Politica e Ontologia. Heidegger e il corso del semestre estivo del’34

La V uscita di Pagine Heideggeriane ospita un paper di Mattia Tritarelli, dottorando dell’Università degli Studi di Perugia. Lo scopo dello scritto qui pubblicato è quello di portare alla luce i nessi tematici che legano la questione politica all’ontologia di Heidegger nel contesto del corso del semestre estivo del 1934, cioè verificare se effettivamente Heidegger sia arrivato a mutuare la propria nozione di “politico” direttamente dall’ideologia del partito nazionalsocialista. Per poter raggiungere lo scopo indicato, l’autore si confronta con quanti hanno sostenuto una simile posizione, in particolar modo Emmanuel Faye, cercando di individuare la coerenza di un siffatto procedere teoretico con l’impostazione heideggeriana, e quelle forzature che sono estranee al pensiero del filosofo tedesco, nel tentativo di riportare la categoria del “politico” alla sua corretta relazione con l’ontologia.

Francesca Brencio

Politica ed ontologia.
Heidegger e il corso del semestre estivo del’34

di
Mattia Tritarelli

 

I. Introduzione

La questione della compromissione di Martin Heidegger con il regime nazista non si è mai estinta sin dalla sua sollevazione: dall’allontanamento dall’insegnamento del dopoguerra, passando per la pubblicazione dell’intervista postuma, fino agli studi di Victor Farias e Hugo Ott con le relative repliche, per arrivare alla pubblicazione odierna dei cosiddetti “quaderni neri”[ref] La recente pubblicazione dei quattro volumi che compongono i “quaderni neri”, annotazioni e appunti lasciati da Heidegger ad una pubblicazione postuma, ha coagulato il recente dibattito internazionale su Heidegger, rinvigorendo la questione del suo presunto antisemitismo. Tra i numerosi studi che stanno fiorendo a riguardo segnaliamo: P. TRAWNY, Heidegger und der Mythos des jüdischen Weltverschwörung, Klostermann, Frankfurt a. M. 2014; D. DI CESARE, Heidegger e gli ebrei. I Quaderni neri, Bollati-Boringhieri, Torino 2014; A. FABRIS (a cura di), Metafisica e antisemitismo. I «Quaderni neri» di Heidegger tra filosofia e politica, ETS, Pisa 2014; F. BRENCIO (a cura di), La pietà del pensiero. Heidegger e i Quaderni Neri, Aguaplano – Officina del Libro, Passignano s. T. 2015[/ref]. In estrema sintesi si è avuto modo di vedere lo schierarsi di due fazioni opposte: inquisitori ed apologeti. I primi hanno creduto d’individuare un’inammissibile concussione nazionalsocialista del filosofo tedesco, adducendone il carattere ‘mistico’ e ‘totalitario’; mentre i secondi hanno tentato in tutti i modi di rivalutare la sua responsabilità politica. Il presente articolo intende rimanere fuori da questo schema bipartito, che troppo spesso finisce per riempire pagine di giornali e scema nella cronaca. Non verrà affrontata neppure la questione dei “quaderni neri”, dato che nostra convinzione è che una valutazione dei contenuti di quelle annotazioni non possa esimersi da un serio confronto preliminare con la filosofia che ne è a fondamento, nonché con la sua conseguente opzione politica.
Ciò che ci proponiamo nel presente articolo è di verificare se le categorie politiche messe in campo da Heidegger scaturiscano da un’adesione all’ideologia di partito, o in alternativa, se la loro genesi sia da rintracciare nel centro pulsante della sua stessa filosofia.
La separazione dell’opera dalla biografia del filosofo di Meßkirch ha prodotto conseguenze deleterie – paragonabili alla vulgata storiografica dell’esistenzialismo del cosiddetto primo Heidegger –, che sono andate ad unirsi all’idea di svolta [Kehre] come cesura epocale della sua biografia. Con il graduale emergere delle fonti relative all’impegno del ’33, si è avuto buon gioco nell’accostarle al fantomatico esistenzialismo di Essere e tempo, denunciando l’instabilità morale e politica del filosofo, il suo pensiero inconsistente ed inefficace, fino all’ipotesi di una sua conversione ideologica [ref] Le posizioni sono state rispettivamente sostenute da Karl Löwith e Jürgen Habermas. Se per l’allievo di Heidegger «egli è nazionalsocialista già per quel radicalismo col quale fonda la libertà dell’esistenza propria di ciascuno, ovvero esistenza tedesca, sullo stato di rivelazione del nulla» (K.LÖWITH, La mia vita in Germania prima e dopo il 1933, tr. it. di E.Grillo, il Saggiatore, Milano 1995, p.66); per Habermas «a partire dal 1929, comincia una trasformazione della teoria in ideologia» (J.HABERMAS, Il filosofo e il nazista, tr. it. di P.Amari, in Micromega 1988 n.3, p. 103). [/ref]. A queste posizioni si sono aggiunti gli studi, il primo fazioso ed acritico di Victor Farias, il secondo ponderato e filologicamente rigoroso di Hugo Ott, che hanno arricchito la mole di fatti e aneddoti intorno Heidegger[ref]Mentre Farias afferma drasticamente che «Martin Heidegger optò per la linea rappresentata da Ernst Röhm e dalle sue SA, cercando di dare con il proprio pensiero una struttura filosofica a tale variante del nazionalsocialismo» (V.FARIAS, Heidegger e il nazismo, tr. P.Amari, Bollati Boringhieri, Torino 1988, p.5); Ott lascia aperto uno spiraglio per una autonomia del filosofo tedesco, affermando che «Heidegger sovrappone a quello reale il proprio concetto di nazionalsocialismo, che non aveva nulla a che vedere con l’effettiva prospettiva del nazionalsocialismo» (H. OTT, Martin Heidegger: sentieri biografici, tr. it. di F. Cassinari, Sugarco Edizioni, Milano 1988, p.187) [/ref]. A sollevarlo da questi imbarazzi sono state invocate dapprima la sua inettitudine politica, infine la necessaria separazione tra filosofia e scelta politica[ref]Paradigmatica a questo riguardo la biografia di Rüdiger Safranski, secondo cui per il pensatore tedesco si consumerebbe una tragica rottura con la realtà: «Vediamo dunque uno Heidegger tutto preso nel suo sogno di una storia dell’essere; le sue mosse sul palcoscenico della politica sono quelle di un filosofo sognatore» (R.SAFRANSKI, Heidegger e il suo tempo, tri. it. di N.Curcio, Tea, Milano 2001, p.286) [/ref].
Tra gli studi recenti sulla vexata quaestio sul rapporto tra Heidegger e il nazismo merita una menzione il discusso libro di Emmanuel Faye “Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia”[ref]E. FAYE, Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia, a cura di L. Profeti, L’asino d’oro, Roma 2012[/ref]. Esso sembrerebbe rintracciare un nuovo capo d’accusa. La tesi principale del volume appare risolutoria quanto estrema:

l’unico “contributo” heideggeriano alla filosofia consiste nell’aver dedicato tutte le sue forze, in molte maniere, a introdurvi i principi stessi del nazismo celandosi dietro termini come “verità” ed “essere”, che in lui sono filosofici solo in apparenza[ref]Ivi, p.394[/ref]

La posizione è chiara e monolitica: lo studio di Faye dei seminari e dei corsi heideggeriani tenuti tra il ’33 ed il ’35 – a cui rimanda il titolo originale dell’opera francese – non farebbe che confermare, se non radicalizzare, il credo nazista del filosofo di Meßkirch. Le analisi condotte nel testo hanno un intento ben più radicale di una mera ricognizione biografica:

È per questo che, attraverso i testi portati alla luce e le dimostrazioni proposte, abbiamo voluto mostrare la realtà dell’impresa alla quale egli si è dedicato, cioè l’introduzione, nella filosofia, del contenuto stesso del nazismo e dell’hitlerismo. [ref]Ivi, p.1[/ref]

L’intento del presente articolo è di verificare se effettivamente Heidegger sia arrivato a mutuare la propria nozione di politico direttamente dall’ideologia del partito, oppure, se in alternativa, possano finalmente essere delegittimate posizioni radicali come quella assunta dall’autore francese. Ciò che è necessario far notare sin da subito, infatti, è come nel testo di Faye non sia neanche prospettata una possibile autonomia politica del filosofo tedesco. Complotto, revisionismo e negazionismo, teoria razziale, se non distruzione ed inebetimento filosofico sarebbero le istanze inoculate nel pensiero occidentale da Martin Heidegger.
Qual è il metodo d’indagine adottato dal testo di Faye per argomentare queste accuse così gravi? Attraverso una massiccia raccolta di autori nazisti, le cui citazioni costituiscono una parte cospicua del testo, l’autore passa, per via di più sostituzioni, a leggere i testi heideggeriani per lasciarne emergere affinità, coincidenze e sovrapposizioni terminologiche e contenutistiche. La lettura del contesto socio-politico finisce così per imporsi ad ogni autonomia intratestuale dei documenti d’archivio[ref]Un recentissimo contributo di Thomas Sheehan ha posto l’accento sulle molteplici forzature ed argomentazioni tendenziose su cui sarebbe basato il testo di Faye, cfr. M.SHEEHAN, Emmanuel Faye: the introduction of fraud into philosophy?, in http://enowning.blogspot.de/2015/04/thomas-sheehan-on-faye-and-fraud.html. L’articolo, che è stato occasionato da un diverbio tra i due studiosi, passa in rassegna i ragionamenti forzati e le imprecisioni usati nel lavoro di Faye per argomentare la sua tesi di fondo. Giudicando il testo dell’autore francese ricco di approssimazioni, Sheehan, attraverso una lettura ampiamente documentata, denuncia: in primo luogo, l’inconsistenza del preteso antisemitismo di Essere e tempo, che sarebbe basato su di un’argomentazione costruita su dei passaggi sconnessi; in secondo luogo, le traduzioni rimaneggiate e una riscrittura delle citazioni heideggeriane. Accuse gravissime a cui Faye ha tentato di difendersi inutilmente con una lettera aperta indirizzata contro il professore di Stanford. Per un quadro della discussione tra i due autori, attualmente ancora in corso, si veda M.SHEEHAN, Emmanuel Faye: the introduction of fraud into philosophy?, cit., ∫1-2.[/ref].Raccogliamo brevemente il lessico heideggeriano di base. Secondo Faye Heidegger effettuerebbe un recupero della nozione di comunità razziale da Ludwig Ferdinand Clauß: «Della comunità di popolo come di una comunità di razza»[ref]E. FAYE, Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia, cit., p.33. A questo proposito Sheehan mostra come Faye faccia coincidere il significato della parola Umwelt – usata da Heidegger in Essere e tempo e da Clauß nell’Anima nordica -, esclusivamente accostando i testi ed attuando delle deduzioni assolutamente improprie, cf. M.SHEEHAN, Emmanuel Faye: the introduction of fraud into philosophy?, p.11-13.[/ref]; così come mutuerebbe da Erik Rothacker il “pensiero razziale” espresso dalla radice germanica[ref]E. FAYE, Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia,, cit., p.40[/ref]. Secondo la stessa direttrice passerebbe a rielaborare il concetto di lavoro grazie al confronto con Ernst Jünger: il lavoro esprimerebbe così il conio del nuovo popolo di lavoratori del ’33, per cui «Heidegger precisa nettamente il significato nazista che ormai è del concetto di lavoro»[ref]Ivi, p.116[/ref]. La nozione di popolo, indisgiungibile da quella di razza, sarebbe assunta direttamente dallo stesso Hitler: «D’ora in poi non si potrà più negare che l’uso razzista della parola Volk viene accettato da Heidegger senza l’ombra di una riserva e in mezzo ai diversi significati ammissibili»[ref]Ivi, p.152[/ref]. In maniera analoga, parlando dello stato come essere fondamentale del popolo, Heidegger finirebbe per recuperare l’istanza genuina dell’hitlerismo: «La concezione della nazione espressa nel seminario di Heidegger è appunto la stessa che troviamo nel Mein Kampf»[ref]Ivi, p.182[/ref]. Cercando di formulare un giudizio riassuntivo: «Il punto fondamentale è che “l’essere politico dell’uomo”, per Heidegger come per tutti i nazionalsocialisti, ha consistenza solo come popolo, mai come individuo»[ref]Ivi, p.184[/ref]. La politica totale finisce per sovrastare ogni campo, compresa l’ontologia.
Questo meccanismo interpretativo, che lascia imporre il contesto in cui Heidegger venne a trovarsi sull’autore stesso, finendo per neutralizzarne le categorie politiche, non lascia possibilità di riserve; se non per il fatto che tende ad incepparsi, fino ad imbattersi in delle vere e proprie contraddizioni (attribuite all’autore, se non ad errori o sue oscurità). Una volta tolte dal contesto di formulazione originaria, dalla coerenza interna del corso o del seminario in cui sono formulate, le sentenze heideggeriane non presentano più resistenze all’ermeneutica inquisitoria. Lo scopo di una contro-lettura dei testi presi in considerazione da Faye è quello di lasciar riemergere la coerenza interna del pensiero heideggeriano, che sembrerebbe avere come termini di paragone il pensiero fenomenologico piuttosto che il Mein Kampf, la politica aristotelica anziché una politica di potenza.
Il tentativo di Faye nei fatti si rivela fondato su un’argomentazione fallace, che solo una volta smascherata lascia aperta la domanda sulla coerenza del pensiero e del linguaggio politico heideggeriano. Piuttosto che assumere la prospettiva secondo cui politica ed ontologia non possano venir scisse né sovrapposte, così da discolpare o condannare allo stesso tempo il filosofo tedesco, dovremmo incominciare a chiarirne l’effettivo rapporto.
Una lettura contrastiva di tutti i corsi ed i seminari presi in considerazione da Faye sarebbe più che istruttiva; tuttavia, per tentare un passo in questa direzione, scegliamo di presentare nelle sue linee fondamentali il corso del semestre estivo 1934 Logica e linguaggio[ref]M.HEIDEGGER, Logica e linguaggio, tr. it. di U. Ugazio, Marinotti, Milano 2008[/ref]. Il corso rimane sicuramente il più istruttivo tra quelli presi in considerazione per almeno due ordini di motivi: in primo luogo Heidegger, durante il suo svolgimento, presenta le proprie definizioni politiche in maniera pressoché sistematica; mentre in secondo luogo, esso è il primo corso tenuto dopo le dimissioni dal rettorato friburghese. Le lezioni assumeranno così un ruolo paradigmatico, passando a ridefinire termini fondamentali come “popolo”, “uomo” e “storia”, sulla scorta della speculazione presentata in Essere e tempo.

II. L’introduzione al corso del ’34: temporalità e storicità nell’esperienza inautentica

Quando Heidegger si accinge a tenere il corso del semestre estivo del 1934 aveva già presentato le proprie dimissioni dalla carica di rettore dell’Università di Friburgo. In seguito i suoi dissensi con i professori più intransigenti – tra cui Ernst Krieck -, andarono inasprendosi a causa dell’accelerazione del processo di allineamento dell’ateneo friburghese alla politica di partito.
Mentre da programma accademico era stato annunciato il corso “Lo stato e la scienza”, nella prima ora di lezione Heidegger ne comunicò il cambiamento di argomento. L’esordio stesso del corso ne fissa il compito principale: determinare la struttura e la provenienza della logica odierna, con lo scopo di scuoterla e metterne in discussione il rapporto con il linguaggio. La domanda guida, che mira all’essenza del linguaggio, viene condotta attraverso lo smascheramento dell’imposizione della logica sull’asserzione per mezzo della grammatica. La questione preliminare è stabilire come la lingua sia connessa al tema dell’essere, e se essa non possa essere disgiunta dall’impostazione logicista a cui sembra definitivamente essere assegnata.
L’interrogazione intraprende da subito un moto vorticoso sino a trasformarsi in una vera e propria argomentazione circolare. Cerchiamo di seguirne il percorso principale.
Una prima analisi condotta sullo statuto del linguaggio ci induce a considerare la lingua, non come semplice raccolta di lemmi contenuti stabilmente nel vocabolario, bensì come colloquio che accade in maniera necessaria tra gli uomini. Per questo, secondo Heidegger, per mirare all’essenza del linguaggio dovremmo preliminarmente passare ad indagare la questione dell’essere dell’uomo in quanto colui che parla. Il corso subisce così il suo primo apparente slittamento.
Che cos’è l’uomo? Da subito viene notato come il modo di porre la questione possa risultare a questo punto determinante. Allo scopo di evitare di scadere in un’oggettivazione che definisca in anticipo che cosa sia l’uomo, il filosofo porta a chiederci più genuinamente chi esso sia. Heidegger presenta il motivo che sta a fondamento di questo slittamento rivolgendosi all’interrogante:

«La domanda preliminare poggia sull’uomo come se-stesso. La risposta rimanda l’interrogante al suo se-stesso. Gli interrogati siamo noi stessi. Quando l’interrogante chiede chi sia l’uomo come se-stesso diviene egli stesso il cercato»[ref]Ivi, p.54. Ogni autentica interrogazione non può non prendere in considerazione il protagonista stesso del domandare. Il se-stesso [Selbst] è una figura centrale che compariva già in Essere e tempo e che sta ad indicare il “soggetto fenomenologico” nella sua medesimezza, non esclusivamente a partire dalla sua presenza: «La domanda sul Chi deve trovare risposta nella esibizione fenomenica di un determinato modo di essere dell’Esserci. Se l’Esserci è se-stesso soltanto esistendo, la stabilità e la possibile “instabilità” del se-stesso richiedono una posizione ontologico-esistenziale della domanda quale unica via d’accesso adeguata alla corrispondente problematica» (M.HEIDEGGER, Essere e tempo, tr. it. di P. Chiodi, Longanesi & C., Milano 2005, pp.147-148). [/ref]Per Faye l’intento di questo spostamento dell’indagine non mira che alla distruzione di ogni nozione di umanità, alla falsificazione della domanda intorno l’umano, che comporterebbe un’assoluta deresponsabilizzazione[ref]A questo proposito l’articolo di Sheehan mostra come la tesi sia sostenuta alla luce di una lettura viziata del ∫74 di Essere e tempo, il cui argomento è il richiamo all’autenticità dell’Esserci nella sua storicità, in rapporto alla comunità. «Ma Faye maltratta questa distinzione piuttosto ovvia ed importante. Egli afferma che il ∫74 ingloberebbe gli individui in una comunità fascista organica, un’affermazione che egli può fare esclusivamente perché non legge questa sezione attentamente o per intero» «But Faye rides roughshod over this quite obvious and important distinction. He says that SZ §74 swallows up individuals in a fascistoid organic community, a claim that Faye can make only because he has not read this section carefully or as a whole» (M.SHEEHAN, Emmanuel Faye: the introduction of fraud into philosophy?, cit., p.16).[/ref]. Heidegger, al contrario, avverte gli ascoltatori che di questa ipseità [Selbstheit][ref]L’ipseità del se-stesso è la medesimezza grazie alla quale l’ente che interroga il proprio essere, riconosce l’interrogazione come propria, rispondente al se-stesso. Da qui il suo rapporto necessario con la cura del proprio essere autentico: «L’ipseità deve esser esistenzialmente rintracciata soltanto nel poter-essere-se-stesso autentico, cioè nell’autenticità dell’essere dell’Esserci in quanto cura. In base a essa si spiega la stabilità del se-stesso, cioè la presunta permanenza del soggetto» (M.HEIDEGGER, Essere e tempo, cit., p.383)[/ref] non si può avere un concetto già dato – vertendo essa piuttosto sul preconcettuale –, in quanto anticiperemmo fatalmente l’interrogazione. Siamo alla prima acquisizione del corso: come ente che domanda e su cui verte la domanda del suo proprio essere, l’Esserci questiona se-stesso.

