccogliamo dunque noi tutti il testimone di una civiltà che è andata anche edificando nei secoli la convinzione che occorre dotare gli uomini e i gruppi politici di diritti personali inviolabili. Siamo una cultura pluralistica che scorge nell’altro quella “potenza” insopprimibile se si vuole creare un divenire storico pregno di produzione – di senso e di prodotti insieme. Dove il senso stesso non può fare a meno della materialità a cui si accompagna e dove la materialità è già di per sé nutrita di senso spirituale. In questo quadro, mi sembra allora necessario fare tutto ciò che è nelle nostre possibilità per emanciparci dal gretto provincialismo che sembra dettare legge ormai nelle egocentriche capitali (non solo) europee contemporanee. E lo dovremmo fare con la prudenza che sempre è richiesta quando le apparenze sembrano andare in direzione contraria, ma anche con la consapevolezza che la radice di ciò che oggi domina sul mondo è ancora ben strutturata nella pianta europea e che, se questo mondo non vuole inaridirsi fino alla distruzione, sarà destinato a ritornare inevitabilmente a nutrirsi nel terreno dal quale un giorno è germogliato. Del resto, mi sembra ovvio che non si possa soltanto fare affidamento su logiche di potenza economica. Se si vuole creare o consolidare un’identità politica, io credo, è assolutamente necessario indicare dei valori, un modo di vivere, una visione del mondo che valga la pena d’essere perseguita. E da questo punto di vista è proprio l’Europa io credo – entità che possiede da sempre una vocazione differenzialistica e universalistica insieme – che può offrire un contributo decisivo al mondo globalizzato. In questo senso, sono convinto che la politica, sia nazionale, sia internazionale, debba riprendere a praticare un valore come la lungimiranza. Senza la capacità di con-vergere su un fronte unico e guardando lontano, infatti, non c’è alcuna speranza di affrontare e vincere fenomeni che richiedono tutta la nostra attenzione e i nostri sforzi. Le politiche che, per inseguire il loro particolaristico interesse, mostrano una pervicace incapacità di guardare al domani e tengono conto soltanto della logica del consenso a breve termine sono viziate in partenza e gli effetti negativi non tarderanno a farsi sentire. È necessario perciò – ora più che mai – di pensare di nuovo ad una “grande politica” europea. E non c’è grande politica che non sia anche e soprattutto “lungimirante”.

6. Europa o America?
Un altro punto importante della mia riflessione fa riferimento direttamente alla nostra identità europea. Io penso che se volessimo creare un modello intorno al quale fondare una nuova “coesione” politico-culturale “continentale”, dovremmo smetterla di imitare le mode americane. Da numerosi decenni, ormai, non c’è costume americano – per non parlare dell’estensione pressoché generalizzata della lingua inglese – che non venga assunto ed applicato anche in Europa. Niente da dire: occorre sempre imparare dagli altri. Soprattutto da un popolo che può contare su una grande scienza, un’importante letteratura e un livello tecnologico di assoluta avanguardia. È il caso però di ricordare, io credo, che l’ansia di felicità – che in America è evidentissima – si basa su un eccesso di pragmatismo e di empirismo che, come tutti gli eccessi, non è condivisibile fino in fondo. E questo non soltanto per una questione – pure importante – di gusto. Sarebbe giusto, io credo, tenere conto del fatto che l’avversione tipicamente americana per le idee generali abbia contribuito a veicolare il mondo occidentale verso lo schiacciamento sul qui ed ora – uno schiacciamento al centro delle dimensioni storiche che ipertrofizza il presente e che, se non cancella, riduce fortemente il passato ed il futuro. In questo modo, tuttavia, l’umanità occidentale è andata via via decostruendo totalmente una visione della politica basata sugli “ideali”. Certo, esserci liberati dalle ideologie totalitarie, anche in Europa, soprattutto in Europa, è stato merito anche dell’America, ma questo non vuol dire che l’ideale in sé, che non è l’ideologia, debba essere cancellato – così come, purtroppo, vedo cancellata una concezione della politica davvero partecipata, all’interno di uno schema progettuale serio e capace di andare al di là della prossima campagna elettorale. Sulla distanza fra Europa e Stati Uniti ancora un altro punto. Se l’America è erede di lunghi secoli di multi-razzialità, va anche detto che il modello americano si basava comunque su un vettore culturale molto omogeneo che può essere identificato come un centauro con infinite braccia ma provvisto di un’unica testa mono-culturale. Inutile ricordare che tale testa era costituita dall’etnia WASP (White-Anglo-Saxon-Protestant). In vista delle pressanti necessità di integrazione culturale richieste dalla globalizzazione, mi chiedo pertanto se non possa essere maggiormente utile un modello quale quello europeo, da sempre differenzialistico, piuttosto che un modello americano tutto sommato “integralistico”. Se fosse vera quest’ipotesi, potremmo allora immaginare, un poco paradossalmente, l’Europa come il futuro dell’America.

