Costruire lo spazio dei diritti e della cooperazione

La proposta di Bruno Montanari mi sembra decisiva da più di un punto di vista. Innanzitutto, perché coglie una delle maggiori urgenze del nostro tempo: quella di costruire un soggetto collettivo che, di fronte alla crisi dei sindacati, dei partiti e delle istituzioni intermedie che mediavano fra la sovranità e la società, sappia costruire, all’interno della mercificazione totale ad opera del mercato, un nuovo orizzonte di relazione e di cooperazione. In secondo luogo, Montanari coglie la valenza politica di tale processo. Destrutturando l’organizzazione sociale messa in atto dal capitale, si pongono le basi per una riappropriazione della politica e per la costruzione di istituzioni che riconoscano sostanzialmente dignità e diritti fondamentali, assumendo la centralità dei beni comuni e della cooperazione sociale.

Il capitale ha sempre fatto leva sulla sovranità e sulle sue istituzioni per fare presa sulla società. Esse, però, favorendo la costituzione di soggettività collettive, hanno sempre al contempo costituito delle minacce alla sua stabilità. E’ stata questa contraddizione a determinare il progressivo passaggio dalla sovranità ad un potere che, con Foucault, potremmo definire governamentale, diffuso e decentrato. Sul fronte del lavoro e della produzione, l’emergere di una molteplicità di soggetti non riconducibili figura del lavoratore garantito, inquadrato stabilmente in un posto e in una mansione, ha rotto il compromesso fordista su cui si reggeva l’architettura costituzionale, che aveva sottratto il lavoro al piano negoziale attraverso la contrattazione collettiva. Oggi la produzione è connessa con capacità cognitive e relazionali che si sviluppano soprattutto al di fuori del posto di lavoro e le aziende organizzano persino la cooperazione delle comunità di utenti, che divengono serbatoi di identità. Con la mercatizzazione totale della società e la privatizzazione di settori più ampi della sfera pubblica, il diritto non scompare ma, piuttosto che tendere all’omogeneizzazione degli status giuridici e delle forme della produzione, controlla le differenze e moltiplica i dispositivi in senso governamentale. C’è però un fenomeno a cui bisogna prestare attenzione. Nascono dappertutto in Europa esperienze di cohousing, coworking, di condivisione e cooperazione che si pongono sempre più spesso al di fuori dell’architettura istituzionale fondata sulla dicotomia pubblico/privato e producono forme di autogestione e autoregolazione. Esse non solo, attraverso il mutualismo e la solidarietà, suppliscono alle carenze di un welfare ancora tarato sulla figura del cittadino lavoratore padre di famiglia, ma rompono la valorizzazione capitalista, senza rifugiarsi in una qualche idea di autenticità perduta. Essi costruiscono valore nella crisi, si riappropriano dei diritti dal basso, creano forme di relazione e di senso senza sottrarsi alle contraddizioni del mercato. Diviene necessario, come scrive Montanari, tradurre il sociale nel politico, per fare in modo che le istituzioni esprimano la complessità del lavoro e della produzione e riconoscano la capacità della cooperazione di produrre valore e beni comuni. Tale processo costituente non può che avere di mira il piano europeo, in cui una governance trans-nazionale si è negli ultimi anni verticalizzata nelle forme del comando e dell’imposizione. La troika, attraverso il ricatto del debito, si è servita delle politiche nazionali per tradurre le categorie dell’austerity e delle privatizzazioni nell’unica formula concepibile di risposta alla crisi. La vicenda greca ci mostra come solo un fronte internazionale anti-austerity può mordere i rapporti di forza sul piano europeo e innescare un processo costituente. Non è tempo per piangersi addosso o per rifugiarsi in qualche isola felice da cui guardare le brutture del mondo. E’ il momento di riappropriarsi dello spazio della politica, di riconoscere la forza di produrre valore e diritti da basso e di innescare un processo costituente che porti le istituzioni europee a riconoscere diritti, dignità e democrazia per tutti.

Ridare un futuro ai giovani. L’elogio alla follia.

di
Luciano Monti

 

Il disagio delle generazioni più giovani è sotto gli occhi di tutti, come il fallimento di ogni tentativo volto a scardinare i diritti acquisiti da coloro che si sono precostituiti rendite e privilegi palesemente non sostenibili nel medio lungo periodo e i cui oneri gravano e graveranno sulle generazioni future. Basti pensare, tra i molti, al debito pubblico, al sistema previdenziale, ai costi connessi ai mutamenti climatici e al conseguente adattamento, alle rendite di posizione di caste e potentati economici o finanziari.
Una follia sotto il profilo scientifico, non essendovi apparentemente solidi appigli per costruire un modello che possa “misurare” in concreto il costante ritardo nel quale vivono i giovani chiamati a realizzare le loro aspettative e, lasciata la scuola, a entrare nel mondo del lavoro.
Una follia sotto il profilo giuridico, pensare che sia possibile scalfire la solida costruzione di diritti acquisiti da coloro che, più fortunati, hanno potuto beneficiare di decenni di crescita economica e di ricorso facile alla finanza. Diritti in difesa dei si è posta la Corte Costituzionale con numerose sentenze delle quali non tanto la legittimità, ma l’equità appare questionabile.
Una follia sotto il profilo politico, perché provare a porre sul tavolo il tema della solidarietà generazionale e conseguente ridistribuzione delle ricchezze è dai media considerato sconveniente e politicamente scorretto. I maggiori interessati, cioè i giovani, sono il larga parte politicamente inattivi e scarsamente consapevoli.
Ora, però si può dire che quel pizzico di follia è stato, in larga misura, premiato. Non è certo possibile affermare che è stata trovata la soluzione, o meglio le soluzioni possibili per ricostruire quel “contratto sociale” che vorrebbe ogni generazione lasciasse a quella successiva un mondo migliore o comunque non peggiore di quello da loro vissuto. Un contratto non scritto, che in nome dell’equità generazionale impone di preoccuparsi anche di coloro che, perché non ancora nati, non possono avere diritti sulla carta, ma devono averne nei nostri cuori.
Grazie agli spunti emersi da un’esperienza analoga maturata da qualche anno in Inghilterra con l’introduzione dell’Intergenerational Fairness Index (indice di equità intergenerazionale) e dalle rilevazioni dello Youth development Index (YDI) elaborato dal Commonwealth Youth Programme (CYP) in collaborazione con Institute for Economics and Peace (IEP), con un gruppo di colleghi e ricercatrici ho messo a punto un nuovo indicatore, chiamato Indice di Divario Generazionale (o GDI acronimo inglese di Generational Divide Index) frutto dell’esame di ventisette indicatori elaborati con serie storiche di dati provenienti da fonti istituzionali, tutti misurabili annualmente e basato sul concetto di generational divide (divario generazionale). Una definizione quest’ultima che potrebbe apparire paradossale e pure contraddittoria; soprattutto negli Usa questo termine è usato riferendosi alla forte propensione dei giovanissimi a fare ricorso a strumentazione e piattaforme elettroniche multimediali, assolutamente sconosciute ai propri genitori, qui invece non si prende in considerazione l’aspetto tecnologico ma quello economico e sociale, e in posizione di divide sono i giovani, non i più gli adulti. Un concetto, quello di “ritardo” che induce a considerarne anche i costi, sia in termini individuali sia sociali che i giovani dovranno sostenere.
Il termine divide è, a mio modo di vedere, molto appropriato, perché contiene in sé due elementi che bene circostanziano l’attuale difficile sfida che attende i giovani. Il primo elemento è il costo per recuperare il ritardo accumulato: l’essere in ritardo implica, infatti, degli sforzi addizionali per recuperare il tempo e il terreno perduto; sforzi che a loro volta generano costi maggiori, come, per esempio il ricorso a un mezzo di trasporto più rapido ma più oneroso.
Il secondo elemento è il rischio di non arrivare per tempo a prendere il treno/ opportunità che la vita ci offre. Un rischio che potrebbe quindi escludere dalla collettività un numero sempre maggiore di giovani.
Così il termine divide è qui utilizzato nella accezione di distanza dal percorso ideale e non invece come metro di paragone con lo standard di vita di differenti generazioni (in quel caso si parla di differenza o gap generazionale). Il confronto con gli indicatori di benessere di altre generazioni non è dunque il fine ma semplicemente un mezzo per misurare l’intensità del ritardo accumulato da una generazione che stenta a trovare la via.
Il set di indicatori individuato è dunque molto articolato e mette in relazione il tasso di disoccupazione giovanile, per dirne uno molto noto, al tasso di percezione dello stato di salute, per dirne uno meno noto, e va ben oltre quello utilizzato dal YDI e dall’IF sopra citati e il cui obiettivo principale è quello di comparare differenti realtà paese.
La costruzione del set di indicatori che ha condotto al GDI parte dunque da tre considerazioni. La prima è stata la necessità di dare maggior peso etico alla costruzione dell’indicatore di divario generazionale, grazie a una rifondazione degli elementi che possono/devono contribuire a un sereno e adeguato sviluppo delle generazioni più giovani, quelle, per intenderci, che sono nella delicata fase del ciclo di vita in cui prima ancora che le aspettative, sono le capacità e le vocazioni a essere coltivate. Quella fase in cui “si sviluppa” la maggior parte del capitale umano, cioè quel contenitore nel quale, se solido e capiente, andranno a sedimentarsi, mano a mano, le conoscenze e le esperienze che la vita riserverà a ciascuno. Da questo riesame, gli originari “domini” sono stati arricchiti da altre dimensioni, come quella dell’accesso al mercato, della domanda di mobilità e dal clima di legalità: valori senza i quali altri indicatori, come la spesa in educazione, la salute o la stessa occupazione avrebbero poco significato.
In particolare, relativamente all’accesso al mercato, si è voluto concentrare l’indicatore sulla disponibilità di credito da parte dei giovani e delle famiglie giovani (con capofamiglia under 35) Questo per due ragioni: la prima è che solo con un corretto accesso al mercato del credito è possibile “investire” nel proprio futuro pianificandone le tappe; la seconda è che il credito è uno dei principali volani per rilanciare i consumi.
La seconda considerazione attiene alla necessità di adeguamento della misurazione alle fonti istituzionali disponibili nel nostro paese. Il criterio adottato è stato quello di ricorrere a fonti primarie, come ISTAT e Banca d’Italia, che costituiscono la più attendibile piattaforma di dati e serie storiche. Solo dove non disponibili, si è fatto ricorso ad altre fonti.
Ne è sortita una batteria di indicatori e sotto-indicatori molto articolata che certamente non agevola la comparazione con altre realtà paese (che è lo scopo dichiarato degli indicatori IF e YDI), ma può essere considerato un valido strumento di misura per il nostro paese o realtà locali nelle quali si voglia verificare in concreto la sostenibilità intergenerazionale di un’azione di riforma o di un intervento specifico. E’ questa la terza considerazione a base dell’indagine, che ha l’obiettivo appunto non tanto di comparare, ma di misurare l’impatto di determinate azioni sul divario generazionale e provare a creare le basi per intervenire sul destino delle giovani generazioni che, aldilà dei già pur allarmanti dati sulla disoccupazione giovanile e sui Neet, impongono soluzioni tempestive e soprattutto “calate” nel contesto specifico.
Troppe volte, e questo è anche l’errore in cui spesso cadono anche gli amministratori di Bruxelles, si è pensato che una medicina possa andare bene per tutti i pazienti. L’impasse in cui si è venuta a trovare la Garanzia Giovani (strumento di politica attiva del lavoro per accompagnare i giovani) proprio nella sua fase di avvio in alcune delle regioni italiane più colpite dalla disoccupazione giovanile, ne sono la testimonianza acclarata.
Torna allora la domanda iniziale e cioè se non sia folle provare a misurare un complesso di situazioni che per loro natura sono difficilmente comparabili. Eppure, quel senso di dismisura che pervade molte testimonianze di giovani ai quali è pure negato il diritto di sognare una vita, ebbene proprio allora si è capito che dismisura non equivale a non misura. Una cosa è talmente lontana da non poter essere vista, ma non per questo non è detto non possa essere raggiunta.
Immaginando che un giovane normodotato possa percorrere una strada piana di cinque o sei chilometri in circa un’ora, dobbiamo presupporre che se la stessa è irta di ostacoli (muri, fiumi senza ponti, boschi ecc.) il tempo necessario possa dilatarsi sino, teoricamente, ad arrivare all’infinito se un ostacolo si dimostra invalicabile.
Così, il GDI non pretende di “misurare” quanto tempo sia necessario per raggiungere la meta, ma quanto alti sono gli ostacoli e quanto tempo sarà perso per superarli. Una specie di misurazione al contrario, che, infatti, abbiamo chiamato “ritardo” generazionale.
E’ stato così possibile cominciare a misurare l’aggravarsi della situazione generale nei confronti delle giovani generazioni e in modo inaspettato, scoprire che questo indicatore “peggiora” molto di più dell’economia nel suo complesso. Un indicatore che, questo è un altro fattore importante, ha iniziato a sancire il declino delle giovani generazioni ben prima dell’avvento della attuale crisi.
Fatto 100 il 2004 dunque, ecco come il ritardo aumenta negli anni che seguono, con maggiore intensità dall’avvento della crisi. Nel 2012, ultimo anno di rilevazione con tutte le fonti disponibili per costruire gli indicatori prescelti, questo indice è salito a 135. Lo stesso, seguendo delle previsioni attendibili e presupponendo non intervengano correttivi agli attuali trend, sale a 171.
Immaginiamo che se un giovane di 24 anni nel 2004 avesse impiegato 10 anni per acquisire un lavoro sufficientemente redditizio, l’acquisto, ancorché con mutuo di una casa e costituirsi una vita autonoma da quella della famiglia di provenienza, lo stesso giovane, nel 2020 ci metterebbe 17,1 anni in più. Cosa non da poco, dire a un giovane che sarà “grande” solo ultraquarantenne.
Possiamo però immaginare che la misura del GDI non sia temporale ma spaziale e dunque proviamo a pensare allo stesso giovane di 24 anni che sulla sua strada si trova un muro alto 1 metro. Se si tratta di un giovane normodotato e in salute, con un po’ di fatica e inventiva riuscirà a superarlo. Ma se il muro diventa di 135 cm., solo i giovani “atletici” riusciranno a farlo. Questo significa che un certo numero di giovani non arriverà mai all’obiettivo. E se il muro è alto 171 cm., solo un atleta vero e proprio riuscirà a saltarlo. E gli altri? Ci riuscirà soltanto chi potrà contare su un amico che gli faccia da scaletta, e qui entra in gioco il familismo e in taluni casi estremi la devianza. Dunque chi non ha un amico o non vuole scendere a compromessi, rimarrà al di qua del muro.
I milioni di giovani Neet italiani testimoniano che sono sempre di più quelli che si trovano in questa triste situazione. Il GDI non porta però solo le brutte notizie perché, se è vero, come dicevo, che questo indicatore non ci indica ancora la soluzione, esso è in grado di verificare la bontà o meno di una politica o di una soluzione proposta per uscire dalla crisi e cioè per abbassare il muro o accorciare il tempo per raggiungere la meta, come si preferisce vederla.
Volendo fare ancora un paragone con la Medicina, potremmo affermare che il GDI non è l’antibiotico, ma il termometro che misura la febbre e che, somministrata una qualsivoglia cura, permette di stabilire se l’infezione in corso è sedata o meno.
Continuando dunque con una buona dose di follia bisogna quindi sperare che ora avvenga un miracolo, cioè che questo nuovo indicatore diventi di dominio pubblico ed entri a far parte del dibattito politico e poi, anche nell’azione politica.
Ci sono pagine e pagine di giornali che discutono di spread tra i nostri buoni del tesoro e quelli tedeschi e spagnoli; la folle speranza è che ora si mettano a discutere anche di come e perché dalla crisi bisogna uscire senza sacrificare un’intera generazione. Con la speranza che il GDI sia il termometro della guarigione di una collettività che dall’equità generazionale deve saper ripartire.