Lo scopo di questo nuovo orientamento della domanda sull’uomo è il rinvenire di una posizione fenomenologica fondamentale. Cercando di anticipare tanto una considerazione psicologica, quanto una sociologica – entrambe determinate da una definizione preconcetta di uomo -, Heidegger sta mirando all’essere dell’ente che interroga se stesso, cioè il Dasein. A partire da ciò l’interrogazione investe i tedeschi in quanto popolo che si sta interrogando, in quanto noi. Ma da dove scaturisce il noi come collettività, se non più da una serie numerica, da una semplice somma algebrica di io isolati? L’interrogazione è stata così formulata affinché fosse possibile domandarsi di volta in volta intorno l’essere del noi-stessi, senza vincolarlo ad una risposta comunitaria predeterminata, evitando con ciò ogni ricorso alla nozione di massa[ref]La massificazione sarà uno dei frutti dell’età contemporanea dominata dalla macchinazione. Heidegger presenterà il suo tempo come l’era della mobilitazione totale, come oblio del problema dell’essere a favore dell’ente. Secondo quanto scriverà qualche anno più tardi nei Contributi alla filosofia, l’occultamento e l’abbandono dell’essere si manifesterebbero nel calcolo, nell’accellerazione e nella centralità della massa. «Ciò che è comune a molti e a tutti è appunto per i “molti”: è ciò che essi conoscono come eccellente; ne deriva un’esigenza di calcolo e la celerità a disporre a loro volta i binari e la cornice per ciò che ha il carattere della massa» (M.HEIDEGGER, Contributi alla filosofia (Dall’evento), tri. it. di A.Iadicicco, Adelphi, Milano 2007, p.140). Per quanto riguarda la massa si vedano nella stessa opera anche ∫14 e ∫25.[/ref].

Né la prima persona singolare, né quella plurale, possono ricevere per Heidegger una preminenza nell’interrogazione[ref]Proprio a questo punto del corso Heidegger ci avverte che abbiamo guadagnato una posizione dirimente nei confronti della soggettività. Leggiamo infatti che il Selbst detiene il primato tanto sull’io quanto sul noi, essendone a fondamento. Tanto l’egoità quanto il noi comunitario si basano sull’ipseità; che si possa sostenere il contrario è dovuto secondo Heidegger alla valutazione del ‘34 come il tempo del noi, succeduto al dominio liberale dell’io moderno.[/ref]. Giunti a questo punto del ragionamento, il filosofo può portare a rispondere i propri studenti alla domanda sul noi:

«”Chi siamo noi-stessi?”: noi stiamo nell’essere del popolo, il nostro essere se-stesso è il popolo»[ref]Ivi, p.84[/ref].

La domanda sull’uomo ci trascina inavvertitamente alla questione del popolo. Il noi-stessi si colloca nella risposta che ognuno per proprio conto, in quanto interrogante, dovrebbe assumere e far propria. Il corso fornisce un’indicazione specifica: «Una decisione intorno a chi siamo noi stessi è stata già presa, siamo cioè il popolo»[ref]Ivi, p.87[/ref]. Ciò sta a significare che il popolo [das Volk] è tale in forza della decisione [Entscheidung]: esso non riceve la propria determinazione dall’alto, e non ha neanche un valore in potenza che si tratterebbe di attuare mediante la volontà. Come bisogna leggere quest’ultima affermazione, se, come viene fatto notare, quello tedesco è un popolo che si sta interrogando e non il popolo?
Siamo arrivati ad un primo svincolo decisivo del corso, che ci ha portato ad affrontare gradualmente una serie di questioni concatenate. Sulla base della riposta fornita sul popolo in quanto decisione, dobbiamo ora a trattare due questioni intermedie: esse vertono rispettivamente su cosa sia un popolo e che cosa stia qui a significare decisione.
Che cos’è un popolo secondo Heidegger? Faye non ne ha dubbi:

D’ora in poi non si potrà più negare che l’uso razzista della parola Volk viene accettato da Heidegger senza l’ombra di una riserva e in mezzo ai significati ammissibili[ref]E. FAYE, Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia, p.152. Secondo Faye sarebbe proprio sarebbe proprio Hitler ad ispirare la teoria statuale heideggeriana: «Heidegger fa dunque sua senza riserve l’espressione centrale del Mein Kampf, quella del völkischer Staat» (Ivi, p.215)[/ref]

Heidegger sembra intendere la parola in tutt’altro modo. Possiamo dimostrarlo illustrando le definizioni comuni – e perciò inautentiche – con le quali può essere determinato un popolo. Proseguendo la lettura del corso apprendiamo che il popolo può venir definito secondo tre criteri.
In primo luogo può essere inteso meramente come l’insieme degli abitanti di un territorio: «la popolazione costituisce il corpo [Körper] del popolo, l’insieme degli abitanti di uno stato»[ref]M.HEIDEGGER, Logica e linguaggio, cit., p.75[/ref]. Secondo questa prospettiva il popolo è considerato alla stregua di una massa censita, costituente una risorsa vivente in base alle sue membra. Proprio su questa base «spesso usiamo il termine “popolo” anche nel senso di “razza” [Rasse]»[ref]Ivi, p.95[/ref], riducendo il popolo alla sua materialità. Questa è la definizione biologica del popolo secondo la razza, secondo il sangue.

In secondo luogo, il popolo può essere preso semplicemente sotto un punto di vista sentimentale, in quanto anima [Seele]. «Popolo è inteso qui nel suo comportamento psichico – come anima»[ref]Ivi, p.97[/ref]. In questo modo una popolazione si definisce anche in virtù della propria identità romantica ricavata dalla tradizione, determinazione secondo cui sarebbe il diritto del territorio a radicare l’anima popolare nell’insediamento ed a stabilirne i caratteri. Questa è per Heidegger l’intesa antropologico-culturale del popolo.
In terzo luogo, il popolo arriva a coincidere con lo spirito [Geist]. «Ovunque sia questione di suddividere, di stabilire un ordine con leggi proprie, di decidere, il popolo è qualcosa di storico, di commisurato alla volontà, di spirituale: il popolo è spirito»[ref]Ivi, p.98 [/ref]. Secondo tale prospettiva esso è qualcosa di storicamente determinato, direttamente commisurato alla sua potenza spirituale. Questo è il popolo da un punto di vista di una filosofia della storia.
Giungiamo così ad un’altra tappa fondamentale della nostra ridefinizione linguistica. Proprio in riferimento alle definizioni appena proposte, secondo Faye comincerebbe «una lunga indagine sulla nozione di popolo, senza che nessuna di queste tre determinazioni sia rifiutata»[ref]Ivi, p.151[/ref]. Esattamente all’opposto, ciò è proprio quanto Heidegger sta cercando di dimostrare, ricusando le tre definizioni precedentemente abbozzate. Se non venisse meno la loro verità non avrebbe senso la distinzione approntata da Heidegger tra autenticità e inautenticità, l’argomentazione si ribalterebbe finendo per assumere ciò che si sta presentando appositamente in maniera negativa. Veniamo infatti nuovamente redarguiti, poiché nel corso delle analisi appena compiute abbiamo di nuovo mancato la domanda. Stiamo nuovamente questionando su cosa sia un popolo e non su chi esso sia.

Per questo motivo precedente, avevamo trasformato la domanda sul che-cosa in una domanda sul chi. Volevamo volgere le spalle alle rappresentazioni nelle quali l’uomo è fatto consistere nella connessione di corpo, anima e spirito.[ref]Ivi, p.99 [/ref]

I tre modi di determinazione di un popolo precedentemente abbozzati provengono tutti da una medesima origine, e cioè dalla considerazione dell’uomo come costrutto di corpo-anima-spirito [Leib-Seele-Geist]; ne consegue che solo una volta reimpostata la domanda sull’uomo sarà possibile formulare quella sul popolo in maniera autentica.
Per continuare a sondare la risposta sul popolo siamo subito rimandati alla seconda domanda intermedia, su che cosa s’intenda per “decidere”. La nostra comprensione quotidiana vuole che la decisione risponda ad un aut-aut, consista cioè in una possibilità esistenziale, in una scelta che ci si prospetterebbe tra due alternative. Al contrario, ed in maniera autentica, Heidegger presenta la scelta a partire dal suo sostenimento. Essa arriva a definire uno status: la decisione si dà solo ed esclusivamente nella continuità del suo accadere, nel mantenimento della scelta che corrisponde alla necessità della sua continuità. A questo proposito essa è appannaggio esclusivo dell’uomo in quanto egli rimane da sempre e inevitabilmente aperto alla decisione, sia che esso scelga o meno. Solo ed esclusivamente l’essere ferrati nell’apertura-decidente permette perciò il dischiudersi di un accadere[ref]«Questa apertura eminente, autentica, attestata nell’Esserci stesso dalla sua coscienza, cioè il tacito e pronto all’angoscia autoprogettarsi nel più proprio esser-colpevole, è ciò che chiamiamo decisione», e perciò «il decidersi, è in primo luogo, l’aprente progettare e determinare le possibilità di volta in volta effettive» (M.HEIDEGGER, Essere e tempo, cit., pp. 354-355)[/ref]. L’apertura decidente [Erschlossenheit] dell’Esserci è il nuovo sguardo sull’agire: dal momento che ci decidiamo per qualcosa rimaniamo aperti alla decisione stessa determinandoci. «Siamo aperti-decidenti a qualcosa – questo indica che ciò al quale siamo aperti-decidenti ci sta stabilmente davanti determinando tutto il nostro essere»[ref]M.HEIDEGGER, Logica e linguaggio, cit., p.111 [/ref].
Non avremmo raggiunto granché se l’esito di questo domandare ci avesse portato a quello che sembra un cieco volontarismo. A tal proposito leggiamo che questo decidere perde ogni carattere d’immediatezza, esso non rimane legato al volere presente, quanto piuttosto si inserisce all’interno di una discussione temporale. Esclusivamente in virtù della decisione ci inseriamo nella temporalità venendo così ad aprirsi la dimensione della storicità:

Nell’apertura-decidente, l’uomo è anzi rinviato all’accadere futuro. L’apertura-decidente è essa stessa un accadere che, afferrando preliminarmente quell’accadere, contribuisce stabilmente a determinare ogni accadere. [ref]Ivi., p.112 [/ref]

È proprio a questo punto che l’indagine investe lo statuto della storia. Riguardo l’essenza della storicità è necessario fornire sin da subito dei distinguo in base al tempo, poiché non assegniamo un carattere propriamente storico ad ogni trascorrere. Per comprendere come non ogni decorso temporale ottenga il diritto di essere storia, in quanto non tutto ciò che trapassa milita nella storia, dobbiamo necessariamente far riferimento all’accadere della decisione dell’uomo. La storia non è una mera successione di avvenimenti ordinata in manuali scolastici, incasellata secondo nessi di causa-effetto; piuttosto, e in maniera autentica, essa è determinabile esclusivamente a partire dall’essere dell’uomo. Si apre una dimensione storica esclusivamente in presenza dell’accadere: in quanto l’accadere resta nel sapere legato ad una volontà, ne conserva una notizia che è possibile render nota. Un effetto fisico, un animale, una cosa presi nella loro autonomia possono avere un processo, un movimento ma non accedono nell’ambito dell’accadere storico in maniera indipendente. Al contrario, sono la consapevolezza, l’intenzionalità e la volontarietà che permettono alla notizia dell’accadere di essere conservata e resa nota. Ciò è cruciale dato che «con questo sbarramento, determiniamo la storia come essere dell’uomo»[ref]Ivi., p.122. Secondo le scelte del traduttore: Geschichte è tradotto qui con “storia”, e sta ad indicare la storicità autentica del dar notizia della “storiografia” [Geschichtskunde]; mentre Historie, che indica la notizia riferita all’accadere della storia, è lasciato non tradotto. Invece la “scienza storica” inautentica traduce la Geschichtswissenschaft, che in quanto scienza, ordina razionalmente la notizia come oggetto. Per quanto riguarda la distinzione tra le due maniere di trattare la storia che stiamo per andare ad affrontare cfr. M.HEIDEGGER, Essere e tempo, cit., §74-§76. [/ref].
Siamo giunti all’ennesimo punto di svolta. Esattamente in questa parte del corso Heidegger indica infatti che siamo pronti ad effettuare una rotazione delle questioni fin qui poste, a rivolgerci nuovamente ad esse per passare ad un’indagine autentica. Il punto di torsione che permette di rivolgerci al percorso compiuto, rivelandone il carattere circolare-interpretativo, viene individuato nella ricomprensione della temporalità.
Durante il percorso dell’interrogazione siamo giunti al cospetto della storia e ne abbiamo fatto il carattere esclusivo dell’Esserci. La domanda sulla storia è abitualmente la domanda sul passato. Possiamo ora considerare i fatti in relazione a due modelli temporali: secondo lo scorrere degli attimi, oppure in base alla decisione dell’Esserci. Se il tempo individuato è quello di matrice aristotelica, dell’incedere dei momenti – il susseguirsi del movimento nel tempo dell’orologio -, allora il passato è qualcosa che non-è-più; esso è un trapassato, un qualcosa di compiuto in quanto trascorso. In alternativa, se il tempo è quello misurato sulla decisione dell’Esserci, esso si rivela un già-stato che perdura nel suo continuo farsi essenza, un provenire-verso della progettualità[ref]Heidegger distingue la considerazione canonica del tempo, risalente alla fisica aristotelica, dalla temporalità [Zeitlichkeit] della costituzione ontologica dell’Esserci. Temporalità che rivela la maniera autentica della cura, il rapportarsi dell’Esserci al proprio essere. A questi due modi di comprensione del tempo, il primo deiettivo ed il secondo autentico, nel disegno di Essere e tempo avrebbe dovuto aggiungersi la trattazione del tempo in relazione all’Essere [Temporalität]. Per la distinzione tra tempo inautentico e Zeitlichkeit cfr. M.HEIDEGGER, Essere e tempo, cit., p.396 ss.[/ref]. Mentre la prima temporalità, secondo il filosofo tedesco, è quella vigente nella metafisica occidentale sul modello aristotelico del movimento, la seconda modalità attraverso la quale è possibile trattare il passato, calibrato sull’accadere riguardante l’Esserci nella decisione, declina un nuovo modo di stare nel tempo e nella storia.

Heidegger passa ad indicare, a seconda delle due temporalità che abbiamo appena tracciato, due maniere fondamentali di trattare la storia. La scienza storica [Geschitewissenschaft] inautentica – basata sulla temporalità aristotelica-, considera la storia come un oggetto compiuto – che non è più -; essa configura gli eventi e li ordina in un’esposizione lineare secondo una linea tematica. La seconda modalità di fare storia, in quanto storiografia [Geschichtskunde – Historie], determina al contrario e di volta in volta il modo con cui un’epoca sta nella storia autenticamente. A questa seconda maniera di trattare la storia pertiene il mantenere la notizia (historia), tenuta salda a partire dall’accadere. Dal momento che è il nostro rapportarci al tempo a determinare la conseguente scienza storica, è una rinnovata discussione sulla temporalità a determinare la modalità dell’accadere dell’Esserci nella storia, la sua maniera di essere nella storia.
L’alternativa che si profila è tra un’ipostatizzazione del passato, che porta ad una forma d’ignavia storica che ci inchioda ad un atteggiamento constatativo, ed una considerazione dell’essere dell’uomo nel suo continuo essenziale maturare storico, indissolubilmente legato al carattere della decisione. La triplice canonica scansione temporale passato-presente-futuro subisce così un nuovo orientamento. Seguendo il carattere della decisione Heidegger arriva ad affermare qualcosa che ad una prima lettura può sembrarci contraddittorio. Il nostro essere nella storia, il farsi essenza da cose antecedenti, si determina a partire dal nostro futuro che s’impone come tradizione. La contraddizione risulterà solo apparente se per tradizione non intendiamo un passato immobile, da reiterare o restaurare, bensì un continuo farsi in-carico (tradere – liefern). Se quanto ereditiamo non è un patrimonio statico, ma ciò a partire da cui muoviamo, allora solo dopo aver assunto il nostro tratto antecedente potremo stare saldi nel nostro essere proprio: ciò significa farsi-essenza dal già-stato in direzione del futuro. Alla stregua di tale considerazione ci è possibile comprendere come il nostro essere anticipatamente gettati, sia subito a partire da un esser-già-stato tendente al futuro: è il tempo originariamente unico ed autentico. Focalizziamo così nel cuore del corso l’unica questione di Essere e tempo, ovvero il modo d’essere temporale dell’Esserci in rapporto all’Essere.

«Non ci è più possibile comprendere noi stessi come qualcosa che compare nel tempo, dobbiamo esperirci come quelli che facendosi essenza da cose antecedenti, estendendo la presa oltre se stessi si determinano a partire dal futuro, ossia però come quelli che sono essi stessi il tempo», poiché «Siamo noi stessi il maturarsi del tempo [zeitigen]»[ref]Ivi, pp.168-169: «Questo fenomeno unitario dell’avvenire essente-stato e presentante lo chiamiamo Zeitigung. […] La Zeitigung si rivela come il senso della Cura autentica. […] L’unità originaria della struttura della Cura è costituita dalla Zeitigung» (ET, p.387-388). [/ref]

Tutte le domande che ci siamo posti lungo il corso delle lezioni sono inserite in questo accadere temporale che noi siamo, pertanto, le risposte di cui ci siamo forniti andranno riformulate alla luce di una temporalità autentica. Quel che ci aspetta è dunque di riaffrontare le questioni passate in rassegna durante la prima parte delle lezioni, alla luce dell’autentico accadere temporale dell’Esserci, all’interno del suo effettivo maturare. Esclusivamente dopo aver assunto la nostra temporalità originaria ci riconosciamo come noi-stessi nella decisione, in quanto interroganti: ci appropriamo dell’accadere autentico, come popolo e come uomini, e, proprio rispondendo, siamo responsabili nel nostro proprio essere. Questa è propriamente la struttura della cura.

