Alcune considerazioni sulla «potenza» della prassi politica. La fragilità del presente e il blocco del passato.

Questo breve contributo intende partire da un passaggio importante dell’intervento di Bruno Montanari in cui egli ci spiega che «la frantumazione del legame sociale nel suo complesso è il prodotto più ravvicinato, nella sua attuale visibilità, della destrutturazione della temporalità nella mentalità dell’uomo comune», e auspica «la ri-proposta della temporalità storico-esistenziale nella mentalità della gente comune». Per elaborare una risposta soddisfacente a tale ordine di questioni, può essere utile riflettere sul rapporto problematico che intercorre tra la politica intesa come «potenza» (la pura potenzialità di un passato ancora irrealizzato) e il suo esercizio storico nella decisione risolutiva presa da parte di un leader. Entro tale contesto, il conflitto politico viene ad assumere un ruolo decisivo, proprio in ragione della coincidenza storica fra una certa prassi politica (ad esempio quella rivoluzionaria) e la potenzialità insita nel passato. Nei suoi momenti più celebri, la storia della filosofia politica mostra chiaramente come la dinamica del conflitto sia potuta diventare una vera e propria «arte» nel significato classico del termine: una tékne, un sapere pratico, proiettato, nel suo «valore d’uso» descrittivo o normativo, sulle esigenze e contraddizioni del presente, il quale, non sempre, è il risultato (effettuale, in senso hegeliano) del passato. Nel quadro storico segnato dalla Rivoluzione scientifica moderna, Machiavelli porta avanti una linea investigativa dell’ontologia sociale in termini prettamente naturalistici, orientata a definire le modalità in cui l’organismo politico può efficacemente conservare ed estendere il proprio potere entro una condizione di permanente concorrenza ostile tra i soggetti. D’altronde Machiavelli, nelle sue riflessioni politiche, deve molto a Lucrezio. Se è vero che il desiderio di conquista cresce attraverso le passioni asociali quali l’invidia, l’ingratitudine e l’infedeltà, vediamo che nell’indagine di Machiavelli la natura umana viene a delinearsi come una relazione di reciproca sfiducia tra simili, relazione che riporta al centro del dibattito politico attuale il problema dei limiti del potere, come è possibile evincere, ad esempio, dalle considerazioni del Segretario fiorentino su Girolamo Savonarola, concepito certamente come un grande politico, ma nello stesso tempo come un uomo dalla debole capacità di imporsi. Vediamo così che nella lotta infinita per l’autoconservazione dell’organismo biologico è già inscritto il desiderio di ordine e la ricerca di un agire efficace per il conseguimento del potere decisionale sui propri simili. Ciò è confermato dall’uso che fa Machiavelli della terminologia medico-biologica dell’epoca (addirittura, quando non basta la legge, il principe deve comportarsi come una bestia), in special modo della teoria degli umori come l’odio, la paura, l’invidia o l’ambizione. Dopo le conquiste teoriche di Galileo e Descartes, Hobbes concepisce l’uomo in modo meccanicistico e mostra la condizione generale che verrebbe a realizzarsi tra gli uomini (il bellum omnium contra omnes) qualora venisse ritirato dalla vita sociale ogni organismo politico di controllo. Con l’esplodere della guerra civile (1642-1651) Hobbes sente infatti come imminente la fine della sovranità. Per ottenere il rispetto delle leggi naturali e per sottrarsi alla condizione di guerra permanente è necessario l’uso della forza, la quale può derivare soltanto dalla creazione di quell’«uomo artificiale» o «Dio mortale» che è il Leviatano. La ragione che spinge gli uomini a farsi sudditi del sovrano è dunque il fine della protezione: «The end of obedience, scrive Hobbes, is protection». Una siffatta tendenza, tipica della filosofia politica moderna, a ridurre l’agire statale ad un’affermazione strategica e strumentale del potere come decisione risolutiva di un’autorità, è stata messa in discussione da Rousseau e, più in particolare, da Hegel.
Rousseau compie una «cesura antropologica» utile a spiegare il passaggio dall’amour propre all’amour de soi e finanche all’io sociale, ovvero ad un modello di alterità dipendente da interessi immediatamente coincidenti con quelli della comunità. Nella vita comunitaria, infatti, l’abisso incolmabile tra «essere» e «apparire» viene in qualche misura colmato dal bisogno di identità intesa come sinonimo di autenticità. Rousseau intende pertanto legittimare il contratto pensando la condizione di «alienazione totale» di ciascun singolo individuo nella comunità non come il risultato di una repressione secca dell’amour de soi (la quale determinerebbe solo lo scatenarsi del potere distruttivo dell’amour propre, del gretto egoismo che giustifica l’autoritarismo del decisore), quanto come l’effetto automatico di una sublimazione non repressiva del più originario amour de soi. Riprendendo le parole di Rousseau, al posto della singola persona di ciascun contraente, quest’atto di associazione politica dà la vita a un «corpo morale e collettivo» e da questo stesso atto tale corpo riceve la sua unità, il suo «io comune», la sua vita e la sua volontà. Si tratta pertanto di convertire, attraverso la dinamica del riconoscimento declinato nella modalità dello «sguardo» che valuta e stabilisce cosa sia la stima, l’amour de soi individuale in amour de soi sociale, per poter declinare nell’apprezzamento pubblico gli effetti corrosivi, conflittuali e patologici di ogni amour propre lasciato a se stesso. Concentrando l’attenzione sulla dinamica del «reciproco riconoscimento», Hegel, soprattutto nel periodo di Jena, fonda la storicità del soggetto, lo fa emergere e lo istituisce nella sua identità processuale, ponendolo in rapporto problematico con una potenzialità insita nel passato storico depositato nell’Erinnerung, nel ricordo. Hegel spiega il conflitto come un meccanismo di socializzazione, sviluppando una sorta di «contro-critica» teorica al modello di Hobbes. Come mostra bene Kojève, con il concetto di lotta per la vita e per la morte nella dialettica di signoria e servitù, Hegel ha connesso la possibilità della vita e della libertà individuale alla condizione della certezza anticipata della propria morte. Se il «merito» di Rousseau, lo si è appena visto, è stato quello di aver stabilito come principio dello Stato la volontà, secondo lo Hegel dei Lineamenti di filosofia del diritto l’«errore» di Rousseau sta nel considerare la volontà soltanto nella forma determinata della volontà singola e la volontà universale non come il razionale «in sé e per sé» della volontà. Secondo Hegel l’unione vivente degli individui è il vero fine, e non può essere abbassata ad un mezzo di realizzazione dei loro interessi particolaristici. Entro questa cornice, il concetto di Bildung riveste un ruolo centrale: occorre formare la «società civile» (che secondo Hegel è la «palestra dell’individualismo») attraverso la liberazione del lavoro e dal lavoro, contro ogni tendenza orientata all’«omogeneizzazione», proprio nel significato che a questo concetto ha voluto attribuire Charles Taylor. Se allora ci rivolgiamo a Marx, vediamo che, nelle società di massa, il problema del mutamento sociale, culturale, economico e politico assume contorni sempre più precisi. A tal proposito, Wendy Brown, nel suo volume La politica fuori dalla storia, richiamandosi tra l’altro alle analisi di Derrida in Spettri di Marx, mostra come il suo spettro sia in realtà un revenant, ciò che ritorna da un passato più che remoto e immemoriale, che passa dalla porta dell’avvenire come il fantasma del materialismo storico e dialettico, e che ci impone di tenere in dovuta considerazione le sue imprevedibili manifestazioni.
Non è un caso che, proprio a cavallo tra Otto e Novecento, un outsider della filosofia come Nietzsche, il quale considerava Kant ed Hegel degli «operai della filosofia», abbia scritto che «per ogni agire ci vuole oblio», giacché un eccesso di memoria paralizza l’azione e blocca il futuro, e abbia potuto parlare dell’arte come di una Gegenbewegung, ossia di un «contromovimento». Certo, nel passaggio storico e teorico dalla modernità alla ipermodernità, il conflitto si è indissolubilmente legato non solo alla genealogia e alla metamorfosi del potere in quanto potenza (inteso appunto come una pura potenzialità insita nel passato), ma anche all’atto della sua visibilità nel «qui ed ora» della decisione presa da parte di un leader. A tutt’oggi il problema consiste nel fatto che ogni decisione risolutiva deve misurarsi con un dato talvolta inemendabile: il riversarsi del passato in blocco sul presente, proprio nei casi in cui le sue potenzialità non sono state ancora pienamente attuate. L’indagine della potenza, anche nell’accezione nietzschiana, consente pertanto di verificare come la politica sia, ancora oggi, il «luogo privilegiato» in cui il passato storico continua a riversarsi in blocco sul presente. Ciò è ben esemplificato dalla lettura del concetto bergsoniano di «pura durata» come storia da parte dello storico francese Henri Berr, il quale, a sua volta, influenzò i due fondatori e primi direttori delle Annales d’histoire économique et sociale, Marc Bloch e Lucien Febvre. Occorre dunque rinforzare l’azione politica collettiva dilatando il presente tanto verso il futuro che verso il passato, senza fare tabula rasa della memoria. Perché il conflitto, essendo vincolato al corpo del potere come sua potenzialità esclusiva, è ancora pervasivo della nostra dimensione politica su più livelli: economico, culturale, estetico e normativo. Se il potere possiede, nella sua «attuosità», un corpo che facilita la rappresentazione biopolitica della sua forza (attraverso la quale si generano altri corpi che ne riproducono fatalmente le logiche), occorre allora fare largo a una pratica del «convivere», nel significato dato a questo termine dal sociologo contemporaneo Alain Caillé. L’«arte del vivere insieme» deve poter enfatizzare il «noi» piuttosto che l’«io», ovvero un modello di relazione comprensivo delle potenzialità di ciascuno. Certo, se è vero che il conflitto è plurale, la riflessione filosofica intesa come praxis, non può mai venir meno al suo compito normativo (questo aspetto lo mette bene in chiaro, tra l’altro, Jacques Rancière) di accogliere la difficoltà, l’aporia o il «disagio» della politica. È proprio rilanciando una concezione «alta» della giustizia secondo la sua matrice platonica e aristotelica che la filosofia può e deve ancora oggi interrogarsi sul disaccordo che, come una ferita mai cicatrizzata, continua a infettare il corpo politico. Ferita «antisocratica» per eccellenza che in molti luoghi della storia è replicata da individui tiranni subordinati alla legge della forza, i quali seguono il principio trasimacheo esposto nella Repubblica platonica, secondo cui «il giusto è la volontà del più forte» che è chiamato a decidere, tagliando di netto con la potenzialità insita in ogni passato plurale ancora irrealizzato. Attualmente, giacché tutta la società è investita da una «deriva signorile», il potere è divenuto più facile da conquistare ma più difficile da esercitare e più semplice da perdere. Sulla base di questa consapevolezza, siamo tutti chiamati a compiere una vera e propria «resa dei conti» col presente della società di rete, con le forme svariate della politica mediatica globale che plasma la mente del pubblico, a volte neutralizzando, a volte fomentando il conflitto, mettendo seriamente in crisi la legittimità della politica democratica dei partiti ereditata da due secoli di guerre e battaglie politiche. La crisi resta dunque «aperta» nel futuro del presente come lo è stata nel passato del presente, ponendo la democrazia dentro la dissociazione sistemica tra potere della comunicazione e potere rappresentativo. È in questa «dissociazione» che si apre lo spazio critico della riflessione non solo per lo scienziato sociale ma soprattutto per il filosofo politico.

Alcuni riferimenti bibliografici

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Ricolfi L., L’enigma della crescita. Alla scoperta dell’equazione che governa il nostro futuro, Milano, Mondadori, 2014.
Roni R. (a cura di), La costruzione dell’identità politica. Percorsi, figure, problemi, Pisa, Edizioni ETS, 2012.
Id., La visione di Bergson. Tempo ed esperienza del limite, Milano, Mimesis, 2015.
Virno P., Il ricordo del presente. Saggio sul tempo storico, Torino, Bollati Boringhieri, 1999.

Rousseau tra i giureconsulti e i giusnaturalisti moderni

ROUSSEAU TRA I GIURECONSULTI ROMANI E I GIUSNATURALISTI MODERNI

Intorno alla Préface al Discorso sull’ineguaglianza

di Mario Reale

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Si ringrazia G. Astone per la digitalizzazione del testo.

La Ricerca del Centro

La Ricerca del Centro
Politica e Finanza

Lo spunto offerto dall’amico Montanari col suo Osservatorio è di grande stimolo per alcune riflessioni che possono aprire un utile dibattito su un problema di attualità molto sentito da tutti.

Lo sviluppo di un welfare molto avanzato nel corso della c.d. Prima Repubblica, si reggeva su uno sviluppo economico basato su aiuti interni ed esterni  a tutta l’attività produttiva del Paese.

Tale sviluppo era per lo più costruito sul debito pubblico che via via lievitava a dismisura. Nessuno ci imponeva allora  “i compiti a casa” , eravamo padroni di noi stessi e potevamo manovrare a nostro piacimento le leve della politica economica del nostro Paese : la leva di spesa, quella monetaria e  quella delle entrate. Col passaggio, prima dal MEC alla UE e, poi, all’EURO, ci siamo spogliati della politica monetaria, abbiamo accettato limiti rigidi di spesa e ridotto la possibilità di operare dal lato delle entrate. Sostanzialmente vi è stata una vera e propria cessione, sia pur parziale, ma certamente significativa, di sovranità ad un organismo, la UE, che non ha specifica sovranità costitutiva sugli Stati membri, perlomeno nella forma, ancora sovrani.

Non può destare, quindi, sorpresa alcuna che nel deficit di potere dell’organismo composito lo Stato più forte si arroghi di fatto poteri di rappresentanza che non ha, che mai alcuna base elettorale ha conferito, bensì poteri di rappresentatività.

Nella impossibilità di attuare una vera e propria politica economica a tutto tondo, non vi è dubbio alcuno che le forze politiche trovano nei limiti della situazione, da un lato, l’emergere della logica dello Stato più forte e, dall’altro lato, il farsi avanti di poteri non elettivi, in specie quelli finanziari, che condizionano sensibilmente le politiche economiche e di bilancio degli Stati.

Tale situazione, si badi bene, è stata creata da molti di coloro che ancora occupano posti di potere politico con qualcuno che comincia a dimostrare però qualche ripensamento e, addirittura, fa finta di non essere mai stato partecipe e corresponsabile di tale processo. Se approfondite il motivo per il quale il parametro deficit/pil fu determinato al 3% o il cambio lira/marco quasi al doppio del valore, nessuno vi saprà dare una spiegazione economica esaustiva. Eppure ci siamo “impiccati ” a tali parametri come sacri dogmi indiscutibili. Guai a chi osa mettere in discussione tale “verità rivelata”. La grande depressione nella quale tutti, chi più o chi meno, ci troviamo è la prova lampante della crisi dell’intero sistema. Parlare di revisione dei parametri e dei trattati è atto di lesa maestà nei confronti di un sistema burocratocentrico in salsa teutonica.

Di fronte alle logiche puramente contabili, crollano gradualmente l’economie dei Paesi e le loro attività produttive  e, quindi, diminuendo il gettito da valore aggiunto, anche la tenuta dello stato sociale.

Prendono il sopravvento le logiche individuali e gli egoismi di classe, o meglio, nel nostro caso, gli egoismi corporativi. La Politica così come l’abbiamo vissuta, quale impegno sociale e partecipazione, resta mero esercizio di potere, business per chi vive di questo. Se sono impossibilitato a partecipare perché il mio voto non decide nulla nemmeno sul bene costituzionale più caro, la Sovranità Popolare, perché occuparsi di simili questioni?

È evidente che sto affrontando a spanne argomenti che richiederebbero ben altra trattazione,  ma non è questa la sede.

Ed allora, tornando al problema che ci siamo posti e trattandosi di un luogo il cui nome, Filosofia in Movimento, non può prescindere dall’Uomo, occorre porsi una domanda alla quale prima o poi tutti i Paesi della pseudo Unione non potranno sfuggire: dobbiamo porre al centro dei sistemi politici l’UOMO o il bilancio, la finanza, il capitale, il profitto, l’interesse particolare di Stati e poteri?

Possiamo, o meglio potranno, anche eludere tale domanda, ma i fatti e la storia gli saranno avversi.

Se la risposta è l’UOMO, né discendono analisi e soluzioni diverse da quelle sino ad oggi considerate e praticate. Ricordate nella Storia qualche nazione che ha pagato l’intero debito accumulato? No, vero ne sia che la stessa pseudo Unione lo sa bene tanto da aver stabilito di riportare il deficit debito/pil non a zero ma al 60%.

Se si vuole tenere conto dell’uomo occorre più elasticità. Le vere riforme non sono quelle che deprimono le economie dei Paesi e distruggono vite e speranze, ma quelle che rivedendo tale assurdo modo di procedere trasformino l’ Unione contabile finanziaria in Unione politica Umana.

Diversamente non ci sarà un futuro di prosperità e allora addio giustizia sociale perché non più sostenibile.