Bibliografia

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MONTI L.(a cura di), Divario Generaziole. Il senso della dismisura, Ricerche Comitato Scientifico Fondazione Bruno Visentini, Alter Ego edizioni, 2015

Alcune considerazioni sulla «potenza» della prassi politica. La fragilità del presente e il blocco del passato.

Questo breve contributo intende partire da un passaggio importante dell’intervento di Bruno Montanari in cui egli ci spiega che «la frantumazione del legame sociale nel suo complesso è il prodotto più ravvicinato, nella sua attuale visibilità, della destrutturazione della temporalità nella mentalità dell’uomo comune», e auspica «la ri-proposta della temporalità storico-esistenziale nella mentalità della gente comune». Per elaborare una risposta soddisfacente a tale ordine di questioni, può essere utile riflettere sul rapporto problematico che intercorre tra la politica intesa come «potenza» (la pura potenzialità di un passato ancora irrealizzato) e il suo esercizio storico nella decisione risolutiva presa da parte di un leader. Entro tale contesto, il conflitto politico viene ad assumere un ruolo decisivo, proprio in ragione della coincidenza storica fra una certa prassi politica (ad esempio quella rivoluzionaria) e la potenzialità insita nel passato. Nei suoi momenti più celebri, la storia della filosofia politica mostra chiaramente come la dinamica del conflitto sia potuta diventare una vera e propria «arte» nel significato classico del termine: una tékne, un sapere pratico, proiettato, nel suo «valore d’uso» descrittivo o normativo, sulle esigenze e contraddizioni del presente, il quale, non sempre, è il risultato (effettuale, in senso hegeliano) del passato. Nel quadro storico segnato dalla Rivoluzione scientifica moderna, Machiavelli porta avanti una linea investigativa dell’ontologia sociale in termini prettamente naturalistici, orientata a definire le modalità in cui l’organismo politico può efficacemente conservare ed estendere il proprio potere entro una condizione di permanente concorrenza ostile tra i soggetti. D’altronde Machiavelli, nelle sue riflessioni politiche, deve molto a Lucrezio. Se è vero che il desiderio di conquista cresce attraverso le passioni asociali quali l’invidia, l’ingratitudine e l’infedeltà, vediamo che nell’indagine di Machiavelli la natura umana viene a delinearsi come una relazione di reciproca sfiducia tra simili, relazione che riporta al centro del dibattito politico attuale il problema dei limiti del potere, come è possibile evincere, ad esempio, dalle considerazioni del Segretario fiorentino su Girolamo Savonarola, concepito certamente come un grande politico, ma nello stesso tempo come un uomo dalla debole capacità di imporsi. Vediamo così che nella lotta infinita per l’autoconservazione dell’organismo biologico è già inscritto il desiderio di ordine e la ricerca di un agire efficace per il conseguimento del potere decisionale sui propri simili. Ciò è confermato dall’uso che fa Machiavelli della terminologia medico-biologica dell’epoca (addirittura, quando non basta la legge, il principe deve comportarsi come una bestia), in special modo della teoria degli umori come l’odio, la paura, l’invidia o l’ambizione. Dopo le conquiste teoriche di Galileo e Descartes, Hobbes concepisce l’uomo in modo meccanicistico e mostra la condizione generale che verrebbe a realizzarsi tra gli uomini (il bellum omnium contra omnes) qualora venisse ritirato dalla vita sociale ogni organismo politico di controllo. Con l’esplodere della guerra civile (1642-1651) Hobbes sente infatti come imminente la fine della sovranità. Per ottenere il rispetto delle leggi naturali e per sottrarsi alla condizione di guerra permanente è necessario l’uso della forza, la quale può derivare soltanto dalla creazione di quell’«uomo artificiale» o «Dio mortale» che è il Leviatano. La ragione che spinge gli uomini a farsi sudditi del sovrano è dunque il fine della protezione: «The end of obedience, scrive Hobbes, is protection». Una siffatta tendenza, tipica della filosofia politica moderna, a ridurre l’agire statale ad un’affermazione strategica e strumentale del potere come decisione risolutiva di un’autorità, è stata messa in discussione da Rousseau e, più in particolare, da Hegel.
Rousseau compie una «cesura antropologica» utile a spiegare il passaggio dall’amour propre all’amour de soi e finanche all’io sociale, ovvero ad un modello di alterità dipendente da interessi immediatamente coincidenti con quelli della comunità. Nella vita comunitaria, infatti, l’abisso incolmabile tra «essere» e «apparire» viene in qualche misura colmato dal bisogno di identità intesa come sinonimo di autenticità. Rousseau intende pertanto legittimare il contratto pensando la condizione di «alienazione totale» di ciascun singolo individuo nella comunità non come il risultato di una repressione secca dell’amour de soi (la quale determinerebbe solo lo scatenarsi del potere distruttivo dell’amour propre, del gretto egoismo che giustifica l’autoritarismo del decisore), quanto come l’effetto automatico di una sublimazione non repressiva del più originario amour de soi. Riprendendo le parole di Rousseau, al posto della singola persona di ciascun contraente, quest’atto di associazione politica dà la vita a un «corpo morale e collettivo» e da questo stesso atto tale corpo riceve la sua unità, il suo «io comune», la sua vita e la sua volontà. Si tratta pertanto di convertire, attraverso la dinamica del riconoscimento declinato nella modalità dello «sguardo» che valuta e stabilisce cosa sia la stima, l’amour de soi individuale in amour de soi sociale, per poter declinare nell’apprezzamento pubblico gli effetti corrosivi, conflittuali e patologici di ogni amour propre lasciato a se stesso. Concentrando l’attenzione sulla dinamica del «reciproco riconoscimento», Hegel, soprattutto nel periodo di Jena, fonda la storicità del soggetto, lo fa emergere e lo istituisce nella sua identità processuale, ponendolo in rapporto problematico con una potenzialità insita nel passato storico depositato nell’Erinnerung, nel ricordo. Hegel spiega il conflitto come un meccanismo di socializzazione, sviluppando una sorta di «contro-critica» teorica al modello di Hobbes. Come mostra bene Kojève, con il concetto di lotta per la vita e per la morte nella dialettica di signoria e servitù, Hegel ha connesso la possibilità della vita e della libertà individuale alla condizione della certezza anticipata della propria morte. Se il «merito» di Rousseau, lo si è appena visto, è stato quello di aver stabilito come principio dello Stato la volontà, secondo lo Hegel dei Lineamenti di filosofia del diritto l’«errore» di Rousseau sta nel considerare la volontà soltanto nella forma determinata della volontà singola e la volontà universale non come il razionale «in sé e per sé» della volontà. Secondo Hegel l’unione vivente degli individui è il vero fine, e non può essere abbassata ad un mezzo di realizzazione dei loro interessi particolaristici. Entro questa cornice, il concetto di Bildung riveste un ruolo centrale: occorre formare la «società civile» (che secondo Hegel è la «palestra dell’individualismo») attraverso la liberazione del lavoro e dal lavoro, contro ogni tendenza orientata all’«omogeneizzazione», proprio nel significato che a questo concetto ha voluto attribuire Charles Taylor. Se allora ci rivolgiamo a Marx, vediamo che, nelle società di massa, il problema del mutamento sociale, culturale, economico e politico assume contorni sempre più precisi. A tal proposito, Wendy Brown, nel suo volume La politica fuori dalla storia, richiamandosi tra l’altro alle analisi di Derrida in Spettri di Marx, mostra come il suo spettro sia in realtà un revenant, ciò che ritorna da un passato più che remoto e immemoriale, che passa dalla porta dell’avvenire come il fantasma del materialismo storico e dialettico, e che ci impone di tenere in dovuta considerazione le sue imprevedibili manifestazioni.