III. L’esperienza autentica di uomo, popolo e storia

Nel proseguo del corso dovremo ripercorrere la serie questioni che si erano, ad un primo tempo, presentate come inautentiche. Intraprendendo il cammino a ritroso, senza mai perdere di vista la temporalità dell’essere dell’uomo, sarà necessario mettere in luce i caratteri della nostra costituzione fondamentale. A questo proposito «facciamo esperienza del tempo solo e soprattutto se portiamo all’esperienza noi stessi nella nostra determinazione»[ref]M.HEIDEGGER, Logica e linguaggio, cit., p.177 [/ref]. In cosa consiste il nostro essere determinati? Esso si articola secondo Heidegger in tre significati reciproci: il binomio carico-mandato, il lavoro e la tonalità emotiva.
Il primo momento recettivo della nostra determinazione risiede nel nostro trovarci necessariamente impegnati nella tradizione. L’incarico [Auftrag], come determinazione ereditata del nostro essere, ci è destinato anticipatamente alla luce del nostro mandato [Sendung]; perciò siamo inevitabilmente interpellati ad una risposta responsabile nei confronti del mandato – ciò che ci è trasmesso. Abbiamo precedentemente detto che il nostro farsi-essenza procede dall’essere già-stato, ed ora ci appare chiaro come l’accostamento incarico-mandato, stimolando il nostro domandare alla risposta necessaria, illumini la nostra essenza storica costituendola in anticipo. Siamo necessariamente gettati nell’ente sempre a partire-da.
Questo carattere non rimane una constatazione erudita ed inoperosa, dal momento che la realizzazione di una sua replica passa attraverso una decisione. Scopriamo così cosa Heidegger intenda per lavoro, il secondo carattere della nostra determinazione. Lavorare è ricevere e portare all’opera la nostra determinazione [ins Werk setzen][ref]«Ricavare la nostra determinazione, mettere e portare in opera a seconda della sfera del produrre – significa lavorare» (M.HEIDEGGER, Logica e linguaggio, cit., p.180). Coerentemente Heidegger si esprime nella stessa maniera durante il discorso d’immatricolazione tenuto nel novembre 1933: «Tuttavia l’essenziale dell’essenza del lavoro non sta nell’attuarsi di un atteggiamento, e non sta nel suo risultato, bensì in ciò che in esso propriamente accade, e cioè: l’uomo, come lavorante, si confronta con l’intero dell’ente» (M.HEIDEGGER, Discorsi e altre testimonianze del cammino di una vita, tr.it. di N.Curcio, Il Melangolo, Genova 2005, p.191). Sulla stessa riga il servizio al lavoro era stato richiamato come uno dei servizi eminenti dello studente, durante il discorso di rettorato (M.HEIDEGGER, L’autoaffermazione dell’università tedesca. Il rettorato 1933/34, cit., p.25).[/ref]. Il lavoro non è un’attività del soggetto che si ripercuote su un oggetto ad esso estraneo, bensì si rivela l’operatività stessa della nostra essenza, l’efficienza del nostro agire. Agendo in direzione di una progettualità ci situiamo in un presente tra un essere già-stato e un futuro. Il lavoro si realizza come produzione della Bestimmung.

Il terzo elemento costituente la determinazione è la Stimmung: la tonalità emotiva[ref]«La tonalità emotiva ha già sempre aperto l’essere-nel-mondo nella sua totalità, rendendo solo così possibile un dirigersi verso…L’essere in una tonalità emotiva non importa alcun riferimento primario alla psiche; non è uno stato interiore che poi in modo enigmatico si esteriorizzerebbe per colorire di sé cose e persone. […] Alla situazione emotiva è esistenzialmente connessa un’aprente remissione al mondo in cui possiamo incontrare ciò che ci procura affezioni» (M.HEIDEGGER, Essere e tempo, cit., p.169,171). Per quanto riguarda la Stimmung in Essere e tempo cfr. anche §29 e §68b.[/ref]. Essa, in quanto tonalità fondamentale ci pervade da capo a fondo e ci determina intonandoci all’ente. Riferendoci alla Stimmung dobbiamo escludere ogni riferimento ad un flaccido sentimentalismo che si rispecchierebbe in stati comportamentali, inchiodati al vissuto di uno stato d’animo. Dato che è da sempre attraverso una tonalità che ci apriamo all’ente, essa influenza e caratterizza necessariamente ed immediatamente tale apertura, non possiamo accantonarla per una pretesa di un’oggettività scialba e fittizia.
Abbiamo già avuto modo di vedere, come, in senso inautentico, questa triplice determinazione non venga affatto rispettata. La domanda elusiva intorno l’uomo lo riduce alla sua mera oggettualità, alla sua mera presenza, così che possa rientrare nell’ambito delle scienze umane che ne mancano completamente lo statuto temporale. Ritornando a domandarci in senso autentico chi sia l’uomo, possiamo finalmente passare a connotarlo esaustivamente secondo la sua triplice autentica determinazione.
Riuniamo i tre caratteri della determinazione. Una volta sottratta la tonalità emotiva alla sua psicologizzazione in vissuti, diverrà possibile intenderla come esperienza decisiva; in necessario riferimento ad essa ci immettiamo nell’ente, esponendoci all’essere sempre secondo un’intonazione. La nostra determinazione si rivela efficace nel lavoro: l’operare dell’uomo nell’ente che ci si è aperto. L’uomo è costantemente rinviato alle cose, da sempre aperte nel mondo. Se la Stimmung ci situa emotivamente ed il lavoro ci immette operativamente nell’ente, manca ancora una linea unitaria che connetta i momenti in un unico intreccio. La traccia guida è fornita dal plesso incarico-mandato, cosicché ogni lavoro scaturisce da un compito ed è legato a quel che sopraggiunge, sempre nel rapporto all’ente sostenuto da una tonalità[ref]Ivi, p.217[/ref]. L’uomo viene a trovarsi immesso in una tradizione, dato che egli non è mai senza presupposti: la sua situatività [Befindlichkeit] è già di per sé ricevente, in quanto l’Esserci è da sempre aperto in maniera determinata. Portando a sintesi il ragionamento:

Questo senso triplice-unico di quel che chiamiamo determinazione ci consente innanzitutto di cogliere incarico e mandato, lavoro e tonalità emotiva nella loro unità commisurata all’accadere, di cogliere egualmente anche il tempo come potenza originaria che dispone il nostro essere e lo determina in sé come accadere.[ref]Ivi, p.183[/ref]

La determinazione, considerata in maniera unitaria, rappresenta la nostra completa storicità, coincidente con la nostra propria maturazione temporale. Siamo storicamente in virtù della nostra determinazione, e viceversa, siamo noi stessi in quanto esposti all’ente temporalmente. Questo intreccio corrisponde al nostro essere nel tempo – esposti all’ente nell’apertura – nel modo in cui ne va del nostro essere proprio. La nostra maturazione temporale [zeitigen] coincide con la cura del nostro proprio essere: essa dispiega il nostro farsi-essenza. Proprio quella che è presentata come la maturazione temporale viene a dispiegarsi tra il passato come già-stato, il presente situato nella tonalità emotiva e operante nel lavoro, nel continuo rinvio al futuro in virtù della decisione. L’indagine sull’uomo viene così a ricomporsi, acquistando un carattere unitario.

IV. Tentativo di una messa in discussione del concetto di politico

Solo dopo aver chiarito la domanda intorno l’uomo Heidegger nomina per la prima volta lo stato. Egli lo fa dopo aver riannodato i capi delle analisi fin qui compiute e portando a conclusione il corso, fornendo una risposta all’interrogazione intorno al popolo.

«L’ente originariamente unitario che regge esser-esposto, rinvio, tradizione e carico può essere solo quel che chiamiamo un “popolo”»[ref]Ivi, p.219[/ref]

Dato che il popolo è da subito un determinato popolo, lo stato non potrà essere legato ad una definizione concettuale frutto di un’astrazione del diritto, bensì esso rivela la propria politicità in riferimento al proprio Esserci. Se assumiamo la cura in sé come cura della determinazione, allora possiamo arrivare a riaccorpare le analisi affermando che «Lo stato è l’essere storico del popolo»[ref]Ivi.p.230[/ref]. La definizione raggiunta è decisiva:

Lo stato sussiste solo se e finché accade l’affermazione della volontà di signoria che scaturisce da mandato e carico e che all’inverso diventa lavoro e opera. L’uomo, il popolo, il tempo, la storia, l’essere, lo Stato – non sono concetti astratti che servono come oggetti per esercizi definitori, ma il comportamento essenziale è sempre un decidersi storico, ossia un decidersi già-stato-futuro[ref]Ivi, p.230. Per quanto riguarda l’utilizzo di questo concetto di stato durante il periodo di rettorato si veda in particolare M.HEIDEGGER, Discorsi e altre testimonianze del cammino di una vita, tr.it. di N.Curcio, Il Melangolo, Genova 2005, pp. 188, 302).[/ref]

Una volta guadagnata questa prima ricomprensione destrutturante dello stato, è necessario notare come le sostituzioni terminologiche adottate nell’opera di Faye siano assolutamente fuori strada[ref]Ciò che è peggio è che Faye cerchi di confermare la sua tesi effettuando una vera e propria manomissione dei testi heideggeriani per cercare di estorcerne una confessione. Nel suo articolo Sheehan passa in rassegna i maggiori interventi arbitrari compiuti dal francese: alterazione del testo per mezzo di una traduzione faziosa, come nella Lettera sull’umanismo; forzatura del testo ad un’interpretazione insostenibile, come in occasione di un commento ad un corso dedicato al Reno di Hölderlin; riscrittura integrale di alcuni passi, come nel caso di un’affermazione contenuta nell’intervista allo Spiegel. Per quanto riguarda queste tre denunce si veda rispettivamente M.SHEEHAN, Emmanuel Faye: the introduction of fraud into philosophy?, pp.23, 25-26, 28-30.[/ref]. Secondo quest’ultimo proprio i corsi tenuti durante il rettorato

ci rivelano fino a che punto il ‘filosofico’ e il politico siano per lui un’unica cosa, e come Heidegger posizioni il politico, inteso nel senso più radicalmente nazista, nel cuore stesso del ‘filosofico’[ref]E. FAYE, Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia, cit., p.8[/ref]

Il tema è cruciale. Che la nozione di politico venga a trovarsi, assieme alla storicità, nel cuore della speculazione heideggeriana, è attestato dalla ridefinizione dell’essenza dello stato; ciò che non è vero invece è che Heidegger ricavi ed usi le proprie categorie politiche a partire da una dottrina di partito. L’intento della presentazione del corso del ’34 era proprio quello di mettere in discussione la genesi dei suoi “concetti” dall’hitlerismo, per lasciarli sgorgare direttamente dall’ontologia del ’27.
Per cercare parziali conferme di questa lettura facciamo un breve riferimento a due seminari contemporanei al corso analizzato. Con questi ragguagli tentiamo di effettuare direttamente una messa in discussione del concetto di politico, per come Heidegger l’ha creduto di determinare, e sulla base del quale ha sostenuto le sue affermazioni e scelte politiche.
Sulla scorta delle affermazioni compiute nel corso del ’34 non sarà difficile comprendere come Heidegger possa asserire in un seminario dello stesso anno che «Per determinare l’essenza del politico, bisogna prima di tutto ritornare all’essenza dello Stato»[ref]«Für die Bestimmung des Wesens des Politischen ist der Rückgang auf das Wesen des Staates des Allererste» (M.HEIDEGGER, Hegel, über den Staat, seminario invernale 1934-35, protocollo del seminario conservato al Deutsches Literaturarchiv di Marbach, reportatio di W.Hallwachs, f. 78r, tri.it. in E. FAYE, Heidegger, L’introduzione del nazismo nella filosofia, cit., p.326)[/ref]. Tuttavia, se lo stato poggia sulle nozioni di popolo e storia, che a loro volta sono fondate sulla triplice determinazione dell’esserci, sembriamo trovarci di fronte ad una giustapposizione tra politica ed ontologia.

Una seconda citazione, che può servirci da guida e sciogliere ogni ulteriore riserva, è tratta da un seminario del 1933. Essa porta a compimento ed allo stesso tempo inserisce su di una traiettoria lineare tutte le questioni affrontate nel corso del ’34. Nel seminario viene affermato che:

Il politico, come possibilità fondamentale e modo d’essere distintivo dell’uomo, è – come dicevamo – il fondamento sul quale lo Stato è. L’essere dello Stato è ancorato nell’essere politico degli uomini che, in quanto popolo, portano questo Stato, si decidono per esso.[ref]«Das Politische als Grundmöglichkeit und ausgezeichnete Seinsweise des Menschen ist – wie wir sagte -, der Grund, auf dem der Staat ist. Das Sein des Staates liegt verankert im politischen Sein der Menschen, die als Volk diesen Staat tragen, die sich für ihn entscheiden» (M.HEIDEGGER, Über Wesen und Begriff von Natur, Geschichte und Staat, seminario invernale 1933-34, protocollo conservato al Deutsches Literaturarchiv di Marbach, appunti di I.Schroth settima sessione §1, tri.it in E. FAYE, Heidegger, L’introduzione del nazismo nella filosofia, cit., p.183).[/ref]

L’intima responsabilità e l’estrema decisione intorno al proprio essere – in quanto cura della storicità – sono a fondamento del politico. A partire da ciò: «La forma, la costituzione dello Stato è un’espressione essenziale del senso che il popolo vuole dare al suo essere»[ref]«So ist denn auch die Form, die Verfassung des Staates wesentlicher Ausdruck dessen, was das Volk sich als Sinn setzt für sein Sein» (M.HEIDEGGER, M.HEIDEGGER, Ueber Wesen und Begriff von Natur, Geschichte und Staat, cit., settima sessione §12, tri.it in E. FAYE, Heidegger, L’introduzione del nazismo nella filosofia, cit., p.204).[/ref]. Questo accadere nella decisione rende impossibile ogni corto circuito tra essere e stato, dato che il secondo scaturisce dal primo determinandolo e non viene mai a sovrapporglisi.

Tornando brevemente alle affermazioni con le quali abbiamo esordito nel presente scritto, a questo punto siamo in grado di scansare alcune delle incomprensioni che si sono venute a creare in seguito alla separazione tra il pensiero e la politica di Martin Heidegger. Il testo di Faye ci ha mostrato a proposito, come, una volta disconosciuta ogni autonomia del concetto di politico del filosofo tedesco, sarebbe facile distorcerne e interpretarne erroneamente le affermazioni politiche. Alla luce di questa procedura interpretativa diviene possibile lasciar imporre il contesto sull’autore, assumere la scelta del ’33 come evento dirimente e lasciar fagocitare l’autore dall’ideologia. Il nostro tentativo, al contrario, è stato quello di accennare ad un terreno d’autonomia del “linguaggio politico” heideggeriano.
Posto che Heidegger usi le medesime espressioni della fraseologia ideologica, senza tuttavia condividerne i significati, né tanto meno i referenti, la questione che ci si presenta è la seguente: in che rapporto stanno le stesse parole pronunciate dal filosofo e dagli ideologi del partito? A questo livello il pensiero impatta la storia e ne rivela la sua inevitabile attualità.
Il quadro storico-culturale nel quale il pensiero di Heidegger è venuto a maturare è quello della crisi di inizio secolo, dalla prima guerra mondiale, all’agonia della Repubblica di Weimar, del contemporaneo dilagare del movimento comunista. La sua posizione risulta perfettamente inscrivibile nella schiera di coloro che mossero critiche radicali alla Weltanschauung liberale, all’appiattimento borghese, alla crescente burocratizzazione dell’università tedesca, e non da ultimo al modello comunista. Tutti questi fenomeni rappresentavano agli occhi del filosofo una via impropria assunta dalla modernità per la Germania. Mann, Spengler, Jünger, Jaspers e Schmitt sono solo alcuni degli autori con i quali Heidegger condivide il sentimento di una rottura epocale della storia, un anti-modernismo viscerale, che con ben altre tinte sarà propugnato anche da Hitler stesso[ref]In questa direzione si muove lo studio di Domenico Losurdo, secondo cui l’heideggerismo non sarebbe che una delle forme assunte dall’ideologia della guerra tedesca. Per quanto riguarda invece il rapporto tra Heidegger ed il nazismo, lo studioso italiano matura una posizione ben più critica rispetto a quella di Faye, arrivando ad affermare che «a tale proposito, possiamo tentare di concludere: la denuncia della modernità è al tempo stesso motivo d’incontro col nazismo e terreno per un confronto critico con esso» D.LOSURDO, La comunità, la morte, l’Occidente, Bollati Boringhieri, Torino 1991, p.130).[/ref]. Tuttavia, appiattire ogni posizione su di un’altra – come avviene nel lavoro di Faye, significherebbe compiere una semplificazione spropositata.

Prima di abbandonarsi a sentenze inappellabili è necessario chiarire come la posizione politica di Heidegger non sia stata figlia della foga dell’attimo e come, allo stesso tempo, sia arrivato ad imboccare una strada sbagliata come quella del ‘33. Se il filosofo tedesco matura la propria nozione di politico e di socialismo-nazionale a partire dalla propria speculazione, possiamo ipotizzare che è solo perché egli credette che il partito salito al potere nel ’33 avesse potuto rappresentare l’anima del “sovvertimento dell’Esserci tedesco”. Questa scelta è da egli stesso riconosciuta come il suo errore capitale, la sua colpa[ref]«Il rettorato fu un tentativo di vedere, nel movimento che era diventato potere, al di là di tutte le insufficienze e grossolanità, qualcosa di più vivo e proteso verso un orizzonte più ampio che forse un giorno avrebbe potuto condurre ad un ripensamento dell’essenza storica dei tedeschi. Non si deve negare che io allora credetti a tali possibilità e rinuncia alla vocazione più autentica del pensiero per un compito e un dovere pubblico. Né va sminuito ciò che provocò una vera e propria mancanza nell’espletamento di tale compito. Solo che, in tali prospettive, non si colse ciò che aveva determinato l’assunzione di quell’ufficio» (M.HEIDEGGER, L’autoaffermazione dell’università tedesca. Il rettorato 1933/34, tr.it di C.Angelino, Il Melangolo, Genova 1988, p.51).[/ref]. Sebbene Heidegger non contragga alcun debito di sorta con l’ideologia e con le parole del partito – pur condividendone il retroscena storico -, è comunque fondamentale, per comprendere a fondo il suo errore politico, spiegare come i due linguaggi possano essere arrivati a sovrapporsi[ref]Una delle posizioni orientate a porre i giusti distinguo è quella sostenuta dallo storico Ernst Nolte, che riconosce il rischio di appiattire la complessa situazione politica che caratterizza gli anni della presa di potere del regime. Secondo lo storico «Nel 1933-34 ci potevano quindi essere ancora diverse concezioni di “nazionalsocialismo” e non è accettabile che tutte vengano sussunte ex eventu all’interno di quella hitleriana» (E. NOLTE, Martin Heidegger tra politica e storia, tr.it di N.Curcio, Laterza, Roma-Bari 1994, p.160-161)[/ref].
La compromissione con il partito e gli insanabili attriti che con esso emergeranno a seguito di credenze inconciliabili, sono due facce della stessa medaglia. Come ci ha mostrato il lavoro di Faye, inserire un autore nel proprio contesto d’appartenenza, forzandolo in logiche che non gli sono proprie, significa disconoscerne la peculiare posizione e piegarne arbitrariamente il pensiero. Che la riflessione di Heidegger, lungi dall’essere una teoresi rarefatta, sia bensì radicata nella realtà e frutto del proprio tempo, non può più lasciar scandalizzati, ciononostante non è lecito negare al suo pensiero ogni autonomia.

