di
Gabriele Molinari
Premessa.
I sistemi elettorali servono a trasformare le opinioni politiche esistenti all’interno di una comunità (anch’essa quindi, appunto, politica) in rappresentanze elettive.
Nel perseguire questo scopo i predetti sistemi devono garantire – almeno in linea teorica – che gli eligendi organi complessi (ovvero quelli collegiali; il problema naturalmente non si pone per le cariche monocratiche) possano correttamente assolvere all’esercizio della propria funzione deliberativa.
Tanto meglio riescano a provvedervi – quindi nella conseguente determinazione di definite e stabili maggioranze assembleari – tanto più sarà perseguito e raggiunto l’obiettivo primo di ogni comunità politica, ovvero il governo della stessa.
Il presente lavoro, tuttavia, non si propone solo di indagare la relazione esistente tra i predetti sistemi (nelle loro diverse tipologie) e i livelli possibili di governabilità, quanto pure di stabilire quale sia e come si configuri, a seconda dei modelli adottati, il rapporto tra le rappresentanze elettive – ed in specie quelle parlamentari – e gli interessi portati dal corpo elettorale.
L’interesse a questa riflessione muove dalla considerazione del fatto che il sistema maggioritario e quello proporzionale, per loro intrinseca natura, generano una diversa rappresentazione elettiva di quegli interessi, ed un ancor più diverso bilanciamento dei medesimi.
Soprattutto, l’interesse muove dai recenti sviluppi dell’attività parlamentare, dal momento che si sta discutendo un disegno di legge di revisione costituzionale e che è stato approvata una nuova legge elettorale, entrambi destinati a modificare radicalmente l’ordinamento della Repubblica.
La variazione del sistema elettorale induce a verificare l’eventuale, corrispondente, sussistenza di una variazione nel meccanismo di rappresentanza istituzionale.
Introduzione. I sistemi elettorali.
Prima di ogni considerazione, è utile ricapitolare le caratteristiche dei sistemi elettorali vigenti nelle principali democrazie del mondo.
La tipologia più semplice è la legge proporzionale: ciascun partito ottiene una quantità di seggi in Parlamento in base al numero di voti ottenuti. Si afferma generalmente che il sistema proporzionale garantisca appieno la rappresentanza dell’elettorato, ma è il meno idoneo ad assicurare la governabilità. In effetti, in una democrazia parlamentare – in cui il Governo ha bisogno della fiducia del Parlamento – l’azione di governo può avere un indirizzo univoco solo qualora un insieme di partiti, compatibili fra loro sul piano ideologico e programmatico, ottenga la maggioranza assoluta dei voti. In caso contrario, il Governo dovrebbe contare su una maggioranza parlamentare eterogenea, con il rischio che i veti incrociati rendano impossibile l’assunzione delle necessarie scelte.
Per attenuare gli effetti negativi in termini di governabilità, è possibile adottare alcuni correttivi, generalmente mirati alla diminuzione quantitativa dei partiti rappresentati in Parlamento, con conseguente aumento dei seggi attribuiti ai partiti maggiori.
Il principale rimedio è lo sbarramento: solo i partiti che superano una soglia numerica di voti possono ottenere seggi in Parlamento. Così dispone, ad esempio, la legge elettorale vigente in Germania: i partiti che, a livello nazionale, ottengono più del 5 per cento si spartiscono i seggi della Dieta federale. Analogo sistema è adottato in Russia, ove è necessario ottenere il 7 per cento per accedere alla Duma; sono comunque riservati seggi in numero fisso per i partiti compresi fra il 5 e il 7 per cento dei voti.
Un’alternativa consiste nell’assegnare i seggi non su base nazionale, ma all’interno delle circoscrizioni elettorali. Poiché in ciascuna di esse è assegnato un numero limitato di seggi, il numero di partiti che accederanno alla distribuzione dei seggi risulta inferiore. Così prevede la legge elettorale in Spagna.
In Italia, dal 1948 al 1993, la legge elettorale era di tipo proporzionale, senza sbarramento. Più esattamente, i senatori erano eletti in collegi uninominali: la legge prevedeva l’elezione diretta del candidato vincente in ciascun collegio, a patto che questi raggiungesse il 65 per cento dei consensi; in mancanza, i seggi erano ripartiti secondo il metodo proporzionale. In seguito al referendum abrogativo del 1993, il Parlamento, con due successivi interventi legislativi, ha introdotto il metodo maggioritario. Nel 2014, con la sentenza n. 1/2014, la Corte Costituzionale è intervenuta sulla legge elettorale, dichiarando l’illegittimità di alcune disposizioni; il risultato è una legge proporzionale, con sbarramento del 4 per cento alla Camera e dell’8 per cento al Senato; è previsto uno sbarramento inferiore per le liste coalizzate, ma l’assenza di un premio di maggioranza non incentiva la formazione di coalizioni. Come vedremo, a partire dal 1 luglio 2016, questa legge non sarà più in vigore per l’elezione della Camera dei deputati.
Se i sistemi proporzionali, più o meno corretti, assicurano piena tutela alla rappresentanza elettorale a scapito dell’univocità dell’azione di governo, avviene l’inverso nel caso dei sistemi maggioritari.
Il più diffuso fra essi è il maggioritario di collegio. Il territorio nazionale è suddiviso in circoscrizioni elettorali, in numero pari ai parlamentari da eleggere (i cc. dd. “collegi uninominali”), di modo che ogni partito presenti, per ogni circoscrizione, uno e un solo candidato. Poiché il seggio in palio in ogni collegio è uno solo, e uno solo sarà il candidato eletto: questo sistema avvantaggia – in linea di principio – i partiti che sono in grado di raccogliere una quantità di voti sufficienti a garantire loro la maggioranza.