Non è un caso che, proprio a cavallo tra Otto e Novecento, un outsider della filosofia come Nietzsche, il quale considerava Kant ed Hegel degli «operai della filosofia», abbia scritto che «per ogni agire ci vuole oblio», giacché un eccesso di memoria paralizza l’azione e blocca il futuro, e abbia potuto parlare dell’arte come di una Gegenbewegung, ossia di un «contromovimento». Certo, nel passaggio storico e teorico dalla modernità alla ipermodernità, il conflitto si è indissolubilmente legato non solo alla genealogia e alla metamorfosi del potere in quanto potenza (inteso appunto come una pura potenzialità insita nel passato), ma anche all’atto della sua visibilità nel «qui ed ora» della decisione presa da parte di un leader. A tutt’oggi il problema consiste nel fatto che ogni decisione risolutiva deve misurarsi con un dato talvolta inemendabile: il riversarsi del passato in blocco sul presente, proprio nei casi in cui le sue potenzialità non sono state ancora pienamente attuate. L’indagine della potenza, anche nell’accezione nietzschiana, consente pertanto di verificare come la politica sia, ancora oggi, il «luogo privilegiato» in cui il passato storico continua a riversarsi in blocco sul presente. Ciò è ben esemplificato dalla lettura del concetto bergsoniano di «pura durata» come storia da parte dello storico francese Henri Berr, il quale, a sua volta, influenzò i due fondatori e primi direttori delle Annales d’histoire économique et sociale, Marc Bloch e Lucien Febvre. Occorre dunque rinforzare l’azione politica collettiva dilatando il presente tanto verso il futuro che verso il passato, senza fare tabula rasa della memoria. Perché il conflitto, essendo vincolato al corpo del potere come sua potenzialità esclusiva, è ancora pervasivo della nostra dimensione politica su più livelli: economico, culturale, estetico e normativo. Se il potere possiede, nella sua «attuosità», un corpo che facilita la rappresentazione biopolitica della sua forza (attraverso la quale si generano altri corpi che ne riproducono fatalmente le logiche), occorre allora fare largo a una pratica del «convivere», nel significato dato a questo termine dal sociologo contemporaneo Alain Caillé. L’«arte del vivere insieme» deve poter enfatizzare il «noi» piuttosto che l’«io», ovvero un modello di relazione comprensivo delle potenzialità di ciascuno. Certo, se è vero che il conflitto è plurale, la riflessione filosofica intesa come praxis, non può mai venir meno al suo compito normativo (questo aspetto lo mette bene in chiaro, tra l’altro, Jacques Rancière) di accogliere la difficoltà, l’aporia o il «disagio» della politica. È proprio rilanciando una concezione «alta» della giustizia secondo la sua matrice platonica e aristotelica che la filosofia può e deve ancora oggi interrogarsi sul disaccordo che, come una ferita mai cicatrizzata, continua a infettare il corpo politico. Ferita «antisocratica» per eccellenza che in molti luoghi della storia è replicata da individui tiranni subordinati alla legge della forza, i quali seguono il principio trasimacheo esposto nella Repubblica platonica, secondo cui «il giusto è la volontà del più forte» che è chiamato a decidere, tagliando di netto con la potenzialità insita in ogni passato plurale ancora irrealizzato. Attualmente, giacché tutta la società è investita da una «deriva signorile», il potere è divenuto più facile da conquistare ma più difficile da esercitare e più semplice da perdere. Sulla base di questa consapevolezza, siamo tutti chiamati a compiere una vera e propria «resa dei conti» col presente della società di rete, con le forme svariate della politica mediatica globale che plasma la mente del pubblico, a volte neutralizzando, a volte fomentando il conflitto, mettendo seriamente in crisi la legittimità della politica democratica dei partiti ereditata da due secoli di guerre e battaglie politiche. La crisi resta dunque «aperta» nel futuro del presente come lo è stata nel passato del presente, ponendo la democrazia dentro la dissociazione sistemica tra potere della comunicazione e potere rappresentativo. È in questa «dissociazione» che si apre lo spazio critico della riflessione non solo per lo scienziato sociale ma soprattutto per il filosofo politico.

Alcuni riferimenti bibliografici

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Rousseau tra i giureconsulti e i giusnaturalisti moderni

ROUSSEAU TRA I GIURECONSULTI ROMANI E I GIUSNATURALISTI MODERNI

Intorno alla Préface al Discorso sull’ineguaglianza

di Mario Reale

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Si ringrazia G. Astone per la digitalizzazione del testo.

La Ricerca del Centro

La Ricerca del Centro
Politica e Finanza

Lo spunto offerto dall’amico Montanari col suo Osservatorio è di grande stimolo per alcune riflessioni che possono aprire un utile dibattito su un problema di attualità molto sentito da tutti.

Lo sviluppo di un welfare molto avanzato nel corso della c.d. Prima Repubblica, si reggeva su uno sviluppo economico basato su aiuti interni ed esterni  a tutta l’attività produttiva del Paese.

Tale sviluppo era per lo più costruito sul debito pubblico che via via lievitava a dismisura. Nessuno ci imponeva allora  “i compiti a casa” , eravamo padroni di noi stessi e potevamo manovrare a nostro piacimento le leve della politica economica del nostro Paese : la leva di spesa, quella monetaria e  quella delle entrate. Col passaggio, prima dal MEC alla UE e, poi, all’EURO, ci siamo spogliati della politica monetaria, abbiamo accettato limiti rigidi di spesa e ridotto la possibilità di operare dal lato delle entrate. Sostanzialmente vi è stata una vera e propria cessione, sia pur parziale, ma certamente significativa, di sovranità ad un organismo, la UE, che non ha specifica sovranità costitutiva sugli Stati membri, perlomeno nella forma, ancora sovrani.

Non può destare, quindi, sorpresa alcuna che nel deficit di potere dell’organismo composito lo Stato più forte si arroghi di fatto poteri di rappresentanza che non ha, che mai alcuna base elettorale ha conferito, bensì poteri di rappresentatività.

Nella impossibilità di attuare una vera e propria politica economica a tutto tondo, non vi è dubbio alcuno che le forze politiche trovano nei limiti della situazione, da un lato, l’emergere della logica dello Stato più forte e, dall’altro lato, il farsi avanti di poteri non elettivi, in specie quelli finanziari, che condizionano sensibilmente le politiche economiche e di bilancio degli Stati.

Tale situazione, si badi bene, è stata creata da molti di coloro che ancora occupano posti di potere politico con qualcuno che comincia a dimostrare però qualche ripensamento e, addirittura, fa finta di non essere mai stato partecipe e corresponsabile di tale processo. Se approfondite il motivo per il quale il parametro deficit/pil fu determinato al 3% o il cambio lira/marco quasi al doppio del valore, nessuno vi saprà dare una spiegazione economica esaustiva. Eppure ci siamo “impiccati ” a tali parametri come sacri dogmi indiscutibili. Guai a chi osa mettere in discussione tale “verità rivelata”. La grande depressione nella quale tutti, chi più o chi meno, ci troviamo è la prova lampante della crisi dell’intero sistema. Parlare di revisione dei parametri e dei trattati è atto di lesa maestà nei confronti di un sistema burocratocentrico in salsa teutonica.

Di fronte alle logiche puramente contabili, crollano gradualmente l’economie dei Paesi e le loro attività produttive  e, quindi, diminuendo il gettito da valore aggiunto, anche la tenuta dello stato sociale.

Prendono il sopravvento le logiche individuali e gli egoismi di classe, o meglio, nel nostro caso, gli egoismi corporativi. La Politica così come l’abbiamo vissuta, quale impegno sociale e partecipazione, resta mero esercizio di potere, business per chi vive di questo. Se sono impossibilitato a partecipare perché il mio voto non decide nulla nemmeno sul bene costituzionale più caro, la Sovranità Popolare, perché occuparsi di simili questioni?

È evidente che sto affrontando a spanne argomenti che richiederebbero ben altra trattazione,  ma non è questa la sede.

Ed allora, tornando al problema che ci siamo posti e trattandosi di un luogo il cui nome, Filosofia in Movimento, non può prescindere dall’Uomo, occorre porsi una domanda alla quale prima o poi tutti i Paesi della pseudo Unione non potranno sfuggire: dobbiamo porre al centro dei sistemi politici l’UOMO o il bilancio, la finanza, il capitale, il profitto, l’interesse particolare di Stati e poteri?

Possiamo, o meglio potranno, anche eludere tale domanda, ma i fatti e la storia gli saranno avversi.