Non dico che non si debba tener conto della finanza e dell’economia, sarebbe utopico, ma certamente si è rotto un equilibrio tra l’uomo e i suoi strumenti di vita, che va ristabilito. Si sono invertiti i valori: l ‘Uomo non più padrone degli strumenti ma questi, in mano a pochi, padroni dell’Uomo. E ciò è stato possibile grazie alla miopia di forze politiche che praticano il garantismo delle politiche contabili tese a garantire certi ambienti finanziari e predicano la giustizia sociale. Occorre spendersi per il benessere dell’uomo, partendo dalla dignità del lavoro, cui il nostro costituente ebbe l’ambizione di porre quale evento fondante della nostra comunità.

Senza tali obiettivi, prenderà il sopravvento l’oligarchia e non la democrazia, l’autoritarismo sulla libertà, la disoccupazione sul lavoro e, nella sostanza, quella forma politica che da alcuni viene definita, con felice neologismo, la “democratura”, dittatura travestita da democrazia.

Osservatorio

di 
Bruno Montanari

Episodi recenti: politiche greche e del Regno Unito; regionali italiane e spagnole. Evaporazione della democrazia parlamentare, astensione su larga scala, radicalismi anti-europei e genericamente “antagonisti”. In breve: la “pancia” vince sulla “testa”.

L’analisi ormai è chiara e diffusa: il potere delle centrali finanziarie produce un potere tecnocratico che si sovrappone, dominandolo, all’intero ambito della sfera del “politico” tradizionalmente inteso. Occorre però aggiungere che il principio fondante tale “dominio” non coincide solamente con il disinteresse per la politica e per i progetti di crescita sociale, ma consiste in un interesse contrario. Mira, cioè, all’annientamento del “politico”, così come si è costruito nel Secondo Novecento, con la stabilizzazione delle democrazie parlamentari, attraverso l’istituzionalizzazione dello “Stato sociale”.

Con espressione sintetica: l’ “effettività” del potere finanziario si fonda sull’ “ineffettività” della politica.

Il pragmatismo politico, succeduto alla stagione dell’ideologismo, si è trasformato, nell’epoca della globalizzazione finanziaria e tecnocratica, in un affarismo di sistema, indifferente al colore politico, ed in un lobbismo che permea trasversalmente la vita stessa delle istituzioni. Ricaduta, questa, sul piano operativo, della mentalità nella quale si sono formate, negli anni ’90, le generazioni che oggi occupano lo scenario pubblico.

Se si sposta questo quadro dal piano della “macrofisica” della globalizzazione a quello della “microfisica” della vita quotidiana, la dominanza dei poteri finanziari si alimenta e si consolida proprio in forza del conseguente radicarsi e diffondersi, nella mentalità dell’uomo comune, della “ineffettività” della politica sotto forma di idea della sua “inutilità”. Individualismo ed inaffidabilità, diffidenza nelle relazioni umane, antagonismo intergenerazionale, chiusura dei ceti, corruzione eretta a sistema… in breve: frantumazione del legame sociale. E di tutto questo le generazioni che oggi hanno vent’anni mostrano lucida comprensione, che genera però, come uniche reazioni, solitudine ed impotenza progettuale.

Da un punto di vista “filosofico”, al di sotto di quello che ho definito principio fondante del potere finanziario vi è un “principio” ancora più profondo e che ha del “demoniaco”: il dominio dell’uomo sul tempo, realizzatosi con il’ “culto” dell’ istante, che destruttura la sequenza temporale passato – futuro, la quale, invece, è condizione e misura della possibilità stessa del progettare umano nel presente.

L’istante (sotto la forma comune di una temporalità ridotta a simultaneità, a momento, a qui e ora) prende il posto, in modo subliminale ed inavvertito, della  temporalità esistenziale e storica. La “percezione”, nell’uomo comune e nella comunicazione pubblica, si sostituisce al “ragionare”. L’impatto alla riflessione.

Infatti.

La “scommessa monetaria” vive del calcolo sull’immediato e del risultato che deve essere altrettanto immediato; al contrario, il “politico” si nutre della conoscenza, della critica e della elaborazione intellettuali. Si nutre, cioè, di passato e futuro nello snodo del presente. In breve: La “scommessa monetaria” ha il suo principio costitutivo nell’istante, al contrario il “politico” si nutre della temporalità storico – esistenziale, che si realizza nel produrre un’“opinione pubblica” ed una progettualità, capace di dare forma ad una società, come pluralità di idee ed unità di appartenenza.

In sintesi.

La frantumazione del legame sociale nel suo complesso è il prodotto più ravvicinato, nella sua attuale visibilità, della destrutturazione della temporalità nella mentalità dell’uomo comune: dall’assenza di un’opinione pubblica, con capacità critica, alla incapacità di elaborazione di un pensiero argomentato ed articolato, all’affermarsi della “pancia”; in breve dai twitter ai sondaggi, l’ambiente umano appare appiattito su di una orizzontalità priva di confini, dove ogni realtà è significativa solo se è assertiva, asciutta, ed esiste solo nella sua icastica immediatezza di azione – reazione.

Come uscirne?

Difficile rompere una stratificazione del vivere comune fatta di acriticità, individualismo, diffidenza, antagonismo generazionale.

Provarci, in pratica, significa incidere, ribaltandoli, proprio sugli aspetti del vivere comune appena nominati e quindi: rilancio del “pensiero critico”, associazionismo di base, affidabilità interpersonale, rispetto tra le generazioni mediante la trasmissione di un sapere formatosi attraverso una diversa e forse più culturalmente ricca esperienza esistenziale.

In definitiva, provarci significa fronteggiare la logica dell’ “istante” con la ri-proposta della temporalità storico-esistenziale nella mentalità della gente comune.

Pensando soprattutto ai ventenni di oggi.

Nichilismo e insorgenza nell’analisi hegeliana del divenire

di
Rosario Gianino

Il testo che segue è il risultato di una lettura della Scienza della Logica di Hegel, ed in particolare delle analisi dedicate alla categoria del “divenire”, che si trovano nel libro, sezione e capitolo, primi dell’opera[ref]Scienza della logica, G.W.F.Hegel, trad. Moni, rev. Cesa, Laterza, Bari 1988, tomo primo, pp. 71-102.[/ref].

1.

Per cominciare richiamiamo l’attenzione del lettore di queste pagine sul doppio statuto che la negatività insita nella categoria del divenire viene ad assumere nella teoresi del nostro autore.  Questa lettura individua due negazioni attive nel divenire. Nel divenire abbiamo il nulla. Questa è la prima negazione. Ma abbiamo anche l’annullamento del nulla. Questa è la seconda negazione. La lettura cerca di mostrare come questa doppia scansione all’interno del testo del filosofo di Stoccarda permette di ordinare la direzione ed il senso del processo dimostrativo messo in opera nella trattazione del divenire.

2.

Nel divenire hegeliano abbiamo una negazione immediata: l’essere che insorge nega il nulla; l’essere che sparisce si nega. Così inteso, il divenire, in cui l’essere insorge “dal” nulla e sparisce “nel” nulla, si costituisce in forza di una negazione immediata dell’essere: il nulla da cui l’essere insorge e lo stesso nulla in cui l’essere sparisce. L’analisi del divenire hegeliano però non finisce qui. La negazione immediata dell’essere è contraddittoria. Essa implica l’unità contraddittoria di essere e nulla: implica che essere e nulla siano lo stesso. Implica quindi che questo rapporto tra essere e nulla, non sia un rapporto possibile e che ad iniziare e a finire siano l’essere ed il nulla insieme. Nel divenire, come insorgenza dell’essere dal nulla e sparizione dell’essere nel nulla, è lo stesso essere che è nulla che insorge per sparire. Dunque la negazione immediata dell’essere, si determina essa stessa come nulla che nega se stesso contraddittoriamente. Il divenire costituendosi attraverso la negazione immediata, allo stesso modo attraverso questa negazione immediata si determina come nulla, in forza della sua contraddizione annichilente. Se il divenire che insorge e sparisce si autosopprime, la sua determinazione, la sua destinazione, è quella di lasciar dischiudere l’esserci, il qualcosa che non è altro. Nel divenire c’è qualcosa che diviene. Ed il qualcosa che diviene, insorgendo e sparendo, non si annichila ma si altera. Provenienza e destinazione del divenire non sono più il nulla del moto insorgente e dissolvente, ma il qualcosa ed il qualcos’altro della mutazione.

A quale condizione si può fare del nulla, dell’indeterminato, un qualcosa, un determinato ? Non immediatamente per la relazione tra essere e nulla come si costituisce nel divenire nel senso del flusso (Fluss) fluente del movimento. Tanto è visibile la fluidità del movimento, quanto la contraddizione è invisibile. Solo a condizione che la relazione immediata del divenire possa venir rapportata a se stessa, possa rapportarsi a se stessa, si rivela la contraddizione dell’immediatezza. Allora la negazione immediata si rovescia in negazione determinata. E nella sua autorelazione la fluidità del movimento diventa il mutamento di qualcosa. Il Nulla è nulla, quindi sparisce esso stesso, solo se può esser riferito a se stesso da qualcosa d’altro che non è nulla ma che tuttavia vi si include (il qualcosa che diviene) includendolo (il divenire di qualcosa).

2.

Si è visto come la categoria del divenire contenga un rapporto differenziale immediato e indeterminato, quello che astrattamente viene fissato dalla contraddizione tra essere e nulla.

Se tale relazione è contraddittoria, allora impedisce lo stesso rapporto e la stessa differenza, la stessa relazione tra i due termini. Così la relazione differenziale tra essere e nulla, assume il carattere negativo della contraddizione (Widerspruch). Tuttavia per Hegel la stessa impossibilità contraddittoria di una relazione tra essere e niente, se pensata in rapporto a se stessa, cancella l’astratta fissazione dell’essere e del nulla come opposti e diversi. Quindi la contraddizione tra essere e nulla, nel suo risultato nullificante, come appare solo ad un divenire capace di autorelazione, in Hegel, non ostacola e rende impossibile il divenire, quanto piuttosto consente che accada qualcosa come un “transito/passaggio/oltrepassamento” (Übergang), un “movimento”(Bewegung).

Nel divenire, insorgenza e sparizione rendono possibile come un “attraversamento” del nulla, l’apertura di un “valico” verso il qualcosa e l’altro. La differenza, ad un tempo astratta, immediata e indeterminata, di essere e nulla, che risulta contraddittoria e quindi irresolubile e incomprensibile[ref]dieser Widerspruch, den man selbst setzt und dessen Auflösung unmöglich macht, heißt das Unbegreifliche. Per il testo tedesco: Wissenschaft der Logik, Erster Teil, G.W.F. Hegel (EBook #6729), The Project Gutenberg, Posting Date: November 9, 2012, Release Date: October, 2004 First Posted: January 20, 2003; Epub con immagini scaricabile qui: http://www.gutenberg.org/ebooks/6834 , p.156-167.[/ref], è da Hegel pensata, proprio nel rispetto delle regole logiche (logische Regeln),  nell’unità antinomica del risolversi reciproco dei termini contraddittori, unità in cui i diversi precipitano nello “stesso” (selbst) e vanno pensati in quel punto della loro coincidenza in cui la loro differenza indifferenziandosi,  si annulla e sparisce[ref]ein Punkt enthalten, worin Seyn und Nichts zusammentreffen, und ihre Unterschiedenheit verschwindet. Ibidem p. 117-118.[/ref]. La contraddizione distrugge i termini contraddittori, e distruggendo i termini annulla l’impossibilità stessa del loro rapportarsi reciproco. In forza della stessa contraddizione astratta l’immediato si determina come indeterminato e indifferenziato. Così l’immediatezza trova nell’astrazione il modo di rapportarsi alla propria indeterminatezza.

3.

In rapporto a tale duplicità del negativo contraddittorio, da una parte indifferenziante e indeterminante, dall’altro determinato e determinante, il divenire mostra il suo doppio volto, da un lato mutamento metamorfico e dall’altro moto insurrezionale. Nella consapevolezza della natura del divenire, lo stare in relazione al cambiamento, al volto progressivo del divenire, non può prescindere dallo stare in rapporto al lavoro catastrofico della distruzione. Questo sarebbe il doppio statuto che la negatività insita nella categoria del divenire viene ad assumere nella teoresi hegeliana. Hegel sempre sottolinea il momento essenziale, per la logica e il sapere, della contraddizione come negazione determinata, e quindi relativa ai termini che nullifica. Eppure la contraddizione è e rimane, basicamente, negazione immediata e astratta.

4.

Prima di svolgere ulteriormente la macchina della negazione nel suo doppio statuto di annientamento e autodeterminazione, all’interno della categoria del divenire, si vuole indicare il campo concettuale vasto e trasversale che una lettura delle nozioni di “immediatezza” e “astrazione” può far emergere in relazione ad una complessiva interpretazione della filosofia hegeliana.

5.

“Astratto”. Come dire il separato, l’isolato, l’estratto da un contesto e posto nella sua unilateralità in qualche modo prodotta e tenuta ferma, fissata nel risultato di un processo. Dunque “astratto” è termine di una elaborazione che è stata resa possibile da un movimento di separazione, di astrazione. L’astratto collocato nel suo contesto di astrazione, non sarebbe più tale, mentre laddove quel contesto sia stato dimenticato, sia precipitato nell’oblio, allora l’astratto manterrebbe di diritto questa sua denominazione che lo significa come separato dal processo stesso di separazione, che pure ha agito da forza propulsiva e insorgente per produrlo. L’astratto, l’intero mondo delle categorie intellettuali che nella logica egheliana vengono esaminate, si presenta come tale a motivo di una sorta di assenza di memoria, di un’incapacità di ricordare, che affetta la consapevolezza intellettuale, riducendone la dimensione cognitiva, che non saprebbe ricondurre le categorie al processo della loro insorgenza nel divenire.

5.

Aver coscienza dell’astrazione, (Abstraktion), si può solo dove sia altrettanto forte la memoria (Erinnerung). Che rapporto intrattengono la Scienza e la Logica con l’astrazione? Astrarre è una risorsa del soggetto, come lo sono sia la Scienza sia la Logica. Il soggetto, al di là di una sua decodifica meramente antropologica o psicologica, costituisce la sfera del proprio sulla base del potere che irradiando da un centro mantiene attiva la sfera di appropriazione, in equilibrio vantaggiosamente asimmetrico o unilaterale con l’esteriorità, con l’ alterità, e più radicalmente con la propria distruzione. Ora l’astrazione è un potere che esercita una vera attività, secondo il dettato hegeliano: il potere (Können) dell’astrazione sarebbe inteso come “attività del niente”[ref]das Thun des Nichts. Ibidem p. 149.[/ref],  come “l’unilaterale attività del negativo”[ref]das einseitige Thun des Negativen. Ibidem p. 149.[/ref].  Tale potere viene specificato da Hegel come capacità di ridurre all’indifferente (gleichgültig), che qualcosa sia o non sia, che l’essere o il nulla stessi sparisca (verschwindet) o sorga, (entsteht). Abbiamo dunque, in questa asserzione hegeliana, l’attestazione di quell’impostazione secondo cui astrarre e cioè rimaner indifferenti all’essere o al non essere, e quindi potere e sapere agire in modo da annullare l’essere e dare un essere al niente, sarebbero prerogative del costituirsi di un centro di potenza, o ancora prerogative e tratti dell’attiva soggettiva autocostituente. Agire per negare l’essere e per negate lo stesso nulla dell’essere, sarebbero condizione di possibilità di una capacità (Vermögen) autopoietica. Il soggetto, cioè ogni centro di potere e di attività assoggettanti, dominanti e unilaterali, si affermerebbe in base a processi di astrazione  progressiva dal contesto dinamico del suo divenire, in cui sconterebbe il nulla immediato del proprio essere insorgente e finito. Proprio agendo negativamente non solo sull’essere ma anche e soprattutto sul nulla dell’essere, il soggetto si edificherebbe come centro di riferimento di ulteriori relazioni e dinamiche possibili. Le categorie logiche astratte, in quanto risultato del processo di elaborazione esperienziale autocentrata e autoriferita, sarebbero le forme del agire soggettivante, insieme documento e strumento di autoaffermazione, quindi di lavoro. Ogni ordinamento formale logico astratto, sia esso finito, empirico o speculativamente assoluto, avrebbe a che fare con l’esercizio di un agire  negativo autoreferenziale, di un agire negante che nega l’immediata nullità del proprio essere. Dunque questo lavoro di soggettivizzazione si caratterizzerebbe nel suo fondamento come capacità riflessiva di rapportarsi negativamente alla negazione immediata che si è, in modo che grazie a questo agire riflessivo ci si possa insediare in quel punto d’indifferenza in cui il nulla si rovescia in positiva affermazione di qualcos’altro. Questa impostazione hegeliana è stata sottolineata ripetutamente dagli interpreti. Ciò che qui si vorrebbe intravedere e si cercherebbe di ribadire è che in tale autorapporto soggettivante, la negazione determinata e relazionale si rapporta sempre ad una negazione più basica e immediata, ad una cancellazione. Essere soggetti è poter astrarre, ossia agire il negativo, rapportarsi alla propria cancellazione, negandola. Esser soggetto di sé stessi: negare il proprio nulla.

6.