Sono possibili diversi metodi per determinare la maggioranza necessaria all’elezione. Laddove vige il c.d. first past the post voting, è eletto, in ciascun collegio, il candidato che ottiene la maggioranza relativa.
Questo tipo di sistema maggioritario è tradizionalmente adottato negli Stati di tradizione anglo-americana: Regno Unito e Stati Uniti d’America; Canada, India, Sudafrica. Inoltre, è stato introdotto anche in Italia, fra il 1993 e il 2005[ref]Leggi nn. 276 e 277 del 1993 (cc.dd. leggi Mattarella o “Mattarellum”), poi radicalmente modificate dalla legge n. 270/2005.[/ref], con una variante: la legge italiana assegnava il 75% dei seggi in collegi uninominali, distribuendo i restanti – secondo un criterio proporzionale – tra i partiti che superavano il 4 per cento dei voti.
È evidente come un siffatto sistema elettorale sacrifichi la rappresentanza. Innanzitutto, il maggioritario first past the post consente di attribuire la maggioranza assoluta a un partito, a condizione che questo disponga di una maggioranza relativa di voti, omogeneamente distribuita sul territorio; in astratto ciò è possibile anche qualora il partito in questione sia molto distante dalla maggioranza assoluta[ref]Nel 2005, alle elezioni per il rinnovo della Camera dei comuni nel Regno Unito, il Partito Laburista ottenne 355 seggi su 646, con il 35,2% dei voti.[/ref]. Addirittura, in alcuni casi-limite, questo sistema può agevolare la formazione di un governo guidato da un partito privo della maggioranza relativa[ref]Nel 1948, alle elezioni parlamentari in Sudafrica, il Partito Nazionale Riunificato ottenne il 45.5% dei seggi con il 37.7% dei voti; lo United Party, il 42.5% dei seggi con il 49.2% dei voti. La maggioranza parlamentare eletta nel 1948 – formata dal partito vincitore e da un partito minore, l’Afrikaaner Party – diede l’avvio alla politica di segregazione nota come apartheid.[/ref]. Del resto, il maggioritario nasce nei contesti politici britannico e statunitense, laddove – in origine – la competizione era limitata a due partiti, uno dei quali necessariamente destinato a raggiungere la maggioranza assoluta dei voti e, di norma, anche la maggioranza assoluta dei seggi.
A ciò si aggiunga che il maggioritario di collegio rafforza la rappresentanza di partiti il cui consenso è scarso a livello nazionale ma particolarmente concentrato in un’area geografica determinata.
A fronte di ciò, paradossalmente, questo maggioritario “secco” non assicura neanche la governabilità. Dal momento in cui ogni voto è potenzialmente decisivo per conquistare la maggioranza relativa – e, di conseguenza, l’elezione nel collegio – i partiti maggiori saranno incentivati alla ricerca di un accordo con i partiti minori. Il sistema maggioritario, dunque, favorisce la formazione di coalizioni.
In alternativa, si ricorre alla c.d. “desistenza”: in un certo numero di collegi, uno o più partiti minori ritirano le proprie candidature, dando indicazione di voto per un partito più forte, il quale a sua volta farà altrettanto in altri collegi. Ne consegue che, con il maggioritario tradizionale, le probabilità che i partiti piccoli e medi siano rappresentati in Parlamento – condizionando le scelte degli altri partiti – restano ferme, e anzi, potenzialmente, aumentano rispetto a quanto accadrebbe adottando un sistema proporzionale corretto[ref]Il caso italiano è eloquente. Le elezioni del 2001 furono le ultime svoltesi con il sistema misto previsto dalla legge Mattarella. Il 25% dei seggi attribuito con la quota proporzionale fu distribuito fra 5 partiti. I partiti presenti alla Camera dei deputati, all’inizio della legislatura, erano 13: infatti, i partiti minori avevano eletto i loro rappresentanti nei collegi uninominali, sotto le insegne delle due principali coalizioni.[/ref]; un partito con il 2 per cento dei voti non potrà mai essere rappresentato in un sistema proporzionale in cui lo sbarramento sia fissato al 5 per cento, mentre potrà esserlo in un sistema maggioritario, laddove raggiunga un’intesa con altri partiti.
Per di più, gli accordi sono conclusi “al buio”: nel quadro di una coalizione, o di un patto di desistenza, i seggi spettanti ai partiti piccoli e medi sono assegnati senza conoscere il loro reale peso politico. Il risultato è che, in taluni casi, questi partiti possono ottenere seggi in misura ben superiore ai loro voti, dando origine ad una ulteriore distorsione della rappresentanza, che si affianca a quella che avvantaggia i partiti maggiori, ma che non è giustificabile con le esigenze della governabilità, e anzi è dannosa anche sotto questo profilo[ref]In Italia, all’inizio della XII legislatura, il gruppo più numeroso presso la Camera dei deputati era quello della Lega Nord, la quale, con l’8,3% dei voti, aveva eletto 117 deputati su 630 (18.6%).
La Lega Nord uscì dalla coalizione di governo pochi mesi dopo le elezioni, determinando la formazione di una diversa maggioranza a sostegno di un governo tecnico.
Nel 2001, il gruppo del CCD e dei CDU contava su 40 deputati (il 6.3% dei seggi) a fronte del 3.2% dei voti; il gruppo di Alleanza Nazionale, su 99 deputati (15.7% del totale) con il 12.0% dei voti.[/ref].