Se la risposta è l’UOMO, né discendono analisi e soluzioni diverse da quelle sino ad oggi considerate e praticate. Ricordate nella Storia qualche nazione che ha pagato l’intero debito accumulato? No, vero ne sia che la stessa pseudo Unione lo sa bene tanto da aver stabilito di riportare il deficit debito/pil non a zero ma al 60%.

Se si vuole tenere conto dell’uomo occorre più elasticità. Le vere riforme non sono quelle che deprimono le economie dei Paesi e distruggono vite e speranze, ma quelle che rivedendo tale assurdo modo di procedere trasformino l’ Unione contabile finanziaria in Unione politica Umana.

Diversamente non ci sarà un futuro di prosperità e allora addio giustizia sociale perché non più sostenibile.

Non dico che non si debba tener conto della finanza e dell’economia, sarebbe utopico, ma certamente si è rotto un equilibrio tra l’uomo e i suoi strumenti di vita, che va ristabilito. Si sono invertiti i valori: l ‘Uomo non più padrone degli strumenti ma questi, in mano a pochi, padroni dell’Uomo. E ciò è stato possibile grazie alla miopia di forze politiche che praticano il garantismo delle politiche contabili tese a garantire certi ambienti finanziari e predicano la giustizia sociale. Occorre spendersi per il benessere dell’uomo, partendo dalla dignità del lavoro, cui il nostro costituente ebbe l’ambizione di porre quale evento fondante della nostra comunità.

Senza tali obiettivi, prenderà il sopravvento l’oligarchia e non la democrazia, l’autoritarismo sulla libertà, la disoccupazione sul lavoro e, nella sostanza, quella forma politica che da alcuni viene definita, con felice neologismo, la “democratura”, dittatura travestita da democrazia.

Osservatorio

di 
Bruno Montanari

Episodi recenti: politiche greche e del Regno Unito; regionali italiane e spagnole. Evaporazione della democrazia parlamentare, astensione su larga scala, radicalismi anti-europei e genericamente “antagonisti”. In breve: la “pancia” vince sulla “testa”.

L’analisi ormai è chiara e diffusa: il potere delle centrali finanziarie produce un potere tecnocratico che si sovrappone, dominandolo, all’intero ambito della sfera del “politico” tradizionalmente inteso. Occorre però aggiungere che il principio fondante tale “dominio” non coincide solamente con il disinteresse per la politica e per i progetti di crescita sociale, ma consiste in un interesse contrario. Mira, cioè, all’annientamento del “politico”, così come si è costruito nel Secondo Novecento, con la stabilizzazione delle democrazie parlamentari, attraverso l’istituzionalizzazione dello “Stato sociale”.

Con espressione sintetica: l’ “effettività” del potere finanziario si fonda sull’ “ineffettività” della politica.

Il pragmatismo politico, succeduto alla stagione dell’ideologismo, si è trasformato, nell’epoca della globalizzazione finanziaria e tecnocratica, in un affarismo di sistema, indifferente al colore politico, ed in un lobbismo che permea trasversalmente la vita stessa delle istituzioni. Ricaduta, questa, sul piano operativo, della mentalità nella quale si sono formate, negli anni ’90, le generazioni che oggi occupano lo scenario pubblico.

Se si sposta questo quadro dal piano della “macrofisica” della globalizzazione a quello della “microfisica” della vita quotidiana, la dominanza dei poteri finanziari si alimenta e si consolida proprio in forza del conseguente radicarsi e diffondersi, nella mentalità dell’uomo comune, della “ineffettività” della politica sotto forma di idea della sua “inutilità”. Individualismo ed inaffidabilità, diffidenza nelle relazioni umane, antagonismo intergenerazionale, chiusura dei ceti, corruzione eretta a sistema… in breve: frantumazione del legame sociale. E di tutto questo le generazioni che oggi hanno vent’anni mostrano lucida comprensione, che genera però, come uniche reazioni, solitudine ed impotenza progettuale.

Da un punto di vista “filosofico”, al di sotto di quello che ho definito principio fondante del potere finanziario vi è un “principio” ancora più profondo e che ha del “demoniaco”: il dominio dell’uomo sul tempo, realizzatosi con il’ “culto” dell’ istante, che destruttura la sequenza temporale passato – futuro, la quale, invece, è condizione e misura della possibilità stessa del progettare umano nel presente.

L’istante (sotto la forma comune di una temporalità ridotta a simultaneità, a momento, a qui e ora) prende il posto, in modo subliminale ed inavvertito, della  temporalità esistenziale e storica. La “percezione”, nell’uomo comune e nella comunicazione pubblica, si sostituisce al “ragionare”. L’impatto alla riflessione.

Infatti.

La “scommessa monetaria” vive del calcolo sull’immediato e del risultato che deve essere altrettanto immediato; al contrario, il “politico” si nutre della conoscenza, della critica e della elaborazione intellettuali. Si nutre, cioè, di passato e futuro nello snodo del presente. In breve: La “scommessa monetaria” ha il suo principio costitutivo nell’istante, al contrario il “politico” si nutre della temporalità storico – esistenziale, che si realizza nel produrre un’“opinione pubblica” ed una progettualità, capace di dare forma ad una società, come pluralità di idee ed unità di appartenenza.

In sintesi.

La frantumazione del legame sociale nel suo complesso è il prodotto più ravvicinato, nella sua attuale visibilità, della destrutturazione della temporalità nella mentalità dell’uomo comune: dall’assenza di un’opinione pubblica, con capacità critica, alla incapacità di elaborazione di un pensiero argomentato ed articolato, all’affermarsi della “pancia”; in breve dai twitter ai sondaggi, l’ambiente umano appare appiattito su di una orizzontalità priva di confini, dove ogni realtà è significativa solo se è assertiva, asciutta, ed esiste solo nella sua icastica immediatezza di azione – reazione.

Come uscirne?

Difficile rompere una stratificazione del vivere comune fatta di acriticità, individualismo, diffidenza, antagonismo generazionale.

Provarci, in pratica, significa incidere, ribaltandoli, proprio sugli aspetti del vivere comune appena nominati e quindi: rilancio del “pensiero critico”, associazionismo di base, affidabilità interpersonale, rispetto tra le generazioni mediante la trasmissione di un sapere formatosi attraverso una diversa e forse più culturalmente ricca esperienza esistenziale.

In definitiva, provarci significa fronteggiare la logica dell’ “istante” con la ri-proposta della temporalità storico-esistenziale nella mentalità della gente comune.

Pensando soprattutto ai ventenni di oggi.

Nichilismo e insorgenza nell’analisi hegeliana del divenire

di
Rosario Gianino

Il testo che segue è il risultato di una lettura della Scienza della Logica di Hegel, ed in particolare delle analisi dedicate alla categoria del “divenire”, che si trovano nel libro, sezione e capitolo, primi dell’opera[ref]Scienza della logica, G.W.F.Hegel, trad. Moni, rev. Cesa, Laterza, Bari 1988, tomo primo, pp. 71-102.[/ref].

1.

Per cominciare richiamiamo l’attenzione del lettore di queste pagine sul doppio statuto che la negatività insita nella categoria del divenire viene ad assumere nella teoresi del nostro autore.  Questa lettura individua due negazioni attive nel divenire. Nel divenire abbiamo il nulla. Questa è la prima negazione. Ma abbiamo anche l’annullamento del nulla. Questa è la seconda negazione. La lettura cerca di mostrare come questa doppia scansione all’interno del testo del filosofo di Stoccarda permette di ordinare la direzione ed il senso del processo dimostrativo messo in opera nella trattazione del divenire.

2.

Nel divenire hegeliano abbiamo una negazione immediata: l’essere che insorge nega il nulla; l’essere che sparisce si nega. Così inteso, il divenire, in cui l’essere insorge “dal” nulla e sparisce “nel” nulla, si costituisce in forza di una negazione immediata dell’essere: il nulla da cui l’essere insorge e lo stesso nulla in cui l’essere sparisce. L’analisi del divenire hegeliano però non finisce qui. La negazione immediata dell’essere è contraddittoria. Essa implica l’unità contraddittoria di essere e nulla: implica che essere e nulla siano lo stesso. Implica quindi che questo rapporto tra essere e nulla, non sia un rapporto possibile e che ad iniziare e a finire siano l’essere ed il nulla insieme. Nel divenire, come insorgenza dell’essere dal nulla e sparizione dell’essere nel nulla, è lo stesso essere che è nulla che insorge per sparire. Dunque la negazione immediata dell’essere, si determina essa stessa come nulla che nega se stesso contraddittoriamente. Il divenire costituendosi attraverso la negazione immediata, allo stesso modo attraverso questa negazione immediata si determina come nulla, in forza della sua contraddizione annichilente. Se il divenire che insorge e sparisce si autosopprime, la sua determinazione, la sua destinazione, è quella di lasciar dischiudere l’esserci, il qualcosa che non è altro. Nel divenire c’è qualcosa che diviene. Ed il qualcosa che diviene, insorgendo e sparendo, non si annichila ma si altera. Provenienza e destinazione del divenire non sono più il nulla del moto insorgente e dissolvente, ma il qualcosa ed il qualcos’altro della mutazione.

A quale condizione si può fare del nulla, dell’indeterminato, un qualcosa, un determinato ? Non immediatamente per la relazione tra essere e nulla come si costituisce nel divenire nel senso del flusso (Fluss) fluente del movimento. Tanto è visibile la fluidità del movimento, quanto la contraddizione è invisibile. Solo a condizione che la relazione immediata del divenire possa venir rapportata a se stessa, possa rapportarsi a se stessa, si rivela la contraddizione dell’immediatezza. Allora la negazione immediata si rovescia in negazione determinata. E nella sua autorelazione la fluidità del movimento diventa il mutamento di qualcosa. Il Nulla è nulla, quindi sparisce esso stesso, solo se può esser riferito a se stesso da qualcosa d’altro che non è nulla ma che tuttavia vi si include (il qualcosa che diviene) includendolo (il divenire di qualcosa).

2.

Si è visto come la categoria del divenire contenga un rapporto differenziale immediato e indeterminato, quello che astrattamente viene fissato dalla contraddizione tra essere e nulla.

Se tale relazione è contraddittoria, allora impedisce lo stesso rapporto e la stessa differenza, la stessa relazione tra i due termini. Così la relazione differenziale tra essere e nulla, assume il carattere negativo della contraddizione (Widerspruch). Tuttavia per Hegel la stessa impossibilità contraddittoria di una relazione tra essere e niente, se pensata in rapporto a se stessa, cancella l’astratta fissazione dell’essere e del nulla come opposti e diversi. Quindi la contraddizione tra essere e nulla, nel suo risultato nullificante, come appare solo ad un divenire capace di autorelazione, in Hegel, non ostacola e rende impossibile il divenire, quanto piuttosto consente che accada qualcosa come un “transito/passaggio/oltrepassamento” (Übergang), un “movimento”(Bewegung).