L’ “immediato”, come l’astratto, è l’isolato. Esso è l’irrelato, ciò che ancora non è preso in un rapporto determinante e unilaterale, e quindi non è collegato, connesso, dipendente o condizionato, complementare ad altro. L’immediato è ciò che ancora non funge da medio, che quindi non media, ed in cui non si media, che non elabora e non lavora, ed in cui non si elabora e non si lavora, che non documenta in alcun modo una capacità ed un potere soggettivanti. L’Immediato, lasciato in tale abbandono o anche pensato e oltrepassato in tale bando, è la pura indifferenza dell’essere dal nulla, il radicale annichilimento dell’essere nel nulla, l’equivalenza dell’insorgere e dello sparire nell’essere senza provenienza e senza destino.

7.

L’astratto domina l’immediato determinandolo. Si eccepisce in esso, vi si include escludendolo, si appropria, facendosi espropriare da esso. Lo pensa come contraddizione nuda e viva ma già risolta ed oltrepassata, lo presuppone come negazione che deve essere negata, negazione da destinare al suo nulla proprio e determinato. L’astrazione deve presupporre l’immediato come  quel negativo in cui il suo agire negante è incluso e circoscritto, pur eccependosi ed escludendosene. L’immediato è catturato dall’astratto e quindi usato, messo al lavoro,  rivolto a proprio unilaterale vantaggio. L’astratto è appunto il risultato di un processo e di una dinamica autoaffermativa e autorelazionale, di un lavoro, che presuppone il nulla radicale del proprio essere come qualcosa da negare proprio riconoscendovisi. Così la potenza dell’astrazione è potenza del ricordo che mentre vince l’oblio consegna all’oblio. L’immediatezza di ciò che fu, permutata in astratto ricordo, nega quel nulla a cui consegna l’esser stato di ciò che è trascorso, e che altera in qualcosa d’altro, di positivo in quanto attivamente posto e elaborato. Il ricordo è il mettersi in rapporto ad una cancellazione mediante qualcosa d’altro che il nulla immemorabile.

8.

Nell’analisi della categoria del divenire Hegel presuppone nell’astratto (l’essere ed il non essere) in forza della stessa potenza negativa di cui è espressione (l’essere non è il non essere e il non essere non è l’essere) che conduce sino alla contraddizione (l’essere è il non essere sono lo stesso), un certo fondo basico  primordinale, anzi primordiale (il nulla di essere e non essere nel divenire).

Nella categoria astratta e contraddittoria del divenire, Hegel allora cattura quell’immediatezza violenta dell’accadere, senza cui non vi sarebbe alcuna possibilità di agire poi in modo negativo. L’astrazione che permette di afferrare la struttura contraddittoria dell’immediatezza (giacché è solo per gli astratti essere e nulla che si dà nel divenire la loro unità contraddittoria), presuppone l’immediatezza di un divenire, senza provenienza e senza destinazione, che nega radicalmente l’essere, (giacché è solo perché il nulla è, irreparabilmente, nulla, nulla dell’essere e del niente, che qualcosa d’altro può costituirsi).

Tentando di ricapitolare quanto esplorato sino ad ora, si vorrebbe ribadire come nell’analisi del divenire Hegel decida di rinvenire, tramite l’astratto ricordo della struttura originariamente contraddittoria dell’immediatezza, il presupposto dell’esercizio di ogni appropriazione e dominio temporale, storico o logico.

9.   

Astratto e immediato non sono solo lemmi coordinati. Sono l’uno condizione dell’altro.

Se il potere dell’astrazione si misura nella capacità di insediarsi nel punto indifferente, (gleichgültig) tra essere e nulla, allora l’immediato è quel “transito” (Übergang) reciproco del nulla nell’essere (insorgenza) e dell’essere nel nulla (sparizione), in cui si presuppone accadere quella potenza dell’indifferenza. E’ l’indifferenza di tale “transito” ad essere condizione del potere dell’astrazione, e quindi persino apertura di un processo di avanzamento, e progresso. Il poter lasciare il nulla al suo nulla per qualcos’altro. Ora il transito nella sua dimensione strutturale originaria d’insorgenza e sparizione, è da Hegel inteso come violenza d’eruzione e d’irruzione. Il transito è tale in quanto in esso accade qualcosa che erompe (bricht hervor)[ref]Ibidem p.147[/ref] l’immediato ovvero l’immediato è tale in quanto sbarramento sempre rotto, spezzato, frantumato, spaccato, per una “fuoriuscita”[ref]L’ Ausgang kantiano di Che cosa è l’Illuminismo, ma anche la ripartenza dall’Esserci, del capitolo secondo della Logica di Hegel.[/ref]. E’ perché si da un’eruzione che spezza un velo sbarrato, che l’immediato si fa mezzo, strumento di mediazione. Per pensare l’ irr/eru-zione dobbiamo ritornare ancora ai due possibili sensi della negazione cui abbiamo già più volte fatto riferimento sopra. Da una parte c’è la negazione determinata, la negazione sempre relativa e specifica di un certo qualcosa, che prende la forma della contrapposizione e quindi del riferimento o della relazione[ref]Form der Entgegensetzung, zugleich der Beziehung. Ibidem p. 116.[/ref]. Essa separa e distingue, tiene insieme i differenti relati, tenendoli a distanza di sicurezza e garantendoli l’uno dall’altro. E come Hegel non si stanca di ripetere la Scienza e la Logica devono costantemente affinare lo sguardo rammemorante per saper cucire e connettere i pezzi dell’essente, ritrovandovi il filo del logos mediatore che li tiene insieme determinandoli reciprocamente nella loro distinzione, a preservarli dall’annullamento. Ma ciò presuppone proprio il più radicale e tragico confliggere annichilente ! Il mezzo della mediazione è proprio il nulla che si annienta ! E’ nel nulla che l’essere di questo e quello e il loro stesso niente, già da sempre e inizialmente, precipitano e spariscono, ed è sempre nello stesso nulla che insorge ed erompe, irrompe, un methodos , il varco di un passaggio. Nella via del nulla, senza provenienza e senza destinazione, sono disposti quel qualcosa che c’era, quel qualcosa da cui si proviene insieme a quell’altro qualcosa che è appena arrivato ed a cui si è destinati come al risultato del processo.  Ecco che appunto quel non essere relativo che consente il lavoro del discernimento sapiente dell’essente non sarebbe esso stesso aperto e manifesto se non fosse riconosciuto quel niente irrelativo della sparizione nella più radicale latenza, quel niente dell’insorgenza dall’occultamento radicale, quel nulla della dissoluzione, dell’annientamento o del più duro svuotamento. Per questo Hegel sottolinea che proprio a proposito della negazione non si deve dimenticare (non deve di essa darsi oblio, e quindi deve di essa proprio darsi rammemorazione) che vi è la negazione astratta e immediata[ref]die abstrakte, unmittelbare Negation. Ibidem p. 116.[/ref] : l’irrelativa “denegazione” (die beziehungslose Verneinung), espressa dal mero “non” isolato[ref]durch das bloße: Nicht ausdrücken. Ibidem p. 116.[/ref], il puro nulla in cui l’essere sparisce e da cui l’essere insorge, in cui irrompe e da cui erompe. Il nulla che sta tra un essente e l’altro e che sta dentro l’essere stesso, a romperne la compatta chiusura; quel nulla che segna la struttura aperta dell’essere stesso, la sua esposizione all’annientamento, la sua esposizione all’insorgenza e alla più radicale latenza. Questo “non” è posto e determinato come esito nullificante della contraddizione dall’astrazione ed insieme catturato come immediatezza iniziale del divenire: la contraddizione che dissolve l’astratto irrelato intellettualistico è infatti cifra di quel nulla in cui si spaziano i pezzi dell’immediato esposto al movimento del divenire.

10.

Hegel ha sempre e ripetutamente considerato la negazione determinata superiore alla negazione immediata. Hegel dice che fuori dal divenire del qualcosa in qualcos’altro, essere e nulla sono significati astratti[ref]abstrakt Bedeutung. Ibidem p.164.[/ref]. Il nulla (das Nichts), come è contenuto nel concetto del divenire, dovrebbe essere inteso piuttosto come il non-essente, (das Nichtseyn). Ossia sarebbe il non-essere altro contrapposto (Entgegengesetzt) e relativo dell’essere-qualcosa (Etwas), nella cui alterità è ancora contenuto e conservato il riferimento all’essere[ref]Beziehung auf das Seyn. Ibidem p.116[/ref]. Nella categoria del divenire il senso dell’essere dell’essente non precipiterebbe e sparirebbe nel nulla ma si trasformerebbe in qualche altro essente. Proprio per la sua capacità di contenere nell’astrazione l’immediatezza ricontestualizzandola e rielaborandola nel suo senso d’essere relativo all’essente, il divenire eracliteo è considerato da Hegel un concetto superiore[ref]den höheren totalen Begriff. Ibidem p.116.[/ref] rispetto all’astrazione indeterminata dell’essere parmenideo e del nulla orientale. E tuttavia quella stessa capacità superiore di mediazione concettuale che la categoria del divenire secondo Hegel esibisce non sarebbe possibile se non fosse stata fissata astrattamente quella nullificazione del senso dell’essere differente dal niente che costituisce la determinazione dell’immediatezza. Il divenire stesso nel seguito delle deduzioni categoriali viene come messo al lavoro nel processo che assoggetta l’immediatezza al dominio evolutivo o progressivo dell’essente. Ecco così che nel divenire viene pensata la produzione stessa dell’altro[ref]Hervorbringen eines Anderen. Ibidem p.119.[/ref], la generazione[ref]die Erzeugung. Ibidem p.140.[/ref], la nascita[ref]Geburt. Ibidem p.117.[/ref]. Questa concettualizzazione del divenire come produzione-generazione prelude alla possibile istituzione di un rapporto di fondazione, di causazione, comunque di ragione. Con tale interpretazione si istituisce la continuità graduale e determinata del filo logico di un metodo, come percorso, e di un discorso, come narrazione e dimostrazione tra gli essenti e da un essente all’altro. Risulta così pensabile un rapporto determinabile tra essenti reciprocamente negativi e determinati,  come sono Padre e Figlio, Causa ed effetto, Condizione e Condizionato. Se questo è l’impianto logico che deve mettere al lavoro il divenire, non bisogna dimenticare (anche se è proprio questo ciò che il ricordo non può rammemorare !) che esso cattura un basico <<passare oltre>> immediato, insorgente e dirompente: il divenire è lo stesso <<passare>>, Übergehen ist dasselbe als Werden[ref]Ibidem p. 135.[/ref].

11.

In Hegel il pensiero astratto del divenire cattura un’immediatezza primordiale. Così l’astrazione della contraddizione fa segno all’evento dello sparire[ref]Verschwinden. Ibidem p.114.[/ref], del dileguare, o del distruggersi[ref]zerstören sich. Ibidem p.160.[/ref]; l’evento della fine[ref]Vergehens. Ibidem p. 117[/ref] , della morte[ref]Tod. Ibidem p. 117[/ref]. Il nulla che rende possibile il divenire lascia che nella determinazione negativa si produca differenza come relazione e fondazione. Questo è il lato logicamente costruttivo e mediatore della negazione insita nel divenire. Si tratta qui di quel divenire che è metamorfosi, che rimanda dal qualcosa al qualcos’altro, che segnala sempre una provenienza ed una destinazione. Ma questo divenire come progresso ed avanzamento, processo e discorso, è reso possibile solo perché presuppone un divenire che è passaggio immemorabile, sparizione e distruzione, dissoluzione della differenza, indifferenziazione contraddittoria tra essere e non essere. Il mutamento, (Veränderung ) presuppone il moto (Bewegung). Il divenire stesso è presupposto come evento appropriabile, nell’agire unilaterale del nulla, che negandolo lascia spazio a qualcos’altro. Lo stesso qualcosa apre all’altro, solo sparendo nel nulla, passando via e lasciandosi passare oltre, lasciando aperto un transito. Così in Hegel il divenuto, o il risultato ha il carattere del non-essente (Nichtseyende) come altro essente, o altrimenti essente, essente determinato, ideale (Ideelle), sul presupposto, sul fondamento, di un esser soppresso, rimosso, rilevato (Aufgehobenes), che occorre pensare nella sua radicalità nichilistica di essere sparito (das Verschwundenseyn). Così il divenire egheliano non potrebbe produrre il divenuto senza l’azione unilaterale del nulla che fa sparire l’essere dell’essente sparito. Se l’immediato non precipitasse costantemente nel nulla, se l’essere non sparisse cancellato negli essenti diversi, non vi sarebbe apertura all’insorgenza.

Il fondamento basico (Grundlage), il campo fondamentale, del potere di astrazione, quindi ciò a cui ci si deve rapportare nell’astrazione e ciò che l’astrazione stessa è e produce nel suo rapportarsi, è quel moto in cui accade il far spazio per l’essente, come agire unilaterale del nulla. 

12.

Il risultato che qui come tesi si vorrebbe enunciare sarebbe dunque formulabile nella seguente asserzione: la macchina della negazione della negazione, dell’autoderminazione del negativo, è la potenza di un autorapporto che metta in relazione il cancellabile con la propria cancellazione definitiva e radicale.

Senza presupporre l’annientamento, la distruzione, cioè senza che si pensi dell’essere nulla, radicalmente niente di ciò che diviene, non si pensa l’esserci. Il passaggio nullificante, l’annientamento immediato, sta poi alla “base” del lavoro logico di relazione e riferimento mediatore che produce tutte le altre categorie intellettuali successive a quella dell’esserci. Questo annientamento autocontraddittorio di essere e nulla nel divenire è indicato da Hegel come “la prima verità fondamentale”[ref]erste Wahrheit ein für allemal zu Grunde liegt. Ibidem p.119[/ref] . Solo in rapporto all’autonegazione contraddittoria nel divenire dell’essere e del nulla si guadagna “l’Elemento in cui sono pensabili tutte le conseguenti determinazioni della logica”[ref]das Element von allem Folgenden…alle ferneren logischen Bestimmungen. Ibidem p.119[/ref]. Questo autoannullarsi della contraddizione è la verità immediata che si trova sempre innanzi a noi[ref]die allenthalben vor uns ist. Ibidem p. 120[/ref], e che ha persino una dimensione di manifestazione ed evidenza empiriche, quella del <<passare>> empirico che s’intende di per sé[ref]das empirische Übergehen versteht sich ohnehin von selbst. Ibidem p.145[/ref]. Nel “movimento” si vede, appare, si rivela come la contraddizione si risolva. Il risolversi della contraddizione è lo stesso venire a manifestazione del qualcos’altro.

La categoria del divenire è la prima delle forme categoriali e intellettuali in cui questo annientamento viene pensato, e nell’essere pensato viene catturato e afferrato come risorsa per il cambiamento possibile. Quindi il divenire non è il terzo tra essere e nulla, la medesimezza di essere e nulla, come se fosse la loro sintesi coordinante. E il terzo come la loro contraddizione distruttiva.

13.

La rammemorazione della negazione radicale dell’essere sparito, annientato, è per Hegel aprente. Anzi è l’aperto; caratteristica del nichilismo logico di Hegel sarebbe proprio questa intepretazione dell’annichilimento, della kenosis teologica e della catarsis tragica, come apertura dell’essere all’essente e per l’essente. Nell’annullarsi del nulla, l’essere si apre all’avvento dell’essente, alla sua irruzione  e insorgenza “nuova”, alla sua rivelazione piena, alla sua manifestazione compiuta. La rammemorazione dell’annientamento sarebbe aprente e aperta perché nulla più ostacolerebbe o chiuderebbe, sbarrerebbe. l’insorgenza dell’essente, neppure il nulla del suo stesso esser sparito come essere, il nulla della radicale latenza dell’essere. L’essere ora determinato tragicamente è per qualcosa d’altro.

Nell’esser sparito della sua sparizione è l’impotenza suprema del nulla, la sua ineffettualità, perché la sparizione sparisce essa stessa, la liquidazione si liquida[ref]das Verschwinden des Werdens, oder Verschwinden des Verschwindens selbst. Ibidem p. 160[/ref]. La sfrenata inquietudine negativa del divenire che si affatica nella propria mobilità a liquidare l’immediato, la sua forza immediatamente annientante, finisce mentre lavora, risolve mentre si muove, sparisce essa stessa, sprofondando nella pace, consumandosi nella quiete, nel silenzio, in un oblio[ref]Das Werden ist eine haltungslose Unruhe, die in ein ruhiges Resultat zusammensinkt. Ibidem p.160[/ref], immemorabile.

Che sia accaduto il divenire, che sia stato il nulla dell’essere e l’essere del nulla, ciò è l’immemorabile, che ancora è solo per il ricordo di qualcosa d’altro e di qualcun altro.

Il lavoro umano, il dominio e il potere di qualsiasi soggetto che ci sia come Esserci, Dasein (questo è termine hegeliano prima di essere heideggeriano), che faccia i conti col proprio mutamento possibile, con la mutabilità del proprio esistere, sta in rapporto memoriale e immemoriale, e quindi storico, ontologico ed esistenziale, con la struttura duplice del proprio divenire, così come la definisce Hegel. Ossia con il duplice volto del divenire come annientamento del senso dell’essere, fluidificazione impotente a cancellare quell’essente qui e ora che ricorda ma anche incapace nella trasformazione del ricordo a restituire al senso dell’essere immediato ciò che degli essenti è morto e finito, definitivamente sparito.