Un rimedio parziale agli inconvenienti del maggioritario first past the post è rappresentato dal maggioritario di collegio a doppio turno, come quello previsto per l’elezione dell’Assemblea Nazionale in Francia. In ogni collegio, è immediatamente eletto il candidato che raggiunge la maggioranza assoluta dei voti: 50 per cento, più uno. Qualora ciò non avvenisse, gli elettori di quel collegio saranno chiamati ad un secondo turno elettorale (ballottaggio) al quale accederanno solo i candidati che ottengono una determinata quantità di voti[ref]In Francia, il ballottaggio è riservato ai candidati che, in ciascun collegio, raggiungono una quantità di voti pari al 12,5% degli iscritti nelle liste elettorali.[/ref]: il candidato che avrà il maggior numero di voti sarà eletto.
In termini di rappresentanza, va segnalato che il doppio turno impone ai partiti maggiori di ottenere voti in una misura pari alla maggioranza assoluta al primo turno, e – quantomeno – vicina alla maggioranza assoluta nel ballottaggio: non è più sufficiente la maggioranza relativa in sé. Nondimeno, proprio per questa ragione, questo tipo di sistema maggioritario accresce il potenziale dei partiti più forti, i quali, al ballottaggio, potranno disporre di quei voti che, al primo turno, erano stati tributati ai partiti piccoli e medi. Pertanto, al prezzo di un ulteriore detrimento per la rappresentatività, il maggioritario di collegio a doppio turno apporta visibili benefici alla governabilità, assunto che essa dipende – in ogni caso – dallo stato di salute del sistema politico[ref]Nel 1993, alle elezioni per il rinnovo dell’Assemblea nazionale francese, la coalizione RPR-UDF (neogollisti e liberali) vinse con una maggioranza di 472 seggi su 577, pari all’81.8% dei seggi: al primo turno, la coalizione vincente disponeva del 43.3% dei voti; al secondo, del 58.0%. La legislatura non giunse alla sua scadenza naturale: il Presidente Chirac sciolse l’Assemblea nazionale nel 1997, con un anno di anticipo.[/ref]. Resta fermo che i partiti maggiori necessitano, anche in questo caso, di concludere accordi con i partiti piccoli e medi, il che favorisce il ricorso alle desistenze e la formazione di coalizioni[ref]Alle elezioni francesi del 2012, l’Alliance centriste, partito della coalizione di centro-destra, ha eletto 2 deputati, con lo 0.6% dei voti al primo turno. Il Front national, che non ha stretto alcun accordo con altri partiti, ne ha eletti altrettanti, con il 13.6% dei voti al primo turno.[/ref].
È importante rilevare che il maggioritario di collegio non è l’unica tipologia di legge elettorale maggioritaria[ref]Allo stesso modo, peraltro, esistono sistemi proporzionali che prevedono l’esistenza di collegi uninominali.
In Germania – come si è già scritto sopra – l’attribuzione dei seggi del Bundestag a ciascun partito avviene integralmente secondo il metodo proporzionale, tenuto conto di una soglia di sbarramento. Tuttavia, anche la legge elettorale tedesca prevede l’esistenza di collegi uninominali – pari alla metà dei parlamentari da eleggere – con la finalità di determinare i candidati che saranno eletti. L’altra metà dei candidati si presenta in liste circoscrizionali, senza che ci sia possibilità di esprimere una preferenza per qualcuno di essi: i candidati sono eletti secondo la loro posizione all’interno della lista, posizione prestabilita nel momento in cui la lista viene presentata (cc. dd. “liste bloccate”). L’elettore ha a disposizione due voti: uno per i candidati nei collegi, un altro per i candidati nelle liste circoscrizionali.
Innanzitutto, sono ammessi al riparto dei seggi anche i partiti che, pur non raggiungendo la soglia di sbarramento, riescono ad eleggere candidati in tre collegi uninominali.
Inoltre, tutti i candidati che ottengono la maggioranza relativa nei rispettivi collegi ottengono un seggio al Bundestag. A quel punto, occorre confrontare la quantità dei seggi spettanti a ciascun partito – i quali sono sempre calcolati in base al sistema proporzionale – con il numero dei candidati di quel partito che vincono la competizione nei collegi.
Se i primi sono inferiori ai secondi, i rimanenti seggi sono assegnati ai candidati delle liste circoscrizionali bloccate, ovviamente in base alla loro posizione nella lista: se restano da assegnare X seggi, saranno eletti coloro che sono candidati nelle prime X posizioni.
Nel caso inverso, i candidati eletti nei collegi saranno comunque eletti. Questo è possibile, in quanto il numero dei deputati del Bundestag non è stabilito in misura fissa, bensì in misura minima (598). A titolo di esempio, qualora un partito dovesse ottenere 200 seggi in base al riparto proporzionale, ma riuscisse a ottenere la maggioranza in 250 collegi uninominali, quel partito eleggerà al Bundestag 50 deputati in più; essi saranno qualificati come “mandati in sovrannumero” (Überhangmandaten) e saranno aggiunti al numero complessivo dei deputati da eleggere, che non saranno più 598, ma 648 (598+50).[/ref].
Si può adottare il criterio maggioritario anche laddove la legge elettorale preveda l’esistenza di liste plurinominali di candidati e il riparto dei seggi sia proporzionale ai voti di ciascuna lista, a condizione che una quota di seggi sia sottratta al riparto, e venga attribuita alla lista che ottiene il maggior numero di voti (c.d. “premio di maggioranza”).
È su questo metodo che si fonda la legge elettorale italiana, recentemente approvata dal Parlamento e promulgata dal Presidente Mattarella[ref]Legge n. 52 del 2015 (Gazzetta Ufficiale, Serie Generale n.105 del 8-5-2015).[/ref]: l’“Italicum” (e, prima ancora, il “Porcellum”).