Mattia Tritarelli (1988) ha conseguito la laurea magistrale in “Filosofia ed etica delle relazioni” presso l’Università degli Studi di Perugia sotto la guida del Prof. Flavio Cuniberto, con una tesi dal titolo Heidegger e la Kehre. L’emergere del linguaggio nei corsi dei primi anni ’30. Attualmente sta svolgendo il dottorato di ricerca in Filosofia presso l’Università degli Studi di Perugia con un progetto di ricerca sul rapporto tra il pensiero di Heidegger ed Hegel.

Bibliografia delle opere citate

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Ib., L’autoaffermazione dell’università tedesca. Il rettorato 1933/34, tr.it di C.Angelino, Il Melangolo, Genova 1988
Ib., Logica e linguaggio, tr. it. di U.Ugazio, Marinotti, Milano 2008
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A. DENKER,  H. ZABOROWSKI, Heidegger-Jahrbuch 4. Heidegger und der Nationalsozialismus, voll. 2, Alber Verlag, Freiburg/München 2009;
P. BOURDIEU, Führer della filosofia? L’ontologia politica di Martin Heidegger, tr. it. a cura di G. De Michele, Il Mulino, Bologna 1989;
F. BRENCIO (a cura di), La pietà del pensiero. Heidegger e i Quaderni Neri, Aguaplano – Officina del Libro, Passignano s. T. 2015;
D. DI CESARE, Heidegger e gli ebrei. I Quaderni neri, Bollati-Boringhieri, Torino 2014;
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A. FABRIS (a cura di), Metafisica e antisemitismo. I «Quaderni neri» di Heidegger tra filosofia e politica, ETS, Pisa 2014;
E. FAYE, Heidegger, L’introduzione del nazismo nella filosofia, a cura di L.Profeti, L’asino d’oro, Roma 2012;
V.FARIAS, Heidegger e il nazismo, tr. P.Amari, Bollati Boringhieri, Torino 1988;
F.FÉDIER, Venire a maggiore decenza, in M.HEIDEGGER, Scritti politici, tr.it. di M.Borghi e G.Zaccaria, Piemme, Casale Monferrato 1998;
F.FÉDIER, Heidegger e la politica. Anatomia di uno scandalo, tr.it. di M.Borghi, EGEA, Milano 1993;
J.HABERMAS, Il filosofo e il nazista, tr. it. di P.Amari, in Micromega 1988 n.3;
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K.LÖWITH, La mia vita in Germania prima e dopo il 1933, tr. it. di E.Grillo, il Saggiatore, Milano 1995;
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H. OTT, Martin Heidegger: sentieri biografici, tr. It. Di F. Cassinari, Sugarco Edizioni, Milano 1988;
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P. TRAWNY, Heidegger und der Mythos des jüdischen Weltverschwörung, Klostermann, Frankfurt a. M. 2014;

Recensione al volume di L.Ventura, “Il diritto di resistenza”

 

Un disco di successo del musicista Sonny Curtis, pubblicato nel 1960, si intitolava “I Fought the Law”. Nelle traduzioni che circolavano all’alba della controcultura studentesca in Italia, nei primi Sessanta, si sarebbe potuto indifferentemente leggere “ho combattuto lo Stato”, “ho combattuto il potere”, “ho combattuto la legge” e a poco c’entra la dottrina anglofona, da Dworkin in poi, che ha specificamente lavorato sull’analitica distinzione tra i concetti richiamati. Il volume di Luigi Ventura, “Il diritto di resistenza” (pubblicato per i tipi di Rubbettino, Soveria Mannelli, nel 2014), è sostanzialmente percorso da una domanda che sorge spontanea leggendo le diverse traduzioni del testo di Curtis: cosa può fare il cittadino quando il potere agisce contro la stessa legge di uno Stato di diritto? Come può combattere?

Il saggio costituisce, per altro verso, la ripubblicazione di un estratto significativo di un lavoro più lungo, del medesimo A., risalente al 1981: sarà sorprendente, alla fine della lettura, riscontrare che ben poche rughe si inseguono tra le pagine del testo e, invece, molta, molta, sorpresa e sorprendente attualità. Ancor prima dei contenuti, preme del resto sottolineare l’intrinseca unitarietà stilistica del volume, messa in mostra dalle notazioni bibliografiche a piè di pagina. Molto dettagliate, e però sempre accessibili (rari entrambi i fenomeni nelle pagine di uno stesso volume, nella letteratura scientifica), quasi che, in effetti, il lettore possa volgere lo sguardo a due facce della stessa medaglia, più che a due libri diversi. Per Ventura il nutrito apparato bibliografico è usato o come esplicazione teorica puntuale e minuziosa delle intuizioni del volume o in quanto efficace aggiunta di particolari, rispetto allo svolgimento testuale della ricerca.

Nella prima parte del volume ci si occupa della genesi concettuale del diritto di resistenza, nell’alveo giusnaturalistico, anche nelle sue componenti più radicali (il tirannicidio). Un giusnaturalismo che, almeno per ovvie ragioni storico-culturali, ha avuto a propria volta origini cristiane. Prova ne sia che l’A., tra le molte, passa al setaccio le posizioni di Calvino – che propone l’istituzione di magistrature per la tutela del popolo – della Scolastica  (filtrate da un’interpretazione di Tommaso che l’A. giustamente non ritiene sempre e del tutto soddisfacente), fino alla vitalità del diritto borghese rivoluzionario del XVII e del XVIII secolo. Interessante che questa parte della trattazione si concluda con l’analisi delle scelte costituzionali compiutesi in Germania e in Francia. Casi di studio che più facilmente vengono di solito utilizzati come metro di comparazione per l’ordinamento italiano, ma anche ordinamenti che di quel diritto rivoluzionario declinarono, per ragioni e in forme e tempi diversi, soprattutto lo strumento della codificazione. Persino in merito a quest’ultimo, può notare, ad esempio, Grossi, è palese l’influenza delle dottrine giusnaturalistiche, benché spogliate dalle connotazioni etico-politiche più apprezzabili. Una spoliazione che non riguarda, invece, la natura radical-collettivistica del diritto di resistenza e il cui mancato depotenziamento ideologico è verosimilmente causa dell’eclissarsi di riferimenti ad esso nella Costituzione francese del 1946 e dello sbrigativo dibattito (nota l’A., p. 56) che lo riguardò in Italia. Il senso etico non appartiene al governante iniquo.

Proprio il capitolo del volume dedicato alla trattazione in sede di Assemblea costituente della problematica in oggetto si rivela tra i più interessanti per saggiare l’effettiva contemporaneità della questione. Inizialmente, la costituzionalizzazione del diritto di resistenza veniva caldeggiata dalla sinistra democristiana (Dossetti), ma altre correnti del medesimo partito finirono per retrocedere dall’attuazione di quel principio teorico cui pure la vicenda storica del Cattolicesimo aveva dato un contributo non irrilevante. Come avverrà in Portogallo e in Spagna nei tre decenni successivi, la difesa del diritto di resistenza, nel novero dei diritti fondanti lo Stato democratico, diverrà principalmente istanza della sinistra marxista. E, stando al dibattito italiano, con maggiore incisività nella sinistra socialista, che non nel Partito Comunista, al quale (dati i tempi e i contesti in cui si consumava la discussione sul diritto di resistenza) la questione doveva sembrare l’ingenua legalizzazione di un momento rivoluzionario – l’illusoria clausola di continuità tra l’ordine costituito e l’ordine costituente. 

È nei capitoli successivi che i richiami a temi dell’oggi si fanno, però, ancora più pressanti. Innanzitutto, l’A. ammette esplicitamente di guardare al contenuto del diritto di resistenza senza ritenerlo l’ipotesi manualistica e residuale che corrisponde a fatti particolarmente eclatanti (un colpo di Stato). La prospettiva percorsa sembra assai più equilibrata e concepisce la configurabilità di uno strumento siffatto anche nel caso di reiterata inattuazione del disegno politico-costituzionale. L’A., nel 1981, aveva ben chiaro che il volto morbido del dispotismo sarebbe stata la quotidiana svalutazione del dettato costituzionale – o, come sempre più e sempre peggio avviene, un utilizzo abusivo e non paradossalmente incostituzionale della medesima revisione costituzionale. In secondo luogo, è appena il caso di notare che l’elaborazione dell’A. si riferisce all’inizio degli anni Ottanta. Calate nel loro contesto genetico, queste pagine svelano dei tratti evidentemente coraggiosi. Nel decennio precedente, infatti, si era coltivata, forse, illusoriamente la possibilità di un momento rivoluzionario in Italia (stavolta, da parte della sinistra extraparlamentare, e non di quella parlamentare). Ed è sorprendente che la legislazione di quegli anni, riconosciuta reiteratamente incostituzionale da parte della Corte nei decenni successivi, si incaricasse di soffocare le tumultuosità dell’epoca, senza prendere in considerazione che proprio una più coerente legislazione attuativa del disegno costituzionale avrebbe disinnescato molte delle questioni sociali che avevano legittimato sul piano dell’opinione pubblica l’insorgenza dei movimenti extralegali. Il diritto di resistenza cui guarda l’A., forse anche per trovare sbocco costituzionalmente coerente alle istanze sociali che Egli pur riconosce (senza ovviamente avallarne gli incendiari di turno), non è cospirazione estemporanea, né archeologia giuridica dell’alba del costituzionalismo. È presa di coscienza della resistenza a sovrani illegittimi. Non sbocchi cruenti, prefigura tale impostazione giuridico-teorica, ma riscoperta ragionata e coerente delle più intime nervature della Carta.

Colpisce che l’A. affronti espressamente, nella verifica di ipotesi di resistenza per come poc’anzi chiarite e senza suggerire sovrapposizioni affrettate, il caso dell’obiezione di coscienza (più rapidamente) e dello sciopero politico (dedicandovi la parte più corposa della trattazione). Il primo, del resto, poteva sembrare avere trovato una prima, accettabile, soluzione con la legge n. 772 del 1972 (e, in misura diversa, con l’art. 9 della legge n. 194 del 1978, che non aveva ancora messo in luce le applicazioni abusive, in tema di obiezione, oggi osservabili). Ma è emblematico che l’A. dedichi grande attenzione allo sciopero politico. Ciò, al lettore di oggi, pare indicativo di almeno due istanze parimenti significative. Ex tunc (per “ieri”, quando l’A. scriveva di quei temi per la prima volta), avere intuito che stava per andare in scena nel Paese una complessiva trasformazione delle politiche salariali, sindacali e di gestione della spesa pubblica. La politica economica del governo Craxi di lì a poco avrebbe messo nero su bianco lo smantellamento della forza rivendicativa del movimento operaio e, d’altra parte, l’indebitamento come leva espansiva. Ex nunc (da “oggi” e per il futuro) l’A. nota pure il rilievo, nient’affatto consolatorio o astrattamente declamativo, dei diritti sociali nel novero della Carta costituzionale. Come a dire che solo una politica legislativa orientata compiutamente alla loro attuazione sarebbe conforme a Costituzione, non ponendosi al di fuori di quell’accezione di legalità, per cui è opportuna la difesa della resistenza. La Costituzione deve orientare le leggi. Le leggi vanno interpretate secondo Costituzione, non dev’essere l’interpretazione della Costituzione a venire strappata o tirata qua e là, per assecondare la pessima qualità della produzione legislativa,  come letture sconcludentemente funzionalistiche vorrebbero imporre di fare.

Riprendendo, allora, le battute iniziali dell’opera c’è da chiedersi non già che ruolo abbia la resistenza nell’ordinamento (acclarato che essa vale ad assicurare istanze di giustizia sostanziale e principi fondamentali, questi si, non negoziabili), ma che mutevoli forme saprà prendere l’usurpazione del tiranno. Quali diavolerie ha in serbo nella sua raffinatissima borsa di coccodrillo.

Via i notai!

di
Mino Vianello

 

Matteo Renzi si scaglia contro gli interessi costituiti che bloccano la modernizzazione di questo paese. Gli propongo una sfida: cancellare una delle corporazioni più agguerrite che, proprio perché numericamente piccola ed omogenea per formazione culturale e tecnica, si presenta compatta e in grado d’intervenire efficacemente su tutte le forze politiche. Nessuno finora ha osato  attaccarla, pur essendo evidente l’impatto negativo ch’essa ha sulla vita economica del paese: la corporazione dei notai.

La scusa ch’essa esiste in diversi altri stati non giustifica la sua sopravvivenza come professione “privata”, a parte la considerazione che le norme che la governano nei paesi dell’Europa continentale (in Gran Bretagna come negli Stati Uniti non esiste proprio) sono ben diverse da quelle che nel nostro paese le consentono di accumulare come forse nessun’altra ricchezza e potere.
Le giustificazioni da essa addotte ricordano quelle messe avanti da un’altra anomalia italiana: quella della corporazione dei farmacisti, che si richiamano con sfacciataggine unica alla tutela della salute pubblica (quasi che nei paesi anglosassoni, dove la vendita dei farmaci è assimilata alla vendita di qualsiasi altro prodotto,  la salute pubblica non sia tutelata!).  Le giustificazioni addotte dai notai si riassumono sostanzialmente in due.
La prima riguarderebbe la fiducia cui può abbandonarsi chi, per esempio,  compra un immobile, che deriverebbe dall’ imparzialità del notaio, da una preparazione giuridico-fiscale di alto livello a seguito di un  concorso severo, dalla sua natura di pubblico ufficiale,  che, malgrado si presenti come un privato professionista,  lo rende garante della veridicità e della legalità degli atti (senza con questa accorgersi dell’incoerenza d’una commistione, “privato professionista con funzioni di pubblico ufficiale”,  da Ancien Régime,  cui la Rivoluzione Francese aveva messo fine).
La seconda giustificazione serve a giustificare le tariffe. Consiste nel fatto che il notaio,  esercitando la sua funzione non da dipendente statale, ma come libero professionista, deve affrontare notevoli spese per assicurare ai clienti rapidità nella  predisposizione degli atti e delle formalità richieste e nella loro trasmissione per via telematica ai pubblici registri, per cui deve fare  investimenti molto costosi in personale e in strumenti informatici. Ne consegue che è giusto che si  faccia  pagare profumatamente.
Ovviamente, tra le attività importanti da loro svolte, vengono elencate,  oltre alle immancabili successioni, la  compra-vendita di beni immobili: case, uffici, terreni, capannoni,  navi e fino a ieri automobili (equiparati  paradossalmente  da noi  ai beni immobili, forse perché forniti d’un tetto!…) e i passaggi più  rilevanti  relativi alla costituzione di società commerciali.

Le obiezioni vengono alle labbra immediate. Perché mai ci sarebbe bisogno d’un servizio che costa fior di quattrini ai contraenti, quando i mezzi oggi a disposizione consentono di collegarsi in tempo reale, per esempio,  con gli uffici competenti per accertare l’esistenza d’un’eventuale ipoteca sul bene che si vuole acquistare?  Perché un pubblico ufficiale può celebrare un matrimonio e non, invece, ricevere e certificare un testamento? Perchè per avere un conto corrente in banca o ottenere un prestito basta un funzionario della banca stessa, mentre per un mutuo c’è bisogno d’un notaio? Per accendere l’ipoteca? È ovvio che oggi, con i mezzi tecnici di cui disponiamo che riducono al minimo il rischio d’imbrogli,  questa funzione può essere espletata dalla banca stessa, sottoponendo l’atto alla convalida d’un pubblico ufficiale così come si fa per la registrazione dei matrimoni.
Ci sono certo negozi giuridici che richiedono esperienza, come la costituzione d’una società commerciale: ma perché, in questi casi, non fare ricorso al commercialista o all’avvocato, che poi  può provvedere a registrarne l’atto?
Vuole  Matteo Renzi aiutare ad aumentare gli investimenti e i consumi? Ecco un modo semplice per metter a disposizione della gente fior di quattrini: perché tutti sappiamo a quanto ammontino le tariffe notarili.

Ma non basta. Ciò che fa emergere chiaramente la fisionomia medievale che accomuna questa all’altra corporazione esistente in Italia, quella dei farmacisti, è il numero programmato sul territorio, che assicura ad ambedue una posizione monopolistica, garanzia, oltre che  d’una rendita cospicua, d’una posizione  feudale che facilita la trasmissione familiare del “mestiere”.

Partirà con la lancia in resta il cavaliere senza macchia e senza paura? C’è il dubbio che l’armatura di cui si ricopre sia quella del Cavaliere della Mancha : che alla fine, rivelatasi di latta, gli fece fare brutta figura. Le lobbi sono attive e potenti in tutte le forza politiche.   Sono destinate a restare tali nel PD? O sarà questo disposto a fornirgli altra più robusta corazza?  A quanto sembra, c’è da dubitare.

Sistemi elettorali e rappresentanza politica. Considerazioni a margine dell’ “Italicum”

di
Gabriele Molinari

 

Premessa.

I sistemi elettorali servono a trasformare le opinioni politiche esistenti all’interno di una comunità (anch’essa quindi, appunto, politica) in rappresentanze elettive.
Nel perseguire questo scopo i predetti sistemi devono garantire – almeno in linea teorica – che gli eligendi organi complessi (ovvero quelli collegiali; il problema naturalmente non si pone per le cariche monocratiche) possano correttamente assolvere all’esercizio della propria funzione deliberativa.
Tanto meglio riescano a provvedervi – quindi nella conseguente determinazione di definite e stabili maggioranze assembleari – tanto più sarà perseguito e raggiunto l’obiettivo primo di ogni comunità politica, ovvero il governo della stessa.

Il presente lavoro, tuttavia, non si propone solo di indagare la relazione esistente tra i predetti sistemi (nelle loro diverse tipologie) e i livelli possibili di governabilità, quanto pure di stabilire quale sia e come si configuri, a seconda dei modelli adottati, il rapporto tra le rappresentanze elettive – ed in specie quelle parlamentari – e gli interessi portati dal corpo elettorale.
L’interesse a questa riflessione muove dalla considerazione del fatto che il sistema maggioritario e quello proporzionale, per loro intrinseca natura, generano una diversa rappresentazione elettiva di quegli interessi, ed un ancor più diverso bilanciamento dei medesimi.
Soprattutto, l’interesse muove dai recenti sviluppi dell’attività parlamentare, dal momento che si sta discutendo un disegno di legge di revisione costituzionale e che è stato approvata una nuova legge elettorale, entrambi destinati a modificare radicalmente l’ordinamento della Repubblica.
La variazione del sistema elettorale induce a verificare l’eventuale, corrispondente, sussistenza di una variazione nel meccanismo di rappresentanza istituzionale.

 

Introduzione. I sistemi elettorali.

Prima di ogni considerazione, è utile ricapitolare le caratteristiche dei sistemi elettorali vigenti nelle principali democrazie del mondo.