L’analisi hegeliana sonda la difficile e avvitata determinazione di tale rapporto memoriale e immemoriale col divenire, pensando insieme con l’annientamento dell’essere la sua insorgenza. Così nella macchina metafisica di Hegel l’annichilimento radicale del senso dell’essere, la cesura iniziale dal suo evento, l’irrevocabilità della cancellazione dell’essere, rimane complementare, logicamente vincolata e presupponente, rispetto ad una altrettanto radicale e decisa insorgenza storico-esistenziale. Il “nuovo” è tale proprio perché non potendo riscattare dalla radicale latenza ciò che è sparito, e dovendo confermare quel destino di fine e di morte che spetta ad ogni immediatezza, si appropria di una provenienza e di una destinazione storiche.

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Pubblicato in collaborazione con Critica Impura

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A proposito di Comunismo ermeneutico di Vattimo e Zabala

In Comunismo ermeneutico Vattimo e Zabala muovono un appassionato attacco alla “politica delle descrizioni”, il cui campione contemporaneo è John Searle. Tale “politica delle descrizioni” sarebbe inguaribilmente metafisica e strutturalmente legata ai progetti di dominio. Ma è vero che al positivismo di buona parte della filosofia contemporanea si può solo contrapporre la posizione ermeneutica? Non soffre quest’ultima, per come è articolata da Vattimo e Zabala, di una profonda riduzione del significato e dello spettro di incidenza della scienza?

Società o barbarie

Anni incanagliti, quelli in cui stiamo vivendo gli anni della nostra vita.

La stagione in cui l’assiomatica dell’interesse possessivo, impostasi quale unico principio regolatore dell’umana convivenza, ha dato mano libera all’accaparramento in quanto accumulazione di capitale e alla spirale impazzita della disuguaglianza, alla legittimazione della mediocrità proterva come tipologia umana egemone, alla banalità semplificatoria per la concettualizzazione dominante. A cominciare – appunto – dallo svilimento della democrazia e lo svuotamento della politica.

Questo è – almeno – quanto vedono i miei stanchi occhi.

Fisime di un uomo vecchio, afflitto dal rimpianto nostalgico (idealizzato) dei tempi andati, quando ancora c’era tela da tessere, speranze da coltivare e i doloretti vari al momento non si facevano sentire?

Ad altri giudicare. Da parte mia ho provato a ragionare al riguardo, elencando argomentazioni che mi sembrano “oggettive” (se l’aggettivo fatale mantiene ancora un qualche senso), nel saggio appena pubblicato per i tipi de il Saggiatore: “Società o barbarie – il risveglio della politica tra responsabilità e valori”.

La riflessione sui “quarant’anni ingloriosi”, iniziati con il massacro dei principi su cui era stato raggiunto un equilibrio dopo le catastrofi che hanno segnato i due conflitti mondiali novecenteschi; la “guerra dei trent’anni” all’origine del suicidio europeo, con la conseguente perdita di centralità nel sistema mondo occidentale. La corsa all’indietro verso l’incoscienza, ancora una volta suicida, contrassegnata dallo slogan di Margareth Thatcher “la società non esiste”; premessa del ritorno al futuro di sempre più nuove e irresponsabili barbarie. La barbarie di un Potere brutale non più tenuto sotto controllo.

La nostra civiltà porta insita in sé l’instabilità della propria natura duale: la difficile coesistenza fra il demos e il kratos. Nato dalla distruzione dell’Ancien Régime delle aristocrazie di nascita, l’ordine democratico aurorale nella sua versione industrialista ha visto affermarsi una nuova aristocrazia, quella del denaro. Da allora è stata la politica a perseguire ragionevoli compromessi tra numero dei tanti e risorse dei pochi, tra democrazia e plutocrazia. Talvolta in maniera efficace, talaltra senza riuscirci.

Un riequilibrio che ha funzionato in presenza di contrappesi che richiamavano a più miti consigli gli spiriti animali del privilegio. Situazione vanificata nella lunga mutazione epocale tra il 1973 (guerra del Kippur e colpo di Stato in Cile) e il 1989 (crollo dei regimi a Est); quando tanto le lotte del lavoro come gli equilibri geopolitici vennero marginalizzati e dal vaso di Pandora del Capitalismo amministrato balzò fuori la sua versione non ancora addomesticata.

Taluno lo chiama Turbocapitalismo, altri Finanzcapitalismo: l’auri sacra fames virgiliana ammantata in un discorso ideologico che assiemava cascami intellettuali e luoghi comuni da consulenza aziendale (il NeoLib). Sotto i colpi potenti di una strategia per sbaraccare la piramide sociale con trasferimenti biblici di ricchezza dall’area mediana della società ai suoi vertici, veniva configurandosi uno scenario che ancora una volta può essere descritto con gli aggettivi usati da Fernand Braudel per Genova; il centro del sistema mondo finanziario nei primi decenni del XVII secolo: opulento e sordido.

La quarantennale egemonia dell’economico – come si diceva – asservisce la politica e prosciuga la democrazia. La prima si trasforma in caporalato del consenso, grazie alle nuove generazioni di personale politico, colluso e subalterno, apparse sulla scena; l’altra viene ridotta a pura metodologia di conta per legittimare organigrammi pubblici funzionali alla privatizzazione del mondo. Nella transizione in corso da fase capitalistica a fase capitalistica, in cui la riproduzione del capitale (industrialista) viene sostituita dall’accumulazione di ricchezza (finanziaria): il meccanismo del “gatekeeping”, presidio a scopo taglieggiamento dei varchi in cui scorrono i flussi (materiali o virtuali) grazie alla collusione tra speculatori privati e controllori della decisione pubblica. Il fenomeno in cui i gruppi politici si trasformano in un unico ceto indifferenziato (di imprenditori di se stessi), che conquista l’incontrollabilità nella migrazione dalla società alle istituzioni (il pasoliniano Palazzo del Potere).

La mimetizzazione delle dinamiche al servizio dell’esclusione sociale e del puntellamento dell’establishment abbiente non è certo una novità. Già i Padri Fondatori del primo esperimento di governo in una società di massa – gli Stati Uniti d’America – avevano messo a punto efficaci strumenti diversivi, nelle forme delle cosiddette “guerre tra poveri” (di volta in volta, i nativi americani, le giubbe rosse coloniali, gli schiavi di colore, gli immigrati di etnie non WASP…). La sperimentata operazione di camaleontismo prevaricatorio oggi può disporre del formidabile arsenale fornito dalla colonizzazione pervasiva degli immaginari, realizzata attraverso gli strumenti di mediatizzazione di massa. La costruzione della realtà diventa impegno guardiano di un sistema informativo embedded, il gioco politico si trasforma nel set di un reality televisivo. Personaggi da star system soppiantano con le loro messe in scena, basate sugli script degli spin-doctor, l’impegno civile di leadership legittimate dai propri valori e dal riconoscimento civile.

Come è stato felicemente tradotto in slogan, la democrazia diventa post-democrazia; gara tra marchi per un consenso manipolato, drogato con richiami strumentali alla paura e/o al risentimento (come opera di depistaggio).

C’è da stabilire se questo quadro è più alla Orwell (il dominio del Grande Fratello) o alla Huxley (l’istupidimento mediante blandizie consumistiche). Quello che si direbbe evidente è che la quarantennale vergogna sta venendo alla luce, con tutti i tradimenti che l’hanno accompagnata, e la finzione non sta più in piedi. Anche perché la spinta propulsiva di questa fase capitalistica è giunta a esaurimento, mentre gli assetti sostitutivi sono ancora avvolti nella nebbia dell’indecifrabile.

In questo salto nel dopo – mentre il motore economico “finisce ai box” – la mia personale convinzione è che diventa essenziale recuperare la funzione regolatrice e progettuale della politica; nella sua versione “erasminiana”, come grande discorso pubblico sulle scelte condivise, prima e più ancora di quella “machiavelliana”, intesa come tecnologia del potere.

Ma il ritorno al governo della società attraverso se stessa non potrà avvenire nelle modalità delle fasi precedenti al Grande Oscurantismo (gli “Ingloriosi Quaranta”). A tale proposito ho provato a immaginare le condizioni per tale ripresa; e le mie conclusioni sono state che la politica rinnovata può sorgere solo da un intelligente mix di nuovo e di antico. In cui – oltrepassando il riduzionismo del “tutto è comunicazione” – ci si riappropria delle altre due gambe essenziali: la strategica e quella organizzativa.

Certamente appare improponibile ogni forma gerarchico/centralistica di stampo fordista, quando la nuova intelligenza collettiva fa ampio uso dell’autocomunicazione orizzontale di massa, resa possibile dalle nuove tecnologie (indossabili) di comunicazione. Ma – al tempo stesso – andrà recuperata la tradizione del radicamento e del face-to-face. La politica che riparte dai luoghi.

Di certo lo spazio della decisione pubblica non si limita più al perimetro vestfaliano dello Stato-nazione, cui si sostituisce il cosiddetto “Network-State” sovra-statuale, statuale e sub statuale.

Un’idea della politica a geografia variabile e a leadership situazionali.

Tutti campi in cui la sperimentazione sta compiendo i primi, timidissimi, passi. Che, per riuscire a essere davvero efficaci, dovranno canalizzare ancora una volta insieme ragione e passione; perché la politica è innanzi tutto e soprattutto speranza plausibile. E la democrazia deve ritrovare la sua dimensione alta, di civilizzazione: organizzazione della società attraverso il discorso pubblico e legittimazione del dissenso.

Gli anni che verranno saranno un (terribile) banco di prova tra due ipotesi di riassetto, l’una all’insegna dell’esclusione e l’altra dell’inclusione. Il mondo dell’1 per cento può secessionare in “altrove” dorati ghettizzando il restante 99 per cento; può prevalere la barbarie prossima futura di una castalizzazione feudale presidiata da intelligenze digitalizzate di macchine sostitutive delle moltitudini umane. Il (lavoro) morto che afferra i vivi.

La scommessa è in una società che riprenda il lungo cammino verso i valori più umani delle solidarietà, della simpatia e del cosmopolitismo. Grazie a politiche ispirate dai principi democratici rettamente intesi.

L’Oltre e il suo contenuto. Note su Pietro Ingrao e il diritto

Davvero prezioso il lavoro di curatela con cui Maria Luisa Boccia e Alberto Olivetti hanno ordinato gli scritti di Pietro Ingrao, Coniugare al presente: l’Ottantanove e la fine del PCI. Scritti (1989-1993), per i tipi di Ediesse (Roma, 2015).

E le ragioni che confermano questo giudizio sono numerose. Innanzitutto, il personaggio politico di Pietro Ingrao: leader della sinistra interna di un partito che ufficialmente non accettava la formazione di correnti, esponente di primo piano del più grande partito comunista occidentale, spesso all’opposizione delle sue linee ufficiali, eppure (o proprio per questo) personalità stimata anche dalle altre forze politiche. Soprattutto, nei bei tempi della Prima Repubblica, dove la Presidenza delle Camere indicava l’apprezzabile tentativo di dar tribuna a figure autorevoli che pur non rientravano nella compagine di governo. Un sistema elettorale appesantito da un proporzionale naturalmente consociativo e naturalmente presidiato dalla maggioranza relativa della Democrazia Cristiana (e, ovviamente, dall’esclusione del Partito Comunista dalle maggioranze di governo).

Interessante anche che i curatori scelgano come periodo di osservazione quello della transizione mancata, o, comunque sia, riuscita solo a metà. Il Partito Comunista Italiano, ben prima che il fallimento dell’Unione Sovietica venisse certificato dalla storia, aveva abbandonato le sirene terzinternazionaliste: tutto era tranne che marxista-leninista nella proposta politica rappresentata al corpo elettorale e alla società italiana. La caduta del Muro rende palese che questa differenza debba essere ormai accompagnata da un progetto politico sostanzialmente e formalmente diverso. Superate dagli eventi le proposte eurocomuniste mediterranee dell’ultimo Berlinguer, superato dai decenni il compromesso storico (che chissà che altre forme avrebbe assunto, ad esempio, senza il controverso caso del rapimento e dell’uccisione del democristiano Aldo Moro), superata anche la questione morale. Non come metodo del governo – che sarebbe attualissimo anche oggi, se solo qualcuno lo applicasse -, certamente come immagine riassuntiva di una proposta di società.

Tra il 1989 e il 1993, in definitiva, alla sinistra italiana e al Paese tutto serviva seriamente un “oltre possibile”. La governance avrebbe identificato quest’oltre nella legislazione vincolistica a favore dell’integrazione europea. Una carta, purtroppo, mal giocata. E dalla politica italiana e, più di recente e peggio, dalle stesse istituzioni continentali. La sinistra traballò. Difatti, perse clamorosamente le elezioni del 1994 e riuscì finalmente a vincere due anni dopo, ma solo perché aveva riavvicinato a sé tutti quelli che non si riconoscevano a destra (spezzoni della sinistra democristiana, ambientalisti, ortodossi dello stalinismo e liberal privi di rappresentanza politica). La sconfitta del 1994 non è figlia dei meriti di Berlusconi (appeal comunicativo, forza di rottura, massiccia propaganda). Ne è al più parente alla lontana: la sconfitta del 1994 è tutta nella mancata individuazione di questo “oltre possibile”, l’Araba Fenice del riformismo italiano, dal 1989 al 1993.

Pietro Ingrao dimostra innegabile vivacità intellettuale: la fine del socialismo scientifico deve essergli sembrata cosa buona e giusta. V’è, infatti, in Ingrao l’intuizione sull’inestricabile vincolo di solidarietà che sussiste tra i diritti di libertà. Che l’URSS ignorasse tale vincolo, anzi che si sorreggesse sulla sua consapevole rimozione dalla pratica del governo e dalla formazione delle leggi, è concausa del suo smembramento.

Pietro Ingrao ha alle spalle una storia di rapporti con quanto a sinistra si muoveva fuori dal canale istituzionale del partito. Negli anni Cinquanta e Sessanta, dimostrò di conoscere le molte facce della questione sociale in Italia. C’era “Africa in casa”, un Mezzogiorno che aveva garantito forza lavoro a basso costo al capitalismo settentrionale. Per nemesi storica, proprio quella massa di meridionali non specializzati arrivata nella fabbrica provò, contro il PCI, ad afferrare il fulmine a mani nude, alla fine degli anni Settanta. Per contronemesi storica, quella storia dell’operaismo italiano finì tristemente sconfitta, proprio quando il PCI sulla Scala Mobile tentò l’ultimo colpo di reni per riavvicinarsi ad essa.

Non solo: Ingrao cerca un’interlocuzione con la contestazione sessantottina, ma non è con la (esigua) minoranza garantista al tempo della legislazione emergenziale contro il terrorismo – meno di un decennio dopo. Fu il primo un merito e il secondo un errore? O il PCI preferì non avere dalla propria la contestazione che germinava, in primo luogo, a suo danno? Quale che sia il nostro giudizio, il PCI sta dentro e fuori un decennio di seria, buona, legislazione sociale: in materia di locazioni, sussidi e diritto del lavoro. Lo fa dentro e fuori il progetto del governo dei moderati. Lo Statuto dei Lavoratori passa ed è un meritorio provvedimento legislativo: il PCI non lo vuole. Alla ricerca di quel suo “oltre possibile”, con cui liberarsi dall’utopia realizzata del soviet violento e legittimarsi contro quella nascente generazione “diciannovista” che nell’Autonomia Operaia trovò la linfa di uno scontro permanente col “partitone rosso”.

L’Ingrao degli anni Ottanta, in buona fede come quello del decennio precedente, diviene ancora più lucido come interlocutore dei movimenti civili. La soggettività sociale si è scompaginata, se ne creano tanti frammenti di pari dignità. L’ambientalismo, i diritti civili, la stagione referendaria – e l’inflazione dell’istituto nei due decenni successivi è una vera mannaia per la partecipazione politica, nonché prateria sconfinata per i teorici delle campagne astensionistiche (più facili, più sicure, delle battaglie politiche per il “si” o per il “no”).

Nel taccuino della sua proposta per un “oltre possibile”, Ingrao mette a valore tutto quello che ha visto: il perdurare, in forme nuove e solo all’apparenza meno gravi, delle sperequazioni sociali; il declino della teoria dei “ceti di riferimento”; la sensibilità ecologica; la questione di genere in Italia e il corredo di diritti la cui attivazione in Italia è stata più sofferta e carente che altrove in Europa. Il PCI di fine anni Sessanta/inizio anni Settanta non è uno dei protagonisti dell’espansione dei diritti civili: lo è – su aborto, divorzio, obiezione di coscienza – la sua base, lo sono spesso suoi singoli e benemeriti esponenti (il calabrese Gullo tra questi). Ingrao capisce che sarebbe buono se lo diventasse negli anni Duemila il suo erede politico.