Nel caso del c.d. “Italicum” – come nel caso della legge n. 270/2005, il c.d. “Porcellum” – i seggi del premio di maggioranza non sono determinati in numero fisso; sono pari alla differenza fra il 55% dei seggi totali della Camera – i quali sono sempre assicurati alla lista vincente – e i seggi che spetterebbero alla lista di maggioranza relativa se si adottasse il criterio proporzionale.
Dal momento che, con la sentenza n. 1/2014, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del “Porcellum”, vale la pena illustrare le differenze fra la legge del 2005 e l’attuale.
Il “Porcellum” – come anticipato – si fondava sul principio del premio di maggioranza, assegnando il 55% dei seggi alla lista, o alla coalizione di liste, che otteneva la maggioranza relativa. Al Senato il premio di maggioranza era assegnato alla coalizione vincente su base non nazionale, bensì regionale; questa disposizione rendeva difficoltoso individuare un vincitore a livello nazionale: in due occasioni – XV e XVII legislatura – impediva la formazione di una maggioranza univoca al Senato. La legge incoraggiava la formazione di coalizioni, prevedendo una soglia di sbarramento inferiore per le liste coalizzate. Gli eletti erano individuati sulla base di liste bloccate in 27 circoscrizioni – nel caso della Camera – e in 20 circoscrizioni coincidenti con le Regioni, nel caso del Senato.
Come anticipato, la Corte Costituzionale ha giudicato illegittimo un simile premio di maggioranza. Il principio della sovranità popolare ex art. 1 Cost. – nonché il disposto dell’art. 67 Cost.: i membri del Parlamento hanno la funzione di rappresentare la Nazione – vieta un’eccessiva alterazione della rappresentanza, nonostante il legislatore possa legittimamente perseguire l’obiettivo di agevolare la formazione di una maggioranza stabile e coesa. Ne deriva che la legge elettorale non può attribuire la maggioranza assoluta a una forza politica il cui consenso corrisponda ad un’esigua maggioranza relativa nel voto popolare, e tanto meno può farlo senza richiedere alla lista o alle liste di maggioranza il conseguimento di una soglia minima di voti[ref]“In altri termini, le disposizioni in esame non impongono il raggiungimento di una soglia minima di voti alla lista (o coalizione di liste) di maggioranza relativa dei voti; e ad essa assegnano automaticamente un numero anche molto elevato di seggi, tale da trasformare, in ipotesi, una formazione che ha conseguito una percentuale pur molto ridotta di suffragi in quella che raggiunge la maggioranza assoluta dei componenti dell’assemblea. Risulta, pertanto, palese che in tal modo esse consentono una illimitata compressione della rappresentatività dell’assemblea parlamentare, incompatibile con i principi costituzionali in base ai quali le assemblee parlamentari sono sedi esclusive della ‘rappresentanza politica nazionale’ (art. 67 Cost.), si fondano sull’espressione del voto e quindi della sovranità popolare”. Corte Costituzionale, sentenza 13-I-2014, n. 1.[/ref].
Inoltre, la Corte ravvisa un ulteriore profilo di illegittimità nel premio di maggioranza “regionale” assegnato al Senato. Vero che – ex art. 57, comma 1, Cost. – il Senato “è eletto su base regionale”. Nondimeno, poiché il sistema istituzionale delineato dalla Costituzione del 1948 è fondato sul principio del bicameralismo paritario – in relazione alla funzione legislativa e al rapporto fiduciario con il Governo – non è ammissibile che il legislatore consenta il rischio della formazione di maggioranze diverse fra i due rami del Parlamento[ref]“Nella specie, il test di proporzionalità evidenzia, oltre al difetto di proporzionalità in senso stretto della disciplina censurata, anche l’inidoneità della stessa al raggiungimento dell’obiettivo perseguito, in modo più netto rispetto alla disciplina prevista per l’elezione della Camera dei deputati. Essa, infatti, stabilendo che l’attribuzione del premio di maggioranza è su scala regionale, produce l’effetto che la maggioranza in seno all’assemblea del Senato sia il risultato casuale di una somma di premi regionali, che può finire per rovesciare il risultato ottenuto dalle liste o coalizioni di liste su base nazionale, favorendo la formazione di maggioranze parlamentari non coincidenti nei due rami del Parlamento, pur in presenza di una distribuzione del voto nell’insieme sostanzialmente omogenea. Ciò rischia di compromettere sia il funzionamento della forma di governo parlamentare delineata dalla Costituzione repubblicana, nella quale il Governo deve avere la fiducia delle due Camere (art. 94, primo comma, Cost.), sia l’esercizio della funzione legislativa, che l’art. 70 Cost. attribuisce collettivamente alla Camera ed al Senato. In definitiva, rischia di vanificare il risultato che si intende conseguire con un’adeguata stabilità della maggioranza parlamentare e del governo. E benché tali profili costituiscano, in larga misura, l’oggetto di scelte politiche riservate al legislatore ordinario, questa Corte ha tuttavia il dovere di verificare se la disciplina legislativa violi manifestamente, come nella specie, i principi di proporzionalità e ragionevolezza e, pertanto, sia lesiva degli artt. 1, secondo comma, 3, 48, secondo comma, e 67 Cost.”. Corte Costituzionale, sentenza 13-I-2014, n. 1.[/ref].
