Le donne curiose

ALL’ILLUSTRISSIMO SIGNOR ABATE ANTONINO UGUCCIONI PATRIZIO FIORENTINO

[drop_cap style=”2″ bgcolor=”#dddddd” color=”#787882″]C[/drop_cap]oloro i quali del mio bene hanno invidia, e non potendola tenere in petto, la spargono dalle labbra e dagli occhi, ed empiono di veleno i fogli, nuovo avranno motivo di macerarsi e di fremere, allora quando sapranno avermi io in Firenze un altro Protettore acquistato, dotto, illustre e gentile, pieno per me di benignità e d’amore. Non vorrebbono i maligni, che io pubblicassi al mondo gli onori che dalle persone di rango mi vengon fatti, e il render grazie ch’io fo a chi mi benefica e mi protegge, viene interpretato dagli invidiosi vanità e ostentazione. Dican essi checché dir vogliono, retta io non do loro; vuò render palese al mondo il fregio, che novellamente acquistato mi sono, del patrocinio di V. S. Illustrissima, e se in ciò fare usassi della vanità, della ostentazione, sarei anche dagli Uomini di buon senno lodato, non che compatito, poiché delle cose che preziosissime sono, è lecito indiscretamente vantarsi. Chi ha la fortuna di conoscere e di trattare l’amabilissima di Lei persona, ha motivo certamente di rallegrarsi, trovando in Lei tante belle Virtù, e quelle precisamente che formano l’uomo gentile, il colto ed ottimo Cavaliere. Io non istarò qui a descrivere ad una ad una quelle belle Virtù, che al di Lei eccelso animo fan corona, poiché lunghissima e per me malagevole saria l’impresa; ma di alcune soltanto farò menzione, di quelle cioè che fanno risuonare il grido del di Lei nome. L’onestà de’ costumi, la massima sincerità di cuore, la generosità dell’animo, la dolcezza del tratto, l’affabilità, la moderazione, la cortesia, qualità sono in V. S. Illustrissima, che la rendono a tutti gli ordini delle persone oggetto di venerazione e di maraviglia; ma sopra tutto quella vivacità, quella prontezza di spirito, che brilla mirabilmente ne’ detti suoi e ne’ suoi pensamenti, dà a conoscere chiaramente, che i doni della natura corrispondono alla nobiltà originaria antichissima del di Lei sangue, e rende perfettamente a’ Maggiori suoi quell’onore che ha largamente ricevuto da essi. Ella ha l’ottimo gusto nelle migliori cose del mondo, le intende, le distingue, le ama. Ama i studi più seri e più interessanti dell’uomo, ed ama eziandio dell’uomo i più onesti, i più nobili, i più discreti trattenimenti. Fra questi Ella non dà al teatro l’ultimo luogo; lo crede oggetto degno non solo del suo piacere, ma anche delle sue applicazioni. Ella ha preso a proteggere una Compagnia di valorosi Comici suoi nazionali, de’ quali ho fatto altra fiata menzione, e sono, a dir vero, ornamento del Teatro Italiano. Indi alla di Lei protezione venne raccomandato il teatro medesimo in Via del Cocomero situato, governato da una onoratissima Società d’Accademici Fiorentini, il quale, sotto la savissima di Lei condotta, ve facendo progressi ammirabili, ed è ormai reso esemplare degli altri, per l’onestà, per il modo, per la condotta, alla quale corrisponde la città tutta con l’applauso e il concorso. Se dirò che le Commedie mie in cotesto Teatro si rappresentano quasi continuamente, mi verrà apposto dagli emoli, che io lo dica per vanità; ma quando anche ciò fosse vero, sarei compatibile, se di un sì grande onore invanissi, e se mi stimolasse la forza dell’amor proprio a rendere palese al Mondo, che delle Opere mie una sì colta Città si compiace, ed un Cavaliere dottissimo, e di sì fino gusto fornito, ne è il benignissimo promotore. A Lei, Illustrissimo Signor mio, cui tanto preme la riputazione delle opere mie e del mio nome, di che tante generose prove mi ha dato, a Lei raccomando questa Commedia, in particolar modo sotto la protezione Sua validissima pubblicata. La curiosità di alcune Donne somministratomi ha l’argomento, non già quelle virtuose e magnanime, che degne sono dell’amabilissima di Lei conversazione, e che costì e dapertutto ebbi anch’io la fortuna di conoscere e di ammirare; ma quelle alle quali un tal difetto è comune, per debolezza di animo particolare, non per natura del gentil sesso. Nell’atto però di raccomandarle quest’imperfetta Opera mia, intendo di raccomandarle assai più l’umilissima mia Persona, supplicandola concedermi benignamente lo specioso titolo, con cui ho l’onore di protestarmi Di V. S. Illustriss. Umiliss. Divotiss. ed Obbligatiss. Serv. CARLO GOLDONI


L’AUTORE A CHI LEGGE La curiosità delle donne è un argomento che viene dagli uomini considerato sì vasto, che a molte e molte Commedie potrebbe somministrare l’intreccio. Quindi è, che di questa mia alcuni contentati poco si sono, perché ad un oggetto solo ho diretto la curiosità di quattro femmine insieme. Questi però, che un così avido desiderio nutriscono di vedere in scena moltiplicati delle donne i difetti, mostrano di essere più curiosi di esse; ma si consolino, poiché non mancherà forse chi prevalendosi anche di questo mio argomento, darà loro continuazione, e accozzando insieme una moltitudine di fatterelli, farà una composizione, a cui darà il titolo di Commedia. Io che, per quanto posso, amo di conservare l’unità dell’azione, ho voluto ristringermi ad un solo motivo, e mi sembra bastantemente critico, per quell’idea che mi sono prefissa in mente.


PERSONAGGI OTTAVIO cittadino bolognese. BEATRICE sua moglie. ROSAURA loro figliuola. FLORINDO promesso sposo a Rosaura. LELIO bolognese. ELEONORA sua moglie. LEANDRO amico de’ suddetti. FLAMMINIO amico di Leandro. PANTALONE de’ BISOGNOSI mercante veneziano. CORALLINA cameriera di Beatrice e di Rosaura. BRIGHELLA servitore di Pantalone. ARLECCHINO servitore di Ottavio. Un altro SERVITORE di Ottavio, che parla. Servitori di Pantalone, che non parlano. La Scena si rappresenta in Bologna.