Quello che colpisce nelle pagine della raccolta è un retrogusto di smarrimento postumo per quello che non sono riusciti ad essere sul piano della trasformazione sociale né il Partito Democratico della Sinistra, né, all’alba degli anni Duemila, i Democratici di Sinistra. Ingrao, ad esempio, non è tra i favorevoli alla svolta eurosocialista (meglio sarebbe dire: social-democratica). Ma è anche giustificabile che molti ex-ingraiani, all’atto di nascita del PD, preghino e si sbraccino per l’ancoraggio dell’ennesimo nuovo partito al Partito Socialista Europeo. Lo vedono come unica garanzia contro l’interclassismo apologetico del partito della nazione, contro lo scivolamento a destra e al centro. Un treno aspettato dieci anni dopo il suo ultimo passaggio in stazione.

È istruttivo rileggere Ingrao. Perché tutto il libro racconta idee che non ebbero la forza (e, più probabilmente, la consapevolezza) di divenire policies. A ben vedere, a questo “oltre possibile” è mancata soprattutto una cosa: la relazione qualificata col diritto. Non esiste istanza di riforma che possa divenire diritto vivente e pratica quotidiana in assenza di un robusto radicamento nel metodo della legislazione. Quella che si vuole cambiare e quella che si vuole preservare. Dal calderone post-1989 non è emerso alcun partito in grado di essere il Principe cui pensava Gramsci – sempre che fosse la strada giusta. “Coniugare al presente”, per riprendere il titolo del libro, è capire il proprio tempo. Non limitarsi a viverlo.

Politica e Ontologia. Heidegger e il corso del semestre estivo del’34

La V uscita di Pagine Heideggeriane ospita un paper di Mattia Tritarelli, dottorando dell’Università degli Studi di Perugia. Lo scopo dello scritto qui pubblicato è quello di portare alla luce i nessi tematici che legano la questione politica all’ontologia di Heidegger nel contesto del corso del semestre estivo del 1934, cioè verificare se effettivamente Heidegger sia arrivato a mutuare la propria nozione di “politico” direttamente dall’ideologia del partito nazionalsocialista. Per poter raggiungere lo scopo indicato, l’autore si confronta con quanti hanno sostenuto una simile posizione, in particolar modo Emmanuel Faye, cercando di individuare la coerenza di un siffatto procedere teoretico con l’impostazione heideggeriana, e quelle forzature che sono estranee al pensiero del filosofo tedesco, nel tentativo di riportare la categoria del “politico” alla sua corretta relazione con l’ontologia.

Francesca Brencio

Politica ed ontologia.
Heidegger e il corso del semestre estivo del’34

di
Mattia Tritarelli

 

I. Introduzione

La questione della compromissione di Martin Heidegger con il regime nazista non si è mai estinta sin dalla sua sollevazione: dall’allontanamento dall’insegnamento del dopoguerra, passando per la pubblicazione dell’intervista postuma, fino agli studi di Victor Farias e Hugo Ott con le relative repliche, per arrivare alla pubblicazione odierna dei cosiddetti “quaderni neri”[ref] La recente pubblicazione dei quattro volumi che compongono i “quaderni neri”, annotazioni e appunti lasciati da Heidegger ad una pubblicazione postuma, ha coagulato il recente dibattito internazionale su Heidegger, rinvigorendo la questione del suo presunto antisemitismo. Tra i numerosi studi che stanno fiorendo a riguardo segnaliamo: P. TRAWNY, Heidegger und der Mythos des jüdischen Weltverschwörung, Klostermann, Frankfurt a. M. 2014; D. DI CESARE, Heidegger e gli ebrei. I Quaderni neri, Bollati-Boringhieri, Torino 2014; A. FABRIS (a cura di), Metafisica e antisemitismo. I «Quaderni neri» di Heidegger tra filosofia e politica, ETS, Pisa 2014; F. BRENCIO (a cura di), La pietà del pensiero. Heidegger e i Quaderni Neri, Aguaplano – Officina del Libro, Passignano s. T. 2015[/ref]. In estrema sintesi si è avuto modo di vedere lo schierarsi di due fazioni opposte: inquisitori ed apologeti. I primi hanno creduto d’individuare un’inammissibile concussione nazionalsocialista del filosofo tedesco, adducendone il carattere ‘mistico’ e ‘totalitario’; mentre i secondi hanno tentato in tutti i modi di rivalutare la sua responsabilità politica. Il presente articolo intende rimanere fuori da questo schema bipartito, che troppo spesso finisce per riempire pagine di giornali e scema nella cronaca. Non verrà affrontata neppure la questione dei “quaderni neri”, dato che nostra convinzione è che una valutazione dei contenuti di quelle annotazioni non possa esimersi da un serio confronto preliminare con la filosofia che ne è a fondamento, nonché con la sua conseguente opzione politica.
Ciò che ci proponiamo nel presente articolo è di verificare se le categorie politiche messe in campo da Heidegger scaturiscano da un’adesione all’ideologia di partito, o in alternativa, se la loro genesi sia da rintracciare nel centro pulsante della sua stessa filosofia.
La separazione dell’opera dalla biografia del filosofo di Meßkirch ha prodotto conseguenze deleterie – paragonabili alla vulgata storiografica dell’esistenzialismo del cosiddetto primo Heidegger –, che sono andate ad unirsi all’idea di svolta [Kehre] come cesura epocale della sua biografia. Con il graduale emergere delle fonti relative all’impegno del ’33, si è avuto buon gioco nell’accostarle al fantomatico esistenzialismo di Essere e tempo, denunciando l’instabilità morale e politica del filosofo, il suo pensiero inconsistente ed inefficace, fino all’ipotesi di una sua conversione ideologica [ref] Le posizioni sono state rispettivamente sostenute da Karl Löwith e Jürgen Habermas. Se per l’allievo di Heidegger «egli è nazionalsocialista già per quel radicalismo col quale fonda la libertà dell’esistenza propria di ciascuno, ovvero esistenza tedesca, sullo stato di rivelazione del nulla» (K.LÖWITH, La mia vita in Germania prima e dopo il 1933, tr. it. di E.Grillo, il Saggiatore, Milano 1995, p.66); per Habermas «a partire dal 1929, comincia una trasformazione della teoria in ideologia» (J.HABERMAS, Il filosofo e il nazista, tr. it. di P.Amari, in Micromega 1988 n.3, p. 103). [/ref]. A queste posizioni si sono aggiunti gli studi, il primo fazioso ed acritico di Victor Farias, il secondo ponderato e filologicamente rigoroso di Hugo Ott, che hanno arricchito la mole di fatti e aneddoti intorno Heidegger[ref]Mentre Farias afferma drasticamente che «Martin Heidegger optò per la linea rappresentata da Ernst Röhm e dalle sue SA, cercando di dare con il proprio pensiero una struttura filosofica a tale variante del nazionalsocialismo» (V.FARIAS, Heidegger e il nazismo, tr. P.Amari, Bollati Boringhieri, Torino 1988, p.5); Ott lascia aperto uno spiraglio per una autonomia del filosofo tedesco, affermando che «Heidegger sovrappone a quello reale il proprio concetto di nazionalsocialismo, che non aveva nulla a che vedere con l’effettiva prospettiva del nazionalsocialismo» (H. OTT, Martin Heidegger: sentieri biografici, tr. it. di F. Cassinari, Sugarco Edizioni, Milano 1988, p.187) [/ref]. A sollevarlo da questi imbarazzi sono state invocate dapprima la sua inettitudine politica, infine la necessaria separazione tra filosofia e scelta politica[ref]Paradigmatica a questo riguardo la biografia di Rüdiger Safranski, secondo cui per il pensatore tedesco si consumerebbe una tragica rottura con la realtà: «Vediamo dunque uno Heidegger tutto preso nel suo sogno di una storia dell’essere; le sue mosse sul palcoscenico della politica sono quelle di un filosofo sognatore» (R.SAFRANSKI, Heidegger e il suo tempo, tri. it. di N.Curcio, Tea, Milano 2001, p.286) [/ref].
Tra gli studi recenti sulla vexata quaestio sul rapporto tra Heidegger e il nazismo merita una menzione il discusso libro di Emmanuel Faye “Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia”[ref]E. FAYE, Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia, a cura di L. Profeti, L’asino d’oro, Roma 2012[/ref]. Esso sembrerebbe rintracciare un nuovo capo d’accusa. La tesi principale del volume appare risolutoria quanto estrema:

l’unico “contributo” heideggeriano alla filosofia consiste nell’aver dedicato tutte le sue forze, in molte maniere, a introdurvi i principi stessi del nazismo celandosi dietro termini come “verità” ed “essere”, che in lui sono filosofici solo in apparenza[ref]Ivi, p.394[/ref]

La posizione è chiara e monolitica: lo studio di Faye dei seminari e dei corsi heideggeriani tenuti tra il ’33 ed il ’35 – a cui rimanda il titolo originale dell’opera francese – non farebbe che confermare, se non radicalizzare, il credo nazista del filosofo di Meßkirch. Le analisi condotte nel testo hanno un intento ben più radicale di una mera ricognizione biografica:

È per questo che, attraverso i testi portati alla luce e le dimostrazioni proposte, abbiamo voluto mostrare la realtà dell’impresa alla quale egli si è dedicato, cioè l’introduzione, nella filosofia, del contenuto stesso del nazismo e dell’hitlerismo. [ref]Ivi, p.1[/ref]

L’intento del presente articolo è di verificare se effettivamente Heidegger sia arrivato a mutuare la propria nozione di politico direttamente dall’ideologia del partito, oppure, se in alternativa, possano finalmente essere delegittimate posizioni radicali come quella assunta dall’autore francese. Ciò che è necessario far notare sin da subito, infatti, è come nel testo di Faye non sia neanche prospettata una possibile autonomia politica del filosofo tedesco. Complotto, revisionismo e negazionismo, teoria razziale, se non distruzione ed inebetimento filosofico sarebbero le istanze inoculate nel pensiero occidentale da Martin Heidegger.
Qual è il metodo d’indagine adottato dal testo di Faye per argomentare queste accuse così gravi? Attraverso una massiccia raccolta di autori nazisti, le cui citazioni costituiscono una parte cospicua del testo, l’autore passa, per via di più sostituzioni, a leggere i testi heideggeriani per lasciarne emergere affinità, coincidenze e sovrapposizioni terminologiche e contenutistiche. La lettura del contesto socio-politico finisce così per imporsi ad ogni autonomia intratestuale dei documenti d’archivio[ref]Un recentissimo contributo di Thomas Sheehan ha posto l’accento sulle molteplici forzature ed argomentazioni tendenziose su cui sarebbe basato il testo di Faye, cfr. M.SHEEHAN, Emmanuel Faye: the introduction of fraud into philosophy?, in http://enowning.blogspot.de/2015/04/thomas-sheehan-on-faye-and-fraud.html. L’articolo, che è stato occasionato da un diverbio tra i due studiosi, passa in rassegna i ragionamenti forzati e le imprecisioni usati nel lavoro di Faye per argomentare la sua tesi di fondo. Giudicando il testo dell’autore francese ricco di approssimazioni, Sheehan, attraverso una lettura ampiamente documentata, denuncia: in primo luogo, l’inconsistenza del preteso antisemitismo di Essere e tempo, che sarebbe basato su di un’argomentazione costruita su dei passaggi sconnessi; in secondo luogo, le traduzioni rimaneggiate e una riscrittura delle citazioni heideggeriane. Accuse gravissime a cui Faye ha tentato di difendersi inutilmente con una lettera aperta indirizzata contro il professore di Stanford. Per un quadro della discussione tra i due autori, attualmente ancora in corso, si veda M.SHEEHAN, Emmanuel Faye: the introduction of fraud into philosophy?, cit., ∫1-2.[/ref].Raccogliamo brevemente il lessico heideggeriano di base. Secondo Faye Heidegger effettuerebbe un recupero della nozione di comunità razziale da Ludwig Ferdinand Clauß: «Della comunità di popolo come di una comunità di razza»[ref]E. FAYE, Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia, cit., p.33. A questo proposito Sheehan mostra come Faye faccia coincidere il significato della parola Umwelt – usata da Heidegger in Essere e tempo e da Clauß nell’Anima nordica -, esclusivamente accostando i testi ed attuando delle deduzioni assolutamente improprie, cf. M.SHEEHAN, Emmanuel Faye: the introduction of fraud into philosophy?, p.11-13.[/ref]; così come mutuerebbe da Erik Rothacker il “pensiero razziale” espresso dalla radice germanica[ref]E. FAYE, Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia,, cit., p.40[/ref]. Secondo la stessa direttrice passerebbe a rielaborare il concetto di lavoro grazie al confronto con Ernst Jünger: il lavoro esprimerebbe così il conio del nuovo popolo di lavoratori del ’33, per cui «Heidegger precisa nettamente il significato nazista che ormai è del concetto di lavoro»[ref]Ivi, p.116[/ref]. La nozione di popolo, indisgiungibile da quella di razza, sarebbe assunta direttamente dallo stesso Hitler: «D’ora in poi non si potrà più negare che l’uso razzista della parola Volk viene accettato da Heidegger senza l’ombra di una riserva e in mezzo ai diversi significati ammissibili»[ref]Ivi, p.152[/ref]. In maniera analoga, parlando dello stato come essere fondamentale del popolo, Heidegger finirebbe per recuperare l’istanza genuina dell’hitlerismo: «La concezione della nazione espressa nel seminario di Heidegger è appunto la stessa che troviamo nel Mein Kampf»[ref]Ivi, p.182[/ref]. Cercando di formulare un giudizio riassuntivo: «Il punto fondamentale è che “l’essere politico dell’uomo”, per Heidegger come per tutti i nazionalsocialisti, ha consistenza solo come popolo, mai come individuo»[ref]Ivi, p.184[/ref]. La politica totale finisce per sovrastare ogni campo, compresa l’ontologia.
Questo meccanismo interpretativo, che lascia imporre il contesto in cui Heidegger venne a trovarsi sull’autore stesso, finendo per neutralizzarne le categorie politiche, non lascia possibilità di riserve; se non per il fatto che tende ad incepparsi, fino ad imbattersi in delle vere e proprie contraddizioni (attribuite all’autore, se non ad errori o sue oscurità). Una volta tolte dal contesto di formulazione originaria, dalla coerenza interna del corso o del seminario in cui sono formulate, le sentenze heideggeriane non presentano più resistenze all’ermeneutica inquisitoria. Lo scopo di una contro-lettura dei testi presi in considerazione da Faye è quello di lasciar riemergere la coerenza interna del pensiero heideggeriano, che sembrerebbe avere come termini di paragone il pensiero fenomenologico piuttosto che il Mein Kampf, la politica aristotelica anziché una politica di potenza.
Il tentativo di Faye nei fatti si rivela fondato su un’argomentazione fallace, che solo una volta smascherata lascia aperta la domanda sulla coerenza del pensiero e del linguaggio politico heideggeriano. Piuttosto che assumere la prospettiva secondo cui politica ed ontologia non possano venir scisse né sovrapposte, così da discolpare o condannare allo stesso tempo il filosofo tedesco, dovremmo incominciare a chiarirne l’effettivo rapporto.
Una lettura contrastiva di tutti i corsi ed i seminari presi in considerazione da Faye sarebbe più che istruttiva; tuttavia, per tentare un passo in questa direzione, scegliamo di presentare nelle sue linee fondamentali il corso del semestre estivo 1934 Logica e linguaggio[ref]M.HEIDEGGER, Logica e linguaggio, tr. it. di U. Ugazio, Marinotti, Milano 2008[/ref]. Il corso rimane sicuramente il più istruttivo tra quelli presi in considerazione per almeno due ordini di motivi: in primo luogo Heidegger, durante il suo svolgimento, presenta le proprie definizioni politiche in maniera pressoché sistematica; mentre in secondo luogo, esso è il primo corso tenuto dopo le dimissioni dal rettorato friburghese. Le lezioni assumeranno così un ruolo paradigmatico, passando a ridefinire termini fondamentali come “popolo”, “uomo” e “storia”, sulla scorta della speculazione presentata in Essere e tempo.