L’ “Italicum” adotta, a sua volta, il sistema del premio: la lista di maggioranza ha diritto al 55% dei seggi della Camera dei deputati; nella proposta, però, non è più prevista la possibilità che le liste si coalizzino. Non è più disciplinata l’elezione del Senato della Repubblica, dal momento che il Parlamento sta discutendo una proposta di revisione costituzionale volta a trasformarlo in Camera non elettiva. La legge entrerà in vigore alla data dell’1 luglio 2016[ref]Art. 1, comma 1, lettera i), legge n. 52/2015.[/ref]. Il legislatore presume che, in quel momento, il processo di revisione costituzionale si sarà già concluso.
Resta da verificare se la scelta del legislatore di ricorrere nuovamente al premio di maggioranza sia o meno coerente con le affermazioni della Corte Costituzionale.
In effetti, l’ “Italicum” condiziona il premio di maggioranza al raggiungimento di una soglia minima di voti, fissata inizialmente al 37 per cento e, in seguito, al 40.
A taluni critici ciò non sembra sufficiente a superare le perplessità che la Consulta aveva espresso sul “Porcellum”.
Si ricorda che la legge Acerbo – approvata dal Parlamento nel 1924, su proposta del Governo Mussolini – assegnava un abnorme premio, pari al 66 per cento dei seggi, alla lista di maggioranza assoluta, ma solo qualora questa non ottenesse meno del 25 per cento dei voti. Un’eventuale riedizione della legge Acerbo sarebbe da considerarsi legittima, sapendo che essa consente “ad una formazione che ha conseguito una percentuale pur molto ridotta di suffragi in quella che raggiunge la maggioranza assoluta dei componenti dell’assemblea”? Cosa si intende per “molto ridotta”? Esiste un parametro oggettivo di tipo matematico per stabilire se il premio rispetta o meno il principio di proporzionalità, o questa valutazione è affidata al solo buon senso del giudice costituzionale?
Stante l’impossibilità di una risposta univoca a questa domanda, l’introduzione della soglia minima non aiuta a dissipare i dubbi sul premio di maggioranza. Sotto questo profilo, però, il reale elemento di novità risiede in un’altra disposizione dell’ “Italicum”, laddove si stabilisce che – qualora nessuna lista raggiunga la soglia – il premio venga assegnato in un secondo turno elettorale, al quale hanno diritto a partecipare la prima e la seconda lista per numero di voti. Così, si impone che la lista di maggioranza abbia il 50 per cento più uno dei votanti al ballottaggio: una maggioranza assoluta dei voti, per la maggioranza assoluta dei seggi. Il ballottaggio, insomma, introduce una rilevante differenza qualitativa rispetto al “Porcellum”. Infatti, cambia la natura della maggioranza richiesta per accedere al premio: da relativa ad assoluta.
Inoltre, diversamente dal maggioritario di collegio, l’ “Italicum” assicura la rappresentanza parlamentare anche per i partiti che non avrebbero, in alcuna area geografica, un numero di voti sufficiente per conquistare un seggio. Ne consegue un rafforzamento del pluralismo parlamentare: e, altresì, una riduzione dei seggi per i partiti che, pur godendo di scarso consenso su scala nazionale, sono fortemente insediati a livello locale, partiti generalmente avvantaggiati dal maggioritario di collegio a turno unico[ref]In tal senso, è eloquente – per citare il caso più recente – il risultato dello Scottish National Party alle elezioni per il rinnovo della Camera dei Comuni britannica, tenutesi il 7 maggio 2015.[/ref]. Si tratta di un elemento positivo, se si considera che la sovranità appartiene al popolo, e non ai singoli territori.
Infine, l’ “Italicum” – come anche il “Porcellum” – non conferisce una maggioranza di seggi superiore al 55%. Dunque, non consente la formazione di quelle maggioranze schiaccianti che talora hanno contraddistinto le legislature francesi e britanniche.
Tutto ciò considerato, si può concludere che la legge appena approvata dal Parlamento italiano è connotata da un maggior tasso di rappresentatività sia se confrontata alla legge a suo tempo proposta dall’ex ministro Calderoli, sia – per certi aspetti – rispetto al sistema maggioritario tradizionalmente adottato in altri Paesi dell’Occidente.
Riassumendo, la sentenza n. 1/2014 della Corte Costituzionale non subordina il premio alla maggioranza assoluta dei voti; non vieta che esso sia attribuito ad una lista di maggioranza relativa.
Ciò che davvero vincola il legislatore è il rispetto del principio di proporzionalità, evitando che la rappresentanza sia eccessivamente sacrificata con l’attribuzione di una quantità di seggi fuori misura rispetto al risultato elettorale. Non è agevole determinare con certezza se il premio assegnato ad una lista di maggioranza relativa sia o meno adeguato sotto questo profilo. Tuttavia, qualora la “maggioranza relativa” sia inferiore al 40 per cento, l’ “Italicum” costringe le due liste più votate a un ballottaggio, il che equivale a subordinare il premio del 55 per cento dei seggi alla maggioranza assoluta dei voti. Così, per la prima volta nella storia della Repubblica, la legge elettorale consente la formazione di una maggioranza parlamentare assoluta, senza che sia sufficiente il mero raggiungimento di una maggioranza relativa di voti.
È doverosa un’ultima considerazione riguardo al Senato. Poiché nella sentenza n. 1/2014 si afferma che la legge elettorale deve consentire la formazione di una maggioranza omogenea fra le due Camere, è ragionevole affermare che, nel momento in cui il legislatore opta per il metodo del premio di maggioranza nazionale, questi ha non solo la facoltà, bensì l’onere di prevedere un premio su base nazionale per l’elezione di entrambi i rami del Parlamento, Senato compreso.