La tipologia più semplice è la legge proporzionale: ciascun partito ottiene una quantità di seggi in Parlamento in base al numero di voti ottenuti. Si afferma generalmente che il sistema proporzionale garantisca appieno la rappresentanza dell’elettorato, ma è il meno idoneo ad assicurare la governabilità. In effetti, in una democrazia parlamentare – in cui il Governo ha bisogno della fiducia del Parlamento – l’azione di governo può avere un indirizzo univoco solo qualora un insieme di partiti, compatibili fra loro sul piano ideologico e programmatico, ottenga la maggioranza assoluta dei voti. In caso contrario, il Governo dovrebbe contare su una maggioranza parlamentare eterogenea, con il rischio che i veti incrociati rendano impossibile l’assunzione delle necessarie scelte.
Per attenuare gli effetti negativi in termini di governabilità, è possibile adottare alcuni correttivi, generalmente mirati alla diminuzione quantitativa dei partiti rappresentati in Parlamento, con conseguente aumento dei seggi attribuiti ai partiti maggiori.
Il principale rimedio è lo sbarramento: solo i partiti che superano una soglia numerica di voti possono ottenere seggi in Parlamento. Così dispone, ad esempio, la legge elettorale vigente in Germania: i partiti che, a livello nazionale, ottengono più del 5 per cento si spartiscono i seggi della Dieta federale. Analogo sistema è adottato in Russia, ove è necessario ottenere il 7 per cento per accedere alla Duma; sono comunque riservati seggi in numero fisso per i partiti compresi fra il 5 e il 7 per cento dei voti.
Un’alternativa consiste nell’assegnare i seggi non su base nazionale, ma all’interno delle circoscrizioni elettorali. Poiché in ciascuna di esse è assegnato un numero limitato di seggi, il numero di partiti che accederanno alla distribuzione dei seggi risulta inferiore. Così prevede la legge elettorale in Spagna.
In Italia, dal 1948 al 1993, la legge elettorale era di tipo proporzionale, senza sbarramento. Più esattamente, i senatori erano eletti in collegi uninominali: la legge prevedeva l’elezione diretta del candidato vincente in ciascun collegio, a patto che questi raggiungesse il 65 per cento dei consensi; in mancanza, i seggi erano ripartiti secondo il metodo proporzionale. In seguito al referendum abrogativo del 1993, il Parlamento, con due successivi interventi legislativi, ha introdotto il metodo maggioritario. Nel 2014, con la sentenza n. 1/2014, la Corte Costituzionale è intervenuta sulla legge elettorale, dichiarando l’illegittimità di alcune disposizioni; il risultato è una legge proporzionale, con sbarramento del 4 per cento alla Camera e dell’8 per cento al Senato; è previsto uno sbarramento inferiore per le liste coalizzate, ma l’assenza di un premio di maggioranza non incentiva la formazione di coalizioni. Come vedremo, a partire dal 1 luglio 2016, questa legge non sarà più in vigore per l’elezione della Camera dei deputati.

Se i sistemi proporzionali, più o meno corretti, assicurano piena tutela alla rappresentanza elettorale a scapito dell’univocità dell’azione di governo, avviene l’inverso nel caso dei sistemi maggioritari.
Il più diffuso fra essi è il maggioritario di collegio. Il territorio nazionale è suddiviso in circoscrizioni elettorali, in numero pari ai parlamentari da eleggere (i cc. dd. “collegi uninominali”), di modo che ogni partito presenti, per ogni circoscrizione, uno e un solo candidato. Poiché il seggio in palio in ogni collegio è uno solo, e uno solo sarà il candidato eletto: questo sistema avvantaggia – in linea di principio – i partiti che sono in grado di raccogliere una quantità di voti sufficienti a garantire loro la maggioranza.
Sono possibili diversi metodi per determinare la maggioranza necessaria all’elezione. Laddove vige il c.d. first past the post voting, è eletto, in ciascun collegio, il candidato che ottiene la maggioranza relativa.
Questo tipo di sistema maggioritario è tradizionalmente adottato negli Stati di tradizione anglo-americana: Regno Unito e Stati Uniti d’America; Canada, India, Sudafrica. Inoltre, è stato introdotto anche in Italia, fra il 1993 e il 2005[ref]Leggi nn. 276 e 277 del 1993 (cc.dd. leggi Mattarella o “Mattarellum”), poi radicalmente modificate dalla legge n. 270/2005.[/ref], con una variante: la legge italiana assegnava il 75% dei seggi in collegi uninominali, distribuendo i restanti – secondo un criterio proporzionale – tra i partiti che superavano il 4 per cento dei voti.
È evidente come un siffatto sistema elettorale sacrifichi la rappresentanza. Innanzitutto, il maggioritario first past the post consente di attribuire la maggioranza assoluta a un partito, a condizione che questo disponga di una maggioranza relativa di voti, omogeneamente distribuita sul territorio; in astratto ciò è possibile anche qualora il partito in questione sia molto distante dalla maggioranza assoluta[ref]Nel 2005, alle elezioni per il rinnovo della Camera dei comuni nel Regno Unito, il Partito Laburista ottenne 355 seggi su 646, con il 35,2% dei voti.[/ref]. Addirittura, in alcuni casi-limite, questo sistema può agevolare la formazione di un governo guidato da un partito privo della maggioranza relativa[ref]Nel 1948, alle elezioni parlamentari in Sudafrica, il Partito Nazionale Riunificato ottenne il 45.5% dei seggi con il 37.7% dei voti; lo United Party, il 42.5% dei seggi con il 49.2% dei voti. La maggioranza parlamentare eletta nel 1948 – formata dal partito vincitore e da un partito minore, l’Afrikaaner Party – diede l’avvio alla politica di segregazione nota come apartheid.[/ref]. Del resto, il maggioritario nasce nei contesti politici britannico e statunitense, laddove – in origine – la competizione era limitata a due partiti, uno dei quali necessariamente destinato a raggiungere la maggioranza assoluta dei voti e, di norma, anche la maggioranza assoluta dei seggi.
A ciò si aggiunga che il maggioritario di collegio rafforza la rappresentanza di partiti il cui consenso è scarso a livello nazionale ma particolarmente concentrato in un’area geografica determinata.
A fronte di ciò, paradossalmente, questo maggioritario “secco” non assicura neanche la governabilità. Dal momento in cui ogni voto è potenzialmente decisivo per conquistare la maggioranza relativa – e, di conseguenza, l’elezione nel collegio – i partiti maggiori saranno incentivati alla ricerca di un accordo con i partiti minori. Il sistema maggioritario, dunque, favorisce la formazione di coalizioni.
In alternativa, si ricorre alla c.d. “desistenza”: in un certo numero di collegi, uno o più partiti minori ritirano le proprie candidature, dando indicazione di voto per un partito più forte, il quale a sua volta farà altrettanto in altri collegi. Ne consegue che, con il maggioritario tradizionale, le probabilità che i partiti piccoli e medi siano rappresentati in Parlamento – condizionando le scelte degli altri partiti – restano ferme, e anzi, potenzialmente, aumentano rispetto a quanto accadrebbe adottando un sistema proporzionale corretto[ref]Il caso italiano è eloquente. Le elezioni del 2001 furono le ultime svoltesi con il sistema misto previsto dalla legge Mattarella. Il 25% dei seggi attribuito con la quota proporzionale fu distribuito fra 5 partiti. I partiti presenti alla Camera dei deputati, all’inizio della legislatura, erano 13: infatti, i partiti minori avevano eletto i loro rappresentanti nei collegi uninominali, sotto le insegne delle due principali coalizioni.[/ref]; un partito con il 2 per cento dei voti non potrà mai essere rappresentato in un sistema proporzionale in cui lo sbarramento sia fissato al 5 per cento, mentre potrà esserlo in un sistema maggioritario, laddove raggiunga un’intesa con altri partiti.
Per di più, gli accordi sono conclusi “al buio”: nel quadro di una coalizione, o di un patto di desistenza, i seggi spettanti ai partiti piccoli e medi sono assegnati senza conoscere il loro reale peso politico. Il risultato è che, in taluni casi, questi partiti possono ottenere seggi in misura ben superiore ai loro voti, dando origine ad una ulteriore distorsione della rappresentanza, che si affianca a quella che avvantaggia i partiti maggiori, ma che non è giustificabile con le esigenze della governabilità, e anzi è dannosa anche sotto questo profilo[ref]In Italia, all’inizio della XII legislatura, il gruppo più numeroso presso la Camera dei deputati era quello della Lega Nord, la quale, con l’8,3% dei voti, aveva eletto 117 deputati su 630 (18.6%).
La Lega Nord uscì dalla coalizione di governo pochi mesi dopo le elezioni, determinando la formazione di una diversa maggioranza a sostegno di un governo tecnico.
Nel 2001, il gruppo del CCD e dei CDU contava su 40 deputati (il 6.3% dei seggi) a fronte del 3.2% dei voti; il gruppo di Alleanza Nazionale, su 99 deputati (15.7% del totale) con il 12.0% dei voti.[/ref].
Un rimedio parziale agli inconvenienti del maggioritario first past the post è rappresentato dal maggioritario di collegio a doppio turno, come quello previsto per l’elezione dell’Assemblea Nazionale in Francia. In ogni collegio, è immediatamente eletto il candidato che raggiunge la maggioranza assoluta dei voti: 50 per cento, più uno. Qualora ciò non avvenisse, gli elettori di quel collegio saranno chiamati ad un secondo turno elettorale (ballottaggio) al quale accederanno solo i candidati che ottengono una determinata quantità di voti[ref]In Francia, il ballottaggio è riservato ai candidati che, in ciascun collegio, raggiungono una quantità di voti pari al 12,5% degli iscritti nelle liste elettorali.[/ref]: il candidato che avrà il maggior numero di voti sarà eletto.
In termini di rappresentanza, va segnalato che il doppio turno impone ai partiti maggiori di ottenere voti in una misura pari alla maggioranza assoluta al primo turno, e – quantomeno – vicina alla maggioranza assoluta nel ballottaggio: non è più sufficiente la maggioranza relativa in sé. Nondimeno, proprio per questa ragione, questo tipo di sistema maggioritario accresce il potenziale dei partiti più forti, i quali, al ballottaggio, potranno disporre di quei voti che, al primo turno, erano stati tributati ai partiti piccoli e medi. Pertanto, al prezzo di un ulteriore detrimento per la rappresentatività, il maggioritario di collegio a doppio turno apporta visibili benefici alla governabilità, assunto che essa dipende – in ogni caso – dallo stato di salute del sistema politico[ref]Nel 1993, alle elezioni per il rinnovo dell’Assemblea nazionale francese, la coalizione RPR-UDF (neogollisti e liberali) vinse con una maggioranza di 472 seggi su 577, pari all’81.8% dei seggi: al primo turno, la coalizione vincente disponeva del 43.3% dei voti; al secondo, del 58.0%. La legislatura non giunse alla sua scadenza naturale: il Presidente Chirac sciolse l’Assemblea nazionale nel 1997, con un anno di anticipo.[/ref]. Resta fermo che i partiti maggiori necessitano, anche in questo caso, di concludere accordi con i partiti piccoli e medi, il che favorisce il ricorso alle desistenze e la formazione di coalizioni[ref]Alle elezioni francesi del 2012, l’Alliance centriste, partito della coalizione di centro-destra, ha eletto 2 deputati, con lo 0.6% dei voti al primo turno. Il Front national, che non ha stretto alcun accordo con altri partiti, ne ha eletti altrettanti, con il 13.6% dei voti al primo turno.[/ref].

È importante rilevare che il maggioritario di collegio non è l’unica tipologia di legge elettorale maggioritaria[ref]Allo stesso modo, peraltro, esistono sistemi proporzionali che prevedono l’esistenza di collegi uninominali.
In Germania – come si è già scritto sopra – l’attribuzione dei seggi del Bundestag a ciascun partito avviene integralmente secondo il metodo proporzionale, tenuto conto di una soglia di sbarramento. Tuttavia, anche la legge elettorale tedesca prevede l’esistenza di collegi uninominali – pari alla metà dei parlamentari da eleggere – con la finalità di determinare i candidati che saranno eletti. L’altra metà dei candidati si presenta in liste circoscrizionali, senza che ci sia possibilità di esprimere una preferenza per qualcuno di essi: i candidati sono eletti secondo la loro posizione all’interno della lista, posizione prestabilita nel momento in cui la lista viene presentata (cc. dd. “liste bloccate”). L’elettore ha a disposizione due voti: uno per i candidati nei collegi, un altro per i candidati nelle liste circoscrizionali.
Innanzitutto, sono ammessi al riparto dei seggi anche i partiti che, pur non raggiungendo la soglia di sbarramento, riescono ad eleggere candidati in tre collegi uninominali.
Inoltre, tutti i candidati che ottengono la maggioranza relativa nei rispettivi collegi ottengono un seggio al Bundestag. A quel punto, occorre confrontare la quantità dei seggi spettanti a ciascun partito – i quali sono sempre calcolati in base al sistema proporzionale – con il numero dei candidati di quel partito che vincono la competizione nei collegi.
Se i primi sono inferiori ai secondi, i rimanenti seggi sono assegnati ai candidati delle liste circoscrizionali bloccate, ovviamente in base alla loro posizione nella lista: se restano da assegnare X seggi, saranno eletti coloro che sono candidati nelle prime X posizioni.
Nel caso inverso, i candidati eletti nei collegi saranno comunque eletti. Questo è possibile, in quanto il numero dei deputati del Bundestag non è stabilito in misura fissa, bensì in misura minima (598). A titolo di esempio, qualora un partito dovesse ottenere 200 seggi in base al riparto proporzionale, ma riuscisse a ottenere la maggioranza in 250 collegi uninominali, quel partito eleggerà al Bundestag 50 deputati in più; essi saranno qualificati come “mandati in sovrannumero” (Überhangmandaten) e saranno aggiunti al numero complessivo dei deputati da eleggere, che non saranno più 598, ma 648 (598+50).[/ref].
Si può adottare il criterio maggioritario anche laddove la legge elettorale preveda l’esistenza di liste plurinominali di candidati e il riparto dei seggi sia proporzionale ai voti di ciascuna lista, a condizione che una quota di seggi sia sottratta al riparto, e venga attribuita alla lista che ottiene il maggior numero di voti (c.d. “premio di maggioranza”).
È su questo metodo che si fonda la legge elettorale italiana, recentemente approvata dal Parlamento e promulgata dal Presidente Mattarella[ref]Legge n. 52 del 2015 (Gazzetta Ufficiale, Serie Generale n.105 del 8-5-2015).[/ref]: l’“Italicum” (e, prima ancora, il “Porcellum”).

Nel caso del c.d. “Italicum” – come nel caso della legge n. 270/2005, il c.d. “Porcellum” – i seggi del premio di maggioranza non sono determinati in numero fisso; sono pari alla differenza fra il 55% dei seggi totali della Camera – i quali sono sempre assicurati alla lista vincente – e i seggi che spetterebbero alla lista di maggioranza relativa se si adottasse il criterio proporzionale.
Dal momento che, con la sentenza n. 1/2014, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del “Porcellum”, vale la pena illustrare le differenze fra la legge del 2005 e l’attuale.
Il “Porcellum” – come anticipato – si fondava sul principio del premio di maggioranza, assegnando il 55% dei seggi alla lista, o alla coalizione di liste, che otteneva la maggioranza relativa. Al Senato il premio di maggioranza era assegnato alla coalizione vincente su base non nazionale, bensì regionale; questa disposizione rendeva difficoltoso individuare un vincitore a livello nazionale: in due occasioni – XV e XVII legislatura – impediva la formazione di una maggioranza univoca al Senato. La legge incoraggiava la formazione di coalizioni, prevedendo una soglia di sbarramento inferiore per le liste coalizzate. Gli eletti erano individuati sulla base di liste bloccate in 27 circoscrizioni – nel caso della Camera – e in 20 circoscrizioni coincidenti con le Regioni, nel caso del Senato.
Come anticipato, la Corte Costituzionale ha giudicato illegittimo un simile premio di maggioranza. Il principio della sovranità popolare ex art. 1 Cost. – nonché il disposto dell’art. 67 Cost.: i membri del Parlamento hanno la funzione di rappresentare la Nazione – vieta un’eccessiva alterazione della rappresentanza, nonostante il legislatore possa legittimamente perseguire l’obiettivo di agevolare la formazione di una maggioranza stabile e coesa. Ne deriva che la legge elettorale non può attribuire la maggioranza assoluta a una forza politica il cui consenso corrisponda ad un’esigua maggioranza relativa nel voto popolare, e tanto meno può farlo senza richiedere alla lista o alle liste di maggioranza il conseguimento di una soglia minima di voti[ref]“In altri termini, le disposizioni in esame non impongono il raggiungimento di una soglia minima di voti alla lista (o coalizione di liste) di maggioranza relativa dei voti; e ad essa assegnano automaticamente un numero anche molto elevato di seggi, tale da trasformare, in ipotesi, una formazione che ha conseguito una percentuale pur molto ridotta di suffragi in quella che raggiunge la maggioranza assoluta dei componenti dell’assemblea. Risulta, pertanto, palese che in tal modo esse consentono una illimitata compressione della rappresentatività dell’assemblea parlamentare, incompatibile con i principi costituzionali in base ai quali le assemblee parlamentari sono sedi esclusive della ‘rappresentanza politica nazionale’ (art. 67 Cost.), si fondano sull’espressione del voto e quindi della sovranità popolare”. Corte Costituzionale, sentenza 13-I-2014, n. 1.[/ref].
Inoltre, la Corte ravvisa un ulteriore profilo di illegittimità nel premio di maggioranza “regionale” assegnato al Senato. Vero che – ex art. 57, comma 1, Cost. – il Senato “è eletto su base regionale”. Nondimeno, poiché il sistema istituzionale delineato dalla Costituzione del 1948 è fondato sul principio del bicameralismo paritario – in relazione alla funzione legislativa e al rapporto fiduciario con il Governo – non è ammissibile che il legislatore consenta il rischio della formazione di maggioranze diverse fra i due rami del Parlamento[ref]“Nella specie, il test di proporzionalità evidenzia, oltre al difetto di proporzionalità in senso stretto della disciplina censurata, anche l’inidoneità della stessa al raggiungimento dell’obiettivo perseguito, in modo più netto rispetto alla disciplina prevista per l’elezione della Camera dei deputati. Essa, infatti, stabilendo che l’attribuzione del premio di maggioranza è su scala regionale, produce l’effetto che la maggioranza in seno all’assemblea del Senato sia il risultato casuale di una somma di premi regionali, che può finire per rovesciare il risultato ottenuto dalle liste o coalizioni di liste su base nazionale, favorendo la formazione di maggioranze parlamentari non coincidenti nei due rami del Parlamento, pur in presenza di una distribuzione del voto nell’insieme sostanzialmente omogenea. Ciò rischia di compromettere sia il funzionamento della forma di governo parlamentare delineata dalla Costituzione repubblicana, nella quale il Governo deve avere la fiducia delle due Camere (art. 94, primo comma, Cost.), sia l’esercizio della funzione legislativa, che l’art. 70 Cost. attribuisce collettivamente alla Camera ed al Senato. In definitiva, rischia di vanificare il risultato che si intende conseguire con un’adeguata stabilità della maggioranza parlamentare e del governo. E benché tali profili costituiscano, in larga misura, l’oggetto di scelte politiche riservate al legislatore ordinario, questa Corte ha tuttavia il dovere di verificare se la disciplina legislativa violi manifestamente, come nella specie, i principi di proporzionalità e ragionevolezza e, pertanto, sia lesiva degli artt. 1, secondo comma, 3, 48, secondo comma, e 67 Cost.”. Corte Costituzionale, sentenza 13-I-2014, n. 1.[/ref].
L’ “Italicum” adotta, a sua volta, il sistema del premio: la lista di maggioranza ha diritto al 55% dei seggi della Camera dei deputati; nella proposta, però, non è più prevista la possibilità che le liste si coalizzino. Non è più disciplinata l’elezione del Senato della Repubblica, dal momento che il Parlamento sta discutendo una proposta di revisione costituzionale volta a trasformarlo in Camera non elettiva. La legge entrerà in vigore alla data dell’1 luglio 2016[ref]Art. 1, comma 1, lettera i), legge n. 52/2015.[/ref]. Il legislatore presume che, in quel momento, il processo di revisione costituzionale si sarà già concluso.