Nel divenire, insorgenza e sparizione rendono possibile come un “attraversamento” del nulla, l’apertura di un “valico” verso il qualcosa e l’altro. La differenza, ad un tempo astratta, immediata e indeterminata, di essere e nulla, che risulta contraddittoria e quindi irresolubile e incomprensibile[ref]dieser Widerspruch, den man selbst setzt und dessen Auflösung unmöglich macht, heißt das Unbegreifliche. Per il testo tedesco: Wissenschaft der Logik, Erster Teil, G.W.F. Hegel (EBook #6729), The Project Gutenberg, Posting Date: November 9, 2012, Release Date: October, 2004 First Posted: January 20, 2003; Epub con immagini scaricabile qui: http://www.gutenberg.org/ebooks/6834 , p.156-167.[/ref], è da Hegel pensata, proprio nel rispetto delle regole logiche (logische Regeln),  nell’unità antinomica del risolversi reciproco dei termini contraddittori, unità in cui i diversi precipitano nello “stesso” (selbst) e vanno pensati in quel punto della loro coincidenza in cui la loro differenza indifferenziandosi,  si annulla e sparisce[ref]ein Punkt enthalten, worin Seyn und Nichts zusammentreffen, und ihre Unterschiedenheit verschwindet. Ibidem p. 117-118.[/ref]. La contraddizione distrugge i termini contraddittori, e distruggendo i termini annulla l’impossibilità stessa del loro rapportarsi reciproco. In forza della stessa contraddizione astratta l’immediato si determina come indeterminato e indifferenziato. Così l’immediatezza trova nell’astrazione il modo di rapportarsi alla propria indeterminatezza.

3.

In rapporto a tale duplicità del negativo contraddittorio, da una parte indifferenziante e indeterminante, dall’altro determinato e determinante, il divenire mostra il suo doppio volto, da un lato mutamento metamorfico e dall’altro moto insurrezionale. Nella consapevolezza della natura del divenire, lo stare in relazione al cambiamento, al volto progressivo del divenire, non può prescindere dallo stare in rapporto al lavoro catastrofico della distruzione. Questo sarebbe il doppio statuto che la negatività insita nella categoria del divenire viene ad assumere nella teoresi hegeliana. Hegel sempre sottolinea il momento essenziale, per la logica e il sapere, della contraddizione come negazione determinata, e quindi relativa ai termini che nullifica. Eppure la contraddizione è e rimane, basicamente, negazione immediata e astratta.

4.

Prima di svolgere ulteriormente la macchina della negazione nel suo doppio statuto di annientamento e autodeterminazione, all’interno della categoria del divenire, si vuole indicare il campo concettuale vasto e trasversale che una lettura delle nozioni di “immediatezza” e “astrazione” può far emergere in relazione ad una complessiva interpretazione della filosofia hegeliana.

5.

“Astratto”. Come dire il separato, l’isolato, l’estratto da un contesto e posto nella sua unilateralità in qualche modo prodotta e tenuta ferma, fissata nel risultato di un processo. Dunque “astratto” è termine di una elaborazione che è stata resa possibile da un movimento di separazione, di astrazione. L’astratto collocato nel suo contesto di astrazione, non sarebbe più tale, mentre laddove quel contesto sia stato dimenticato, sia precipitato nell’oblio, allora l’astratto manterrebbe di diritto questa sua denominazione che lo significa come separato dal processo stesso di separazione, che pure ha agito da forza propulsiva e insorgente per produrlo. L’astratto, l’intero mondo delle categorie intellettuali che nella logica egheliana vengono esaminate, si presenta come tale a motivo di una sorta di assenza di memoria, di un’incapacità di ricordare, che affetta la consapevolezza intellettuale, riducendone la dimensione cognitiva, che non saprebbe ricondurre le categorie al processo della loro insorgenza nel divenire.

5.

Aver coscienza dell’astrazione, (Abstraktion), si può solo dove sia altrettanto forte la memoria (Erinnerung). Che rapporto intrattengono la Scienza e la Logica con l’astrazione? Astrarre è una risorsa del soggetto, come lo sono sia la Scienza sia la Logica. Il soggetto, al di là di una sua decodifica meramente antropologica o psicologica, costituisce la sfera del proprio sulla base del potere che irradiando da un centro mantiene attiva la sfera di appropriazione, in equilibrio vantaggiosamente asimmetrico o unilaterale con l’esteriorità, con l’ alterità, e più radicalmente con la propria distruzione. Ora l’astrazione è un potere che esercita una vera attività, secondo il dettato hegeliano: il potere (Können) dell’astrazione sarebbe inteso come “attività del niente”[ref]das Thun des Nichts. Ibidem p. 149.[/ref],  come “l’unilaterale attività del negativo”[ref]das einseitige Thun des Negativen. Ibidem p. 149.[/ref].  Tale potere viene specificato da Hegel come capacità di ridurre all’indifferente (gleichgültig), che qualcosa sia o non sia, che l’essere o il nulla stessi sparisca (verschwindet) o sorga, (entsteht). Abbiamo dunque, in questa asserzione hegeliana, l’attestazione di quell’impostazione secondo cui astrarre e cioè rimaner indifferenti all’essere o al non essere, e quindi potere e sapere agire in modo da annullare l’essere e dare un essere al niente, sarebbero prerogative del costituirsi di un centro di potenza, o ancora prerogative e tratti dell’attiva soggettiva autocostituente. Agire per negare l’essere e per negate lo stesso nulla dell’essere, sarebbero condizione di possibilità di una capacità (Vermögen) autopoietica. Il soggetto, cioè ogni centro di potere e di attività assoggettanti, dominanti e unilaterali, si affermerebbe in base a processi di astrazione  progressiva dal contesto dinamico del suo divenire, in cui sconterebbe il nulla immediato del proprio essere insorgente e finito. Proprio agendo negativamente non solo sull’essere ma anche e soprattutto sul nulla dell’essere, il soggetto si edificherebbe come centro di riferimento di ulteriori relazioni e dinamiche possibili. Le categorie logiche astratte, in quanto risultato del processo di elaborazione esperienziale autocentrata e autoriferita, sarebbero le forme del agire soggettivante, insieme documento e strumento di autoaffermazione, quindi di lavoro. Ogni ordinamento formale logico astratto, sia esso finito, empirico o speculativamente assoluto, avrebbe a che fare con l’esercizio di un agire  negativo autoreferenziale, di un agire negante che nega l’immediata nullità del proprio essere. Dunque questo lavoro di soggettivizzazione si caratterizzerebbe nel suo fondamento come capacità riflessiva di rapportarsi negativamente alla negazione immediata che si è, in modo che grazie a questo agire riflessivo ci si possa insediare in quel punto d’indifferenza in cui il nulla si rovescia in positiva affermazione di qualcos’altro. Questa impostazione hegeliana è stata sottolineata ripetutamente dagli interpreti. Ciò che qui si vorrebbe intravedere e si cercherebbe di ribadire è che in tale autorapporto soggettivante, la negazione determinata e relazionale si rapporta sempre ad una negazione più basica e immediata, ad una cancellazione. Essere soggetti è poter astrarre, ossia agire il negativo, rapportarsi alla propria cancellazione, negandola. Esser soggetto di sé stessi: negare il proprio nulla.

6.

L’ “immediato”, come l’astratto, è l’isolato. Esso è l’irrelato, ciò che ancora non è preso in un rapporto determinante e unilaterale, e quindi non è collegato, connesso, dipendente o condizionato, complementare ad altro. L’immediato è ciò che ancora non funge da medio, che quindi non media, ed in cui non si media, che non elabora e non lavora, ed in cui non si elabora e non si lavora, che non documenta in alcun modo una capacità ed un potere soggettivanti. L’Immediato, lasciato in tale abbandono o anche pensato e oltrepassato in tale bando, è la pura indifferenza dell’essere dal nulla, il radicale annichilimento dell’essere nel nulla, l’equivalenza dell’insorgere e dello sparire nell’essere senza provenienza e senza destino.

7.

L’astratto domina l’immediato determinandolo. Si eccepisce in esso, vi si include escludendolo, si appropria, facendosi espropriare da esso. Lo pensa come contraddizione nuda e viva ma già risolta ed oltrepassata, lo presuppone come negazione che deve essere negata, negazione da destinare al suo nulla proprio e determinato. L’astrazione deve presupporre l’immediato come  quel negativo in cui il suo agire negante è incluso e circoscritto, pur eccependosi ed escludendosene. L’immediato è catturato dall’astratto e quindi usato, messo al lavoro,  rivolto a proprio unilaterale vantaggio. L’astratto è appunto il risultato di un processo e di una dinamica autoaffermativa e autorelazionale, di un lavoro, che presuppone il nulla radicale del proprio essere come qualcosa da negare proprio riconoscendovisi. Così la potenza dell’astrazione è potenza del ricordo che mentre vince l’oblio consegna all’oblio. L’immediatezza di ciò che fu, permutata in astratto ricordo, nega quel nulla a cui consegna l’esser stato di ciò che è trascorso, e che altera in qualcosa d’altro, di positivo in quanto attivamente posto e elaborato. Il ricordo è il mettersi in rapporto ad una cancellazione mediante qualcosa d’altro che il nulla immemorabile.

8.

Nell’analisi della categoria del divenire Hegel presuppone nell’astratto (l’essere ed il non essere) in forza della stessa potenza negativa di cui è espressione (l’essere non è il non essere e il non essere non è l’essere) che conduce sino alla contraddizione (l’essere è il non essere sono lo stesso), un certo fondo basico  primordinale, anzi primordiale (il nulla di essere e non essere nel divenire).

Nella categoria astratta e contraddittoria del divenire, Hegel allora cattura quell’immediatezza violenta dell’accadere, senza cui non vi sarebbe alcuna possibilità di agire poi in modo negativo. L’astrazione che permette di afferrare la struttura contraddittoria dell’immediatezza (giacché è solo per gli astratti essere e nulla che si dà nel divenire la loro unità contraddittoria), presuppone l’immediatezza di un divenire, senza provenienza e senza destinazione, che nega radicalmente l’essere, (giacché è solo perché il nulla è, irreparabilmente, nulla, nulla dell’essere e del niente, che qualcosa d’altro può costituirsi).

Tentando di ricapitolare quanto esplorato sino ad ora, si vorrebbe ribadire come nell’analisi del divenire Hegel decida di rinvenire, tramite l’astratto ricordo della struttura originariamente contraddittoria dell’immediatezza, il presupposto dell’esercizio di ogni appropriazione e dominio temporale, storico o logico.

9.   

Astratto e immediato non sono solo lemmi coordinati. Sono l’uno condizione dell’altro.