Nel momento in cui tace riguardo al Senato, il legislatore evita la complessa incombenza di conciliare l’esigenza di un premio nazionale, dettata dal bicameralismo paritario, e la disposizione ex art. 57 Cost., a proposito del Senato “eletto su base regionale”. Resta però fermo che il presupposto di questa scelta del legislatore – la revisione costituzionale – non è, per il momento, una norma giuridica, né tanto meno un atto giuridicamente dovuto; è una mera ipotesi, in attesa che si concluda l’iter di revisione; il quale – in astratto – potrebbe concludersi con la bocciatura della proposta da parte del corpo elettorale in sede di referendum. Piaccia o no, la Costituzione vigente continua a fondarsi sul bicameralismo paritario, e il Senato continua a essere elettivo; nell’attuale situazione, la legge elettorale non può che disporre di conseguenza.
Viceversa, qualora – alla data dell’entrata in vigore dell’ “Italicum” – il Senato fosse ancora elettivo, esso sarebbe eletto secondo la legge modificata dall’intervento della Consulta nel 2014 e non alterata dal legislatore del 2015: una legge proporzionale. Le due Camere avrebbero quasi certamente due maggioranze differenti, così contrastando con il dettato della Corte Costituzionale.
La relazione fra sistemi elettorali e forme di governo.
Per valutare l’effetto dell’ “Italicum” sull’ordinamento istituzionale, è necessaria un’operazione di comparazione, allo scopo di verificare l’esistenza di una correlazione fra sistemi elettorali e forme di governo.
Preliminarmente, è ragionevole inserire l’ “Italicum” – così come il “Porcellum” – nel novero dei sistemi elettorali maggioritari. Nonostante i candidati eletti non siano individuati nei collegi uninominali, la caratteristica che accomuna la nuova legge eletorale italiana, le leggi di tradizione anglo-americana e il doppio turno francese è l’idoneità a trasformare la maggioranza relativa dei voti in maggioranza assoluta dei seggi.
Con l’approvazione dell’ “Italicum” l’Italia è una Repubblica parlamentare dotata di una legge maggioritaria per l’elezione del Parlamento.
Le forme di governo vigenti nelle principali nazioni che adottano il maggioritario non potrebbero essere più differenti: gli Stati Uniti d’America sono una Repubblica presidenziale; la Francia è una Repubblica semi-presidenziale; il Regno Unito è una monarchia parlamentare.
In tutti questi casi, la legge favorisce la formazione di una chiara ed omogenea maggioranza in Parlamento, ma in ciascuno di questi ordinamenti il Parlamento ha un diverso rapporto con l’esecutivo. Nel Regno Unito, la maggioranza parlamentare determina integralmente le scelte dell’esecutivo e la sua sopravvivenza, dal momento che la Camera dei Comuni può sfiduciare il Governo. Negli Stati Uniti, viceversa, l’esecutivo è guidato dal Presidente, eletto dai cittadini; il Congresso non ha il potere di sfiduciarlo. L’Assemblea Nazionale francese può sfiduciare il Governo, ma non il Presidente della Repubblica, il quale detiene ampi poteri: presiede il Consiglio dei Ministri (art. 9 Cost.)[ref]Va precisato che anche il Presidente della Repubblica portoghese presiede il Consiglio dei Ministri, ma solo se sollecitato dal Primo ministro (art. 133 Cost.).[/ref]; può sottoporre a referendum popolare le leggi riguardanti determinate materie (art. 11 Cost.) e rifiutare di firmare le ordinanze e i decreti deliberati nel Consiglio dei ministri (art. 13 comma 1 Cost.); può assumere poteri eccezionali in caso di grave minaccia alla Nazione e interruzione del funzionamento dei poteri costituzionali (art. 16 Cost.)[ref]Questo potere è stato esercitato una volta sola (dal 23 aprile al 29 settembre 1961, sotto la presidenza di C. De Gaulle).[/ref].
Ogni diversa forma di governo determina un diverso ruolo del Parlamento, ma anche del Capo dello Stato: questi è capo dell’esecutivo negli Stati Uniti, figura di garanzia nel Regno Unito, figura ibrida in Francia[ref]Ove il Presidente della Repubblica presiede il Consiglio dei Ministri, ma non dirige la politica del Governo (questo potere è attribuito al Primo Ministro dall’art. 50 Cost.) ed è pressoché irresponsabile di fronte al Parlamento. Questa è la caratteristica peculiare che distingue il semi-presidenzialismo dal presidenzialismo. “La difficoltà di fondo sta soprattutto nel rischio, che l’adozione del modello presidenziale comporterebbe, di pregiudicare la doppia natura del Presidente della Repubblica ed in particolare di desacralizzarne il ruolo di Capo dello Stato, trasformandolo in via definitiva ed esclusiva in un una personalità politica di parte. A ben vedere, anche alla salvaguardia di questa doppia natura è volta la presenza di un Primo ministro che svolge di regola la funzione di schermo e di filtro delle critiche alla politica presidenziale, offrendosi come agnello sacrificale sull’altare della irresponsabilità del Capo dello Stato”. M. Volpi, Relazione introduttiva al seminario La riforma della Costituzione in Francia, Roma – Fondazione Astrid, 19 novembre 2008.[/ref].