ATTO PRIMO SCENA PRIMA Camera con porte chiuse. OTTAVIO leggendo un libro, FLORINDO e LEANDRO giuocando a dama. LELIO a sedere. LEL. Amici, come va la partita? FLOR. In questo punto sono arrivato a dama. LEAN. Ed io non tarderò ad arrivarvi. LEL. La vostra è una partita di picca. FLOR. Sì; noi giochiamo veramente di picca. Si disputa l’onore, non l’interesse. LEL. Eh, già si sa. Qui non si giuoca per interesse. FLOR. E in questa maniera sussiste la nostra compagnia; altrimenti, o questa si saria disfatta, o si sarebbe alcun di noi rovinato. Dama. (giocando) LEL. Un’altra cosa bellissima contribuisce alla nostra sussistenza. FLOR. Sì, quella di non voler ammetter le donne. LEL. Ed esse hanno di ciò il maggior veleno del mondo. FLOR. Quello che più loro dà pena… LEAN. Soffio la dama. FLOR. Perché? LEAN. Perché non avete mangiato questa. FLOR. È vero. Avete ragione. Solamente per aver nominate le donne, ho perso il giuoco. LEL. Se venissero qui, ci farebbero perder la testa. FLOR. Spero ancora di rimettere la partita. (giocando) LEAN. Fatelo discorrere, che mi date piacere. Altrimenti non posso vincere. FLOR. Parlate, parlate, non mi confondo. (a Lelio) LEL. Che cosa dicevate voi che patiscono più di tutto le nostre donne? FLOR. Quel che più le tormenta, è la curiosità che hanno di sapere quello che noi facciamo in queste nostre camere. LEL. Sì, è vero. Eleonora mia moglie tutto dì mi tormenta su questo punto, e per quanto le dica non si fa niente, non lo vuol credere. FLOR. Lo stesso accade a me colla signora Rosaura, che deve esser mia sposa: non mi lascia aver bene. La soffro perché l’amo, ma vi assicuro che mi tormenta. LEL. Io, che sono poco paziente, ho dato più volte nelle furie con mia moglie, e ho paura, se seguita, di far peggio. LEAN. Dama. Una gran cosa con queste donne! Vogliono saper tutto. FLOR. È vero, fanno perdere la pazienza. Bisogna essere innamorato, come sono io, per soffrirle. OTT. Amici, sento un proposito che mi tocca, e non posso far a meno d’entrarvi. (alzandosi dal suo posto) LEL. Siete anche voi tormentato dalla signora Beatrice? OTT. Domandatelo all’amico Florindo. Mia moglie non tace mai. FLOR. Sì, madre e figlia ci tormentano a campane doppie. OTT. Rosaura mia figlia lo fa anche con qualche moderazione; ma Beatrice mia moglie è un diavolo. LEL. Darete anche voi nelle impazienze, nelle quali sono forzato a dar io. OTT. No, amico. Non do in impazienze. Non mi altero; non mi scaldo il sangue. Non voglio che le pazzie della moglie pregiudichino la mia salute. LEL. Bisogna poterlo fare. OTT. Si fa tutto quel che si vuole. FLOR. Non lo sapete? Il signor Ottavio è filosofo. LEL. Non basta esser filosofo per soffrire una moglie cattiva, bisogna essere stoico. OTT. Quando dite stoico, che cosa vi credete di dire? LEL. Che so io? Insensato. OTT. Poveri filosofi! Come vengono strapazzati! Gli stoici, che ponevano la vera felicità nell’esercizio della virtù, sono chiamati stolidi! LEL. Io non so di filosofia. Stimo più questo poco di quiete di tutte le massime di Platone. FLOR. (Alzandosi) Ciascheduno in questa nostra amichevole società soddisfa il proprio genio, e passa il tempo tranquillamente in tutto ciò che onestamente gli dà piacere. Io ho la mia passione per le operazioni ingegnose. Giuoco volentieri a quei giuochi dove non ha parte alcuna la sorte. Mi diverte assaissimo la matematica, la geometria, il disegno, e qui mi ristoro, se è la mia bella sdegnata. Mi consolo assai più, se ella mi ha fatto partir contento. Perdonate, signor Ottavio, se così parla uno che deve essere lo sposo di vostra figlia. Già lo sapete, tutte le donne hanno de’ momenti buoni e de’ momenti cattivi. OTT. Sì, e bisogna esser filosofi, come sono io, per burlarsi di loro. LEL. Cari amici, se volete parlar di filosofia, anderò a sedere in un’altra camera. Io vengo qui a sollevarmi un poco, dopo gli imbarazzi delle mie cariche e della mia famiglia. E quel poco che io ci sto, ho piacere di divertirmi. FLOR. Che cosa vi vorrebbe per divertirvi? LEL. Un buon pranzo, una buona cena. FLOR. Volete che questa sera ceniamo in compagnia? LEL. Per me ci sono. Che dice il signor filosofo? OTT. La filosofia non è nemica dell’onesto divertimento. FLOR. Ecco il signor Pantalone. Pregheremo lui, che ci faccia preparare. LEL. Gran galantuomo è questo signor Pantalone! Egli ha eretto questo nostro divertimento; egli regola assai bene la nostra compagnia; ci dà ben da mangiare, e credo vi rimetta del suo. FLOR. Gode assaissimo di questa compagnia da lui medesimo procurata. LEL. E non vuol donne, e fa benissimo! OTT. Così possiamo godere la nostra pienissima libertà.


SCENA SECONDA PANTALONE e detti. PANT. Patroni cari, amici cari. Amicizia. OTT. Amicizia. (si abbracciano e si baciano) PANT. Amicizia. FLOR. Amicizia. (fanno lo stesso) PANT. Amicizia. LEL. Amicizia. (fanno lo stesso) PANT. Amicizia. LEAN. Amicizia. (tutti dicono amicizia, e si abbracciano) PANT. Sali, patroni, che xe sonà mezzo zorno? FLOR. È ora che ce ne andiamo. OTT. Florindo, volete venire a pranzo con me? FLOR. Riceverò le vostre grazie. PANT. Patroni, quando se fa ste nozze? (a Florindo ed Ottavio) FLOR. Io dipendo dal signor Ottavio. OTT. Si faranno presto. LEL. Questa sera vorressimo cenare in compagnia; ci favorirete voi al solito? (a Pantalone) PANT. Volentiera. Quanti saremio? LEL. Qui siamo in cinque. PANT. Benissimo; provvederò mi, parecchierò mi. Se goderemo, staremo allegri. OTT. Oh, andiamo. Signor Pantalone, amicizia. PANT. Amicizia. (si abbracciano e si baciano) OTT. Amicizia. LEL. Amicizia. (come sopra) LEAN. Amicizia. FLOR. Amicizia. (come sopra) PANT. Amicizia. FLOR. Amicizia. LEL. Amicizia. LEAN. Amicizia. (Lelio, Ottavio, Florindo e Leandro partono)


SCENA TERZA PANTALONE, poi BRIGHELLA PANT. Mi, co son coi mi amici, vegno tanto fatto! Brighella, dove xestu? BRIGH. Son qua, sior padron. PANT. Stassera bisogna parecchiar da cena. BRIGH. Per quanti, signor? PANT. Per cinque, per sie, per otto. BRIGH. La sarà servida. PANT. Caro Brighella, fa pulito, me preme de farme onor coi mi cari amici; me preme de farli star ben, de farghe spender ben i so bezzi, e perché le cosse vaga pulito, me contento de remetterghe un zecchin del mio, e anca do, se bisogna. BRIGH. In fatti qua la gh’ha el so unico divertimento. PANT. Mi sì, vedè. No godo altro a sto mondo che i boni amici. Ghe n’ho scielto diversi, che me par a mi che i sia della bona lega, e con questi passemo el tempo propriamente, onestamente, lontani dai strepiti, e fora della suggizion. BRIGH. E pur, sior padron, se la savesse quanti lunari se fa per sta conversazion limitada, per sto logo dove no pol intrar chi no xe della compagnia! Chi ghe ne dis una, chi ghe ne dis un’altra, e specialmente le donne le se sente a morir de voia de vegnirghe, de véder, de saver. PANT. No le vegnirà assolutamente. Cussì xe i patti della compagnia. Chi no xe della lega, no pol vegnir, e donne mai. BRIGH. Me par impussibile. PANT. Vardè ben, vedè. No ve vegnisse voggia de far vegnir donne qua drento. Ve mando via subito immediatamente. BRIGH. Caro signor, la perdoni. L’è nemigo delle donne? La varda ben che ghe n’ho visto dei altri che no podeva véder le donne, e po i è cascadi drento fina ai occhi. PANT. No son nemigo delle donne; le vedo volentiera, e anca mi ai mi tempi gh’ho volesto ben; e se me trovasse in te l’occasion, no so cossa fasse anca al dì d’ancuo. Me par per altro, che l’amor dell’amicizia sia un amor più nobile, e manco pericoloso, e per coltivarlo no bisogna missiarlo con altri amori. Dove che ghe xe donne, no pol de manco che qualchedun no se scalda; al caldo dell’amor succede el freddo della gelosia, e in poco tempo el casin del divertimento el deventa el seminario della discordia. Tolè suso, v’ho dito anca el perché; siben che no savè più che tanto, intendème per descrizion. BRIGH. Qualcossa ho inteso. PANT. Me basta che intendè ste do parole: qua drento no voggio donne. (parte) BRIGH. Co nol vol che ghe ne vegna, no ghe ne vegnirà. Me preme conservarme un padron che me dà un bon salario, e me preme che vada avanti sta compagnia perché ghe la cavo, m’inzegno, e qualche volta la mia zornada no la darave per un zecchin. (parte)


SCENA QUARTA Camera di Beatrice in casa di Ottavio. BEATRICE e ROSAURA BEAT. Ecco qui al solito. È un’ora che è sonato mezzogiorno, e il mio signor consorte non torna a casa. ROS. Avrà qualche interesse da fare. BEAT. Sarà a quel maladetto ridotto. ROS. Può essere che vi sia col signor Florindo. Sogliono andarvi insieme. BEAT. Ma che diavolo fanno mattina e sera là dentro? ROS. Bisogna che vi abbiano un gran piacere, perché non lo lasciano mai. BEAT. Giocheranno a rotta di collo. ROS. Io ho paura, signora madre… BEAT. Di che? ROS. Che vi sia qualche donna. BEAT. Se donne là dentro non ne vogliono! ROS. Dicono che non ne vogliono, ma noi non vi vediamo. BEAT. Via, via, questo è un vostro pensier geloso che non ha fondamento. Per me dico che giocheranno. ROS. Ed io dico che faranno all’amore. BEAT. Basta, mi chiarirò. ROS. Come, signora madre? BEAT. Voglio andare a sorprenderli all’improvviso. ROS. Oh, quanto pagherei a venirci ancor io! BEAT. Alle fanciulle non è permesso. Vi andrò io, e vi saprò dir tutto. ROS. Voi non mi direte la verità. BEAT. Sì, vi dirò tutto. Vedrò chi giuoca e chi non giuoca. ROS. Vi saranno delle donne, e voi non me lo direte. BEAT. Eh, che i giuocatori non si curano di donne. ROS. Ma se non vanno per il giuoco, ma per le donne. BEAT. Voi non sapete cosa dite. ROS. Così non dicessi la verità. Quando il cuore mi suggerisce una cosa, non falla mai.