Se il potere dell’astrazione si misura nella capacità di insediarsi nel punto indifferente, (gleichgültig) tra essere e nulla, allora l’immediato è quel “transito” (Übergang) reciproco del nulla nell’essere (insorgenza) e dell’essere nel nulla (sparizione), in cui si presuppone accadere quella potenza dell’indifferenza. E’ l’indifferenza di tale “transito” ad essere condizione del potere dell’astrazione, e quindi persino apertura di un processo di avanzamento, e progresso. Il poter lasciare il nulla al suo nulla per qualcos’altro. Ora il transito nella sua dimensione strutturale originaria d’insorgenza e sparizione, è da Hegel inteso come violenza d’eruzione e d’irruzione. Il transito è tale in quanto in esso accade qualcosa che erompe (bricht hervor)[ref]Ibidem p.147[/ref] l’immediato ovvero l’immediato è tale in quanto sbarramento sempre rotto, spezzato, frantumato, spaccato, per una “fuoriuscita”[ref]L’ Ausgang kantiano di Che cosa è l’Illuminismo, ma anche la ripartenza dall’Esserci, del capitolo secondo della Logica di Hegel.[/ref]. E’ perché si da un’eruzione che spezza un velo sbarrato, che l’immediato si fa mezzo, strumento di mediazione. Per pensare l’ irr/eru-zione dobbiamo ritornare ancora ai due possibili sensi della negazione cui abbiamo già più volte fatto riferimento sopra. Da una parte c’è la negazione determinata, la negazione sempre relativa e specifica di un certo qualcosa, che prende la forma della contrapposizione e quindi del riferimento o della relazione[ref]Form der Entgegensetzung, zugleich der Beziehung. Ibidem p. 116.[/ref]. Essa separa e distingue, tiene insieme i differenti relati, tenendoli a distanza di sicurezza e garantendoli l’uno dall’altro. E come Hegel non si stanca di ripetere la Scienza e la Logica devono costantemente affinare lo sguardo rammemorante per saper cucire e connettere i pezzi dell’essente, ritrovandovi il filo del logos mediatore che li tiene insieme determinandoli reciprocamente nella loro distinzione, a preservarli dall’annullamento. Ma ciò presuppone proprio il più radicale e tragico confliggere annichilente ! Il mezzo della mediazione è proprio il nulla che si annienta ! E’ nel nulla che l’essere di questo e quello e il loro stesso niente, già da sempre e inizialmente, precipitano e spariscono, ed è sempre nello stesso nulla che insorge ed erompe, irrompe, un methodos , il varco di un passaggio. Nella via del nulla, senza provenienza e senza destinazione, sono disposti quel qualcosa che c’era, quel qualcosa da cui si proviene insieme a quell’altro qualcosa che è appena arrivato ed a cui si è destinati come al risultato del processo.  Ecco che appunto quel non essere relativo che consente il lavoro del discernimento sapiente dell’essente non sarebbe esso stesso aperto e manifesto se non fosse riconosciuto quel niente irrelativo della sparizione nella più radicale latenza, quel niente dell’insorgenza dall’occultamento radicale, quel nulla della dissoluzione, dell’annientamento o del più duro svuotamento. Per questo Hegel sottolinea che proprio a proposito della negazione non si deve dimenticare (non deve di essa darsi oblio, e quindi deve di essa proprio darsi rammemorazione) che vi è la negazione astratta e immediata[ref]die abstrakte, unmittelbare Negation. Ibidem p. 116.[/ref] : l’irrelativa “denegazione” (die beziehungslose Verneinung), espressa dal mero “non” isolato[ref]durch das bloße: Nicht ausdrücken. Ibidem p. 116.[/ref], il puro nulla in cui l’essere sparisce e da cui l’essere insorge, in cui irrompe e da cui erompe. Il nulla che sta tra un essente e l’altro e che sta dentro l’essere stesso, a romperne la compatta chiusura; quel nulla che segna la struttura aperta dell’essere stesso, la sua esposizione all’annientamento, la sua esposizione all’insorgenza e alla più radicale latenza. Questo “non” è posto e determinato come esito nullificante della contraddizione dall’astrazione ed insieme catturato come immediatezza iniziale del divenire: la contraddizione che dissolve l’astratto irrelato intellettualistico è infatti cifra di quel nulla in cui si spaziano i pezzi dell’immediato esposto al movimento del divenire.

10.

Hegel ha sempre e ripetutamente considerato la negazione determinata superiore alla negazione immediata. Hegel dice che fuori dal divenire del qualcosa in qualcos’altro, essere e nulla sono significati astratti[ref]abstrakt Bedeutung. Ibidem p.164.[/ref]. Il nulla (das Nichts), come è contenuto nel concetto del divenire, dovrebbe essere inteso piuttosto come il non-essente, (das Nichtseyn). Ossia sarebbe il non-essere altro contrapposto (Entgegengesetzt) e relativo dell’essere-qualcosa (Etwas), nella cui alterità è ancora contenuto e conservato il riferimento all’essere[ref]Beziehung auf das Seyn. Ibidem p.116[/ref]. Nella categoria del divenire il senso dell’essere dell’essente non precipiterebbe e sparirebbe nel nulla ma si trasformerebbe in qualche altro essente. Proprio per la sua capacità di contenere nell’astrazione l’immediatezza ricontestualizzandola e rielaborandola nel suo senso d’essere relativo all’essente, il divenire eracliteo è considerato da Hegel un concetto superiore[ref]den höheren totalen Begriff. Ibidem p.116.[/ref] rispetto all’astrazione indeterminata dell’essere parmenideo e del nulla orientale. E tuttavia quella stessa capacità superiore di mediazione concettuale che la categoria del divenire secondo Hegel esibisce non sarebbe possibile se non fosse stata fissata astrattamente quella nullificazione del senso dell’essere differente dal niente che costituisce la determinazione dell’immediatezza. Il divenire stesso nel seguito delle deduzioni categoriali viene come messo al lavoro nel processo che assoggetta l’immediatezza al dominio evolutivo o progressivo dell’essente. Ecco così che nel divenire viene pensata la produzione stessa dell’altro[ref]Hervorbringen eines Anderen. Ibidem p.119.[/ref], la generazione[ref]die Erzeugung. Ibidem p.140.[/ref], la nascita[ref]Geburt. Ibidem p.117.[/ref]. Questa concettualizzazione del divenire come produzione-generazione prelude alla possibile istituzione di un rapporto di fondazione, di causazione, comunque di ragione. Con tale interpretazione si istituisce la continuità graduale e determinata del filo logico di un metodo, come percorso, e di un discorso, come narrazione e dimostrazione tra gli essenti e da un essente all’altro. Risulta così pensabile un rapporto determinabile tra essenti reciprocamente negativi e determinati,  come sono Padre e Figlio, Causa ed effetto, Condizione e Condizionato. Se questo è l’impianto logico che deve mettere al lavoro il divenire, non bisogna dimenticare (anche se è proprio questo ciò che il ricordo non può rammemorare !) che esso cattura un basico <<passare oltre>> immediato, insorgente e dirompente: il divenire è lo stesso <<passare>>, Übergehen ist dasselbe als Werden[ref]Ibidem p. 135.[/ref].

11.

In Hegel il pensiero astratto del divenire cattura un’immediatezza primordiale. Così l’astrazione della contraddizione fa segno all’evento dello sparire[ref]Verschwinden. Ibidem p.114.[/ref], del dileguare, o del distruggersi[ref]zerstören sich. Ibidem p.160.[/ref]; l’evento della fine[ref]Vergehens. Ibidem p. 117[/ref] , della morte[ref]Tod. Ibidem p. 117[/ref]. Il nulla che rende possibile il divenire lascia che nella determinazione negativa si produca differenza come relazione e fondazione. Questo è il lato logicamente costruttivo e mediatore della negazione insita nel divenire. Si tratta qui di quel divenire che è metamorfosi, che rimanda dal qualcosa al qualcos’altro, che segnala sempre una provenienza ed una destinazione. Ma questo divenire come progresso ed avanzamento, processo e discorso, è reso possibile solo perché presuppone un divenire che è passaggio immemorabile, sparizione e distruzione, dissoluzione della differenza, indifferenziazione contraddittoria tra essere e non essere. Il mutamento, (Veränderung ) presuppone il moto (Bewegung). Il divenire stesso è presupposto come evento appropriabile, nell’agire unilaterale del nulla, che negandolo lascia spazio a qualcos’altro. Lo stesso qualcosa apre all’altro, solo sparendo nel nulla, passando via e lasciandosi passare oltre, lasciando aperto un transito. Così in Hegel il divenuto, o il risultato ha il carattere del non-essente (Nichtseyende) come altro essente, o altrimenti essente, essente determinato, ideale (Ideelle), sul presupposto, sul fondamento, di un esser soppresso, rimosso, rilevato (Aufgehobenes), che occorre pensare nella sua radicalità nichilistica di essere sparito (das Verschwundenseyn). Così il divenire egheliano non potrebbe produrre il divenuto senza l’azione unilaterale del nulla che fa sparire l’essere dell’essente sparito. Se l’immediato non precipitasse costantemente nel nulla, se l’essere non sparisse cancellato negli essenti diversi, non vi sarebbe apertura all’insorgenza.

Il fondamento basico (Grundlage), il campo fondamentale, del potere di astrazione, quindi ciò a cui ci si deve rapportare nell’astrazione e ciò che l’astrazione stessa è e produce nel suo rapportarsi, è quel moto in cui accade il far spazio per l’essente, come agire unilaterale del nulla. 

12.

Il risultato che qui come tesi si vorrebbe enunciare sarebbe dunque formulabile nella seguente asserzione: la macchina della negazione della negazione, dell’autoderminazione del negativo, è la potenza di un autorapporto che metta in relazione il cancellabile con la propria cancellazione definitiva e radicale.

Senza presupporre l’annientamento, la distruzione, cioè senza che si pensi dell’essere nulla, radicalmente niente di ciò che diviene, non si pensa l’esserci. Il passaggio nullificante, l’annientamento immediato, sta poi alla “base” del lavoro logico di relazione e riferimento mediatore che produce tutte le altre categorie intellettuali successive a quella dell’esserci. Questo annientamento autocontraddittorio di essere e nulla nel divenire è indicato da Hegel come “la prima verità fondamentale”[ref]erste Wahrheit ein für allemal zu Grunde liegt. Ibidem p.119[/ref] . Solo in rapporto all’autonegazione contraddittoria nel divenire dell’essere e del nulla si guadagna “l’Elemento in cui sono pensabili tutte le conseguenti determinazioni della logica”[ref]das Element von allem Folgenden…alle ferneren logischen Bestimmungen. Ibidem p.119[/ref]. Questo autoannullarsi della contraddizione è la verità immediata che si trova sempre innanzi a noi[ref]die allenthalben vor uns ist. Ibidem p. 120[/ref], e che ha persino una dimensione di manifestazione ed evidenza empiriche, quella del <<passare>> empirico che s’intende di per sé[ref]das empirische Übergehen versteht sich ohnehin von selbst. Ibidem p.145[/ref]. Nel “movimento” si vede, appare, si rivela come la contraddizione si risolva. Il risolversi della contraddizione è lo stesso venire a manifestazione del qualcos’altro.