Il diverso ruolo del Capo dello Stato comporta, fra l’altro, una profonda differenza in termini di rappresentanza. Mentre nella monarchia costituzionale britannica il monarca – tale per diritto divino e designato in via ereditaria – è necessariamente super partes, le Repubbliche presidenziali, come gli Stati Uniti, si caratterizzano perché il Capo dello Stato è, allo stesso tempo, il capo del potere esecutivo[ref]In tutte le Repubbliche che prevedono l’elezione diretta del capo dell’esecutivo, questi è anche Capo dello Stato. L’unica eccezione ha riguardato lo Stato di Israele, dal 1996 al 2003: in quel caso, il popolo eleggeva direttamente il Capo del Governo, lasciando al Parlamento (Knesset) il potere di eleggere il Presidente (Capo dello Stato). Dal 2003, Israele è una Repubblica parlamentare, come lo era dalla sua fondazione fino al 1996.[/ref]. Il Presidente degli Stati Uniti giura di “preservare, proteggere e difendere la Costituzione” (art. 2 sez. 1 Cost.), ma il capo dell’esecutivo ha il diritto e il dovere di assumere scelte di natura politica: scelte, inevitabilmente, di “parte”.
Ne consegue che, nelle Repubbliche presidenziali in cui la legge elettorale è maggioritaria, è difficile rintracciare una figura in grado di rappresentare pienamente tutti gli interessi e le sensibilità della Nazione: la distribuzione dei seggi in Parlamento è alterata a vantaggio della lista più forte; il Capo dello Stato assume scelte politiche non neutrali. Inoltre, il maggioritario di collegio rischia di conferire alla rappresentanza parlamentare una natura “localistica”[ref]”Torno ora al punto che le elezioni maggioritarie portano, o possono portare, a una politica centrata sul localismo e sul ‘servire’ il collegio. (…) Ma se tutta la politica è locale, come si ottiene una gestione decente della politica nazionale, della politica per tutti? Siccome un sistema presidenziale può neutralizzare le spinte centrifughe e localistiche meglio di un sistema parlamentare, gli americani non percepiscono ancora le difficoltà che si profilano per il loro sistema di governo qualora la politica del Congresso degeneri in una ‘politica al dettaglio’ ispirata da interessi collegio-serventi (…) Una politica collegio-servente è incompatibile con una politica imperniata su due grandi partiti nazionali: se il localismo si afferma, la condizione stessa del bipartitismo si dissolve“. G. Sartori, Ingegneria Costituzionale Comparata, Il Mulino, 2004.[/ref].
Tenendo conto di tutte queste peculiarità, è possibile individuare un elemento comune a tutti gli ordinamenti in cui il legislatore ha optato per il sistema elettorale maggioritario: il Parlamento ha una maggioranza definita, ma il Capo dello Stato non è espressione della maggioranza parlamentare, e può dunque costituire un contrappeso rispetto ad essa. O il Capo dello Stato è eletto direttamente dai cittadini, oppure – all’inverso – è del tutto svincolato da ogni istituzione, come nel caso della Corona del Regno Unito[ref]Sebbene i poteri della Corona si siano ridotti con il passare dei secoli – è fin troppo nota la formula di Bagehot, per cui il sovrano ha tre poteri: “quello di essere consultato, quello di incoraggiare, quello di mettere in guardia” – essa non è del tutto impotente di fronte all’esecutivo: v. R. Brazier, Constitutional Practice, Oxford University Press, 1988. Ma v. anche G. Grasso, La teoria delle forme di governo nella Costituzione inglese di Walter Bagehot. Una rilettura critica, Università dell’Insubria, 2000, working paper n. 13.[/ref].
Viceversa, nella maggioranza degli ordinamenti in cui il Presidente della Repubblica è eletto dal Parlamento, il sistema elettorale è proporzionale[ref]Nell’Unione Europea, si vedano i casi di Germania, Estonia, Lettonia, Malta; ma anche la legge elettorale italiana fino al 1993.[/ref]. Nell’Unione europea, fanno eccezione la Grecia[ref]La legge elettorale vigente in Grecia attribuisce un premio di maggioranza di 50 seggi alla lista più votata; in sostanza, esiste una soglia implicita per il conseguimento del premio, premio che – comunque – non garantisce la maggioranza assoluta.[/ref] e l’Ungheria[ref]Nel sistema elettorale ungherese, i 199 seggi dell’Assemblea nazionale sono assegnati con un sistema misto: 106 deputati sono eletti con il maggioritario di collegio a turno unico, i restanti 93 sulla base di un riparto proporzionale fra liste bloccate nazionali.[/ref]; quest’ultima – peraltro – è l’unica Nazione, fra quelle precedentemente appartenenti al Patto di Varsavia, in cui la Costituzione non contempla l’elezione diretta del Presidente della Repubblica. Fuori dall’Unione, la Costituzione dell’India – ove il sistema elettorale è il maggioritario di collegio a turno unico – non prevede l’elezione diretta del Presidente federale; questi, però, è eletto da un collegio che non comprende solo i membri del Parlamento, allargato ai membri delle Assemblee legislative di tutti gli Stati della Federazione[ref]Art. 55 Costituzione indiana.[/ref].
In quasi tutti i casi in cui l’elezione del Capo dello Stato è affidata al Parlamento, si ha cura che non sia affidata alla sola maggioranza del Parlamento.
“Italicum” e ordinamento costituzionale italiano.
Il confronto con gli ordinamenti degli altri Stati dell’Unione europea – e con alcuni fra i principali Stati extraeuropei – consente di trarre alcune conclusioni.
Il sistema maggioritario, di per sé, è adottato in Stati con diverse forme di governo. Fra questi, figura la Gran Bretagna, Stato democratico di notoria e antica tradizione parlamentare.
In linea di principio, questa circostanza autorizza a ritenere che l’adozione di un sistema maggioritario in Italia non contrasta con l’ordinamento delineato dalla Costituzione del 1948, la quale istituisce una forma di governo di tipo parlamentare.