SCENA QUINTA ELEONORA e dette. ELEON. Chi è qui? Si può venire? BEAT. Venite, signora Eleonora, venite. A quest’ora? Siete venuta a pranzo con noi? ELEON. Son venuta a dirvi in confidenza, che ho saputo finalmente che cosa si fa dai nostri mariti in quel luogo segreto. BEAT. Io me l’immagino. Giocheranno da traditori. ELEON. Oibò. ROS. Sarà poi come dico io: vi saranno delle signorine. ELEON. No, v’ingannate. Io ho saputo ogni cosa. Sentite, ma in segretezza. Fanno il lapis philosophorum. BEAT. Sapete che si può dare? Mio marito sa di filosofia: sarà egli il capomastro. ROS. Come lo avete saputo, signora Eleonora? ELEON. Vi dirò tutto, ma… non parlate per amor del cielo. BEAT. Non dubitate. ROS. Per me non vi è pericolo. ELEON. Sono stata questa mattina a ritrovare la sarta, per vedere se mi aveva finito quel mio vestito verde… M’intendete quale ch’io voglio dire. BEAT. Sì, Sì, quello che avete fatto di nascosto di vostro marito. ELEON. Signora sì; la Caterina me lo aveva guastato, e così mia comare dice: Signora comare, dice, che peccato che vi abbiano rovinato quel bel vestito! Fatevelo accomodare. Insegnatemi una buona sarta, dico. Signora sì, dice, andate dalla tale, e così m’ho fatto insegnare dove sta di casa. BEAT. E siete andata stamattina, e avete saputo del lapis philosophorum. ELEON. Aspettate. Non mi confondete. Ho mandato a chiamare questa brava sarta. È venuta. Le ho fatto vedere il vestito, me l’ha provato, e si è posta le mani nei capelli quando l’ha veduto rovinato in quella maniera. Sì davvero! BEAT. Ma quando veniamo alla conclusione? ELEON. Subito. Lasci fare a me, dice, signora Eleonora, che glielo farò che le anderà dipinto. Ha preso il vestito, e l’ha portato via. Indovinate? Sono quindici giorni ora, e non me lo ha ancora portato. Queste sarte sono fatte così: promettono, promettono, e non mantengono mai. Mi fanno una rabbia terribile! BEAT. Ma via, veniamo al fine. Levatemi questa curiosità. ELEON. Quando mi ricordo della sarta, mi vengono i sudori. ROS. Non discorrete più della sarta, venite alla sostanza del fatto. ELEON. Sì; ora vi dirò come ho saputo del lapis. Questa sarta sta di casa… vicino… Conoscete quella donna che vende il latte? Quella che suo marito faceva il caciaiuolo? BEAT. Via, sì, sì, andiamo avanti. ELEON. Oh bene. La sarta sta tre porte più in là, verso la strada, prima d’arrivare al fornaio. ROS. In verità, signora Eleonora, voi mi fate venir male. ELEON. Ma le cose bisogna dirle per ordine. Sappiate dunque… COR. Uh signora padrona! (a Beatrice) BEAT. Che c’è? COR. Ho saputo ogni cosa. BEAT. Di che? COR. Della casa sì fatta… so tutto.


SCENA SESTA CORALLINA e dette. ELEON. Eh, lo sappiamo prima di voi. Fanno il lapis philosophorum. COR. Eh! per l’appunto! BEAT. E che sì che giuocano? COR. Signora no. ROS. Avranno delle donne. COR. Nemmeno. Ho saputo tutto. Ma… zitto. BEAT. Zitto. (alle altre) COR. Vogliono… ma per amor del cielo… ROS. Via, che occorre! COR. Vogliono cavar un tesoro. BEAT. Eh via! COR. E fanno un mondo di stregherie. ROS. Davvero? COR. È così certamente. Lo so di sicuro. ELEON. Ho sentito dire ancor io, che fanno l’oro disputabile[ref]Vuol dire potabile e dice uno sproposito.[/ref]. Vorrà dire cavar tesori. BEAT. Sì, sì, sarà vero. ROS. Oimè! Mi vien freddo. ELEON. Come lo avete saputo? (a Corallina) COR. Vi dirò; ma… zitto. È stato poco fa quel poveretto che viene tutti li venerdì… ELEON. Non andate per le lunghe. COR. Oh io non son di quelle. Sapete che questi poveri si cacciano per tutto. E così, dico, zoppo, dove sei stato, che sono tanti giorni che non ti vedo? Sono stato, dice, ad aiutare a cavare una certa fossa, vicino a una certa casa… Io subito sono andata al punto.


SCENA SETTIMA ARLECCHINO e dette. ARL. Presto. Andemo a tavola, che l’è qua el padron. BEAT. Dove è stato sinora? ARL. Oh bella! Al logo solito. BEAT. Ma che cosa fanno in quel maladetto ridotto? ARL. Domandeghelo a lu, che lo saverì. BEAT. Vieni qui, senti. (ad Arlecchino) ARL. Son qua. BEAT. (Giuocano?) (piano ad Arlecchino) ARL. Siora sì. BEAT. (L’ho detto io). (da sé) ROS. (Dimmi, si divertono con le donne?) (piano ad Arlecchino) ARL. Siora sì. ROS. (Ah, il cuore me l’ha detto). (da sé) ELEON. Galantuomo. (ad Arlecchino) ARL. Siora. ELEON. (È vero che fanno il lapis philosophorum?) (piano) ARL. Siora sì. ELEON. (Eh, io lo so). (da sé) COR. Dimmi, Arlecchino. ARL. Cossa volì? COR. (Lo cavano poi questo tesoro?) (piano ad Arlecchino) ARL. Siora sì. COR. (Dunque ho detto la verità). (da sé) ARL. (A dir sempre de sì, se dà gusto a tutti). (da sé) ELEON. Dite, Arlecchino. Mio marito l’avete veduto? ARL. Siora sì. ELEON. E ora è andato a casa? ARL. Siora sì. (Sempre de sì, finché vivo). (da sé, e parte) ELEON. Vado subito anch’io. Amiche, se saprò qualche altra cosa, verrò subito a confidarvela. BEAT. Ma quella del lapis non è poi vera. ELEON. Non è vera? Anzi verissima: dalla sarta vi era il fratello del garzone del muratore, e ha detto che il padrone di suo fratello è andato nel casino a fare dei fornelli, e poi hanno fatto una provvisione di tanti vetri; e ha detto il compare della sarta, che coi fornelli e coi vetri si fa il lapis philosophorum. E la sarta è una donna che se ne intende; e io, quando dico una cosa, non fallo mai. (parte) COR. Credetemi, non sa quello che si dica. Coi fornelli si cucina anche da mangiare, e coi vetri si dà da bere. Lo zoppo mi ha detto che cavano una fossa, e ho sentito dire da tanti, che vicino a quella casa vi sia un tesoro, e senz’altro lo cavano; e io, quando parlo, parlo con fondamento, e dico sempre la verità. (parte) BEAT. Io credo che non sappiano niente affatto. ROS. Vogliono che sia tutto quello che si figurano. BEAT. Mi par di vederli con le carte in mano. ROS. Ed io son tanto certa che fanno all’amore, quanto son certa d’aver da morire. (parte)