II. L’introduzione al corso del ’34: temporalità e storicità nell’esperienza inautentica

Quando Heidegger si accinge a tenere il corso del semestre estivo del 1934 aveva già presentato le proprie dimissioni dalla carica di rettore dell’Università di Friburgo. In seguito i suoi dissensi con i professori più intransigenti – tra cui Ernst Krieck -, andarono inasprendosi a causa dell’accelerazione del processo di allineamento dell’ateneo friburghese alla politica di partito.
Mentre da programma accademico era stato annunciato il corso “Lo stato e la scienza”, nella prima ora di lezione Heidegger ne comunicò il cambiamento di argomento. L’esordio stesso del corso ne fissa il compito principale: determinare la struttura e la provenienza della logica odierna, con lo scopo di scuoterla e metterne in discussione il rapporto con il linguaggio. La domanda guida, che mira all’essenza del linguaggio, viene condotta attraverso lo smascheramento dell’imposizione della logica sull’asserzione per mezzo della grammatica. La questione preliminare è stabilire come la lingua sia connessa al tema dell’essere, e se essa non possa essere disgiunta dall’impostazione logicista a cui sembra definitivamente essere assegnata.
L’interrogazione intraprende da subito un moto vorticoso sino a trasformarsi in una vera e propria argomentazione circolare. Cerchiamo di seguirne il percorso principale.
Una prima analisi condotta sullo statuto del linguaggio ci induce a considerare la lingua, non come semplice raccolta di lemmi contenuti stabilmente nel vocabolario, bensì come colloquio che accade in maniera necessaria tra gli uomini. Per questo, secondo Heidegger, per mirare all’essenza del linguaggio dovremmo preliminarmente passare ad indagare la questione dell’essere dell’uomo in quanto colui che parla. Il corso subisce così il suo primo apparente slittamento.
Che cos’è l’uomo? Da subito viene notato come il modo di porre la questione possa risultare a questo punto determinante. Allo scopo di evitare di scadere in un’oggettivazione che definisca in anticipo che cosa sia l’uomo, il filosofo porta a chiederci più genuinamente chi esso sia. Heidegger presenta il motivo che sta a fondamento di questo slittamento rivolgendosi all’interrogante:

«La domanda preliminare poggia sull’uomo come se-stesso. La risposta rimanda l’interrogante al suo se-stesso. Gli interrogati siamo noi stessi. Quando l’interrogante chiede chi sia l’uomo come se-stesso diviene egli stesso il cercato»[ref]Ivi, p.54. Ogni autentica interrogazione non può non prendere in considerazione il protagonista stesso del domandare. Il se-stesso [Selbst] è una figura centrale che compariva già in Essere e tempo e che sta ad indicare il “soggetto fenomenologico” nella sua medesimezza, non esclusivamente a partire dalla sua presenza: «La domanda sul Chi deve trovare risposta nella esibizione fenomenica di un determinato modo di essere dell’Esserci. Se l’Esserci è se-stesso soltanto esistendo, la stabilità e la possibile “instabilità” del se-stesso richiedono una posizione ontologico-esistenziale della domanda quale unica via d’accesso adeguata alla corrispondente problematica» (M.HEIDEGGER, Essere e tempo, tr. it. di P. Chiodi, Longanesi & C., Milano 2005, pp.147-148). [/ref]Per Faye l’intento di questo spostamento dell’indagine non mira che alla distruzione di ogni nozione di umanità, alla falsificazione della domanda intorno l’umano, che comporterebbe un’assoluta deresponsabilizzazione[ref]A questo proposito l’articolo di Sheehan mostra come la tesi sia sostenuta alla luce di una lettura viziata del ∫74 di Essere e tempo, il cui argomento è il richiamo all’autenticità dell’Esserci nella sua storicità, in rapporto alla comunità. «Ma Faye maltratta questa distinzione piuttosto ovvia ed importante. Egli afferma che il ∫74 ingloberebbe gli individui in una comunità fascista organica, un’affermazione che egli può fare esclusivamente perché non legge questa sezione attentamente o per intero» «But Faye rides roughshod over this quite obvious and important distinction. He says that SZ §74 swallows up individuals in a fascistoid organic community, a claim that Faye can make only because he has not read this section carefully or as a whole» (M.SHEEHAN, Emmanuel Faye: the introduction of fraud into philosophy?, cit., p.16).[/ref]. Heidegger, al contrario, avverte gli ascoltatori che di questa ipseità [Selbstheit][ref]L’ipseità del se-stesso è la medesimezza grazie alla quale l’ente che interroga il proprio essere, riconosce l’interrogazione come propria, rispondente al se-stesso. Da qui il suo rapporto necessario con la cura del proprio essere autentico: «L’ipseità deve esser esistenzialmente rintracciata soltanto nel poter-essere-se-stesso autentico, cioè nell’autenticità dell’essere dell’Esserci in quanto cura. In base a essa si spiega la stabilità del se-stesso, cioè la presunta permanenza del soggetto» (M.HEIDEGGER, Essere e tempo, cit., p.383)[/ref] non si può avere un concetto già dato – vertendo essa piuttosto sul preconcettuale –, in quanto anticiperemmo fatalmente l’interrogazione. Siamo alla prima acquisizione del corso: come ente che domanda e su cui verte la domanda del suo proprio essere, l’Esserci questiona se-stesso.

Lo scopo di questo nuovo orientamento della domanda sull’uomo è il rinvenire di una posizione fenomenologica fondamentale. Cercando di anticipare tanto una considerazione psicologica, quanto una sociologica – entrambe determinate da una definizione preconcetta di uomo -, Heidegger sta mirando all’essere dell’ente che interroga se stesso, cioè il Dasein. A partire da ciò l’interrogazione investe i tedeschi in quanto popolo che si sta interrogando, in quanto noi. Ma da dove scaturisce il noi come collettività, se non più da una serie numerica, da una semplice somma algebrica di io isolati? L’interrogazione è stata così formulata affinché fosse possibile domandarsi di volta in volta intorno l’essere del noi-stessi, senza vincolarlo ad una risposta comunitaria predeterminata, evitando con ciò ogni ricorso alla nozione di massa[ref]La massificazione sarà uno dei frutti dell’età contemporanea dominata dalla macchinazione. Heidegger presenterà il suo tempo come l’era della mobilitazione totale, come oblio del problema dell’essere a favore dell’ente. Secondo quanto scriverà qualche anno più tardi nei Contributi alla filosofia, l’occultamento e l’abbandono dell’essere si manifesterebbero nel calcolo, nell’accellerazione e nella centralità della massa. «Ciò che è comune a molti e a tutti è appunto per i “molti”: è ciò che essi conoscono come eccellente; ne deriva un’esigenza di calcolo e la celerità a disporre a loro volta i binari e la cornice per ciò che ha il carattere della massa» (M.HEIDEGGER, Contributi alla filosofia (Dall’evento), tri. it. di A.Iadicicco, Adelphi, Milano 2007, p.140). Per quanto riguarda la massa si vedano nella stessa opera anche ∫14 e ∫25.[/ref].

Né la prima persona singolare, né quella plurale, possono ricevere per Heidegger una preminenza nell’interrogazione[ref]Proprio a questo punto del corso Heidegger ci avverte che abbiamo guadagnato una posizione dirimente nei confronti della soggettività. Leggiamo infatti che il Selbst detiene il primato tanto sull’io quanto sul noi, essendone a fondamento. Tanto l’egoità quanto il noi comunitario si basano sull’ipseità; che si possa sostenere il contrario è dovuto secondo Heidegger alla valutazione del ‘34 come il tempo del noi, succeduto al dominio liberale dell’io moderno.[/ref]. Giunti a questo punto del ragionamento, il filosofo può portare a rispondere i propri studenti alla domanda sul noi:

«”Chi siamo noi-stessi?”: noi stiamo nell’essere del popolo, il nostro essere se-stesso è il popolo»[ref]Ivi, p.84[/ref].

La domanda sull’uomo ci trascina inavvertitamente alla questione del popolo. Il noi-stessi si colloca nella risposta che ognuno per proprio conto, in quanto interrogante, dovrebbe assumere e far propria. Il corso fornisce un’indicazione specifica: «Una decisione intorno a chi siamo noi stessi è stata già presa, siamo cioè il popolo»[ref]Ivi, p.87[/ref]. Ciò sta a significare che il popolo [das Volk] è tale in forza della decisione [Entscheidung]: esso non riceve la propria determinazione dall’alto, e non ha neanche un valore in potenza che si tratterebbe di attuare mediante la volontà. Come bisogna leggere quest’ultima affermazione, se, come viene fatto notare, quello tedesco è un popolo che si sta interrogando e non il popolo?
Siamo arrivati ad un primo svincolo decisivo del corso, che ci ha portato ad affrontare gradualmente una serie di questioni concatenate. Sulla base della riposta fornita sul popolo in quanto decisione, dobbiamo ora a trattare due questioni intermedie: esse vertono rispettivamente su cosa sia un popolo e che cosa stia qui a significare decisione.
Che cos’è un popolo secondo Heidegger? Faye non ne ha dubbi:

D’ora in poi non si potrà più negare che l’uso razzista della parola Volk viene accettato da Heidegger senza l’ombra di una riserva e in mezzo ai significati ammissibili[ref]E. FAYE, Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia, p.152. Secondo Faye sarebbe proprio sarebbe proprio Hitler ad ispirare la teoria statuale heideggeriana: «Heidegger fa dunque sua senza riserve l’espressione centrale del Mein Kampf, quella del völkischer Staat» (Ivi, p.215)[/ref]

Heidegger sembra intendere la parola in tutt’altro modo. Possiamo dimostrarlo illustrando le definizioni comuni – e perciò inautentiche – con le quali può essere determinato un popolo. Proseguendo la lettura del corso apprendiamo che il popolo può venir definito secondo tre criteri.
In primo luogo può essere inteso meramente come l’insieme degli abitanti di un territorio: «la popolazione costituisce il corpo [Körper] del popolo, l’insieme degli abitanti di uno stato»[ref]M.HEIDEGGER, Logica e linguaggio, cit., p.75[/ref]. Secondo questa prospettiva il popolo è considerato alla stregua di una massa censita, costituente una risorsa vivente in base alle sue membra. Proprio su questa base «spesso usiamo il termine “popolo” anche nel senso di “razza” [Rasse]»[ref]Ivi, p.95[/ref], riducendo il popolo alla sua materialità. Questa è la definizione biologica del popolo secondo la razza, secondo il sangue.

In secondo luogo, il popolo può essere preso semplicemente sotto un punto di vista sentimentale, in quanto anima [Seele]. «Popolo è inteso qui nel suo comportamento psichico – come anima»[ref]Ivi, p.97[/ref]. In questo modo una popolazione si definisce anche in virtù della propria identità romantica ricavata dalla tradizione, determinazione secondo cui sarebbe il diritto del territorio a radicare l’anima popolare nell’insediamento ed a stabilirne i caratteri. Questa è per Heidegger l’intesa antropologico-culturale del popolo.
In terzo luogo, il popolo arriva a coincidere con lo spirito [Geist]. «Ovunque sia questione di suddividere, di stabilire un ordine con leggi proprie, di decidere, il popolo è qualcosa di storico, di commisurato alla volontà, di spirituale: il popolo è spirito»[ref]Ivi, p.98 [/ref]. Secondo tale prospettiva esso è qualcosa di storicamente determinato, direttamente commisurato alla sua potenza spirituale. Questo è il popolo da un punto di vista di una filosofia della storia.
Giungiamo così ad un’altra tappa fondamentale della nostra ridefinizione linguistica. Proprio in riferimento alle definizioni appena proposte, secondo Faye comincerebbe «una lunga indagine sulla nozione di popolo, senza che nessuna di queste tre determinazioni sia rifiutata»[ref]Ivi, p.151[/ref]. Esattamente all’opposto, ciò è proprio quanto Heidegger sta cercando di dimostrare, ricusando le tre definizioni precedentemente abbozzate. Se non venisse meno la loro verità non avrebbe senso la distinzione approntata da Heidegger tra autenticità e inautenticità, l’argomentazione si ribalterebbe finendo per assumere ciò che si sta presentando appositamente in maniera negativa. Veniamo infatti nuovamente redarguiti, poiché nel corso delle analisi appena compiute abbiamo di nuovo mancato la domanda. Stiamo nuovamente questionando su cosa sia un popolo e non su chi esso sia.

Per questo motivo precedente, avevamo trasformato la domanda sul che-cosa in una domanda sul chi. Volevamo volgere le spalle alle rappresentazioni nelle quali l’uomo è fatto consistere nella connessione di corpo, anima e spirito.[ref]Ivi, p.99 [/ref]

I tre modi di determinazione di un popolo precedentemente abbozzati provengono tutti da una medesima origine, e cioè dalla considerazione dell’uomo come costrutto di corpo-anima-spirito [Leib-Seele-Geist]; ne consegue che solo una volta reimpostata la domanda sull’uomo sarà possibile formulare quella sul popolo in maniera autentica.
Per continuare a sondare la risposta sul popolo siamo subito rimandati alla seconda domanda intermedia, su che cosa s’intenda per “decidere”. La nostra comprensione quotidiana vuole che la decisione risponda ad un aut-aut, consista cioè in una possibilità esistenziale, in una scelta che ci si prospetterebbe tra due alternative. Al contrario, ed in maniera autentica, Heidegger presenta la scelta a partire dal suo sostenimento. Essa arriva a definire uno status: la decisione si dà solo ed esclusivamente nella continuità del suo accadere, nel mantenimento della scelta che corrisponde alla necessità della sua continuità. A questo proposito essa è appannaggio esclusivo dell’uomo in quanto egli rimane da sempre e inevitabilmente aperto alla decisione, sia che esso scelga o meno. Solo ed esclusivamente l’essere ferrati nell’apertura-decidente permette perciò il dischiudersi di un accadere[ref]«Questa apertura eminente, autentica, attestata nell’Esserci stesso dalla sua coscienza, cioè il tacito e pronto all’angoscia autoprogettarsi nel più proprio esser-colpevole, è ciò che chiamiamo decisione», e perciò «il decidersi, è in primo luogo, l’aprente progettare e determinare le possibilità di volta in volta effettive» (M.HEIDEGGER, Essere e tempo, cit., pp. 354-355)[/ref]. L’apertura decidente [Erschlossenheit] dell’Esserci è il nuovo sguardo sull’agire: dal momento che ci decidiamo per qualcosa rimaniamo aperti alla decisione stessa determinandoci. «Siamo aperti-decidenti a qualcosa – questo indica che ciò al quale siamo aperti-decidenti ci sta stabilmente davanti determinando tutto il nostro essere»[ref]M.HEIDEGGER, Logica e linguaggio, cit., p.111 [/ref].
Non avremmo raggiunto granché se l’esito di questo domandare ci avesse portato a quello che sembra un cieco volontarismo. A tal proposito leggiamo che questo decidere perde ogni carattere d’immediatezza, esso non rimane legato al volere presente, quanto piuttosto si inserisce all’interno di una discussione temporale. Esclusivamente in virtù della decisione ci inseriamo nella temporalità venendo così ad aprirsi la dimensione della storicità:

Nell’apertura-decidente, l’uomo è anzi rinviato all’accadere futuro. L’apertura-decidente è essa stessa un accadere che, afferrando preliminarmente quell’accadere, contribuisce stabilmente a determinare ogni accadere. [ref]Ivi., p.112 [/ref]

È proprio a questo punto che l’indagine investe lo statuto della storia. Riguardo l’essenza della storicità è necessario fornire sin da subito dei distinguo in base al tempo, poiché non assegniamo un carattere propriamente storico ad ogni trascorrere. Per comprendere come non ogni decorso temporale ottenga il diritto di essere storia, in quanto non tutto ciò che trapassa milita nella storia, dobbiamo necessariamente far riferimento all’accadere della decisione dell’uomo. La storia non è una mera successione di avvenimenti ordinata in manuali scolastici, incasellata secondo nessi di causa-effetto; piuttosto, e in maniera autentica, essa è determinabile esclusivamente a partire dall’essere dell’uomo. Si apre una dimensione storica esclusivamente in presenza dell’accadere: in quanto l’accadere resta nel sapere legato ad una volontà, ne conserva una notizia che è possibile render nota. Un effetto fisico, un animale, una cosa presi nella loro autonomia possono avere un processo, un movimento ma non accedono nell’ambito dell’accadere storico in maniera indipendente. Al contrario, sono la consapevolezza, l’intenzionalità e la volontarietà che permettono alla notizia dell’accadere di essere conservata e resa nota. Ciò è cruciale dato che «con questo sbarramento, determiniamo la storia come essere dell’uomo»[ref]Ivi., p.122. Secondo le scelte del traduttore: Geschichte è tradotto qui con “storia”, e sta ad indicare la storicità autentica del dar notizia della “storiografia” [Geschichtskunde]; mentre Historie, che indica la notizia riferita all’accadere della storia, è lasciato non tradotto. Invece la “scienza storica” inautentica traduce la Geschichtswissenschaft, che in quanto scienza, ordina razionalmente la notizia come oggetto. Per quanto riguarda la distinzione tra le due maniere di trattare la storia che stiamo per andare ad affrontare cfr. M.HEIDEGGER, Essere e tempo, cit., §74-§76. [/ref].
Siamo giunti all’ennesimo punto di svolta. Esattamente in questa parte del corso Heidegger indica infatti che siamo pronti ad effettuare una rotazione delle questioni fin qui poste, a rivolgerci nuovamente ad esse per passare ad un’indagine autentica. Il punto di torsione che permette di rivolgerci al percorso compiuto, rivelandone il carattere circolare-interpretativo, viene individuato nella ricomprensione della temporalità.
Durante il percorso dell’interrogazione siamo giunti al cospetto della storia e ne abbiamo fatto il carattere esclusivo dell’Esserci. La domanda sulla storia è abitualmente la domanda sul passato. Possiamo ora considerare i fatti in relazione a due modelli temporali: secondo lo scorrere degli attimi, oppure in base alla decisione dell’Esserci. Se il tempo individuato è quello di matrice aristotelica, dell’incedere dei momenti – il susseguirsi del movimento nel tempo dell’orologio -, allora il passato è qualcosa che non-è-più; esso è un trapassato, un qualcosa di compiuto in quanto trascorso. In alternativa, se il tempo è quello misurato sulla decisione dell’Esserci, esso si rivela un già-stato che perdura nel suo continuo farsi essenza, un provenire-verso della progettualità[ref]Heidegger distingue la considerazione canonica del tempo, risalente alla fisica aristotelica, dalla temporalità [Zeitlichkeit] della costituzione ontologica dell’Esserci. Temporalità che rivela la maniera autentica della cura, il rapportarsi dell’Esserci al proprio essere. A questi due modi di comprensione del tempo, il primo deiettivo ed il secondo autentico, nel disegno di Essere e tempo avrebbe dovuto aggiungersi la trattazione del tempo in relazione all’Essere [Temporalität]. Per la distinzione tra tempo inautentico e Zeitlichkeit cfr. M.HEIDEGGER, Essere e tempo, cit., p.396 ss.[/ref]. Mentre la prima temporalità, secondo il filosofo tedesco, è quella vigente nella metafisica occidentale sul modello aristotelico del movimento, la seconda modalità attraverso la quale è possibile trattare il passato, calibrato sull’accadere riguardante l’Esserci nella decisione, declina un nuovo modo di stare nel tempo e nella storia.