La categoria del divenire è la prima delle forme categoriali e intellettuali in cui questo annientamento viene pensato, e nell’essere pensato viene catturato e afferrato come risorsa per il cambiamento possibile. Quindi il divenire non è il terzo tra essere e nulla, la medesimezza di essere e nulla, come se fosse la loro sintesi coordinante. E il terzo come la loro contraddizione distruttiva.

13.

La rammemorazione della negazione radicale dell’essere sparito, annientato, è per Hegel aprente. Anzi è l’aperto; caratteristica del nichilismo logico di Hegel sarebbe proprio questa intepretazione dell’annichilimento, della kenosis teologica e della catarsis tragica, come apertura dell’essere all’essente e per l’essente. Nell’annullarsi del nulla, l’essere si apre all’avvento dell’essente, alla sua irruzione  e insorgenza “nuova”, alla sua rivelazione piena, alla sua manifestazione compiuta. La rammemorazione dell’annientamento sarebbe aprente e aperta perché nulla più ostacolerebbe o chiuderebbe, sbarrerebbe. l’insorgenza dell’essente, neppure il nulla del suo stesso esser sparito come essere, il nulla della radicale latenza dell’essere. L’essere ora determinato tragicamente è per qualcosa d’altro.

Nell’esser sparito della sua sparizione è l’impotenza suprema del nulla, la sua ineffettualità, perché la sparizione sparisce essa stessa, la liquidazione si liquida[ref]das Verschwinden des Werdens, oder Verschwinden des Verschwindens selbst. Ibidem p. 160[/ref]. La sfrenata inquietudine negativa del divenire che si affatica nella propria mobilità a liquidare l’immediato, la sua forza immediatamente annientante, finisce mentre lavora, risolve mentre si muove, sparisce essa stessa, sprofondando nella pace, consumandosi nella quiete, nel silenzio, in un oblio[ref]Das Werden ist eine haltungslose Unruhe, die in ein ruhiges Resultat zusammensinkt. Ibidem p.160[/ref], immemorabile.

Che sia accaduto il divenire, che sia stato il nulla dell’essere e l’essere del nulla, ciò è l’immemorabile, che ancora è solo per il ricordo di qualcosa d’altro e di qualcun altro.

Il lavoro umano, il dominio e il potere di qualsiasi soggetto che ci sia come Esserci, Dasein (questo è termine hegeliano prima di essere heideggeriano), che faccia i conti col proprio mutamento possibile, con la mutabilità del proprio esistere, sta in rapporto memoriale e immemoriale, e quindi storico, ontologico ed esistenziale, con la struttura duplice del proprio divenire, così come la definisce Hegel. Ossia con il duplice volto del divenire come annientamento del senso dell’essere, fluidificazione impotente a cancellare quell’essente qui e ora che ricorda ma anche incapace nella trasformazione del ricordo a restituire al senso dell’essere immediato ciò che degli essenti è morto e finito, definitivamente sparito.

L’analisi hegeliana sonda la difficile e avvitata determinazione di tale rapporto memoriale e immemoriale col divenire, pensando insieme con l’annientamento dell’essere la sua insorgenza. Così nella macchina metafisica di Hegel l’annichilimento radicale del senso dell’essere, la cesura iniziale dal suo evento, l’irrevocabilità della cancellazione dell’essere, rimane complementare, logicamente vincolata e presupponente, rispetto ad una altrettanto radicale e decisa insorgenza storico-esistenziale. Il “nuovo” è tale proprio perché non potendo riscattare dalla radicale latenza ciò che è sparito, e dovendo confermare quel destino di fine e di morte che spetta ad ogni immediatezza, si appropria di una provenienza e di una destinazione storiche.

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Pubblicato in collaborazione con Critica Impura

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A proposito di Comunismo ermeneutico di Vattimo e Zabala

In Comunismo ermeneutico Vattimo e Zabala muovono un appassionato attacco alla “politica delle descrizioni”, il cui campione contemporaneo è John Searle. Tale “politica delle descrizioni” sarebbe inguaribilmente metafisica e strutturalmente legata ai progetti di dominio. Ma è vero che al positivismo di buona parte della filosofia contemporanea si può solo contrapporre la posizione ermeneutica? Non soffre quest’ultima, per come è articolata da Vattimo e Zabala, di una profonda riduzione del significato e dello spettro di incidenza della scienza?

Società o barbarie

Anni incanagliti, quelli in cui stiamo vivendo gli anni della nostra vita.

La stagione in cui l’assiomatica dell’interesse possessivo, impostasi quale unico principio regolatore dell’umana convivenza, ha dato mano libera all’accaparramento in quanto accumulazione di capitale e alla spirale impazzita della disuguaglianza, alla legittimazione della mediocrità proterva come tipologia umana egemone, alla banalità semplificatoria per la concettualizzazione dominante. A cominciare – appunto – dallo svilimento della democrazia e lo svuotamento della politica.

Questo è – almeno – quanto vedono i miei stanchi occhi.

Fisime di un uomo vecchio, afflitto dal rimpianto nostalgico (idealizzato) dei tempi andati, quando ancora c’era tela da tessere, speranze da coltivare e i doloretti vari al momento non si facevano sentire?

Ad altri giudicare. Da parte mia ho provato a ragionare al riguardo, elencando argomentazioni che mi sembrano “oggettive” (se l’aggettivo fatale mantiene ancora un qualche senso), nel saggio appena pubblicato per i tipi de il Saggiatore: “Società o barbarie – il risveglio della politica tra responsabilità e valori”.

La riflessione sui “quarant’anni ingloriosi”, iniziati con il massacro dei principi su cui era stato raggiunto un equilibrio dopo le catastrofi che hanno segnato i due conflitti mondiali novecenteschi; la “guerra dei trent’anni” all’origine del suicidio europeo, con la conseguente perdita di centralità nel sistema mondo occidentale. La corsa all’indietro verso l’incoscienza, ancora una volta suicida, contrassegnata dallo slogan di Margareth Thatcher “la società non esiste”; premessa del ritorno al futuro di sempre più nuove e irresponsabili barbarie. La barbarie di un Potere brutale non più tenuto sotto controllo.

La nostra civiltà porta insita in sé l’instabilità della propria natura duale: la difficile coesistenza fra il demos e il kratos. Nato dalla distruzione dell’Ancien Régime delle aristocrazie di nascita, l’ordine democratico aurorale nella sua versione industrialista ha visto affermarsi una nuova aristocrazia, quella del denaro. Da allora è stata la politica a perseguire ragionevoli compromessi tra numero dei tanti e risorse dei pochi, tra democrazia e plutocrazia. Talvolta in maniera efficace, talaltra senza riuscirci.

Un riequilibrio che ha funzionato in presenza di contrappesi che richiamavano a più miti consigli gli spiriti animali del privilegio. Situazione vanificata nella lunga mutazione epocale tra il 1973 (guerra del Kippur e colpo di Stato in Cile) e il 1989 (crollo dei regimi a Est); quando tanto le lotte del lavoro come gli equilibri geopolitici vennero marginalizzati e dal vaso di Pandora del Capitalismo amministrato balzò fuori la sua versione non ancora addomesticata.

Taluno lo chiama Turbocapitalismo, altri Finanzcapitalismo: l’auri sacra fames virgiliana ammantata in un discorso ideologico che assiemava cascami intellettuali e luoghi comuni da consulenza aziendale (il NeoLib). Sotto i colpi potenti di una strategia per sbaraccare la piramide sociale con trasferimenti biblici di ricchezza dall’area mediana della società ai suoi vertici, veniva configurandosi uno scenario che ancora una volta può essere descritto con gli aggettivi usati da Fernand Braudel per Genova; il centro del sistema mondo finanziario nei primi decenni del XVII secolo: opulento e sordido.

La quarantennale egemonia dell’economico – come si diceva – asservisce la politica e prosciuga la democrazia. La prima si trasforma in caporalato del consenso, grazie alle nuove generazioni di personale politico, colluso e subalterno, apparse sulla scena; l’altra viene ridotta a pura metodologia di conta per legittimare organigrammi pubblici funzionali alla privatizzazione del mondo. Nella transizione in corso da fase capitalistica a fase capitalistica, in cui la riproduzione del capitale (industrialista) viene sostituita dall’accumulazione di ricchezza (finanziaria): il meccanismo del “gatekeeping”, presidio a scopo taglieggiamento dei varchi in cui scorrono i flussi (materiali o virtuali) grazie alla collusione tra speculatori privati e controllori della decisione pubblica. Il fenomeno in cui i gruppi politici si trasformano in un unico ceto indifferenziato (di imprenditori di se stessi), che conquista l’incontrollabilità nella migrazione dalla società alle istituzioni (il pasoliniano Palazzo del Potere).

La mimetizzazione delle dinamiche al servizio dell’esclusione sociale e del puntellamento dell’establishment abbiente non è certo una novità. Già i Padri Fondatori del primo esperimento di governo in una società di massa – gli Stati Uniti d’America – avevano messo a punto efficaci strumenti diversivi, nelle forme delle cosiddette “guerre tra poveri” (di volta in volta, i nativi americani, le giubbe rosse coloniali, gli schiavi di colore, gli immigrati di etnie non WASP…). La sperimentata operazione di camaleontismo prevaricatorio oggi può disporre del formidabile arsenale fornito dalla colonizzazione pervasiva degli immaginari, realizzata attraverso gli strumenti di mediatizzazione di massa. La costruzione della realtà diventa impegno guardiano di un sistema informativo embedded, il gioco politico si trasforma nel set di un reality televisivo. Personaggi da star system soppiantano con le loro messe in scena, basate sugli script degli spin-doctor, l’impegno civile di leadership legittimate dai propri valori e dal riconoscimento civile.

Come è stato felicemente tradotto in slogan, la democrazia diventa post-democrazia; gara tra marchi per un consenso manipolato, drogato con richiami strumentali alla paura e/o al risentimento (come opera di depistaggio).

C’è da stabilire se questo quadro è più alla Orwell (il dominio del Grande Fratello) o alla Huxley (l’istupidimento mediante blandizie consumistiche). Quello che si direbbe evidente è che la quarantennale vergogna sta venendo alla luce, con tutti i tradimenti che l’hanno accompagnata, e la finzione non sta più in piedi. Anche perché la spinta propulsiva di questa fase capitalistica è giunta a esaurimento, mentre gli assetti sostitutivi sono ancora avvolti nella nebbia dell’indecifrabile.