SCENA OTTAVA BEATRICE, poi OTTAVIO BEAT. Anch’ella è ostinata. Ma vedranno che io sola l’ho indovinata. Ecco il giocatore vizioso. OTT. Signora, fintanto ch’io faccio un certo conto, date gli ordini per la tavola. (siede al tavolino) BEAT. Volete fare il conto di quanto avete perduto? OTT. Vi è Florindo a pranzo con noi; fate qualche cosa di più. BEAT. Sì, sì, fate degli inviti? Avrete vinto. OTT. Quattro e sedici, dieci e quindici. (scrivendo) BEAT. So, so, che cosa si fa in quelle stanze segrete. OTT. Sì? L’ho caro. (scrivendo) BEAT. Voi rovinate la vostra casa. OTT. Eh, signora no. (scrivendo) BEAT. Il giuoco è il precipizio delle famiglie. OTT. Non si giuoca. (scrivendo) BEAT. Non si giuoca? OTT. No, da galantuomo; cinque e due sette. (scrivendo) BEAT. Dunque che cosa si fa? OTT. Niente di male. (scrivendo) BEAT. Se non vi fosse niente di male, vi potrebbe venire anche vostra moglie. OTT. Allora vi sarebbe del male. (scrivendo) BEAT. Sì, eh? Uomo indiscreto! OTT. Quattro via quattro sedici… (scrivendo) BEAT. Sia maladetto quando vi ho preso. OTT. È tardi. (scrivendo) BEAT. Come tardi? OTT. Dico che andiamo a pranzo, che è tardi. BEAT. Sono anche a tempo d’andarmene da voi, e lasciarvi solo. OTT. Oh, mi fareste la gran carità. (scrivendo) BEAT. La mia dote. OTT. Nulla via nulla, nulla. (scrivendo) BEAT. Che nulla? OTT. Io faccio i miei conti. Non vi abbado. (scrivendo) BEAT. Voglio sapere in quella casa che cosa si fa. OTT. Si sta bene, per servirla. BEAT. Siete una compagnia di gente cattiva. OTT. Le donne non ci vengono. BEAT. Le donne sono cattive? OTT. Oibò; dico che da noi non ci vengono. BEAT. Se ci venissero, ogni sospetto saria finito. OTT. Le donne sospettano sempre. BEAT. Ma ci vuol tanto a dire si fa questo e questo? OTT. Non ci vuol niente. BEAT. Dunque via cosa si fa? OTT. Sedici e sei ventidue, e otto… BEAT. Otto diavoli che vi portino. (gli dà nel braccio) OTT. Oh, me l’avete rotto… il numero. BEAT. Che siate maladetto! OTT. Anche voi. (scrivendo) BEAT. Bestia! OTT. Come lei. (come sopra) BEAT. Pensate di volerla durar così? OTT. Il conto è fatto. (s’alza) BEAT. Che conto avete fatto? OTT. Sì, l’ho finito. BEAT. Così mi trattate? OTT. A pranzo, signora. BEAT. Uomo indegno! OTT. A riverirla a pranzo. (parte) BEAT. Indegnissimo! Non si scalda, non risponde e mi fa rodere dalla rabbia… Ah, quel maladetto ridotto, quel maladetto luogo rinchiuso! Voglio andarvi, voglio vedere, voglio sapere, se credessi di dover crepare. (parte)


SCENA NONA ROSAURA e FLORINDO ROS. No, lasciatemi stare. (fuggendo da Florindo) FLOR. Fermatevi, non mi fuggite. ROS. Voi non mi volete niente di bene. FLOR. Ma perché dite questo? ROS. Se mi voleste bene, mi direste quel che si fa in quella casa. FLOR. Ma ve l’ho detto. ridetto e riconfermato. Non si fa niente. ROS. Se non si facesse niente, non vi anderebbe nessuno. FLOR. Voglio dire, non si fa niente che meriti la vostra curiosità. ROS. Sì, sì, vi ho capito. Vi è il segreto: avrete impegno di non parlare. FLOR. No, da galantuomo. Non vi è segreto veruno. ROS. Se così fosse, mi direste la verità. FLOR. La verità ve la dico. Si discorre delle novità del mondo, si leggono dei buoni libri, si giuoca a qualche giuoco d’ingegno, senza l’interesse d’un soldo. Qualche volta si pranza, qualche volta si cena, si passano due o tre ore in buona società, da buoni amici, e si gode il miglior tempo di questo mondo. ROS. Fra questi divertimenti avete lasciato fuori il migliore. FLOR. Che vuol dire? ROS. Quello di passar il tempo colle signore. FLOR. Oh, qui v’ingannate. Donne non ve n’entrano assolutamente. ROS. Io non vi credo. FLOR. Ve lo giuro sull’onor mio. ROS. Compatitemi, non vi credo. FLOR. Rosaura, voi mi fate un torto che io non merito. ROS. Volete ch’io creda tutto quello che dite? FLOR. Così vi converrebbe di fare. ROS. Introducetemi a vedere una volta sola, e vi prometto che allora vi crederò. FLOR. Sì, la vostra fede avrebbe allora un gran merito. ROS. Io non so altro; se non vedo, non credo. FLOR. Per me vi soddisfarei volentieri. ROS. Che obbietto avete per non farlo? FLOR. Il divieto de’ miei compagni. ROS. Questo divieto è un cattivo segno. FLOR. Perché? ROS. Se non vogliono che si veda, vi sarà qualche cosa di brutto. FLOR. Che vorreste mai che ci fosse? ROS. Donne a tutte l’ore. FLOR. Se ci entrassero donne, il mondo lo vederebbe. ROS. Le farete entrare vestite da uomo. FLOR. Voi ci credete affatto discoli e scostumati. ROS. Se foste gente dabbene, non vi nascondereste così. FLOR. Ma che non si possa fare una unione di buoni amici, senza ch’ella venga perseguitata? ROS. Questa gran segretezza eccita con ragione il sospetto. FLOR. Qual è questa segretezza? Io dico la verità, non vi è niente. ROS. Maladetto sia questo niente! FLOR. Via, cara, credetemi. Non vi alterate. ROS. Lasciatemi stare. FLOR. Non trattate così il vostro sposo. ROS. Voi mio sposo? FLOR. Come? Non lo sono? ROS. No; andate, che non vi voglio. FLOR. Ma perché mai? ROS. Perché non mi volete dire la verità. FLOR. Questa è una cosa da farmi diventar matto. Quel che vi ho detto, è vero; ve lo giuro per tutti i numi del cielo. ROS. Giuramenti da uomini! Non vi credo. FLOR. Dunque? ROS. Dunque non vi voglio più. FLOR. Ah Rosaura, per pietà. ROS. Non vi è pietà, non vi è misericordia, andate. FLOR. Oh cielo! Dov’è andato quel tenero amore che avevate per me? ROS. Non lo sapete il proverbio? Crudeltà consuma amore. FLOR. Io crudele? Io che vi amo più di me stesso? ROS. Vi pare poca crudeltà, tormentare una donna come fate voi? FLOR. Tormentarvi? In qual modo? ROS. Colla più fiera, colla più terribile curiosità che si possa dare nel mondo. FLOR. Vi soddisfarei, se potessi. ROS. Sta in vostra mano il farlo. FLOR. Cara Rosaura… ROS. Via, son qui: volete dirmi la verità? FLOR. Non vi direi la bugia per tutto l’oro del mondo. ROS. Che cosa si fa là dentro? FLOR. Niente. ROS. Maladetto voi ed il vostro niente! (parte)