Heidegger passa ad indicare, a seconda delle due temporalità che abbiamo appena tracciato, due maniere fondamentali di trattare la storia. La scienza storica [Geschitewissenschaft] inautentica – basata sulla temporalità aristotelica-, considera la storia come un oggetto compiuto – che non è più -; essa configura gli eventi e li ordina in un’esposizione lineare secondo una linea tematica. La seconda modalità di fare storia, in quanto storiografia [Geschichtskunde – Historie], determina al contrario e di volta in volta il modo con cui un’epoca sta nella storia autenticamente. A questa seconda maniera di trattare la storia pertiene il mantenere la notizia (historia), tenuta salda a partire dall’accadere. Dal momento che è il nostro rapportarci al tempo a determinare la conseguente scienza storica, è una rinnovata discussione sulla temporalità a determinare la modalità dell’accadere dell’Esserci nella storia, la sua maniera di essere nella storia.
L’alternativa che si profila è tra un’ipostatizzazione del passato, che porta ad una forma d’ignavia storica che ci inchioda ad un atteggiamento constatativo, ed una considerazione dell’essere dell’uomo nel suo continuo essenziale maturare storico, indissolubilmente legato al carattere della decisione. La triplice canonica scansione temporale passato-presente-futuro subisce così un nuovo orientamento. Seguendo il carattere della decisione Heidegger arriva ad affermare qualcosa che ad una prima lettura può sembrarci contraddittorio. Il nostro essere nella storia, il farsi essenza da cose antecedenti, si determina a partire dal nostro futuro che s’impone come tradizione. La contraddizione risulterà solo apparente se per tradizione non intendiamo un passato immobile, da reiterare o restaurare, bensì un continuo farsi in-carico (tradere – liefern). Se quanto ereditiamo non è un patrimonio statico, ma ciò a partire da cui muoviamo, allora solo dopo aver assunto il nostro tratto antecedente potremo stare saldi nel nostro essere proprio: ciò significa farsi-essenza dal già-stato in direzione del futuro. Alla stregua di tale considerazione ci è possibile comprendere come il nostro essere anticipatamente gettati, sia subito a partire da un esser-già-stato tendente al futuro: è il tempo originariamente unico ed autentico. Focalizziamo così nel cuore del corso l’unica questione di Essere e tempo, ovvero il modo d’essere temporale dell’Esserci in rapporto all’Essere.

«Non ci è più possibile comprendere noi stessi come qualcosa che compare nel tempo, dobbiamo esperirci come quelli che facendosi essenza da cose antecedenti, estendendo la presa oltre se stessi si determinano a partire dal futuro, ossia però come quelli che sono essi stessi il tempo», poiché «Siamo noi stessi il maturarsi del tempo [zeitigen]»[ref]Ivi, pp.168-169: «Questo fenomeno unitario dell’avvenire essente-stato e presentante lo chiamiamo Zeitigung. […] La Zeitigung si rivela come il senso della Cura autentica. […] L’unità originaria della struttura della Cura è costituita dalla Zeitigung» (ET, p.387-388). [/ref]

Tutte le domande che ci siamo posti lungo il corso delle lezioni sono inserite in questo accadere temporale che noi siamo, pertanto, le risposte di cui ci siamo forniti andranno riformulate alla luce di una temporalità autentica. Quel che ci aspetta è dunque di riaffrontare le questioni passate in rassegna durante la prima parte delle lezioni, alla luce dell’autentico accadere temporale dell’Esserci, all’interno del suo effettivo maturare. Esclusivamente dopo aver assunto la nostra temporalità originaria ci riconosciamo come noi-stessi nella decisione, in quanto interroganti: ci appropriamo dell’accadere autentico, come popolo e come uomini, e, proprio rispondendo, siamo responsabili nel nostro proprio essere. Questa è propriamente la struttura della cura.

III. L’esperienza autentica di uomo, popolo e storia

Nel proseguo del corso dovremo ripercorrere la serie questioni che si erano, ad un primo tempo, presentate come inautentiche. Intraprendendo il cammino a ritroso, senza mai perdere di vista la temporalità dell’essere dell’uomo, sarà necessario mettere in luce i caratteri della nostra costituzione fondamentale. A questo proposito «facciamo esperienza del tempo solo e soprattutto se portiamo all’esperienza noi stessi nella nostra determinazione»[ref]M.HEIDEGGER, Logica e linguaggio, cit., p.177 [/ref]. In cosa consiste il nostro essere determinati? Esso si articola secondo Heidegger in tre significati reciproci: il binomio carico-mandato, il lavoro e la tonalità emotiva.
Il primo momento recettivo della nostra determinazione risiede nel nostro trovarci necessariamente impegnati nella tradizione. L’incarico [Auftrag], come determinazione ereditata del nostro essere, ci è destinato anticipatamente alla luce del nostro mandato [Sendung]; perciò siamo inevitabilmente interpellati ad una risposta responsabile nei confronti del mandato – ciò che ci è trasmesso. Abbiamo precedentemente detto che il nostro farsi-essenza procede dall’essere già-stato, ed ora ci appare chiaro come l’accostamento incarico-mandato, stimolando il nostro domandare alla risposta necessaria, illumini la nostra essenza storica costituendola in anticipo. Siamo necessariamente gettati nell’ente sempre a partire-da.
Questo carattere non rimane una constatazione erudita ed inoperosa, dal momento che la realizzazione di una sua replica passa attraverso una decisione. Scopriamo così cosa Heidegger intenda per lavoro, il secondo carattere della nostra determinazione. Lavorare è ricevere e portare all’opera la nostra determinazione [ins Werk setzen][ref]«Ricavare la nostra determinazione, mettere e portare in opera a seconda della sfera del produrre – significa lavorare» (M.HEIDEGGER, Logica e linguaggio, cit., p.180). Coerentemente Heidegger si esprime nella stessa maniera durante il discorso d’immatricolazione tenuto nel novembre 1933: «Tuttavia l’essenziale dell’essenza del lavoro non sta nell’attuarsi di un atteggiamento, e non sta nel suo risultato, bensì in ciò che in esso propriamente accade, e cioè: l’uomo, come lavorante, si confronta con l’intero dell’ente» (M.HEIDEGGER, Discorsi e altre testimonianze del cammino di una vita, tr.it. di N.Curcio, Il Melangolo, Genova 2005, p.191). Sulla stessa riga il servizio al lavoro era stato richiamato come uno dei servizi eminenti dello studente, durante il discorso di rettorato (M.HEIDEGGER, L’autoaffermazione dell’università tedesca. Il rettorato 1933/34, cit., p.25).[/ref]. Il lavoro non è un’attività del soggetto che si ripercuote su un oggetto ad esso estraneo, bensì si rivela l’operatività stessa della nostra essenza, l’efficienza del nostro agire. Agendo in direzione di una progettualità ci situiamo in un presente tra un essere già-stato e un futuro. Il lavoro si realizza come produzione della Bestimmung.

Il terzo elemento costituente la determinazione è la Stimmung: la tonalità emotiva[ref]«La tonalità emotiva ha già sempre aperto l’essere-nel-mondo nella sua totalità, rendendo solo così possibile un dirigersi verso…L’essere in una tonalità emotiva non importa alcun riferimento primario alla psiche; non è uno stato interiore che poi in modo enigmatico si esteriorizzerebbe per colorire di sé cose e persone. […] Alla situazione emotiva è esistenzialmente connessa un’aprente remissione al mondo in cui possiamo incontrare ciò che ci procura affezioni» (M.HEIDEGGER, Essere e tempo, cit., p.169,171). Per quanto riguarda la Stimmung in Essere e tempo cfr. anche §29 e §68b.[/ref]. Essa, in quanto tonalità fondamentale ci pervade da capo a fondo e ci determina intonandoci all’ente. Riferendoci alla Stimmung dobbiamo escludere ogni riferimento ad un flaccido sentimentalismo che si rispecchierebbe in stati comportamentali, inchiodati al vissuto di uno stato d’animo. Dato che è da sempre attraverso una tonalità che ci apriamo all’ente, essa influenza e caratterizza necessariamente ed immediatamente tale apertura, non possiamo accantonarla per una pretesa di un’oggettività scialba e fittizia.
Abbiamo già avuto modo di vedere, come, in senso inautentico, questa triplice determinazione non venga affatto rispettata. La domanda elusiva intorno l’uomo lo riduce alla sua mera oggettualità, alla sua mera presenza, così che possa rientrare nell’ambito delle scienze umane che ne mancano completamente lo statuto temporale. Ritornando a domandarci in senso autentico chi sia l’uomo, possiamo finalmente passare a connotarlo esaustivamente secondo la sua triplice autentica determinazione.
Riuniamo i tre caratteri della determinazione. Una volta sottratta la tonalità emotiva alla sua psicologizzazione in vissuti, diverrà possibile intenderla come esperienza decisiva; in necessario riferimento ad essa ci immettiamo nell’ente, esponendoci all’essere sempre secondo un’intonazione. La nostra determinazione si rivela efficace nel lavoro: l’operare dell’uomo nell’ente che ci si è aperto. L’uomo è costantemente rinviato alle cose, da sempre aperte nel mondo. Se la Stimmung ci situa emotivamente ed il lavoro ci immette operativamente nell’ente, manca ancora una linea unitaria che connetta i momenti in un unico intreccio. La traccia guida è fornita dal plesso incarico-mandato, cosicché ogni lavoro scaturisce da un compito ed è legato a quel che sopraggiunge, sempre nel rapporto all’ente sostenuto da una tonalità[ref]Ivi, p.217[/ref]. L’uomo viene a trovarsi immesso in una tradizione, dato che egli non è mai senza presupposti: la sua situatività [Befindlichkeit] è già di per sé ricevente, in quanto l’Esserci è da sempre aperto in maniera determinata. Portando a sintesi il ragionamento:

Questo senso triplice-unico di quel che chiamiamo determinazione ci consente innanzitutto di cogliere incarico e mandato, lavoro e tonalità emotiva nella loro unità commisurata all’accadere, di cogliere egualmente anche il tempo come potenza originaria che dispone il nostro essere e lo determina in sé come accadere.[ref]Ivi, p.183[/ref]

La determinazione, considerata in maniera unitaria, rappresenta la nostra completa storicità, coincidente con la nostra propria maturazione temporale. Siamo storicamente in virtù della nostra determinazione, e viceversa, siamo noi stessi in quanto esposti all’ente temporalmente. Questo intreccio corrisponde al nostro essere nel tempo – esposti all’ente nell’apertura – nel modo in cui ne va del nostro essere proprio. La nostra maturazione temporale [zeitigen] coincide con la cura del nostro proprio essere: essa dispiega il nostro farsi-essenza. Proprio quella che è presentata come la maturazione temporale viene a dispiegarsi tra il passato come già-stato, il presente situato nella tonalità emotiva e operante nel lavoro, nel continuo rinvio al futuro in virtù della decisione. L’indagine sull’uomo viene così a ricomporsi, acquistando un carattere unitario.

IV. Tentativo di una messa in discussione del concetto di politico

Solo dopo aver chiarito la domanda intorno l’uomo Heidegger nomina per la prima volta lo stato. Egli lo fa dopo aver riannodato i capi delle analisi fin qui compiute e portando a conclusione il corso, fornendo una risposta all’interrogazione intorno al popolo.

«L’ente originariamente unitario che regge esser-esposto, rinvio, tradizione e carico può essere solo quel che chiamiamo un “popolo”»[ref]Ivi, p.219[/ref]

Dato che il popolo è da subito un determinato popolo, lo stato non potrà essere legato ad una definizione concettuale frutto di un’astrazione del diritto, bensì esso rivela la propria politicità in riferimento al proprio Esserci. Se assumiamo la cura in sé come cura della determinazione, allora possiamo arrivare a riaccorpare le analisi affermando che «Lo stato è l’essere storico del popolo»[ref]Ivi.p.230[/ref]. La definizione raggiunta è decisiva:

Lo stato sussiste solo se e finché accade l’affermazione della volontà di signoria che scaturisce da mandato e carico e che all’inverso diventa lavoro e opera. L’uomo, il popolo, il tempo, la storia, l’essere, lo Stato – non sono concetti astratti che servono come oggetti per esercizi definitori, ma il comportamento essenziale è sempre un decidersi storico, ossia un decidersi già-stato-futuro[ref]Ivi, p.230. Per quanto riguarda l’utilizzo di questo concetto di stato durante il periodo di rettorato si veda in particolare M.HEIDEGGER, Discorsi e altre testimonianze del cammino di una vita, tr.it. di N.Curcio, Il Melangolo, Genova 2005, pp. 188, 302).[/ref]

Una volta guadagnata questa prima ricomprensione destrutturante dello stato, è necessario notare come le sostituzioni terminologiche adottate nell’opera di Faye siano assolutamente fuori strada[ref]Ciò che è peggio è che Faye cerchi di confermare la sua tesi effettuando una vera e propria manomissione dei testi heideggeriani per cercare di estorcerne una confessione. Nel suo articolo Sheehan passa in rassegna i maggiori interventi arbitrari compiuti dal francese: alterazione del testo per mezzo di una traduzione faziosa, come nella Lettera sull’umanismo; forzatura del testo ad un’interpretazione insostenibile, come in occasione di un commento ad un corso dedicato al Reno di Hölderlin; riscrittura integrale di alcuni passi, come nel caso di un’affermazione contenuta nell’intervista allo Spiegel. Per quanto riguarda queste tre denunce si veda rispettivamente M.SHEEHAN, Emmanuel Faye: the introduction of fraud into philosophy?, pp.23, 25-26, 28-30.[/ref]. Secondo quest’ultimo proprio i corsi tenuti durante il rettorato

ci rivelano fino a che punto il ‘filosofico’ e il politico siano per lui un’unica cosa, e come Heidegger posizioni il politico, inteso nel senso più radicalmente nazista, nel cuore stesso del ‘filosofico’[ref]E. FAYE, Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia, cit., p.8[/ref]

Il tema è cruciale. Che la nozione di politico venga a trovarsi, assieme alla storicità, nel cuore della speculazione heideggeriana, è attestato dalla ridefinizione dell’essenza dello stato; ciò che non è vero invece è che Heidegger ricavi ed usi le proprie categorie politiche a partire da una dottrina di partito. L’intento della presentazione del corso del ’34 era proprio quello di mettere in discussione la genesi dei suoi “concetti” dall’hitlerismo, per lasciarli sgorgare direttamente dall’ontologia del ’27.
Per cercare parziali conferme di questa lettura facciamo un breve riferimento a due seminari contemporanei al corso analizzato. Con questi ragguagli tentiamo di effettuare direttamente una messa in discussione del concetto di politico, per come Heidegger l’ha creduto di determinare, e sulla base del quale ha sostenuto le sue affermazioni e scelte politiche.
Sulla scorta delle affermazioni compiute nel corso del ’34 non sarà difficile comprendere come Heidegger possa asserire in un seminario dello stesso anno che «Per determinare l’essenza del politico, bisogna prima di tutto ritornare all’essenza dello Stato»[ref]«Für die Bestimmung des Wesens des Politischen ist der Rückgang auf das Wesen des Staates des Allererste» (M.HEIDEGGER, Hegel, über den Staat, seminario invernale 1934-35, protocollo del seminario conservato al Deutsches Literaturarchiv di Marbach, reportatio di W.Hallwachs, f. 78r, tri.it. in E. FAYE, Heidegger, L’introduzione del nazismo nella filosofia, cit., p.326)[/ref]. Tuttavia, se lo stato poggia sulle nozioni di popolo e storia, che a loro volta sono fondate sulla triplice determinazione dell’esserci, sembriamo trovarci di fronte ad una giustapposizione tra politica ed ontologia.