7. Disintegrazione dal basso.
La crisi dell’Unione europea non è detto sia necessariamente una sciagura. Se la strada del ritorno agli Stati nazionali – come detto – non mi sembra praticabile, ciò non vuol dire che non vi siano altre possibilità. Per quanto mi riguarda, m’iscrivo all’interno di una koinè teorica che punta sulla ricostruzione di un contesto fortemente europeistico e tuttavia, questa volta, a partire non più da un centro verticale, collocato nelle grandi capitali europee, contrassegnate dalle frequenti derive anti-democratiche a cui siamo ormai abituati. L’Europa che verrà – io credo – dovrà essere orizzontale, democratica e partecipata. Piuttosto che costruita in maniera gerarchico-piramidale, essa dovrebbe avere pertanto la struttura di una fitta rete fatta di agenzie che si occupano di questioni concrete, collocate direttamente accanto ai cittadini, in maniera tale da ricevere dalle istituzioni sovranazionali soltanto indicazioni molto generali. In questa chiave, è chiaro che istituzioni come la Commissione europea o il Parlamento europeo dovrebbe andar via via perdendo il ruolo sovrano che, in qualche misura oggi detiene, per conservare soltanto funzioni non delegabili e che si tratta di andar progressivamente istituendo. Vorrei concludere, pertanto, il mio intervento con due citazioni da un autore che mi sembra collocato sulla mia medesima linea. È J. Zielonka che infatti scrive:   “Una tale evoluzione non annuncia la fine dell’integrazione europea; in realtà, annuncia un rilancio dell’integrazione, ma in forma e con una portata diverse. Si abbraccerà la diversità e si ridurrà la struttura gerarchica. Si darà maggiore risalto alle associazioni funzionali di carattere volontario e si punterà meno sulla governance territoriale. Gli Stati non saranno più i principali motori dell’integrazione, anzi questo ruolo sarà svolto dalle città, dalle regioni e dalle ONG europee, sostenute o persino incalzate dalle imprese e dai cittadini. La struttura della governance europea non assomiglierà a una piramide, bensì a una «scatola di giunzione» con numerosi punti di intersezione e di interazione”[ref]J. Zielonka, Disintegrazione. Come salvare l’Europa dall’Unione Europea, Laterza, Roma-Bari 2015, pagg. 101-102.[/ref].   E ancora:   “Un’Europa polifonica, priva di un centro forte, ma con una grande varietà di reti funzionali integrative, non avrà la possibilità di «corrompere» e punire gli attori recalcitranti, condurre negoziati segreti e manovrare le istituzioni internazionali. Questo rimarrà probabilmente appannaggio degli stati nazionali. Invece, un’Europa siffatta sarebbe particolarmente adatta a creare strutture istituzionali e stabilire regole di comportamento legittimo. Potrebbe agire da potenza modello e dimostrare ad altri attori che le norme europee possono funzionare per loro e offrire incentivi per promuoverne l’adozione”[ref]Idem, pag. 103.[/ref].   Inutile dire che, oltre ad essere un’indicazione teorica, quella di cui ho appena parlato, è per me anche e soprattutto un auspicio, consapevole delle grandi difficoltà che la sua realizzazione comporta.

VIDEO LIBRO – Un mondo senza guerre. L’idea di pace dalle promesse del passato alle tragedie del presente, Carocci 2016.