SCENA DECIMA FLORINDO, poi CORALLINA FLOR. Io amo teneramente Rosaura; ma non per questo voglio disgustare gli amici miei. Là dentro non la introdurrò mai; piuttosto, per non perdere l’amor suo, tralascerò di frequentare la compagnia: dopo la cena di questa sera, per non disgustare Rosaura, non vi anderò. COR. Favorisca, in grazia, che cosa ha la padroncina, che la vedo turbata? FLOR. Ella tormenta me, tormenta se medesima senza ragione. COR. Povera fanciulla! Vi vuol tanto a contentarla? FLOR. Ma come? COR. Dirle la verità; dirle quello che fate fra voialtri uomini in quella casa sì fatta. FLOR. Lo dico, e non lo crede. COR. Se le diceste la verità, la crederebbe. FLOR. Orsù, anche voi non mi fate venire la rabbia. Non fomentate la sua curiosità. COR. Per me non ci penso; già so tutto. FLOR. Quando sapete tutto, saprete che non si fa niente di male. COR. Anzi si fa del bene. FLOR. Ma ditelo a Rosaura; ditele che non istia a sospettare. COR. Per contentarla, bisognerebbe fare una cosa. FLOR. Che cosa? COR. Condurla a vedere. FLOR. I miei amici non vogliono donne; e poi, pare a voi che a una fanciulla onesta e civile convenisse andare dove non vi sono che uomini? COR. È verissimo, ma anche a ciò vi è il suo rimedio. Potrei venire io in vece sua, veder tutto, e saperle dire la verità. FLOR. Ma se non entran donne. COR. Potrei venire travestita da uomo. FLOR. Io credo che siate più curiosa della vostra padrona. COR. Oh, pensate! se so tutto io; non ho curiosità. Faccio solo per metter in quiete la signora Rosaura. Quando le dirò: signora, ho veduto, la cosa è così; mi crederà, starà in pace e non tormenterà più nemmeno voi. FLOR. Questa cosa non si può fare. COR. E se non si può fare questa, non si potrà fare nemmeno quell’altra. FLOR. Che vuol dire? COR. Le vostre nozze colla signora Rosaura. FLOR. Ma perché? COR. Perché ella è impuntata così. Vi crede poco, e se io non l’assicuro della verità, non ne vuol più sapere. FLOR. E dovrei pormi a rischio di disgustar tanti galantuomini, per dar a lei una sì ridicola soddisfazione? COR. Eh signore, si vede che non le volete bene. FLOR. L’amo più di me stesso. COR. Quelli che amano veramente, farebbero altro per la loro bella! FLOR. Quando penso che per darle soddisfazione dovrei mancar alla mia parola, son un uomo d’onore, non ho cuore certamente di farlo. COR. Non so che dire, siete un giovine delicato, e vi compatisco; ma pure vorrei vedere di servire a lei, e servire a voi nello stesso tempo. FLOR. Via, pensate voi al modo… COR. Facciamo così: diamo ad intendere alla signora Rosaura che io sono stata, che io ho veduto, che io so tutto; e in questa maniera, confermandole tutto quello che dite voi, crederà, si acquieterà, sarete entrambi contenti. FLOR. Bravissima! Voi siete una giovine di giudizio. COR. Guardate se mi preme di farvi piacere! mi sottometto a dire delle bugie: cosa che non farei per mille scudi. FLOR. Non so che dire; quando le bugie tendono ad onesto fine, e non recano danno a nessuno, si possono anche tollerare. COR. Basta, mi sforzerò. FLOR. E per la fatica che voi farete, non sarete di me scontenta. COR. Sopra di ciò parleremo. FLOR. Corallina, addio. COR. Sentite. Non vorrei che la signora Rosaura mi potesse convincere di falsità. Vorrei poter sostenere, che veramente ci sono stata. FLOR. Si va fuori di casa, e le si dice di essere stata. COR. Per esempio, a che ora? FLOR. Che so io? Verso mezzogiorno. La sera ancora. COR. Questa sera vi è riduzione? FLOR. Sì, questa sera vi è. Questa sera si cena. COR. A che ora? FLOR. Si anderà alle due. Si starà sino alle cinque almeno. COR. Buono! Questa sera anderò da un’amica, e potrò dirle di essere stata lì. FLOR. Bravissima, ci rivedremo. (vuol partire) COR. Favorite: se mi domandasse, per esempio, la casa come è fatta? Vorrei saperle dir qualche cosa. FLOR. Che cosa le vorreste dire? COR. Per esempio. Alla porta si batte, si suona? Come si entra in casa? FLOR. Ciascheduno di noi ha la chiave. COR. Dunque anche il padrone avrà la sua chiave. FLOR. Sicuramente, il signor Ottavio l’ha come gli altri. COR. (Ho piacer di saperlo). (da sé) È maschia o femmina questa chiave? FLOR. È femmina, ma con gran quantità di ordigni, che non è possibile trovarne un’altra. Il signor Pantalone fa venir queste chiavi da Milano; qui non vi è nessuno che sappia farle. COR. Fa bene, per maggior sicurezza. Ma vorrei pur dirle qualche cosa di più. Per esempio, la scala è subito dentro della porta? FLOR. Non vi è scala. È un appartamento terreno, la di cui porta trovasi nell’entrata a mano dritta. COR. Anche la porta dell’appartamento sarà chiusa con gelosia. FLOR. Certamente, e anche di quella abbiamo le chiavi, le quali ordinariamente si portano unite a quelle dell’uscio di strada. COR. Quante camere vi sono? FLOR. Tre camere e la cucina. COR. Vi sarà qualche dispensa, qualche camerino. FLOR. No; non vi è altro. Ma voi volete saper troppo. COR. Niente. Domando così, per poter fingere di esservi stata. Per esempio. Camini ve ne sono? FLOR. Sì, ogni camera ha il suo camino. COR. Letti ve ne sono? FLOR. Letti? Non ci si dorme. COR. Ma dove pongono i loro ferraiuoli? i loro cappelli? FLOR. Oh, abbiamo i nostri armadi, dove si ripone ogni cosa. COR. Armadi grandi, di quelli dove si attaccano li vestiti? FLOR. Sì, di quelli; ma voi siete troppo curiosa. COR. Io curiosa? Non ci penso nemmeno. Fo per poter dire sono stata. Dove cenano? Nell’ultima camera? FLOR. Sì, nell’ultima. Addio. Non voglio che il signor Ottavio mi aspetti. (parte)


SCENA UNDICESIMA CORALLINA sola. COR. Vada pure, che per ora mi basta. Se posso buscar le chiavi al padrone, se posso introdurmi, nascondermi e non essere veduta, vedrò se cavano il tesoro, o se fanno qualche altra faccenda. Non vogliono donne! Bisogna che vi sia del male. Noi altre donne siamo il condimento delle conversazioni; e dove non possono entrar le donne, ho paura… ho paura… Basta, la cosa è strana, sono curiosa, e a costo di tutto, voglio cavarmi di dosso questa terribile curiosità. (parte)



ATTO SECONDO SCENA PRIMA Camera in casa di Lelio, con tavolino su cui evvi il di lui vestito. ELEONORA sola. ELEON. Oh che bestia è quel mio marito! Con lui non si può parlare. Subito alza la voce. Ma gridi, strepiti, faccia quanto sa e quanto vuole, mi ha da dire quel che si fa in quella casa, o me ne vado a star con mia madre. Mi dispiace che sul più bello è venuto il fattore! Non ho potuto dirgli l’animo mio; ma anderà via il fattore, e mi sfogherò. Frattanto, giacché qui è il vestito che Lelio aveva attorno questa mattina, voglio un poco vedere, se nelle tasche vi è qualche cosa, da fare qualche scoperta. Queste cose non le fo mai. Per natura io non sono curiosa, ma questa volta sono proprio impuntata. (visita le tasche del vestito) Questo è il suo fazzoletto… Vi è un nodo! Perché mai lo avrà fatto? Sarei ben curiosa di sapere che cosa voglia dir questo nodo. Chi sa? Può anche darsi che io lo sappia. E queste che chiavi sono? Non le ho più vedute. In casa certamente non servono. Oh, adesso sì che mi metto maggiormente in sospetto. Se Lelio non mi dice che chiavi sono, attacchiamo una lite. Questo è un viglietto. Leggiamolo un poco: vediamo a chi va, e chi lo manda. Al Signor Padron colendissimo il Signor Lelio Scarcavalli. Sue riverite mani. Vediamo chi scrive. Vostro vero amico Pantalone de’ Bisognosi. Sì, uno di quelli della conversazione segreta. Vi mando le due chiavi nuove, avendo per maggior sicurezza fatte cambiar le serrature, dopo che il mio servitore ha perse le chiavi vecchie. Dimattina all’ora solita v’aspettiamo. Addio. Oh bella! Queste sono le chiavi del luogo topico. Che bella cosa sarebbe rubargliele! e poi all’improvviso andarli a trovar sul fatto! Ma saranno le nuove, o le vecchie? Quando è scritto il viglietto? Ai 20. Oh, sono le nuove senz’altro. Eccolo, eccolo. Queste non gliele do più. (mette il viglietto in tasca di Lelio, e ripone le chiavi nelle sue) SCENA SECONDA LELIO e detta. LEL. Il servitore non è ancora tornato? ELEON. Se fosse tornato, lo vedreste. LEL. Che graziosa risposta! ELEON. A proposito della vostra domanda. Vedete che il servitore non c’è, e a me domandate se è ritornato. LEL. Domando a voi, per sapere se ve ne siete servita, se l’avete mandato in qualche luogo. Mi pare impossibile che non sia ritornato. ELEON. In quanto a quell’asino, quando si manda in un servizio, non torna mai. LEL. Ho d’andar subito fuori di casa. Ho bisogno d’esser vestito. ELEON. L’abito è qui, vi potete vestire. LEL. Aiutatemi. (si cava la veste da camera) ELEON. Potreste dirlo con un poco più di maniera. LEL. Favorisca d’aiutarmi. (con ironia) ELEON. Dove si va così presto? (gli mette l’abito) LEL. Vado dove mi occorre, signora. ELEON. Sì, sì, anderete a soffiare. LEL. A soffiare! Sono io qualche spione? ELEON. Bravo. Fingete di non intendere. Anderete a soffiare nelli fornelli. LEL. Che fornelli? non vi capisco. ELEON. Mi è stato detto che in quel vostro luogo segreto fate il lapis philosophorum. LEL. Che lapis! Siete una pazza voi e chi ve lo dice. ELEON. Ma dunque che cosa fate là dentro? LEL. Niente. ELEON. Assolutamente voglio saperlo. LEL. Assolutamente non ne saprete di più. ELEON. Farò tanto che lo saprò. LEL. Eleonora, abbiate giudizio. ELEON. Voglio saperlo, e lo saprò. LEL. Non fate che mi venga il mio male. ELEON. Oh se lo saprò! LEL. Signora Eleonora… ELEON. Padrone mio… LEL. Vuol favorire di mutar discorso? ELEON. Lo saprò. LEL. Se lo dite un’altra volta, ve ne fo pentire da galantuomo. ELEON. Voi non vorreste ch’io lo sapessi. LEL. E voi… ELEON. Ed io… lo saprò. LEL. (Vuol darle uno schiaffio, ella si ritira) ELEON. Sì, a vostro dispetto lo saprò. (allontanandosi) LEL. E che sì, che vi rompo le braccia. ELEON. Ma lo saprò. (come sopra) LEL. Giuro al cielo… (le corre dietro) ELEON. Lo saprò lo saprò, lo saprò. (si chiude in una camera) LEL. È meglio che me ne vada, sento che la bile m’affoga. (vuol partire) ELEON. (Apre la porta e mette fuori la testa) Sì, maladetto, lo saprò. LEL. (Prende una sedia per dargliela nella testa) ELEON. Lo saprò. (chiude) LEL. Bestia! Mi sento che non posso più. No, no, non lo saprai. No. (alla porta) No, diavolo, non lo saprai. No, bestia, non lo saprai, no. ELEON. (Da un’altra porta) Sì, sì, lo saprò. (e chiudendo parte) LEL. Non posso più. (parte)