Una seconda citazione, che può servirci da guida e sciogliere ogni ulteriore riserva, è tratta da un seminario del 1933. Essa porta a compimento ed allo stesso tempo inserisce su di una traiettoria lineare tutte le questioni affrontate nel corso del ’34. Nel seminario viene affermato che:

Il politico, come possibilità fondamentale e modo d’essere distintivo dell’uomo, è – come dicevamo – il fondamento sul quale lo Stato è. L’essere dello Stato è ancorato nell’essere politico degli uomini che, in quanto popolo, portano questo Stato, si decidono per esso.[ref]«Das Politische als Grundmöglichkeit und ausgezeichnete Seinsweise des Menschen ist – wie wir sagte -, der Grund, auf dem der Staat ist. Das Sein des Staates liegt verankert im politischen Sein der Menschen, die als Volk diesen Staat tragen, die sich für ihn entscheiden» (M.HEIDEGGER, Über Wesen und Begriff von Natur, Geschichte und Staat, seminario invernale 1933-34, protocollo conservato al Deutsches Literaturarchiv di Marbach, appunti di I.Schroth settima sessione §1, tri.it in E. FAYE, Heidegger, L’introduzione del nazismo nella filosofia, cit., p.183).[/ref]

L’intima responsabilità e l’estrema decisione intorno al proprio essere – in quanto cura della storicità – sono a fondamento del politico. A partire da ciò: «La forma, la costituzione dello Stato è un’espressione essenziale del senso che il popolo vuole dare al suo essere»[ref]«So ist denn auch die Form, die Verfassung des Staates wesentlicher Ausdruck dessen, was das Volk sich als Sinn setzt für sein Sein» (M.HEIDEGGER, M.HEIDEGGER, Ueber Wesen und Begriff von Natur, Geschichte und Staat, cit., settima sessione §12, tri.it in E. FAYE, Heidegger, L’introduzione del nazismo nella filosofia, cit., p.204).[/ref]. Questo accadere nella decisione rende impossibile ogni corto circuito tra essere e stato, dato che il secondo scaturisce dal primo determinandolo e non viene mai a sovrapporglisi.

Tornando brevemente alle affermazioni con le quali abbiamo esordito nel presente scritto, a questo punto siamo in grado di scansare alcune delle incomprensioni che si sono venute a creare in seguito alla separazione tra il pensiero e la politica di Martin Heidegger. Il testo di Faye ci ha mostrato a proposito, come, una volta disconosciuta ogni autonomia del concetto di politico del filosofo tedesco, sarebbe facile distorcerne e interpretarne erroneamente le affermazioni politiche. Alla luce di questa procedura interpretativa diviene possibile lasciar imporre il contesto sull’autore, assumere la scelta del ’33 come evento dirimente e lasciar fagocitare l’autore dall’ideologia. Il nostro tentativo, al contrario, è stato quello di accennare ad un terreno d’autonomia del “linguaggio politico” heideggeriano.
Posto che Heidegger usi le medesime espressioni della fraseologia ideologica, senza tuttavia condividerne i significati, né tanto meno i referenti, la questione che ci si presenta è la seguente: in che rapporto stanno le stesse parole pronunciate dal filosofo e dagli ideologi del partito? A questo livello il pensiero impatta la storia e ne rivela la sua inevitabile attualità.
Il quadro storico-culturale nel quale il pensiero di Heidegger è venuto a maturare è quello della crisi di inizio secolo, dalla prima guerra mondiale, all’agonia della Repubblica di Weimar, del contemporaneo dilagare del movimento comunista. La sua posizione risulta perfettamente inscrivibile nella schiera di coloro che mossero critiche radicali alla Weltanschauung liberale, all’appiattimento borghese, alla crescente burocratizzazione dell’università tedesca, e non da ultimo al modello comunista. Tutti questi fenomeni rappresentavano agli occhi del filosofo una via impropria assunta dalla modernità per la Germania. Mann, Spengler, Jünger, Jaspers e Schmitt sono solo alcuni degli autori con i quali Heidegger condivide il sentimento di una rottura epocale della storia, un anti-modernismo viscerale, che con ben altre tinte sarà propugnato anche da Hitler stesso[ref]In questa direzione si muove lo studio di Domenico Losurdo, secondo cui l’heideggerismo non sarebbe che una delle forme assunte dall’ideologia della guerra tedesca. Per quanto riguarda invece il rapporto tra Heidegger ed il nazismo, lo studioso italiano matura una posizione ben più critica rispetto a quella di Faye, arrivando ad affermare che «a tale proposito, possiamo tentare di concludere: la denuncia della modernità è al tempo stesso motivo d’incontro col nazismo e terreno per un confronto critico con esso» D.LOSURDO, La comunità, la morte, l’Occidente, Bollati Boringhieri, Torino 1991, p.130).[/ref]. Tuttavia, appiattire ogni posizione su di un’altra – come avviene nel lavoro di Faye, significherebbe compiere una semplificazione spropositata.

Prima di abbandonarsi a sentenze inappellabili è necessario chiarire come la posizione politica di Heidegger non sia stata figlia della foga dell’attimo e come, allo stesso tempo, sia arrivato ad imboccare una strada sbagliata come quella del ‘33. Se il filosofo tedesco matura la propria nozione di politico e di socialismo-nazionale a partire dalla propria speculazione, possiamo ipotizzare che è solo perché egli credette che il partito salito al potere nel ’33 avesse potuto rappresentare l’anima del “sovvertimento dell’Esserci tedesco”. Questa scelta è da egli stesso riconosciuta come il suo errore capitale, la sua colpa[ref]«Il rettorato fu un tentativo di vedere, nel movimento che era diventato potere, al di là di tutte le insufficienze e grossolanità, qualcosa di più vivo e proteso verso un orizzonte più ampio che forse un giorno avrebbe potuto condurre ad un ripensamento dell’essenza storica dei tedeschi. Non si deve negare che io allora credetti a tali possibilità e rinuncia alla vocazione più autentica del pensiero per un compito e un dovere pubblico. Né va sminuito ciò che provocò una vera e propria mancanza nell’espletamento di tale compito. Solo che, in tali prospettive, non si colse ciò che aveva determinato l’assunzione di quell’ufficio» (M.HEIDEGGER, L’autoaffermazione dell’università tedesca. Il rettorato 1933/34, tr.it di C.Angelino, Il Melangolo, Genova 1988, p.51).[/ref]. Sebbene Heidegger non contragga alcun debito di sorta con l’ideologia e con le parole del partito – pur condividendone il retroscena storico -, è comunque fondamentale, per comprendere a fondo il suo errore politico, spiegare come i due linguaggi possano essere arrivati a sovrapporsi[ref]Una delle posizioni orientate a porre i giusti distinguo è quella sostenuta dallo storico Ernst Nolte, che riconosce il rischio di appiattire la complessa situazione politica che caratterizza gli anni della presa di potere del regime. Secondo lo storico «Nel 1933-34 ci potevano quindi essere ancora diverse concezioni di “nazionalsocialismo” e non è accettabile che tutte vengano sussunte ex eventu all’interno di quella hitleriana» (E. NOLTE, Martin Heidegger tra politica e storia, tr.it di N.Curcio, Laterza, Roma-Bari 1994, p.160-161)[/ref].
La compromissione con il partito e gli insanabili attriti che con esso emergeranno a seguito di credenze inconciliabili, sono due facce della stessa medaglia. Come ci ha mostrato il lavoro di Faye, inserire un autore nel proprio contesto d’appartenenza, forzandolo in logiche che non gli sono proprie, significa disconoscerne la peculiare posizione e piegarne arbitrariamente il pensiero. Che la riflessione di Heidegger, lungi dall’essere una teoresi rarefatta, sia bensì radicata nella realtà e frutto del proprio tempo, non può più lasciar scandalizzati, ciononostante non è lecito negare al suo pensiero ogni autonomia.

Mattia Tritarelli (1988) ha conseguito la laurea magistrale in “Filosofia ed etica delle relazioni” presso l’Università degli Studi di Perugia sotto la guida del Prof. Flavio Cuniberto, con una tesi dal titolo Heidegger e la Kehre. L’emergere del linguaggio nei corsi dei primi anni ’30. Attualmente sta svolgendo il dottorato di ricerca in Filosofia presso l’Università degli Studi di Perugia con un progetto di ricerca sul rapporto tra il pensiero di Heidegger ed Hegel.

Bibliografia delle opere citate

M.HEIDEGGER, Essere e tempo, tr. it. di P. Chiodi, Longanesi, Milano 2005
Ib,, Discorsi e altre testimonianze del cammino di una vita, tr.it. di N.Curcio, Il Melangolo, Genova 2005
Ib., L’autoaffermazione dell’università tedesca. Il rettorato 1933/34, tr.it di C.Angelino, Il Melangolo, Genova 1988
Ib., Logica e linguaggio, tr. it. di U.Ugazio, Marinotti, Milano 2008
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Recensione al volume di L.Ventura, “Il diritto di resistenza”

 

Un disco di successo del musicista Sonny Curtis, pubblicato nel 1960, si intitolava “I Fought the Law”. Nelle traduzioni che circolavano all’alba della controcultura studentesca in Italia, nei primi Sessanta, si sarebbe potuto indifferentemente leggere “ho combattuto lo Stato”, “ho combattuto il potere”, “ho combattuto la legge” e a poco c’entra la dottrina anglofona, da Dworkin in poi, che ha specificamente lavorato sull’analitica distinzione tra i concetti richiamati. Il volume di Luigi Ventura, “Il diritto di resistenza” (pubblicato per i tipi di Rubbettino, Soveria Mannelli, nel 2014), è sostanzialmente percorso da una domanda che sorge spontanea leggendo le diverse traduzioni del testo di Curtis: cosa può fare il cittadino quando il potere agisce contro la stessa legge di uno Stato di diritto? Come può combattere?

Il saggio costituisce, per altro verso, la ripubblicazione di un estratto significativo di un lavoro più lungo, del medesimo A., risalente al 1981: sarà sorprendente, alla fine della lettura, riscontrare che ben poche rughe si inseguono tra le pagine del testo e, invece, molta, molta, sorpresa e sorprendente attualità. Ancor prima dei contenuti, preme del resto sottolineare l’intrinseca unitarietà stilistica del volume, messa in mostra dalle notazioni bibliografiche a piè di pagina. Molto dettagliate, e però sempre accessibili (rari entrambi i fenomeni nelle pagine di uno stesso volume, nella letteratura scientifica), quasi che, in effetti, il lettore possa volgere lo sguardo a due facce della stessa medaglia, più che a due libri diversi. Per Ventura il nutrito apparato bibliografico è usato o come esplicazione teorica puntuale e minuziosa delle intuizioni del volume o in quanto efficace aggiunta di particolari, rispetto allo svolgimento testuale della ricerca.

Nella prima parte del volume ci si occupa della genesi concettuale del diritto di resistenza, nell’alveo giusnaturalistico, anche nelle sue componenti più radicali (il tirannicidio). Un giusnaturalismo che, almeno per ovvie ragioni storico-culturali, ha avuto a propria volta origini cristiane. Prova ne sia che l’A., tra le molte, passa al setaccio le posizioni di Calvino – che propone l’istituzione di magistrature per la tutela del popolo – della Scolastica  (filtrate da un’interpretazione di Tommaso che l’A. giustamente non ritiene sempre e del tutto soddisfacente), fino alla vitalità del diritto borghese rivoluzionario del XVII e del XVIII secolo. Interessante che questa parte della trattazione si concluda con l’analisi delle scelte costituzionali compiutesi in Germania e in Francia. Casi di studio che più facilmente vengono di solito utilizzati come metro di comparazione per l’ordinamento italiano, ma anche ordinamenti che di quel diritto rivoluzionario declinarono, per ragioni e in forme e tempi diversi, soprattutto lo strumento della codificazione. Persino in merito a quest’ultimo, può notare, ad esempio, Grossi, è palese l’influenza delle dottrine giusnaturalistiche, benché spogliate dalle connotazioni etico-politiche più apprezzabili. Una spoliazione che non riguarda, invece, la natura radical-collettivistica del diritto di resistenza e il cui mancato depotenziamento ideologico è verosimilmente causa dell’eclissarsi di riferimenti ad esso nella Costituzione francese del 1946 e dello sbrigativo dibattito (nota l’A., p. 56) che lo riguardò in Italia. Il senso etico non appartiene al governante iniquo.

Proprio il capitolo del volume dedicato alla trattazione in sede di Assemblea costituente della problematica in oggetto si rivela tra i più interessanti per saggiare l’effettiva contemporaneità della questione. Inizialmente, la costituzionalizzazione del diritto di resistenza veniva caldeggiata dalla sinistra democristiana (Dossetti), ma altre correnti del medesimo partito finirono per retrocedere dall’attuazione di quel principio teorico cui pure la vicenda storica del Cattolicesimo aveva dato un contributo non irrilevante. Come avverrà in Portogallo e in Spagna nei tre decenni successivi, la difesa del diritto di resistenza, nel novero dei diritti fondanti lo Stato democratico, diverrà principalmente istanza della sinistra marxista. E, stando al dibattito italiano, con maggiore incisività nella sinistra socialista, che non nel Partito Comunista, al quale (dati i tempi e i contesti in cui si consumava la discussione sul diritto di resistenza) la questione doveva sembrare l’ingenua legalizzazione di un momento rivoluzionario – l’illusoria clausola di continuità tra l’ordine costituito e l’ordine costituente. 

È nei capitoli successivi che i richiami a temi dell’oggi si fanno, però, ancora più pressanti. Innanzitutto, l’A. ammette esplicitamente di guardare al contenuto del diritto di resistenza senza ritenerlo l’ipotesi manualistica e residuale che corrisponde a fatti particolarmente eclatanti (un colpo di Stato). La prospettiva percorsa sembra assai più equilibrata e concepisce la configurabilità di uno strumento siffatto anche nel caso di reiterata inattuazione del disegno politico-costituzionale. L’A., nel 1981, aveva ben chiaro che il volto morbido del dispotismo sarebbe stata la quotidiana svalutazione del dettato costituzionale – o, come sempre più e sempre peggio avviene, un utilizzo abusivo e non paradossalmente incostituzionale della medesima revisione costituzionale. In secondo luogo, è appena il caso di notare che l’elaborazione dell’A. si riferisce all’inizio degli anni Ottanta. Calate nel loro contesto genetico, queste pagine svelano dei tratti evidentemente coraggiosi. Nel decennio precedente, infatti, si era coltivata, forse, illusoriamente la possibilità di un momento rivoluzionario in Italia (stavolta, da parte della sinistra extraparlamentare, e non di quella parlamentare). Ed è sorprendente che la legislazione di quegli anni, riconosciuta reiteratamente incostituzionale da parte della Corte nei decenni successivi, si incaricasse di soffocare le tumultuosità dell’epoca, senza prendere in considerazione che proprio una più coerente legislazione attuativa del disegno costituzionale avrebbe disinnescato molte delle questioni sociali che avevano legittimato sul piano dell’opinione pubblica l’insorgenza dei movimenti extralegali. Il diritto di resistenza cui guarda l’A., forse anche per trovare sbocco costituzionalmente coerente alle istanze sociali che Egli pur riconosce (senza ovviamente avallarne gli incendiari di turno), non è cospirazione estemporanea, né archeologia giuridica dell’alba del costituzionalismo. È presa di coscienza della resistenza a sovrani illegittimi. Non sbocchi cruenti, prefigura tale impostazione giuridico-teorica, ma riscoperta ragionata e coerente delle più intime nervature della Carta.

Colpisce che l’A. affronti espressamente, nella verifica di ipotesi di resistenza per come poc’anzi chiarite e senza suggerire sovrapposizioni affrettate, il caso dell’obiezione di coscienza (più rapidamente) e dello sciopero politico (dedicandovi la parte più corposa della trattazione). Il primo, del resto, poteva sembrare avere trovato una prima, accettabile, soluzione con la legge n. 772 del 1972 (e, in misura diversa, con l’art. 9 della legge n. 194 del 1978, che non aveva ancora messo in luce le applicazioni abusive, in tema di obiezione, oggi osservabili). Ma è emblematico che l’A. dedichi grande attenzione allo sciopero politico. Ciò, al lettore di oggi, pare indicativo di almeno due istanze parimenti significative. Ex tunc (per “ieri”, quando l’A. scriveva di quei temi per la prima volta), avere intuito che stava per andare in scena nel Paese una complessiva trasformazione delle politiche salariali, sindacali e di gestione della spesa pubblica. La politica economica del governo Craxi di lì a poco avrebbe messo nero su bianco lo smantellamento della forza rivendicativa del movimento operaio e, d’altra parte, l’indebitamento come leva espansiva. Ex nunc (da “oggi” e per il futuro) l’A. nota pure il rilievo, nient’affatto consolatorio o astrattamente declamativo, dei diritti sociali nel novero della Carta costituzionale. Come a dire che solo una politica legislativa orientata compiutamente alla loro attuazione sarebbe conforme a Costituzione, non ponendosi al di fuori di quell’accezione di legalità, per cui è opportuna la difesa della resistenza. La Costituzione deve orientare le leggi. Le leggi vanno interpretate secondo Costituzione, non dev’essere l’interpretazione della Costituzione a venire strappata o tirata qua e là, per assecondare la pessima qualità della produzione legislativa,  come letture sconcludentemente funzionalistiche vorrebbero imporre di fare.

Riprendendo, allora, le battute iniziali dell’opera c’è da chiedersi non già che ruolo abbia la resistenza nell’ordinamento (acclarato che essa vale ad assicurare istanze di giustizia sostanziale e principi fondamentali, questi si, non negoziabili), ma che mutevoli forme saprà prendere l’usurpazione del tiranno. Quali diavolerie ha in serbo nella sua raffinatissima borsa di coccodrillo.