Nondimeno, l’ordinamento britannico – e, nel quadro di una forma di Stato repubblicana, anche quello indiano – presenta alcune peculiarità, essenziali per garantire la coesistenza fra parlamentarismo e legge maggioritaria.
Il principale effetto collaterale delle leggi maggioritarie è – per definizione – l’alterazione del rapporto fra seggi e voti e, quindi, della rappresentatività del Parlamento. L’introduzione del maggioritario in Italia, in un momento in cui – per effetto della decisione della Consulta – vige una legge elettorale proporzionale, comporta una riduzione della rappresentatività, nonostante l’impianto dell’Italicum – in comparazione con gli effetti di una legge maggioritaria di collegio – contribuisca ad una sua parziale salvaguardia.
Di fronte a un Parlamento che assicura solo in parte la rappresentanza di tutte le opinioni e di tutti gli interessi organizzati del Paese, è necessario individuare un organo che possa adempiere a questa funzione.
Non può trattarsi che del Capo dello Stato, il quale rappresenta l’unità nazionale a norma dell’art. 87 della Costituzione. Egli, tuttavia, è eletto – a norma dell’art. 83 Cost. – da un’assemblea in cui i membri del Parlamento sono largamente preponderanti sul piano numerico; soprattutto, a partire dal quarto scrutinio, il Presidente può essere eletto dalla maggioranza assoluta.
È evidente che il combinato disposto fra l’ “Italicum” e la Costituzione vigente consente che tanto il Parlamento, quanto il Presidente della Repubblica siano espressione della stessa entità, e cioè della maggioranza elettorale.
I possibili rimedi per un simile rischio sono due. Entrambi richiedono una revisione costituzionale.
Si può introdurre l’elezione diretta del Presidente della Repubblica, mantenendone le funzioni di garanzia che gli sono attribuite dall’attuale Costituzione, sul modello di quanto avviene in alcuni Paesi europei[ref]Tra cui Austria e Finlandia, ove – però – la legge elettorale è proporzionale: ad un Capo dello Stato necessariamente di parte, corrisponde un Parlamento che rappresenta tutte le diverse sfumature dell’elettorato nazionale.[/ref]; analoga proposta era contenuta nella proposta di revisione costituzionale che la c.d. Commissione D’Alema aveva avanzato nel 1997. Tuttavia, anche in questo caso, il Capo dello Stato non rappresenterebbe che una maggioranza elettorale, sebbene essa – in astratto – possa differire rispetto a quella che risulta dalle elezioni parlamentari.
Altra soluzione può essere rappresentata da un mero allargamento della base elettorale per l’elezione del Presidente della Repubblica: senza giungere al suffragio universale e diretto, si potrebbero includere nell’Assemblea i membri di tutti i Consigli regionali, eventualmente integrati da delegati dei Comuni.
In ulteriore alternativa, si può innalzare il quorum, in modo che non siano sufficienti i voti dei parlamentari di maggioranza e dei delegati regionali del medesimo colore politico. A tale proposito, va sottolineato che l’attuale disegno di legge di revisione costituzionale modifica l’art. 83, richiedendo il quorum dei tre quinti dell’Assemblea; ciononostante, la novità non riguarderebbe che il quarto, il quinto e il sesto scrutinio, cosicché, a partire dal settimo, la situazione sarebbe invariata, restando sufficiente la maggioranza assoluta.
In questo quadro, non va dimenticato che il Parlamento, oltre ad eleggere il Capo dello Stato, ha il potere di eleggere alcuni membri della Corte Costituzionale e del Consiglio Superiore della Magistratura. Anche in questi casi, sarebbe opportuno un innalzamento del quorum.
In definitiva, ogni valutazione sull’ “Italicum” deve innanzitutto tenere conto della sua natura di legge maggioritaria.
Tutte le leggi maggioritarie, per definizione, riducono la rappresentatività del Parlamento, avvantaggiando i partiti di maggioranza a scapito delle minoranze.
Di conseguenza, una simile scelta del legislatore deve necessariamente contestualizzarsi in una forma di governo che accentui la funzione di garanzia di taluni organi – a cominciare dal Capo dello Stato – in modo che essi rappresentino un efficace contrappeso rispetto alla maggioranza parlamentare.
Resta che nessuna legge elettorale di questo tipo ha mai condotto ad una “svolta autoritaria” nei Paesi in cui è stata adottata: l’evidenza storica dimostra in pieno la democraticità del sistema.
Addirittura, l’ “Italicum” limita il premio di maggioranza al 55% dei seggi, ponendo un limite alla distorsione della rappresentanza che è tipica del maggioritario. Inoltre, distribuisce i seggi di minoranza in proporzione ai consensi ottenuti da ciascuna lista su tutto il territorio nazionale, evitando che le forze politiche siano penalizzate dalla distribuzione geografica dei loro voti, come avviene generalmente nel maggioritario di collegio. Infine l’ “Italicum” supera il principale limite del “Porcellum”, imponendo un ballottaggio fra le due liste più votate nel caso nessuno raggiunga il 40% dei voti al primo turno, e quindi – tendenzialmente – subordinando l’attribuzione del premio alla conquista della maggioranza assoluta dei voti.
L’ “Italicum” non è incompatibile con la democrazia parlamentare, né tantomeno con la democrazia tout court. Esso è finalizzato alla realizzazione di una democrazia governante: ben sapendo che al consolidamento del potere del Governo e della sua maggioranza deve corrispondere un consolidamento di quegli organi che controllano – e limitano – la sua azione. In caso contrario, lo Stato costituzionale cessa ipso facto di esistere per avvicinarsi allo Stato assoluto: con o senza elezioni.