Resta da verificare se la scelta del legislatore di ricorrere nuovamente al premio di maggioranza sia o meno coerente con le affermazioni della Corte Costituzionale.
In effetti, l’ “Italicum” condiziona il premio di maggioranza al raggiungimento di una soglia minima di voti, fissata inizialmente al 37 per cento e, in seguito, al 40.
A taluni critici ciò non sembra sufficiente a superare le perplessità che la Consulta aveva espresso sul “Porcellum”.
Si ricorda che la legge Acerbo – approvata dal Parlamento nel 1924, su proposta del Governo Mussolini – assegnava un abnorme premio, pari al 66 per cento dei seggi, alla lista di maggioranza assoluta, ma solo qualora questa non ottenesse meno del 25 per cento dei voti. Un’eventuale riedizione della legge Acerbo sarebbe da considerarsi legittima, sapendo che essa consente “ad una formazione che ha conseguito una percentuale pur molto ridotta di suffragi in quella che raggiunge la maggioranza assoluta dei componenti dell’assemblea”? Cosa si intende per “molto ridotta”? Esiste un parametro oggettivo di tipo matematico per stabilire se il premio rispetta o meno il principio di proporzionalità, o questa valutazione è affidata al solo buon senso del giudice costituzionale?
Stante l’impossibilità di una risposta univoca a questa domanda, l’introduzione della soglia minima non aiuta a dissipare i dubbi sul premio di maggioranza. Sotto questo profilo, però, il reale elemento di novità risiede in un’altra disposizione dell’ “Italicum”, laddove si stabilisce che – qualora nessuna lista raggiunga la soglia – il premio venga assegnato in un secondo turno elettorale, al quale hanno diritto a partecipare la prima e la seconda lista per numero di voti. Così, si impone che la lista di maggioranza abbia il 50 per cento più uno dei votanti al ballottaggio: una maggioranza assoluta dei voti, per la maggioranza assoluta dei seggi. Il ballottaggio, insomma, introduce una rilevante differenza qualitativa rispetto al “Porcellum”. Infatti, cambia la natura della maggioranza richiesta per accedere al premio: da relativa ad assoluta.
Inoltre, diversamente dal maggioritario di collegio, l’ “Italicum” assicura la rappresentanza parlamentare anche per i partiti che non avrebbero, in alcuna area geografica, un numero di voti sufficiente per conquistare un seggio. Ne consegue un rafforzamento del pluralismo parlamentare: e, altresì, una riduzione dei seggi per i partiti che, pur godendo di scarso consenso su scala nazionale, sono fortemente insediati a livello locale, partiti generalmente avvantaggiati dal maggioritario di collegio a turno unico[ref]In tal senso, è eloquente – per citare il caso più recente – il risultato dello Scottish National Party alle elezioni per il rinnovo della Camera dei Comuni britannica, tenutesi il 7 maggio 2015.[/ref]. Si tratta di un elemento positivo, se si considera che la sovranità appartiene al popolo, e non ai singoli territori.
Infine, l’ “Italicum” – come anche il “Porcellum” – non conferisce una maggioranza di seggi superiore al 55%. Dunque, non consente la formazione di quelle maggioranze schiaccianti che talora hanno contraddistinto le legislature francesi e britanniche.
Tutto ciò considerato, si può concludere che la legge appena approvata dal Parlamento italiano è connotata da un maggior tasso di rappresentatività sia se confrontata alla legge a suo tempo proposta dall’ex ministro Calderoli, sia – per certi aspetti – rispetto al sistema maggioritario tradizionalmente adottato in altri Paesi dell’Occidente.

Riassumendo, la sentenza n. 1/2014 della Corte Costituzionale non subordina il premio alla maggioranza assoluta dei voti; non vieta che esso sia attribuito ad una lista di maggioranza relativa.
Ciò che davvero vincola il legislatore è il rispetto del principio di proporzionalità, evitando che la rappresentanza sia eccessivamente sacrificata con l’attribuzione di una quantità di seggi fuori misura rispetto al risultato elettorale. Non è agevole determinare con certezza se il premio assegnato ad una lista di maggioranza relativa sia o meno adeguato sotto questo profilo. Tuttavia, qualora la “maggioranza relativa” sia inferiore al 40 per cento, l’ “Italicum” costringe le due liste più votate a un ballottaggio, il che equivale a subordinare il premio del 55 per cento dei seggi alla maggioranza assoluta dei voti. Così, per la prima volta nella storia della Repubblica, la legge elettorale consente la formazione di una maggioranza parlamentare assoluta, senza che sia sufficiente il mero raggiungimento di una maggioranza relativa di voti.

È doverosa un’ultima considerazione riguardo al Senato. Poiché nella sentenza n. 1/2014 si afferma che la legge elettorale deve consentire la formazione di una maggioranza omogenea fra le due Camere, è ragionevole affermare che, nel momento in cui il legislatore opta per il metodo del premio di maggioranza nazionale, questi ha non solo la facoltà, bensì l’onere di prevedere un premio su base nazionale per l’elezione di entrambi i rami del Parlamento, Senato compreso.
Nel momento in cui tace riguardo al Senato, il legislatore evita la complessa incombenza di conciliare l’esigenza di un premio nazionale, dettata dal bicameralismo paritario, e la disposizione ex art. 57 Cost., a proposito del Senato “eletto su base regionale”. Resta però fermo che il presupposto di questa scelta del legislatore – la revisione costituzionale – non è, per il momento, una norma giuridica, né tanto meno un atto giuridicamente dovuto; è una mera ipotesi, in attesa che si concluda l’iter di revisione; il quale – in astratto – potrebbe concludersi con la bocciatura della proposta da parte del corpo elettorale in sede di referendum. Piaccia o no, la Costituzione vigente continua a fondarsi sul bicameralismo paritario, e il Senato continua a essere elettivo; nell’attuale situazione, la legge elettorale non può che disporre di conseguenza.
Viceversa, qualora – alla data dell’entrata in vigore dell’ “Italicum” – il Senato fosse ancora elettivo, esso sarebbe eletto secondo la legge modificata dall’intervento della Consulta nel 2014 e non alterata dal legislatore del 2015: una legge proporzionale. Le due Camere avrebbero quasi certamente due maggioranze differenti, così contrastando con il dettato della Corte Costituzionale.

 

La relazione fra sistemi elettorali e forme di governo.

Per valutare l’effetto dell’ “Italicum” sull’ordinamento istituzionale, è necessaria un’operazione di comparazione, allo scopo di verificare l’esistenza di una correlazione fra sistemi elettorali e forme di governo.
Preliminarmente, è ragionevole inserire l’ “Italicum” – così come il “Porcellum” – nel novero dei sistemi elettorali maggioritari. Nonostante i candidati eletti non siano individuati nei collegi uninominali, la caratteristica che accomuna la nuova legge eletorale italiana, le leggi di tradizione anglo-americana e il doppio turno francese è l’idoneità a trasformare la maggioranza relativa dei voti in maggioranza assoluta dei seggi.
Con l’approvazione dell’ “Italicum” l’Italia è una Repubblica parlamentare dotata di una legge maggioritaria per l’elezione del Parlamento.
Le forme di governo vigenti nelle principali nazioni che adottano il maggioritario non potrebbero essere più differenti: gli Stati Uniti d’America sono una Repubblica presidenziale; la Francia è una Repubblica semi-presidenziale; il Regno Unito è una monarchia parlamentare.
In tutti questi casi, la legge favorisce la formazione di una chiara ed omogenea maggioranza in Parlamento, ma in ciascuno di questi ordinamenti il Parlamento ha un diverso rapporto con l’esecutivo. Nel Regno Unito, la maggioranza parlamentare determina integralmente le scelte dell’esecutivo e la sua sopravvivenza, dal momento che la Camera dei Comuni può sfiduciare il Governo. Negli Stati Uniti, viceversa, l’esecutivo è guidato dal Presidente, eletto dai cittadini; il Congresso non ha il potere di sfiduciarlo. L’Assemblea Nazionale francese può sfiduciare il Governo, ma non il Presidente della Repubblica, il quale detiene ampi poteri: presiede il Consiglio dei Ministri (art. 9 Cost.)[ref]Va precisato che anche il Presidente della Repubblica portoghese presiede il Consiglio dei Ministri, ma solo se sollecitato dal Primo ministro (art. 133 Cost.).[/ref]; può sottoporre a referendum popolare le leggi riguardanti determinate materie (art. 11 Cost.) e rifiutare di firmare le ordinanze e i decreti deliberati nel Consiglio dei ministri (art. 13 comma 1 Cost.); può assumere poteri eccezionali in caso di grave minaccia alla Nazione e interruzione del funzionamento dei poteri costituzionali (art. 16 Cost.)[ref]Questo potere è stato esercitato una volta sola (dal 23 aprile al 29 settembre 1961, sotto la presidenza di C. De Gaulle).[/ref].

Ogni diversa forma di governo determina un diverso ruolo del Parlamento, ma anche del Capo dello Stato: questi è capo dell’esecutivo negli Stati Uniti, figura di garanzia nel Regno Unito, figura ibrida in Francia[ref]Ove il Presidente della Repubblica presiede il Consiglio dei Ministri, ma non dirige la politica del Governo (questo potere è attribuito al Primo Ministro dall’art. 50 Cost.) ed è pressoché irresponsabile di fronte al Parlamento. Questa è la caratteristica peculiare che distingue il semi-presidenzialismo dal presidenzialismo. “La difficoltà di fondo sta soprattutto nel rischio, che l’adozione del modello presidenziale comporterebbe, di pregiudicare la doppia natura del Presidente della Repubblica ed in particolare di desacralizzarne il ruolo di Capo dello Stato, trasformandolo in via definitiva ed esclusiva in un una personalità politica di parte. A ben vedere, anche alla salvaguardia di questa doppia natura è volta la presenza di un Primo ministro che svolge di regola la funzione di schermo e di filtro delle critiche alla politica presidenziale, offrendosi come agnello sacrificale sull’altare della irresponsabilità del Capo dello Stato”. M. Volpi, Relazione introduttiva al seminario La riforma della Costituzione in Francia, Roma – Fondazione Astrid, 19 novembre 2008.[/ref].
Il diverso ruolo del Capo dello Stato comporta, fra l’altro, una profonda differenza in termini di rappresentanza. Mentre nella monarchia costituzionale britannica il monarca – tale per diritto divino e designato in via ereditaria – è necessariamente super partes, le Repubbliche presidenziali, come gli Stati Uniti, si caratterizzano perché il Capo dello Stato è, allo stesso tempo, il capo del potere esecutivo[ref]In tutte le Repubbliche che prevedono l’elezione diretta del capo dell’esecutivo, questi è anche Capo dello Stato. L’unica eccezione ha riguardato lo Stato di Israele, dal 1996 al 2003: in quel caso, il popolo eleggeva direttamente il Capo del Governo, lasciando al Parlamento (Knesset) il potere di eleggere il Presidente (Capo dello Stato). Dal 2003, Israele è una Repubblica parlamentare, come lo era dalla sua fondazione fino al 1996.[/ref]. Il Presidente degli Stati Uniti giura di “preservare, proteggere e difendere la Costituzione” (art. 2 sez. 1 Cost.), ma il capo dell’esecutivo ha il diritto e il dovere di assumere scelte di natura politica: scelte, inevitabilmente, di “parte”.
Ne consegue che, nelle Repubbliche presidenziali in cui la legge elettorale è maggioritaria, è difficile rintracciare una figura in grado di rappresentare pienamente tutti gli interessi e le sensibilità della Nazione: la distribuzione dei seggi in Parlamento è alterata a vantaggio della lista più forte; il Capo dello Stato assume scelte politiche non neutrali. Inoltre, il maggioritario di collegio rischia di conferire alla rappresentanza parlamentare una natura “localistica”[ref]”Torno ora al punto che le elezioni maggioritarie portano, o possono portare, a una politica centrata sul localismo e sul ‘servire’ il collegio. (…) Ma se tutta la politica è locale, come si ottiene una gestione decente della politica nazionale, della politica per tutti? Siccome un sistema presidenziale può neutralizzare le spinte centrifughe e localistiche meglio di un sistema parlamentare, gli americani non percepiscono ancora le difficoltà che si profilano per il loro sistema di governo qualora la politica del Congresso degeneri in una ‘politica al dettaglio’ ispirata da interessi collegio-serventi (…) Una politica collegio-servente è incompatibile con una politica imperniata su due grandi partiti nazionali: se il localismo si afferma, la condizione stessa del bipartitismo si dissolve“. G. Sartori, Ingegneria Costituzionale Comparata, Il Mulino, 2004.[/ref].

Tenendo conto di tutte queste peculiarità, è possibile individuare un elemento comune a tutti gli ordinamenti in cui il legislatore ha optato per il sistema elettorale maggioritario: il Parlamento ha una maggioranza definita, ma il Capo dello Stato non è espressione della maggioranza parlamentare, e può dunque costituire un contrappeso rispetto ad essa. O il Capo dello Stato è eletto direttamente dai cittadini, oppure – all’inverso – è del tutto svincolato da ogni istituzione, come nel caso della Corona del Regno Unito[ref]Sebbene i poteri della Corona si siano ridotti con il passare dei secoli – è fin troppo nota la formula di Bagehot, per cui il sovrano ha tre poteri: “quello di essere consultato, quello di incoraggiare, quello di mettere in guardia” – essa non è del tutto impotente di fronte all’esecutivo: v. R. Brazier, Constitutional Practice, Oxford University Press, 1988. Ma v. anche G. Grasso, La teoria delle forme di governo nella Costituzione inglese di Walter Bagehot. Una rilettura critica, Università dell’Insubria, 2000, working paper n. 13.[/ref].
Viceversa, nella maggioranza degli ordinamenti in cui il Presidente della Repubblica è eletto dal Parlamento, il sistema elettorale è proporzionale[ref]Nell’Unione Europea, si vedano i casi di Germania, Estonia, Lettonia, Malta; ma anche la legge elettorale italiana fino al 1993.[/ref]. Nell’Unione europea, fanno eccezione la Grecia[ref]La legge elettorale vigente in Grecia attribuisce un premio di maggioranza di 50 seggi alla lista più votata; in sostanza, esiste una soglia implicita per il conseguimento del premio, premio che – comunque – non garantisce la maggioranza assoluta.[/ref] e l’Ungheria[ref]Nel sistema elettorale ungherese, i 199 seggi dell’Assemblea nazionale sono assegnati con un sistema misto: 106 deputati sono eletti con il maggioritario di collegio a turno unico, i restanti 93 sulla base di un riparto proporzionale fra liste bloccate nazionali.[/ref]; quest’ultima – peraltro – è l’unica Nazione, fra quelle precedentemente appartenenti al Patto di Varsavia, in cui la Costituzione non contempla l’elezione diretta del Presidente della Repubblica. Fuori dall’Unione, la Costituzione dell’India – ove il sistema elettorale è il maggioritario di collegio a turno unico – non prevede l’elezione diretta del Presidente federale; questi, però, è eletto da un collegio che non comprende solo i membri del Parlamento, allargato ai membri delle Assemblee legislative di tutti gli Stati della Federazione[ref]Art. 55 Costituzione indiana.[/ref].
In quasi tutti i casi in cui l’elezione del Capo dello Stato è affidata al Parlamento, si ha cura che non sia affidata alla sola maggioranza del Parlamento.

 

“Italicum” e ordinamento costituzionale italiano.

Il confronto con gli ordinamenti degli altri Stati dell’Unione europea – e con alcuni fra i principali Stati extraeuropei – consente di trarre alcune conclusioni.
Il sistema maggioritario, di per sé, è adottato in Stati con diverse forme di governo. Fra questi, figura la Gran Bretagna, Stato democratico di notoria e antica tradizione parlamentare.
In linea di principio, questa circostanza autorizza a ritenere che l’adozione di un sistema maggioritario in Italia non contrasta con l’ordinamento delineato dalla Costituzione del 1948, la quale istituisce una forma di governo di tipo parlamentare.
Nondimeno, l’ordinamento britannico – e, nel quadro di una forma di Stato repubblicana, anche quello indiano – presenta alcune peculiarità, essenziali per garantire la coesistenza fra parlamentarismo e legge maggioritaria.
Il principale effetto collaterale delle leggi maggioritarie è – per definizione – l’alterazione del rapporto fra seggi e voti e, quindi, della rappresentatività del Parlamento. L’introduzione del maggioritario in Italia, in un momento in cui – per effetto della decisione della Consulta – vige una legge elettorale proporzionale, comporta una riduzione della rappresentatività, nonostante l’impianto dell’Italicum – in comparazione con gli effetti di una legge maggioritaria di collegio – contribuisca ad una sua parziale salvaguardia.
Di fronte a un Parlamento che assicura solo in parte la rappresentanza di tutte le opinioni e di tutti gli interessi organizzati del Paese, è necessario individuare un organo che possa adempiere a questa funzione.
Non può trattarsi che del Capo dello Stato, il quale rappresenta l’unità nazionale a norma dell’art. 87 della Costituzione. Egli, tuttavia, è eletto – a norma dell’art. 83 Cost. – da un’assemblea in cui i membri del Parlamento sono largamente preponderanti sul piano numerico; soprattutto, a partire dal quarto scrutinio, il Presidente può essere eletto dalla maggioranza assoluta.
È evidente che il combinato disposto fra l’ “Italicum” e la Costituzione vigente consente che tanto il Parlamento, quanto il Presidente della Repubblica siano espressione della stessa entità, e cioè della maggioranza elettorale.
I possibili rimedi per un simile rischio sono due. Entrambi richiedono una revisione costituzionale.
Si può introdurre l’elezione diretta del Presidente della Repubblica, mantenendone le funzioni di garanzia che gli sono attribuite dall’attuale Costituzione, sul modello di quanto avviene in alcuni Paesi europei[ref]Tra cui Austria e Finlandia, ove – però – la legge elettorale è proporzionale: ad un Capo dello Stato necessariamente di parte, corrisponde un Parlamento che rappresenta tutte le diverse sfumature dell’elettorato nazionale.[/ref]; analoga proposta era contenuta nella proposta di revisione costituzionale che la c.d. Commissione D’Alema aveva avanzato nel 1997. Tuttavia, anche in questo caso, il Capo dello Stato non rappresenterebbe che una maggioranza elettorale, sebbene essa – in astratto – possa differire rispetto a quella che risulta dalle elezioni parlamentari.
Altra soluzione può essere rappresentata da un mero allargamento della base elettorale per l’elezione del Presidente della Repubblica: senza giungere al suffragio universale e diretto, si potrebbero includere nell’Assemblea i membri di tutti i Consigli regionali, eventualmente integrati da delegati dei Comuni.
In ulteriore alternativa, si può innalzare il quorum, in modo che non siano sufficienti i voti dei parlamentari di maggioranza e dei delegati regionali del medesimo colore politico. A tale proposito, va sottolineato che l’attuale disegno di legge di revisione costituzionale modifica l’art. 83, richiedendo il quorum dei tre quinti dell’Assemblea; ciononostante, la novità non riguarderebbe che il quarto, il quinto e il sesto scrutinio, cosicché, a partire dal settimo, la situazione sarebbe invariata, restando sufficiente la maggioranza assoluta.
In questo quadro, non va dimenticato che il Parlamento, oltre ad eleggere il Capo dello Stato, ha il potere di eleggere alcuni membri della Corte Costituzionale e del Consiglio Superiore della Magistratura. Anche in questi casi, sarebbe opportuno un innalzamento del quorum.