In questo salto nel dopo – mentre il motore economico “finisce ai box” – la mia personale convinzione è che diventa essenziale recuperare la funzione regolatrice e progettuale della politica; nella sua versione “erasminiana”, come grande discorso pubblico sulle scelte condivise, prima e più ancora di quella “machiavelliana”, intesa come tecnologia del potere.

Ma il ritorno al governo della società attraverso se stessa non potrà avvenire nelle modalità delle fasi precedenti al Grande Oscurantismo (gli “Ingloriosi Quaranta”). A tale proposito ho provato a immaginare le condizioni per tale ripresa; e le mie conclusioni sono state che la politica rinnovata può sorgere solo da un intelligente mix di nuovo e di antico. In cui – oltrepassando il riduzionismo del “tutto è comunicazione” – ci si riappropria delle altre due gambe essenziali: la strategica e quella organizzativa.

Certamente appare improponibile ogni forma gerarchico/centralistica di stampo fordista, quando la nuova intelligenza collettiva fa ampio uso dell’autocomunicazione orizzontale di massa, resa possibile dalle nuove tecnologie (indossabili) di comunicazione. Ma – al tempo stesso – andrà recuperata la tradizione del radicamento e del face-to-face. La politica che riparte dai luoghi.

Di certo lo spazio della decisione pubblica non si limita più al perimetro vestfaliano dello Stato-nazione, cui si sostituisce il cosiddetto “Network-State” sovra-statuale, statuale e sub statuale.

Un’idea della politica a geografia variabile e a leadership situazionali.

Tutti campi in cui la sperimentazione sta compiendo i primi, timidissimi, passi. Che, per riuscire a essere davvero efficaci, dovranno canalizzare ancora una volta insieme ragione e passione; perché la politica è innanzi tutto e soprattutto speranza plausibile. E la democrazia deve ritrovare la sua dimensione alta, di civilizzazione: organizzazione della società attraverso il discorso pubblico e legittimazione del dissenso.

Gli anni che verranno saranno un (terribile) banco di prova tra due ipotesi di riassetto, l’una all’insegna dell’esclusione e l’altra dell’inclusione. Il mondo dell’1 per cento può secessionare in “altrove” dorati ghettizzando il restante 99 per cento; può prevalere la barbarie prossima futura di una castalizzazione feudale presidiata da intelligenze digitalizzate di macchine sostitutive delle moltitudini umane. Il (lavoro) morto che afferra i vivi.

La scommessa è in una società che riprenda il lungo cammino verso i valori più umani delle solidarietà, della simpatia e del cosmopolitismo. Grazie a politiche ispirate dai principi democratici rettamente intesi.

L’Oltre e il suo contenuto. Note su Pietro Ingrao e il diritto

Davvero prezioso il lavoro di curatela con cui Maria Luisa Boccia e Alberto Olivetti hanno ordinato gli scritti di Pietro Ingrao, Coniugare al presente: l’Ottantanove e la fine del PCI. Scritti (1989-1993), per i tipi di Ediesse (Roma, 2015).

E le ragioni che confermano questo giudizio sono numerose. Innanzitutto, il personaggio politico di Pietro Ingrao: leader della sinistra interna di un partito che ufficialmente non accettava la formazione di correnti, esponente di primo piano del più grande partito comunista occidentale, spesso all’opposizione delle sue linee ufficiali, eppure (o proprio per questo) personalità stimata anche dalle altre forze politiche. Soprattutto, nei bei tempi della Prima Repubblica, dove la Presidenza delle Camere indicava l’apprezzabile tentativo di dar tribuna a figure autorevoli che pur non rientravano nella compagine di governo. Un sistema elettorale appesantito da un proporzionale naturalmente consociativo e naturalmente presidiato dalla maggioranza relativa della Democrazia Cristiana (e, ovviamente, dall’esclusione del Partito Comunista dalle maggioranze di governo).

Interessante anche che i curatori scelgano come periodo di osservazione quello della transizione mancata, o, comunque sia, riuscita solo a metà. Il Partito Comunista Italiano, ben prima che il fallimento dell’Unione Sovietica venisse certificato dalla storia, aveva abbandonato le sirene terzinternazionaliste: tutto era tranne che marxista-leninista nella proposta politica rappresentata al corpo elettorale e alla società italiana. La caduta del Muro rende palese che questa differenza debba essere ormai accompagnata da un progetto politico sostanzialmente e formalmente diverso. Superate dagli eventi le proposte eurocomuniste mediterranee dell’ultimo Berlinguer, superato dai decenni il compromesso storico (che chissà che altre forme avrebbe assunto, ad esempio, senza il controverso caso del rapimento e dell’uccisione del democristiano Aldo Moro), superata anche la questione morale. Non come metodo del governo – che sarebbe attualissimo anche oggi, se solo qualcuno lo applicasse -, certamente come immagine riassuntiva di una proposta di società.

Tra il 1989 e il 1993, in definitiva, alla sinistra italiana e al Paese tutto serviva seriamente un “oltre possibile”. La governance avrebbe identificato quest’oltre nella legislazione vincolistica a favore dell’integrazione europea. Una carta, purtroppo, mal giocata. E dalla politica italiana e, più di recente e peggio, dalle stesse istituzioni continentali. La sinistra traballò. Difatti, perse clamorosamente le elezioni del 1994 e riuscì finalmente a vincere due anni dopo, ma solo perché aveva riavvicinato a sé tutti quelli che non si riconoscevano a destra (spezzoni della sinistra democristiana, ambientalisti, ortodossi dello stalinismo e liberal privi di rappresentanza politica). La sconfitta del 1994 non è figlia dei meriti di Berlusconi (appeal comunicativo, forza di rottura, massiccia propaganda). Ne è al più parente alla lontana: la sconfitta del 1994 è tutta nella mancata individuazione di questo “oltre possibile”, l’Araba Fenice del riformismo italiano, dal 1989 al 1993.

Pietro Ingrao dimostra innegabile vivacità intellettuale: la fine del socialismo scientifico deve essergli sembrata cosa buona e giusta. V’è, infatti, in Ingrao l’intuizione sull’inestricabile vincolo di solidarietà che sussiste tra i diritti di libertà. Che l’URSS ignorasse tale vincolo, anzi che si sorreggesse sulla sua consapevole rimozione dalla pratica del governo e dalla formazione delle leggi, è concausa del suo smembramento.

Pietro Ingrao ha alle spalle una storia di rapporti con quanto a sinistra si muoveva fuori dal canale istituzionale del partito. Negli anni Cinquanta e Sessanta, dimostrò di conoscere le molte facce della questione sociale in Italia. C’era “Africa in casa”, un Mezzogiorno che aveva garantito forza lavoro a basso costo al capitalismo settentrionale. Per nemesi storica, proprio quella massa di meridionali non specializzati arrivata nella fabbrica provò, contro il PCI, ad afferrare il fulmine a mani nude, alla fine degli anni Settanta. Per contronemesi storica, quella storia dell’operaismo italiano finì tristemente sconfitta, proprio quando il PCI sulla Scala Mobile tentò l’ultimo colpo di reni per riavvicinarsi ad essa.

Non solo: Ingrao cerca un’interlocuzione con la contestazione sessantottina, ma non è con la (esigua) minoranza garantista al tempo della legislazione emergenziale contro il terrorismo – meno di un decennio dopo. Fu il primo un merito e il secondo un errore? O il PCI preferì non avere dalla propria la contestazione che germinava, in primo luogo, a suo danno? Quale che sia il nostro giudizio, il PCI sta dentro e fuori un decennio di seria, buona, legislazione sociale: in materia di locazioni, sussidi e diritto del lavoro. Lo fa dentro e fuori il progetto del governo dei moderati. Lo Statuto dei Lavoratori passa ed è un meritorio provvedimento legislativo: il PCI non lo vuole. Alla ricerca di quel suo “oltre possibile”, con cui liberarsi dall’utopia realizzata del soviet violento e legittimarsi contro quella nascente generazione “diciannovista” che nell’Autonomia Operaia trovò la linfa di uno scontro permanente col “partitone rosso”.

L’Ingrao degli anni Ottanta, in buona fede come quello del decennio precedente, diviene ancora più lucido come interlocutore dei movimenti civili. La soggettività sociale si è scompaginata, se ne creano tanti frammenti di pari dignità. L’ambientalismo, i diritti civili, la stagione referendaria – e l’inflazione dell’istituto nei due decenni successivi è una vera mannaia per la partecipazione politica, nonché prateria sconfinata per i teorici delle campagne astensionistiche (più facili, più sicure, delle battaglie politiche per il “si” o per il “no”).

Nel taccuino della sua proposta per un “oltre possibile”, Ingrao mette a valore tutto quello che ha visto: il perdurare, in forme nuove e solo all’apparenza meno gravi, delle sperequazioni sociali; il declino della teoria dei “ceti di riferimento”; la sensibilità ecologica; la questione di genere in Italia e il corredo di diritti la cui attivazione in Italia è stata più sofferta e carente che altrove in Europa. Il PCI di fine anni Sessanta/inizio anni Settanta non è uno dei protagonisti dell’espansione dei diritti civili: lo è – su aborto, divorzio, obiezione di coscienza – la sua base, lo sono spesso suoi singoli e benemeriti esponenti (il calabrese Gullo tra questi). Ingrao capisce che sarebbe buono se lo diventasse negli anni Duemila il suo erede politico.

Quello che colpisce nelle pagine della raccolta è un retrogusto di smarrimento postumo per quello che non sono riusciti ad essere sul piano della trasformazione sociale né il Partito Democratico della Sinistra, né, all’alba degli anni Duemila, i Democratici di Sinistra. Ingrao, ad esempio, non è tra i favorevoli alla svolta eurosocialista (meglio sarebbe dire: social-democratica). Ma è anche giustificabile che molti ex-ingraiani, all’atto di nascita del PD, preghino e si sbraccino per l’ancoraggio dell’ennesimo nuovo partito al Partito Socialista Europeo. Lo vedono come unica garanzia contro l’interclassismo apologetico del partito della nazione, contro lo scivolamento a destra e al centro. Un treno aspettato dieci anni dopo il suo ultimo passaggio in stazione.

È istruttivo rileggere Ingrao. Perché tutto il libro racconta idee che non ebbero la forza (e, più probabilmente, la consapevolezza) di divenire policies. A ben vedere, a questo “oltre possibile” è mancata soprattutto una cosa: la relazione qualificata col diritto. Non esiste istanza di riforma che possa divenire diritto vivente e pratica quotidiana in assenza di un robusto radicamento nel metodo della legislazione. Quella che si vuole cambiare e quella che si vuole preservare. Dal calderone post-1989 non è emerso alcun partito in grado di essere il Principe cui pensava Gramsci – sempre che fosse la strada giusta. “Coniugare al presente”, per riprendere il titolo del libro, è capire il proprio tempo. Non limitarsi a viverlo.