SCENA TERZA Camera in casa di Ottavio. BEATRICE e CORALLINA COR. Presto, signora padrona, che se non parlo, mi viene tanto di gozzo. BEAT. Via, parla. COR. Ho trovato la maniera di saper tutto. BEAT. Di che? COR. Della compagnia, delle camere, del casino. BEAT. Davvero! Come? COR. Tutti hanno le chiavi in tasca; bisognerebbe procurare di buscarle a qualcuno. BEAT. E poi? COR. E poi, so io quel che dico; sono informata di tutto: e son capace all’oscuro, ad occhi chiusi, introdurmi, nascondermi e saper tutto. BEAT. Mio marito le avrà? COR. Le avrà sicuramente, e le avrà nelle tasche, perché se ne servono tutto dì. Bisogna studiar il modo di fargliele sparire. BEAT. Se le ha ne’ calzoni, sarà difficile. COR. Non può averle ne’ calzoni, perché le chiavi delle porte saranno grosse. BEAT. Questa mattina è venuto tardi, e non si è nemmeno spogliato, come qualche giorno suol fare; bisognerà aspettar questa sera, quando va a letto. COR. No! il bello sarebbe scoprirli questa sera. Ho rilevato che questa sera fanno una cena. BEAT. Oh, quanto pagherei di vederli! COR. Bisogna studiare il modo. BEAT. Eccoli che vengono qui. COR. Studiate voi, che studierò ancor io.


SCENA QUARTA OTTAVIO,ROSAURA,FLORINDOedette. ROS. Badate a’ fatti vostri. (a Florindo) FLOR. Signor Ottavio, vedete come vostra figliuola mi tratta? OTT. Caro amico, mia figlia è donna come le altre. Avrà de’ momenti buoni, avrà de’ momenti cattivi. Fate come si fa del tempo. Godete il sereno, fuggite dal tuono; e quando tempesta, ritiratevi, ed aspettate che torni il sole. ROS. Il signor padre sa dar dei buoni consigli. BEAT. Mio marito è fatto a posta per far venire la rabbia. OTT. Signora Corallina, signora cameriera di garbo, quest’oggi non ci favorisce il caffè? COR. Il caffè è pronto, signore, lo vuole qui? OTT. Giacché non ce lo avete portato a tavola, lo beveremo qui. COR. Subito. (Signora, portatevi bene. Se abbiamo le chiavi, siamo a cavallo). OTT. Rosaura, che cosa vi ha fatto il vostro sposo? ROS. Niente, signore. OTT. Non v’ha fatto nulla, e lo guardate sì bruscamente? ROS. Ho dei momenti cattivi. OTT. Amico, il cielo è torbido. Aspettate il sole. (a Florindo) ROS. Questo sole non tornerà così presto. OTT. Sì, ritornerà, quando sarà tramontata la luna. BEAT. Oggi perché non vi spogliate? Perché non vi mettete in libertà come il solito? Il signor Florindo è di casa, non è persona di soggezione. (ad Ottavio) OTT. Ho da uscir presto. Non voglio far due fatiche. BEAT. Avete da uscir presto, eh? Dove avete d’andare? OTT. Vuol anche sapere dove ho d’andare? BEAT. Mi pare che alla moglie si potrebbe dire. OTT. Sì, una moglie così compita merita bene che io glielo dica! Devo andare a render la visita a quel cavaliere che è stato ieri da me. BEAT. Pare a voi che quell’abito sia a proposito per una visita di soggezione? Dovreste metterne un altro migliore. OTT. Eh io non bado a queste piccole cose. BEAT. Sapete che questi signori mezzi gentiluomini ci stanno su questi cerimoniali. Dirà che vi prendete con lui troppa confidenza. OTT. Dica ciò che vuole: io non ci penso. BEAT. (Già; basta che io dica una cosa, perché non la voglia fare). (da sé) OTT. Florindo mio, voglio che presto si concludano queste nozze. BEAT. (Non faremo niente). (da sé) FLOR. Per me son pronto, ma la signora Rosaura non mi vuol bene. ROS. Vi vorrei bene, se foste un uomo sincero. BEAT. Vi mutate quell’abito? (ad Ottavio) OTT. Signora no. (a Beatrice) Le avete detta qualche bugia? (a Florindo) BEAT. (Ecco come mi abbada). (da sé) FLOR. Io le ho sempre detta la verità; ed ella non mi vuol credere. OTT. Eh, non è niente. Un poco di curiosità, mescolata con un poco di ostinazione, è il sorbetto che sogliono dare le mogli. Passerà, non è niente. ROS. (Mio padre mi fa crescer la rabbia). (da sé) BEAT. Almeno, se non volete mettervi un altro vestito lasciate che vi spazzi questo. È tutto polvere. OTT. Sì, brava la mia cara moglie amorosa. Spazzatelo, che vi sarò obbligato. BEAT. Date qui. Cavatevelo, se volete che ve lo spazzi. OTT. No, no, dategli una spazzatina in dosso, non voglio fare questa fatica. BEAT. Così non si fa bene. Cavatevelo. OTT. No, cara, non v’incomodate, che non m’importa. BEAT. Ecco qui. Mai vuol fare a modo mio. OTT. Cara figliuola, non siate così puntigliosa. (a Rosaura) BEAT. (Or ora perdo la pazienza). (da sé) ROS. Signor padre, vi prego a lasciarmi stare. FLOR. È irritata meco senza mia colpa. OTT. Niente, niente, dopo un poco di sdegno, par più buona la pace. BEAT. Non ve lo volete cavare? (ad Ottavio) OTT. Signora no. BEAT. Siete una bestia. OTT. Ah? che dite? Ho io una moglie che mi vuol bene? Queste sono tutte parole amorose. Quanto paghereste che la vostra sposa vi facesse una di queste finezze? (a Florindo) FLOR. Io non amerei ch’ella mi strapazzasse. OTT. Io penso diversamente. Piuttosto che veder le donne ingrugnate, ho piacer, poverine, che si sfoghino. BEAT. È una cosa, con questa sua flemma, da venir etiche.


SCENA QUINTA CORALLINA che porta il caffè, e detti; poi un SERVITORE COR. Ecco il caffè. OTT. Via, beviamolo in pace, se si può. COR. (Avete fatto niente?) (piano a Beatrice) BEAT. (No, non mi basta l’animo di fargli cavar il vestito. (piano a Corallina) OTT. Sediamo. Il caffè si beve sedendo. Chi è di là? SERV. Comandi. OTT. Dammi da sedere. COR. (Col caffè si accosta ad Ottavio, dopo averlo dato al altri) SERV. (Porta le sedie, e nel metterne una presso ad Ottavio, Corallina finge le abbia dato nel braccio, e versa il caffè sul vestito di Ottavio) COR. Uh! meschina me! Perdoni. Mi ha urtato il braccio, non l’ho fatto a posta. OTT. Pazienza! Non è niente. COR. Subito. Vi vuole dell’acqua fresca. OTT. Sì, fate voi. COR. Presto, presto, dia qui. (gli leva il vestito) (Il colpo è fatto). (parte col vestito) OTT. Datemi qualche cosa, che non mi raffreddi. BEAT. Portategli il vestito. (al Servitore, il quale va per esso) OTT. Via sì, sarete contenta. BEAT. (Ha fatto Corallina quello che non ho saputo far io). (da sé) OTT. Mi dispiace aver perduto il caffè. Che me ne facciano un altro. BEAT. Vedete che vuol dire non fare a modo delle donne? OTT. Se faceva a vostro modo, era peggio: mi macchiavo l’altro vestito, che è di colore. BEAT. Se facevate a modo mio, questo non succedeva. OTT. Sentite, Florindo? Le nostre donne son profetesse. Felici noi, che possediamo un tanto tesoro!