In definitiva, ogni valutazione sull’ “Italicum” deve innanzitutto tenere conto della sua natura di legge maggioritaria.
Tutte le leggi maggioritarie, per definizione, riducono la rappresentatività del Parlamento, avvantaggiando i partiti di maggioranza a scapito delle minoranze.
Di conseguenza, una simile scelta del legislatore deve necessariamente contestualizzarsi in una forma di governo che accentui la funzione di garanzia di taluni organi – a cominciare dal Capo dello Stato – in modo che essi rappresentino un efficace contrappeso rispetto alla maggioranza parlamentare.
Resta che nessuna legge elettorale di questo tipo ha mai condotto ad una “svolta autoritaria” nei Paesi in cui è stata adottata: l’evidenza storica dimostra in pieno la democraticità del sistema.
Addirittura, l’ “Italicum” limita il premio di maggioranza al 55% dei seggi, ponendo un limite alla distorsione della rappresentanza che è tipica del maggioritario. Inoltre, distribuisce i seggi di minoranza in proporzione ai consensi ottenuti da ciascuna lista su tutto il territorio nazionale, evitando che le forze politiche siano penalizzate dalla distribuzione geografica dei loro voti, come avviene generalmente nel maggioritario di collegio. Infine l’ “Italicum” supera il principale limite del “Porcellum”, imponendo un ballottaggio fra le due liste più votate nel caso nessuno raggiunga il 40% dei voti al primo turno, e quindi – tendenzialmente – subordinando l’attribuzione del premio alla conquista della maggioranza assoluta dei voti.
L’ “Italicum” non è incompatibile con la democrazia parlamentare, né tantomeno con la democrazia tout court. Esso è finalizzato alla realizzazione di una democrazia governante: ben sapendo che al consolidamento del potere del Governo e della sua maggioranza deve corrispondere un consolidamento di quegli organi che controllano – e limitano – la sua azione. In caso contrario, lo Stato costituzionale cessa ipso facto di esistere per avvicinarsi allo Stato assoluto: con o senza elezioni.

Hegel: un monologo

di
Sonia Caporossi

 

A Mario Reale

Il vero è l’intero. Ma l’intero è soltanto l’essenza
che si completa mediante il suo sviluppo.
Dell’Assoluto si deve dire che esso è essenzialmente Risultato,
che solo alla fine è ciò che è in verità;
e proprio in ciò consiste la sua natura, nell’essere effettualità,
soggetto a divenir – se – stesso.
G. W. F. Hegel

Chi ai giorni nostri voglia combattere la menzogna
e l’ignoranza e scrivere la verità, deve superare almeno cinque difficoltà.
Deve avere il coraggio di scrivere la verità,
benché essa ovunque venga soffocata;
l’accortezza di riconoscerla, benché ovunque venga travisata;
l’arte di renderla maneggevole come un’arma;
l’avvedutezza di saper scegliere coloro nelle cui mani essa diventa efficace;
l’astuzia di divulgarla fra questi ultimi …
B. Brecht

Oh secol superbo e un po’ tocco! Me ne hanno davvero dette di cotte e di crude per togliermi di torno. Io! Io non sarei fedele al mio programma dialettico? Io sfocerei in una sorta di sapere assoluto che comprometterebbe la mia stessa teoria del divenire? Io oserei fornire una definizione esaustiva, data una volta per tutte, del reale, dell’ideale, di che cos’è la filosofia?
All’Università, colleghi, amici e nemici hanno avuto un bel daffare ad accanirsi contro di me. Il compagno Jürgen, nella sua Etica del Discorso, se la prende con me e mica poco: dice che io sarei un assolutista, come Immanuel, mentre avrei per tutta la vita ferocemente criticato di quest’ultimo proprio l’assolutismo, e che questo mi serviva a giustificare lo Stato Autoritario del futuro baffetto acquarellista matto e lo Stato prussiano del mio tempo storico, assolutizzato anch’esso. Secondo Hans Georg, il Grande Veglio della filosofia occidentale, io sarei un filosofo (e già questo, oggigiorno, è dire tanto!) di un’esperienza che, in divenire, poi giunge alla fine nella sua interezza e autenticità. Per lui l’esperienza deve rimanere sempre aperta. Invece io, udite udite!, andrei oltre l’esperienza nel suo culmine, cioè vi sostituirei una forma di sapere non più esperienziale, bensì un quid che è divenuto un criterio per essa, un assunto definitorio e definitivo, astratto e astraente che le farebbe raggiungere la propria finitezza assoluta. Paul Ricoeur, polemizzando in Tempo e Racconto col mio Volkgeist, sostiene che non c’è un unico spirito, che lui evidentemente pensa io abbia definito come un’entità superiore ed immutabile, bensì ci sono vari svolgimenti (di esso? Marameo!); e siccome, per me, la storia non è una serie di contingenze, di casi, bensì è sottoposta alla ragione che la organizza su basi razionali, la mia visione sarebbe ottocentesca ed ottimistica, poiché non c’è per lui unità ma differenza soltanto. Io secondo voi che cosa dovrei rispondere? Differenza rispetto a che? Di nuovo marameo, ma chi vuoi prendere in giro? Il definiens prende forma solo a partire dal definiendum. Ma questo richiama quello, all’infinito, in una circolarità ermeneutica fondante. E allora? Da qualche parte, o cominciamento, bisognerà pur partire, altrimenti sarebbe come non avere detto nulla. Essere, nulla, differenza, divenire…
A me sembra che in molti filosofi della vostra sordida contemporaneità postmoderna, afflitta dalla soverchieria tumorale di un astio concettuale più o meno faceto, ci sia un diffuso timore antisacrale, che si appoggia ai puntelli della critica feroce contro l’autorità della ragione. Se la ragione è sovrana il singolo allora ha sempre torto. E siccome dopo di me il singolo è rimasto solo come un cane (mica per colpa mia, ma perché così alla fine è andato il mondo!); siccome voialtri disperati parete vivere orfani del senso delle cose, solitari nella folla, in una sorta di rinnovata età postalessandrina, in cui la polis ha rinnovato la fotografia sul proprio certificato di morte facendovi sentire dispersi sulla superficie nuda della crosta terrestre come formiche in colonna, o peggio, come vermi adamitici senza la foglia di fico a coprire le pudenda celenterate, che si contorcono nel caos della perdita di senso; allora il singolo, – tutto – sensi – senza – senso, ha il timore di essere sopraffatto da una ragione che pretende possa essere esclusivamente concepita come sovrana, come il logos imposto e prevaricante del Leviatano di Hobbes. Siccome non c’è una sola verità (e quando mai avrei detto il contrario!), allora non c’è verità da nessuna parte. Il che, sinceramente, come sillogismo, mi sembra quantomeno fallace.
Il camerata Martin, a sua volta, dice che la mia filosofia sarebbe un’ontologia, mentre invece la sua è meglio identificabile dalla categoria di ontocronia, cioè una filosofia del tempo, non dell’eterno, come a dire del finito, non dell’infinito. Ma se il linguaggio è la casa dell’essere i cui custodi sono i poeti e i filosofi, bisogna ancora capire chi è qui il poeta e chi il pensatore. Il problema, in effetti, è nel linguaggio: è un problema di linguaggio. Quando Jürgen discute la mia frase più famosa: “ciò che è reale è razionale, ciò che è razionale è reale”, afferma una cosa superficialmente condivisibile da un punto di vista logico: cioè che sembra proprio una formula che giudica in anticipo, un a priori definitorio, un postulato indimostrabile, un tì estìn metafisico, un assunto assoluto. Ma questa è l’essenza stessa del linguaggio! La sua natura tautologica, la sua radicale ritrosia ad indicare altro da sé! Con queste stesse armi ti batti e ti dibatti anche te, caro Martin, tu che affermi con la stessa identica struttura di linguaggio tautologico e ridondante: “la mia filosofia è un’ontocronia”. Il linguaggio è fatto così, questo abbiamo, con questo dobbiamo lavorare.
Attenzione ai pataccari, quando inventano a tavolino un neologismo categoriale ad hoc per fare gli originali. Ma siete proprio bravi, ragazzi. Proprio bravi. E quegli altri, poi, razza di cialtroni privi di pensiero, che nel dire “Hegel è apriorista metafisico perché dice che x è y” dove, badate bene, x e y non sono neologismi categoriali alla moda creati su misura ma forme pure mentali condivise e comunicabili, non fanno altro che svolgere una forma logica proposizionale che è la seguente: “x è y, quindi x è y”. Ancora mi fischiano gli orecchi per l’eco, la ridondanza, la fuliggine sonora nel terzo occhio. Vogliamo giocare alle matrioske? Reale (x¹) = razionale (y¹) > Hegel (x²) = aprioristico (y²) > Voi (x³) = imbecilli (y³). E via discorrendo, mi fermo per pietas virgiliana alla terza dimensione concepibile.
Mi hanno accusato così di apriorismo, oh caro, ameno Schelling! Di panlogismo, per cui ogni dimensione si riconduce in me alla ragione; di presenzialismo, per cui la totalità del reale alla fine è tutta presente in me. Cioè, diamine, voglio dire, non in me – me, perché non sono Gesù Cristo, ma nell’in me dello spirito, nell’in me del me di tutti. Uhm. Come si vede, è un problema di linguaggio. Ma insomma, hanno cercato di massacrarmi nelle più sottili maniere del discorso, utilizzando il loro linguaggio comune nel tentativo di decostruire la validità del mio. E tuttavia non sono mai riusciti a seppellirmi nella cappa annichilente del silenzio. Né mai riusciranno a togliermi di torno. Ed ora, cari miei, vi sto per spiegare perché.
Io per primo ho tolto di mezzo la metafisica, io per primo!… e non il könisberghese boccoluto. Vi sembra un’affermazione strana e bislacca? Dicono qualcosa di diverso i vostri manuali scolastici di storia della filosofia? Immagino sinceramente di sì. Come Platone ha ucciso il padre Parmenide nella contrapposizione dell’uno e del molteplice, così io ho ucciso lo zio Immanuel nella totalità in svolgimento dell’esperienza storica. Sono stato io a criticare lo spirito di profondità, dicendo che non c’è un punto di vista più profondo rispetto alla realtà. Ma quale noumeno scisso, separato e inconoscibile! Lo zietto cavilloso, per il fatto stesso di mantenere un noumeno in piena salute concettuale, perché se pure non lo si può conoscere, tuttavia lo si può anche solo pensare, non fa che chiudere la porta principale alla metafisica tenendo aperta quella del retro! Non è così che si risolvono i massimi sistemi del mondo, ma solo quelli di Dio. La razionalità, invece, è presente nel fenomeno stesso. La filosofia non è altro che memoria: non è a priori, arriva sempre per ultima nella gara di corsa al sacco dell’intelletto, arriva sempre per ultima nella partita a scacchi della mente. La filosofia non giudica, non stabilisce, non enuncia: essa serve soltanto a comprendere, ad agire in base alla genialità pratica. E non ci sono, né mai io ho preteso di dettare, dei precetti per l’agire: i posteri diranno, legittimamente e con ragione, se abbiamo agito, nel qui ed ora, bene o male. C’è il rischio anzi di non poter padroneggiare le conseguenze delle nostre azioni quotidiane, perché la filosofia si limita a comprendere, è tutta rivolta in direzione della cum – praehensio fattiva del mondo circostante. Solo questo può, solo questo fa, forma di vita del pensiero quotidiana, non speciale.
E poi, cerchiamo di capirci, aprite bene i padiglioni auricolari. Io dico che l’Assoluto è il risultato. Dunque, a rigore, non ho mai detto che esso sia il Principio. L’Assoluto non viene prima, ma si manifesta alla fine del processo dialettico, il quale peraltro neanche ha una fine, perché appena giungo al termine, mi rivolgo nel circolo virtuoso che cortocircuita termine e cominciamento, al di fuori di qualsiasi dualismo sterile di condizione e condizionato. È per questo che bisognerebbe rispiegare ai miei posteri pensatori la distinzione fra vero ed esatto. Il vero è ciò che ha senso, è una realtà significativa, razionale. Ma questo mica significa che tutto vada bene, con un senso delle mie parole che qualcuno pare avermi messo in bocca. L’ottimismo ottocentesco che mi hanno imputato è parziale e frutto di una profonda incomprensione di fondo. infatti è esattamente il contrario! Il senso, il quid dotato di razionalità, deve essere reale, ovvero, fuor di metafora ontologica, si deve manifestare; e pur tuttavia realtà non è immediatamente esistenza, nel senso di tutto ciò che esiste, bensì la realtà è senso, è ciò che contribuisce alla mia presa di coscienza, non mia – mia, ma mia tua sua nostra vostra loro… insomma, alla presa di coscienza dell’uomo in quanto tale, come essere libero, libero, libero, anzi di più: come essere liberato.
Perché sono venute fuori queste criticuzze da quattro soldi? Analizziamo bene la questione. Per Hans Georg l’uomo come essere finito si trova di fronte ad una realtà più grande di lui che gli sfugge. Il vegliardo trapassato sostiene la possibilità di un dialogo tra il singolo e la storia, ma si può solo interpretare la realtà, ovvero la storia stessa, senza pretendere di possederla nella sua assolutezza. Secondo Paul, per cui “l’uomo è la gioia del sì nella tristezza del finito” (molto poetico, nevvero?), io non farei altro che identificare nel finito il principio attraverso cui spiegare la realtà. Ma non è questa una bella e buona proiezione psicanalitica? E prima ancora viene Søren il malinconico, Søren l’adolescente, Søren l’angosciato. Brivido terrore raccapriccio, s’ode l’urlo di Munch avanzare alla velocità del suono dall’orizzonte alla mia fronte. Il singolo, dice il danese dal bel ciuffo, ha le sue esigenze. E chi dice il contrario, non foss’altro che l’esigenza di farsi ogni mattina il bidet. Il singolo è per definizione incompiuto, è creatura rispetto all’essere verso cui tende. Il senso di questo essere in genere sfugge, ma questo suo essere sfuggente è proprio, va da sé, del Cristianesimo. Non aveva tutti i torti Schelling quando affermava che il Cristianesimo ha annientato il sentimento della Natura. E, per Martin, si può soltanto ascoltare l’essere, che è come dire: l’essere si manifesta ma nello stesso tempo si nasconde e noi non possiamo comprenderlo ma solo ascoltarlo. Di quale sorta di grammofono stonato abbiamo dunque bisogno? Il finito è l’uomo pratico, non l’uomo della teoria, quello dei greci a cui, secondo Hans Georg, io vorrei tornare. Nello zietto Immanuel abbiamo, in effetti, l’uomo essenzialmente pratico; secondo invece quella che è la vulgata sulla mia nozione di razionalità, l’uomo è teorico, contemplativo: è nel contemplare che la razionalità si manifesta. Però il finito, così, non è più principio di spiegazione (mi seguite?), bensì deve essere spiegato. Ma io non ho detto altro che bisogna concepire l’uomo all’interno della ragione, non al suo esterno. Il principio secondo me è il senso nella sua verità di far senso: è la Divina Commedia che spiega Dante, non il contrario! Ecco, questo sono io!
Tutti i filosofi boccoluti, imparruccati, ma anche quelli crapapelati, nonché quelli incimiciati ed eventualmente spidocchiati del mondo, per non parlare di quelli belli belli, profumati di dopobarba al musk e di Proraso in puro stilema di Occam, intelligenti tonsori che si industriano col rasoio a farmi barba e capello; e metto in mezzo pure il sifilitico spostato coi mustacchi un po’ da bear, che si affaticava col martello demolitore contro di me, ripudiando la “tirannide della ragione sugli uomini” (come se la ragione ci facesse schiavi e non invece uomini liberi!)… tutti coloro, insomma, pensatori o poeti, che si sono cimentati nel contrasto con me, si sono posti, a me pare, dal punto di vista del finito, cioè dell’uomo, come principio. Invece io ho come principio il senso, ovvero non l’uomo in quanto tale, ma ciò che l’uomo fa! Per me l’uomo è la serie delle sue azioni, l’uomo è in grado di esprimere, anzi, di più: l’uomo è questo stesso desiderio d’espressione, un animal desiderans, un’aspirazione struggente nel momento stesso in cui viene soddisfatta, tanto da divenire incessante, tanto da mettere in perpetuo moto l’azione del circolo; e allora il punto è andare ad indagare le modalità fenomenologiche di queste sue forme d’espressione, la sua creatività, il suo lascito di senso al mondo. Volete una veloce carrellata riassuntiva? Ci metto poco.
L’Illuminista era l’uomo dell’utile, della società che ricercava la felicità. Poi siamo arrivati noi, i Romantici, gli Stürmer entusiastici e poetanti in senso etimologico, e gli abbiamo contrapposto l’uomo che produce, l’uomo che opera, l’uomo che si dà da fare nell’officina del mondo, che forgia il senso delle cose, del circostante contestuale, di se stesso. È l’opera stessa lo scopo dell’uomo, è l’opera stessa ad accrescere il senso, ad alimentare bellamente, esteticamente, il suo desiderio. È per questo che noi romantici abbiamo dismesso l’abito ormai stretto dell’utilitarismo. L’interesse totale non è più rivolto al singolo, non è più rivolto ai pochi: deve essere indirizzato alla produzione di senso. L’uomo, per me, è essere – nel – mondo, come direbbe Martin, ma anche essere – del – mondo, come direi io. Nel momento esatto in cui io mi realizzo nel mondo, mi trovo in un contesto dotato di senso e ciò che faccio è sensato. Ma qualcuno potrebbe a questo punto chiedermi che cosa è il senso, quale che sia, e che cos’è il non senso, quale che sia. E qui bisogna che mi seguiate con un’ancora maggiore attenzione…
Il senso è la presa di coscienza sempre più lucida della libertà dell’uomo nel suo significare storico. Il senso consiste nella sua stessa produzione! E questa produzione coincide con la consapevolezza, progressivamente sempre più grande, della mia essenza di uomo libero, immerso fluidamente nel processo del divenire storico. Perché non c’è produzione senza desiderio. Ma desiderio di che cosa? Ebbene, di libertà.
Nel mondo orientale uno solo era libero. Nel mondo grecoromano solo alcuni erano liberi. Nel cristianesimo della modernità, ormai liberi siamo tutti, e la cultura moderna è permeata di cristianesimo, finalmente sa l’essenza dell’uomo e sa che quest’essenza è la libertà. Dopo secoli e secoli di atroci fatiche, di scontri, di guerre interiori, di abbagli, di peccati, di sconcezze, di atrocità, di ritrosie, di false speranze, di disillusioni; dopo secoli e secoli di magma metafisico, di sonno della ragione, di monstra culturali, di inadempienze, di fallocrazie, di religioni dell’ignoranza; dopo tutto questo oscuro travaglio, col forcipe indelicato e doloroso dell’autocoscienza riflessa e della Rivoluzione, abbiamo tirato fuori la consapevolezza di essere animali desideranti la libertà, la libertà di tutti che non si annulla nel niente. In Africa, bontà loro, mentre io scrivo la Fenomenologia dello Spirito tutto questo ancora non lo sanno, o se nel vostro tempo relativo già lo masticano, questo loro sapere è riflesso, è derivato, essendo la loro emancipazione, se pure in parti localizzate ci sia, discesa da idee eurocentriche: eurocentriche come me.
Eh sì, già intravedo un’obiezione: se la realtà non mi è estranea, direte voi, allora tutto il mazzo che s’è fatto lo zietto? Dobbiamo tout court tornare alla metafisica ed al sonno dogmatico? Ovviamente no, miei cari, no. Potrei sembrare un pastore che guida le pecorelle smarrite nel noumeno verso i pascoli verde posticcio della metafisica prekantiana, ma io non vi penetro dogmaticamente con nessuna suola di scarpa. Prima di giungere al sapere assoluto, io! Sono io che faccio i conti con l’esperire storico. Mentre il boccoluto nella Critica della Ragion Pura si ferma sulla soglia dell’oggetto metafisico, io, e lo ripeto, affermo invece che l’uomo può penetrare la realtà nella sua profondità, proprio perché non c’è un punto di vista più profondo rispetto alla realtà. E può farlo perché lo desidera, perché il suo desiderio inarrestabile fa tutt’uno con la propria volontà.
Anche quando parlo di Spirito, signori, occorre mettersi d’accordo sul suo significato. Il termine, lo ammetto da fervente luterano, è preso di peso dalla teologia. Ma io intendo con esso il risultato di una cultura. Lo Spirito in questo senso nasce in Grecia, dove il cittadino della polis si sente a casa sua nel suo microcosmo culturale, nei suoi valori, nelle sue espressioni fenomenologiche. Nel passaggio dal mondo romano, a quello medievale, a quello moderno, lo Spirito progressivamente si è modificato, e quello del mio tempo è uno spirito estraniato, i cui valori sono rinviati nel Rinascimento e nel Barocco all’aldilà. Quando sono arrivati gli Illuministi d’oltralpe, la fede è stata messa nel cantuccio a ripensare se stessa, e tutto è rientrato crassamente nella sfera dell’utile: però chi è che pone l’utile? Sono io, eh sì, insomma, il solito io tu egli noi voi essi. Il concetto moderno di libertà nasce con Rousseau, con Rousseau si ottiene l’emergenza dell’urgenza, la manifestazione tangibile della forza di volontà anche detta Rivoluzione francese, che però è stata un disastro, un insuccesso, una sconfitta, uno sfacelo: per mancanza di mezzi intellettivi fondanti, per carenza connaturata di strumenti culturali, nonostante fosse basata sull’idea della volontà generale, del contratto sociale, in contrasto con la pura ed egoistica volontà del singolo; nonostante fosse fondata su un desiderio, non foss’altro che un desiderio smodato. Ed infatti, nella Francia di quell’epoca, in cui De Sade prendeva appunti per Le Centoventi Giornate di Sodoma da ospite prigioniero nella sua celletta alla Bastiglia, il singolo non può esprimersi, lo stato lo elimina nel Terrore, ed egli, il singolo, per difendersi dal mal di testa terminale della ghigliottina, deve liberarsi da un peso, deve curarsi chimicamente, deve prendere la Bastiglia. Ma il singolo stesso percepisce il governo come qualcosa di non generale, bensì particolare: come un singolo esso stesso. Onde l’alternarsi di fazioni e forme di governo orientative, girondini, giacobini, Robespierre, Marat, sanculotti e via discorrendo, ora non sto qui a far l’elenco dell’alternarsi juventino del terror nero e del terror bianco. Basti riflettere sul fatto inopinabile che non ci fosse ancora, per i rivoluzionari, in quel lì e in quell’allora, la cultura di fondo per conciliare molteplicità e singolo. Tuttavia, se c’è un esito positivo a tutta quella baraonda di spargimenti di sangue e sperma sacrificale segnati a giorni alterni sul calendario più ridicolo e buffo che sia mai stato creato, è questa: con la Rivoluzione dei gallinacci in lotta nel pollaio l’uomo si è reso conto di esser capace di universalità. Dopo il riassetto napoleonico, mentre la Francia continua a fare coccodè come poi succederà per quasi tutto il Novecento, quando i suoi pensatori marxisti e sessantottini non comprenderanno minimamente il senso dell’evento storico secondo me, lo zietto boccoluto invece lo capisce, oh se lo capisce! Comincia così ad affermare, dalla sua celletta monacale di Könisberg, che l’imperativo, l’azione morale, è un fatto della ragione. Jacobi solo dopo teorizzerà la filosofia dello spirito coscienzioso, che sa quello che fa, nel pieno senso dell’emancipazione di cui io sono il più lucido teorico del mondo, senza falsa modestia.
Questa è la storia della manifestazione in divenire dello spirito dell’uomo. La cultura, le culture, sono il risultato di questo corso storico, degli eventi e del loro intimo significato. E si badi bene, tali eventi hanno contribuito a questo disvelamento dello Spirito a se stesso, essendo tutti gli altri in momento di contrasto, o contraddizione, o metamorfemi schiavizzati ed insieme padroni dell’immane forza del negativo.
Io, a dirla tutta, ho anche esaminato le varie religioni. Fra di esse, soltanto il cristianesimo è la presa di coscienza occidentale in senso culturale del divenire storico. Ma la religione, in sé e per sé, è intuizione ancora rappresentativa, non ancora lucida, della realtà. È la realtà in forma mitica, è la realtà dispiegata nelle storie analizzate da Propp, e proprio avendo affermato questo, non si capisce come mai il mustacchiato sifilitico si sia dovuto sentire investito del, quello sì, sacrale dovere di filosofare col martello distruggendone il fondamento. Non serve un Anticristo che sia convinto di sé, che ci crede, se Cristo stesso è solo una favola, se Cristo stesso non crede a se stesso, se Cristo stesso è il momento del negativo antitetico rispetto alla tesi del Padre che attende la superiore sintesi dello Spirito; se Cristo stesso, insomma, si è negato. E se la gente ci crede? Affari loro. Non si impone come pars destruens una genealogia della morale che si spaccia per negativa ed antipropositiva, tanto più propositiva e sostitutiva quanto più eteroescludente, contro l’ascesi della modernità: se tale ascesi s’è manifestata, ci sarà stato un motivo, e bisogna solo aspettare che essa trapassi. Come infatti nella vostra epoca attuale mi sembra che sia, e certo non per grazia o virtù di quel pazzoide che abbracciava un cavallo. Quando don Chisciotte scende da cavallo torna savio, quando Nietzsche abbraccia un cavallo afferma la sua pazzia. Genealogia della morale è di due anni prima rispetto all’accaduto; Ecce Homo, l’Anticristo, Il Crepuscolo degli Dei dell’anno prima. Opere di poesia, non di filosofia, per le quali vale il vecchio adagio di Poe: “la scienza non ci ha ancora insegnato se la follia è o non è il sublime dell’intelligenza”. Il rischio è che l’irrazionalismo poetico di Mister Mustard si trasformi nella tirannide dell’irrazionale, altro che della ragione! Il rischio è l’avvento dittatoriale del Baffetto e del Baffone. Il rischio è la tirannide senza colore politico, in cui le opposte fazioni che ancora oggi dividono il mondo vengono a coincidere nell’unico esito della mostruosità. Ma allora, se anche la religione ha avuto una sua funzione che si deve riconoscere come mitica, aurorale, a metà fra la funzione estetica dell’arte e quella della scienza, da dove nasce il sapere, come si passa allo stadio successivo?
Il sapere sorge nel mondo postrivoluzionario, e ciò, detto per inciso, è il motivo per cui tutte le rivoluzioni del mondo non sono mai un approdo al sapere o ai saperi, bensì punti di transito e scambio, di import export di coscienza e suggestioni, di trapasso emozionale e sociale, di puro fieri, di forza desiderante e generativa, di immane forza del negativo. È nel mondo romantico che io finalmente mi sento capace di sapere assoluto. Nessuna volontà di potenza è qui necessaria: la potenza c’è già! Tuttavia, e qui sta il bello, il punto per cui nessuno ancora ha pienamente compreso ciò che ho inteso per tutta la vita dire, il fondamento ultimo del mio modo di pensare: questo sapere non è inerrante, non è un assunto metafisico dell’episteme platonica, non è il migliore dei passati e degli svolgimenti storici possibili. Avrebbe potuto svolgersi, manifestarsi, realizzarsi diversamente da com’è andata, diversamente da come si è arrivati a tutto questo. Ed in quel caso, la filosofia non ne sarebbe rimasta sconvolta; l’avrebbe indagato lo stesso a posteriori, con l’utensile da intaglio del ricordo. Il sapere può sbagliare, e allora? Io voglio solo dire che la ragione compie legittimamente le sue azioni, quali che siano. Ma non si tratta mica di un bieco determinismo. Significa piuttosto una cosa ben precisa. Che io sono in grado di filosofare così, voglio dire, con la memoria! Con la memoria la filosofia si volge indietro verso gli avvenimenti della storia, con la memoria li commemora, li cum – memora, ci rimane invischiata, ci sta in mezzo, se ne permea e ci si sviluppa dal loro interno. Con la memoria e solo con essa i pensatori possono scoprire il senso, possono indagarlo non aprioristicamente, come se fosse un batterio sul vetrino sterile di un microscopio, ma possono guardarlo dall’interno dell’esperienza nel pieno razionale del suo svolgersi reale. Ora la metafisica è davvero morta, e questa problematicità moderna, o anche solo il pensare di potermici approcciare, di poterla avvicinare, indagare, penetrare, mi dà il sorriso, la carica, la forza, la sagacia, un nuovo e inesauribile desiderio di conoscere, di amare, di trasformarmi, di vivere.
Non ci sono più misteri, solo problemi. L’essere è fra noi: io sono ormai capace di verità.