SCENA SESTA Il SERVITORE, poi CORALLINA e detti. SERV. (Coll’altro vestito; lo mette ad Ottavio) OTT. Signora Beatrice, siete contenta? BEAT. Non ancora. (Ho paura che domandi le chiavi). (da sé) COR. Ecco, signore, il fazzoletto, la tabacchiera e le chiavi. (ad Ottavio) OTT. Bravissima! (ripone il tutto in tasca) BEAT. (Anche le chiavi?) (a Corallina, piano) COR. (Non son quelle, le ho cambiate). (piano a Beatrice) BEAT. (Il gran diavolo che è costei!) (da sé) OTT. Cara Corallina, io non ho bevuto il caffè. Ve ne sarebbe un altro? COR. In verità, signor padrone, di abbruciato non ve n’è. OTT. Pazienza! Lo anderò a bevere fuori di casa. BEAT. Lo andrete a bevere al vostro caro ridotto. OTT. Florindo, volete venire con me? FLOR. Farò quello che comandate. (osserva Rosaura) ROS. Mi guardate? Andate pure; io non vi trattengo. OTT. Amico, è meglio che andiamo. Lasciate che il temporale si sfoghi. Domani sarà buon tempo. ROS. Né domani, né mai. OTT. Mai buon tempo? Mai? Sempre nuvolo? Sempre tempesta? Ragazza mia, e che sì, che s’io suono una certa campana, faccio subito venir bel tempo? ROS. Come, signore? OTT. Sentite. Vi caccerò in un ritiro. Ah! che dite? ROS. Io in ritiro? BEAT. Mia figlia in ritiro? OTT. Andiamo, andiamo. Campana all’armi. Fuoco in camino. (parte)


SCENA SETTIMA BEATRICE, ROSAURA, FLORINDO e CORALLINA ROS. Sentite? Per causa vostra. (a Florindo) FLOR. Signora, io non ne ho colpa. BEAT. Mia figlia in ritiro? Se non avrà voi, non le mancheranno mariti. FLOR. Lo credo. Ma io non merito né i suoi, né i vostri rimproveri. BEAT. Andate, andate, che mio marito vi aspetta. FLOR. Partirò per obbedirvi. (in atto di partire) ROS. Bella cosa! Lasciarmi così. FLOR. Ma signora… (torna indietro) COR. (Lasciatelo andare, che vi ho da dire una bellisima cosa). (a Rosaura, piano) ROS. (Che cosa?) (a Corallina, piano) COR. (Mandatelo via. Ho le chiavi). (come sopra) ROS. (Sono in curiosità). (da sé) Basta, se volete andare, non vi trattengo. (a Florindo) FLOR. Resterò, se lo comandate. BEAT. No, no, servitevi pure. Mio marito vi aspetta. FLOR. Che dite, signora Rosaura? ROS. Se mio padre vi aspetta, andate. FLOR. Non mi aspetta per alcuna premura, posso ancor trattenermi. COR. (Mandatelo via). (a Rosaura, piano) ROS. (Non vorrei disgustarlo). (da sé) Andate, e poi tornate. (a Florindo) BEAT. Oh, che non s’incomodi. COR. Tornerà domani. FLOR. Tornerò per obbedirvi. Ma vi prego, abbiate pietà di me. (parte)


SCENA OTTAVA BEATRICE, ROSAURA e CORALLINA ROS. Non vorrei che si disgustasse. COR. Eh non dubitate, che tornerà. ROS. Che cosa avete da dirmi? BEAT. Dove sono le chiavi? COR. Eccole. ROS. Che chiavi? COR. Zitto. Le chiavi della casa segreta. Una della porta di strada, l’altra dell’appartamento. BEAT. Andiamo, andiamo. (a Corallina) ROS. Voglio venire ancor io. BEAT. A voi non è lecito. State in casa, e vi diremo tutto. ROS. Cara signora madre… BEAT. No, vi dico. Andiamo, Corallina. (parte)


SCENA NONA ROSAURA e CORALLINA ROS. Cara Corallina… COR. Non dubitate. Andrò io, vi saprò dir tutto. ROS. Quelle chiavi, come le avete avute? COR. Le ho buscate a vostro signor padre. ROS. Quando? COR. Non avete veduto il lazzo del caffè? Allora… ROS. Voglio venire ancor io. COR. La signora madre non vuole. ROS. Corallina, se tu mi vuoi bene… COR. Via, non siate così curiosa. Abbiate pazienza. Questa sera saprete ogni cosa. ROS. Sappimi dir se vi sono donne. COR. Eh, altro che donne. Il tesoro, il tesoro. (parte)


SCENA DECIMA ROSAURA sola. ROS. Mai in vita mia ho avuto maggior pena nel desiderare una cosa. Pazienza! Esse anderanno, e io no. Ma perché io no? Perché sono una fanciulla? E per questo perderei la riputazione? Finalmente, se andassi a spiare che fa il mio sposo, nessuno mi potrebbe rimproverare. Se sapessi come fare! Mia madre è difficilissima da lasciarsi svolgere. Quando fissa una cosa, non vi è rimedio.


SCENA UNDICESIMA FLORINDO e detta. FLOR. Deh perdonate… ROS. Voi qui? FLOR. Sì signora. Il vostro signor padre è stato fermato in casa del forestiere, che doveva egli medesimo visitare. Discorrono d’interessi, ed io mi sono preso l’ardire d’incomodarvi di nuovo. ROS. Meritereste ch’io vi voltassi le spalle. FLOR. Perché, signora? Che cosa vi ho fatto? ROS. Non mi volete dire la verità. FLOR. E siam qui sempre! Pagherei assaissimo, che poteste cogli occhi vostri assicurarvi della mia sincerità. ROS. Potete farlo quando volete. FLOR. Come? ROS. Introducendomi di nascosto. FLOR. Voi ardirete di venir sola? ROS. No, verrò colla serva. FLOR. Per un simile luogo, la serva non è compagnia che basti. ROS. Verrà mia madre. Se voi la pregherete, verrà. FLOR. Rosaura, compatitemi. Ve l’ho detto altre volte. I miei amici non vogliono donne; ed io non deggio… ROS. E voi non dovete disgustarli per me. Vedo che di essi più che di me vi preme, ed ecco il fondamento di credervi un menzognero, un infido. FLOR. Orsù, Rosaura, per darvi una prova dell’amor mio, tralascierò d’andarvi. Così sarete contenta. ROS. Mi darete ad intendere di non andarvi, ma vi anderete. FLOR. No, vi prometto, non vi anderò. ROS. Non mi basta. FLOR. Vi confermerò la promessa col giuramento. ROS. Non voglio giuramenti, voglio una sicurezza maggiore. FLOR. Chiedetela. ROS. Mi promettete di darmela? FLOR. Sì, quando ella da me dipenda. ROS. Ditemi… Ma badate bene di non mentire. FLOR. Non son capace. ROS. Avete voi le chiavi, come hanno gli altri? FLOR. Le chiavi di che? ROS. Delle porte di quella casa, dove non possono entrar le donne? FLOR. Sì, le ho, non posso negarlo. ROS. Questa è la sicurezza che pretendo da voi. Datemi quelle chiavi. FLOR. Ma… queste chiavi… nelle vostre mani… ROS. Ecco la bella sincerità! Ecco il fondamento delle vostre promesse, dei giuramenti vostri! FLOR. Non vedete, che s’io volessi ingannarvi, potrei darvi le chiavi, ed unirmi poscia con un amico per essere non ostante introdotto? ROS. Non credo che vogliate mendicar i mezzi per essere mentitore. Mancandovi le chiavi, vi manca, secondo me, l’eccitamento maggiore. Florindo, se mi amate, fatemi la finezza di depositarle nelle mie mani. FLOR. Ah Rosaura, voi mi volete indurre ad una cosa, che per molti titoli non mi conviene. ROS. Avete voi intenzione di andar in quel luogo, sì o no? FLOR. Certamente, vi prometto di no. ROS. Che difficoltà dunque avete a lasciarmi le chiavi? FLOR. Vi dirò… queste chiavi… se passassero in altre mani, potrebbero produrre degli sconcerti. ROS. Vi prometto sull’onor mio, che non esciranno dalle mie mani. Siete ora contento? Mi fareste l’ingiuria di dubitare di me? Vorrei vedere anche questa. FLOR. Cara Rosaura, dispensatemi. ROS. No certamente. Ecco l’ultima intimazione ch’io faccio al vostro cuore. O fidatemi quelle chiavi, o non pensate più all’amor mio. Se mi pento, se vi perdono, prego il cielo che mi fulmini, che m’incenerisca. FLOR. Basta, basta, non più. Tenete: eccole, non mi atterrite di più. ROS. Nelle mie mani saran sicure. FLOR. Vi prego, non mi rendete ridicolo co’ miei amici. ROS. Non dubitate, son contenta così. FLOR. Guardate, se veramente vi amo! ROS. Sì, lo credo; compatitemi se ho dubitato. FLOR. Quando posso sperare di farvi mia? ROS. Quando volete voi; quando vuole mio padre. FLOR. Volo a dirglielo, se vi contentate. ROS. Sì, ditegli che la tempesta è finita, che torna il sole. FLOR. Cara, mi consolate. ROS. Io sono più consolata di voi. Queste chiavi mi danno il maggior piacere del mondo. FLOR. Per qual motivo, mia cara? ROS. Perché con queste mi assicuro del vostro amore. (E con esse mi assicurerò forse di quel segreto, che mi fa vivere in una perpetua curiosità). (da sé, parte) FLOR. Gran cosa è l’amore! Tutto si fa, quando si vuol bene. Quelle chiavi le ho date a Rosaura colla maggior pena del mondo. Ma se le ho dato l’arbitrio della mia vita, posso anche fidarle le chiavi di una semplice conversazione. (parte)