 

L’articolo è già stato pubblicato in: Desiderio e desideri. Con Hegel, non solo con Hegel. Quaderni di Dialettica e Filosofia, n.2, Novembre-Dicembre 2014/ I
www.dialetticaefilosofia.it ISSN 1974-417X [on line]
http://www.dialetticaefilosofia.it/public/quaderni/302_desiderio.pdf

VIDEO – Comunismo Ermeneutico

Il nostro tempo, sia sul piano politico sia filosofico, è segnato da una «assenza di emergenza»: il capitalismo neoliberista e, in filosofia, la metafisica stanno tenendo imbrigliato il mondo intero. Secondo Gianni Vattimo e Santiago Zabala, esiste però un’alternativa possibile. Si tratta, rielaborando Marx e Heidegger, di ciò che qui viene definito «comunismo ermeneutico», cioè di una posizione che politicamente si avvicina alle esperienze sudamericane di Hugo Chávez in Venezuela ed Evo Morales in Bolivia. Ma questo libro, scrivono gli autori nella prefazione all’edizione italiana, «non è solamente politico, è anche e soprattutto filosofico, in altre parole, una filosofia politica antirealista, che non vuole fondarsi sulla “verità dei fatti”, sempre così addomesticata dall’informazione mainstream, dal vero regime oppiaceo in cui siamo immersi. Essere realisti significa ancora sempre, per noi, chiedere l’impossibile. Sapendo che solo così si riuscirà a cambiare almeno qualcosa».

VIDEO – Il nazismo in Heidegger

 

Il recente dibattito sugli Schwarze Hefte di Heidegger ha richiamato l’attenzione del mondo accademico e della stampa in direzione della delicata questione dell’antisemitismo, sollevando la domanda circa le responsabilità che il filosofo tedesco potrebbe avere nei confronti dell’Olocausto. Gianni Vattimo propone, per Pagine Heideggeriane, una ricca panoramica su alcuni dei punti più problematici che ruotano intorno al “caso Heidegger”.

DOCUMENTO PROGRAMMATICO

di
Bruno Montanari

Premessa

Particolarmente diffusa è l’opinione circa l’inutilità dei cosiddetti studi umanistici, degli interessi ad essi associati, dei progetti da essi ispirati. Ma, a fronte di questa asserita inutilità, qualcuno dovrebbe spiegarci come mai, nonostante il primato della tecnica, dello scientismo e della prospettiva economicistica, si assista ad un evidente disorientamento generalizzato, ad una crisi che non è soltanto economica ma anche sociale, visto il degrado del tessuto e delle relazioni umane. Inoltre, l’impressione è che la progressiva affermazione del capitalismo finanziario, sostituitosi al classico capitalismo industriale e produttivo, coincida con una speculazione sulla crisi e sulla decrescita. In altre parole, più si sta male più margini di profitto sembrano esserci per coloro che, in nome del puro economicismo, giocano guadagnando sulla crisi. Crisi, che di giorno in giorno mostra sulla scena del mondo i suoi possibili profili catastrofici, dalla fame alle guerre, in atto o in potenza.

A ciò si aggiunga che il diffondersi, e l’affermarsi come esclusivi, dei modelli di pensiero “scientifico”, per la struttura delle categorie di ragionamento che necessariamente comporta, impedisce l’affermarsi di un pensiero “critico”.

Se le cose stanno così, occorre ribaltare l’intera prospettiva, poiché la complessità della società attuale, irriducibile a modelli di comprensione esclusivamente tecnico-economici, chiama in causa l’approccio umanistico quale chiave di lettura imprescindibile. Certo, è bene essere consapevoli di come ragionare in questo senso equivalga ad una dichiarazione di resistenza culturale. Il primato tecnologico, infatti, ha condotto a misurare l’impiego del nostro tempo e della nostra fatica esclusivamente su criteri materiali di natura esclusivamente quantitativa (poiché la “quantità” è l’unica dimensione “misurabile”), quali l’immediatezza, la rapidità, l’utilità, l’efficienza. In realtà, seguendo tali criteri di misura si rischia di guardare ad un agire pratico tipicamente funzionale alla performatività del sistema, senza spazi critici. Il pericolo di questa distorsione consiste nel costruire retoriche dell’azione, del calcolo e della prassi letteralmente insignificanti: un’azione funziona forse oggi per l’obiettivo presente ma, visto che non ci assumiamo l’onere di comprenderne il significato, non ci aiuta né a leggere né a governare la realtà a medio e lungo termine.

Se per garantire il funzionamento, oggi e soltanto per oggi, di un’azione, può bastare raccogliere dati e collezionare informazioni, per leggere, governare e orientare la realtà, secondo autentici fini generali, bisogna conoscere la realtà stessa e non solo esserne informati. Bisogna affrontare il quotidiano con metodo, consapevolezza storica e sensibilità culturale, insomma con l’approccio tipico degli studi umanistici. Ciò che è in questione, quindi, è il modello di conoscenza: non solo non ne esiste uno solo, ma ogni modello assolve a finalità diverse. Quello scientifico ha funzioni prevalentemente applicative, il modello di tipo umanistico serve a sollecitare la capacità sociale di critica, ed entrambi hanno uguale cittadinanza nella formazione del sapere.

Di quest’ultimo tipo di conoscenza si avverte la necessità in un Paese, come il nostro, in cui si assiste ad una crisi delle infrastrutture sociali. Una crisi, cioè, del tessuto delle relazioni tra gli uomini che tiene insieme una comunità nazionale e rende possibili le imprese dei singoli, da quelle economiche a quelle sociali, dai progetti materiali a quelli spirituali, individuali e collettivi. La democrazia non è infatti riducibile ad una forma di governo. Si tratta, piuttosto, di una concezione etica fondata sulla comunicazione consapevole. Per questo gli strumenti potenzialmente democratici, dai partiti ai media, per esser tali devono essere veri luoghi di formazione. Se questo è uno scenario condivisibile, allora occorre ripensare a ciò che può trasformare un semplice ambiente sociale anonimo, ove vige l’individualismo egoistico di massa, in una vera e propria “società”, che possa esprimersi con un’ “opinione pubblica” propriamente intesa. In questa operazione sono in gioco più di cento anni di storia: dalle istituzioni democratiche ai sistemi di protezione sociale, passando per le riforme del mercato economico, del lavoro e per una riconfigurazione del sistema partitico e sindacale. Questo percorso non può non avvalersi di forze diverse, di diversa provenienza professionale e culturale, capaci di indicare direzioni, proprio a partire da quel rilancio della ricerca e della riflessione di tipo umanistico in grado di diffondere una maggiore consapevolezza delle coordinate storiche e concettuali entro cui le nostre vite, le vite di tutti, si inquadrano. Un tale sforzo potrà fornirci nuove lenti per scrutare il nostro fumoso orizzonte.

Proposta

Del resto, quest’orizzonte andrebbe non soltanto scrutato ma anche compreso. L’obiettivo è, infatti, sapersi orientare di fronte ad uno spazio indistinto. Ma il punto è che una tale opera di orientamento e, quindi, di azione, presuppone l’esistenza di un ambiente sociale riconducibile ad una identità di “soggetto”, riconoscibile per un tessuto culturale, relazionale ed economico-produttivo, comune. Una tale ricostituita “soggettività” del sociale sarebbe nelle condizioni (così come è avvenuto nella storia moderna) di far sentire il proprio peso quando si tratta, come oggi, di ripensare il modello stesso della convivenza. A questo proposito, al di là delle diverse opzioni politiche ed ideologiche, l’esigenza posta di recente di dar vita ad un soggetto sociale non riducibile ai partiti e neppure al sindacato, in grado comunque di incidere sulla scena politica, coglie proprio il senso di una necessità storica. La necessità, cioè, di opporsi ad una frammentazione ambientale esasperata ed al pulviscolo di interessi e lobby incapaci di pensare ad un quadro condiviso di scelte sociali di fondo. Una tale frammentazione, privando la società di qualsiasi forma soggettiva di coesione, conduce all’isolamento sociale delle istituzioni e ad una loro progressiva delegittimazione, cui contribuisce anche una sorta di autorefenzialità lobbistica.

Occorre, allora, concentrarsi sull’obiettivo di fondo: la ricostituzione di un soggetto sociale, che non vuol dire “pensiero unico”, ma, al contrario, luogo entro il quale possano svilupparsi e prendere forma quelle diverse “visioni del mondo”, che alimentano una democrazia parlamentare.  “Luogo” che consente di tenere fermo un nucleo simbolico di esperienze e principi condivisi da tutti.

In definitiva si tratta di recuperare il “peso” della Politica sulle regole imposte dall’economia finanziaria, cui segue la tensione, che viviamo quotidianamente, tra democrazia parlamentare e scenari sovranazionali.

Bruno Montanari