SCENA DODICESIMA Strada con porta, che introduce nel casino della conversazione. PANTALONE esce dalla porta, e chiude. PANT. Xe squasi notte, e Brighella no vien. Bisognerà che vaga mi a proveder le candele de cera, e che le fazza portar.


SCENA TREDICESIMA LEANDRO e detto. LEAN. Servo, signor Pantalone. PANT. Amicizia. LEAN. Amicizia. (si abbracciano) PANT. Questo xe el nostro saludo. No se fa altre cerimonie. LEAN. Va benissimo. Tutti i complimenti sono caricature. PANT. Sì ben; se usa dir per civiltà delle parole, senza pensar al significato, senza intender, co le se dise, quel che le voggia dir. Per esempio, servitor umilissimo vuol dir me dichiaro de esser so servitor; ma se ghe domandè un servizio che no ghe comoda, el ve dise de no; e po el sior umilissimo ve tratta e ve parla con un boccon de superbia, che fa atterrir. Patron reverito xe l’istesso. I dà del patron a uno che no i se degna de praticar. LEAN. Signor Pantalone, un mio amico vorrebbe essere della nostra conversazione. PANT. Xelo galantomo? LEAN. Certamente. PANT. A pian co sto certamente. Dei galantomeni de nome ghe ne xe assae, de fatti ghe ne xe manco. Che prove gh’aveu che el sia un galantomo? LEAN. Io l’ho sempre veduto trattare con persone civili. PANT. No basta. In tutte le conversazion civili, tutti no xe galantomeni, e col tempo i se descoverze. LEAN. È nato bene. PANT. No xe la nascita che fazza el galantomo, ma le bone azion. LEAN. È uomo che spende generosamente. PANT. Anca questa la xe una rason equivoca: bisogna véder se quel che el spende xe tutto soo. LEAN. Io poi non so i di lui interessi. PANT. Donca no ve podè impegnar che el sia galantomo. LEAN. In questa maniera, signor Pantalone, avremo tutti in sospetto, e non praticheremo nessuno. PANT. No, caro amigo, intendème ben. No digo che abbiemo da sospettar de tutti senza rason, e che no abbiemo da praticar se no quelli che conossemo galantomeni con rason; anzi avemo debito de onestà de creder tutti da ben, se no gh’avessimo prove in contrario. Quelli però che più che tanto no se cognosse, i se pratica con qualche riserva; no se ghe crede tutto, i se prova, i se esamina con delicatezza, e se col tempo e coll’esperienza se trova un galantomo da senno, se pol dir con costanza de aver trovà un bel tesoro. LEAN. Io questo che vi propongo lo credo onoratissimo, ma non posso essere mallevadore per lui. PANT. N’importa, lo proveremo: se el sarà oro el luserà.


SCENA QUATTORDICESIMA BRIGHELLA e detti. BRIGH. Èla ella, sior padron? PANT. Sì, son mi. Tanto ti sta? BRIGH. Son pien de roba, che no me posso mover. PANT. Astu tolto candele de cera? BRIGH. Sior no, non ho avù tempo. PANT. Adesso anderò mi a ordinarle dal nostro spizier. E vu, co podè, andè a torle. (a Brighella) BRIGH. Sior sì; metto zo sta roba, e vado subito. Son pien per tutto, no so come far a avrir. PANT. Caro sior Leandro, la ghe averza la porta. LEAN. Volentieri. (apre) BRIGH. Ho speranza stassera de farme onor. PANT. Distu da senno? BRIGH. La vederà che boccon de cena. PANT. Bravo, gh’ho a caro. BRIGH. Ma i se n’incorzerà in ti conti. (entra) PANT. N’importa. Co xe ben fatto, spendo volentiera. LEAN. Signor Pantalone, posso dunque dire all’amico che venga? PANT. Chi xelo? Cossa gh’alo nome? LEAN. È un certo Flamminio Malduri. PANT. Benissimo, lo proponeremo. Sentiremo cossa che dise i altri. LEAN. Vorrei condurlo alla cena. PANT. La lo mena; sul fatto se rissolverà. LEAN. Vado a ritrovarlo. Spero che resterete contento. Amicizia. (parte) PANT. Amicizia. Mi no gh’ho altra premura, che de véder in te la nostra compagnia zente onesta, de buon cuor, amorosa, che in t’una occasion sappia soccorrer un amigo. Tutti a sto mondo gh’avemo bisogno un dell’altro, e i xe tanto pochi quelli che fazza ben per bon cuor, che a trovarghene xe più difficile d’un terno al lotto. (parte)


SCENA QUINDICESIMA ELEONORA col zendale alla bolognese. ELEON. L’ora è avanzata. Voglio vedere se mi riesce il colpo. Quella è la porta, e queste sono le chiavi. Se posso entrare, nascondermi, e vedere senz’esser veduta mi chiarirò d’ogni cosa. E se sarò scoperta, che cosa mi potranno fare? Dove va mio marito, vi posso andare, ancor io; anzi tutti mi loderanno. Se vado, non vado per altro fine che per questo. Voglio bene al marito, e voglio sapere dove va e che cosa fa: sì, lo voglio sapere. Tante volte gli ho detto: lo saprò. Voglio poter dire una volta: l’ho saputo. Non sento nessuno, adesso mi provo. (mette la chiave nella serratura)


SCENA SEDICESIMA BRIGHELLA di casa, e detta. BRIGH. Chi è là? (apre l’uscio, ed Eleonora spaventata si ritira) ELEON. Povera me! Ho perduto le chiavi. (parte lasciando le chiavi) BRIGH. Una donna? Colle chiave? Corro dal me padron. (chiude la porta, leva le chiavi, e parte)


SCENA DICIASSETTESIMA CORALLINA vestita da uomo e BEATRICE col zendale alla bolognese. BEAT. Altro che dire non entran donne! Hai veduto? Quella che è uscita, è una donna. (avendo osservato Eleonora) COR. Assolutamente vi è qualche porcheria. BEAT. Presto, entriamo anche noi, e vediamo se ve ne sono altre. COR. Andiamo; ecco la chiave. Ma zitto… sento gente. BEAT. Non vorrei che fossimo scoperte prima d’entrare. Entrate che siamo, non m’importa. Quando abbiamo saputo ogni cosa, che ci scoprano pure, ma se ci vedono qui… COR. Ritiratevi. BEAT. E tu non vieni? COR. Io son vestita da uomo. È sera; non mi conosceranno. BEAT. Bada bene non m’ingannare. COR. Fidatevi di me. BEAT. Ti aspetto in questo vicolo. (si ritira) COR. (Ho del coraggio, ma tremo un poco). (da sé)


SCENA DICIOTTESIMA PANTALONE e dette. PANT. (Una donna colle chiave? la voleva andar drento? Coss’è sta cossa? Chi èlo el poco de bon, che colle donne vol ruvinar la nostra povera compagnia! Vedo uno là: che el sia dei nostri?) (osservando Corallina) COR. (Mi pare quello che chiamano Pantalone). (da sé) PANT. Amicizia. (forte verso Corallina) COR. (Che dice d’amicizia?) (da sé, non rilevando il gergo) PANT. (O che nol ghe sente, o che nol xe della compagnia). (da sé) Amicizia. (s’accosta a Corallina, ripetendo il termine) COR. Sì signore. (alterando la voce) PANT. (Nol xe della conversazion. Ma cossa falo in sti contorni?) (da sé) COR. (Non vorrei essere scoperta). (da sé) PANT. Cossa fala qua, patron? Aspettela qualchedun? (a Corallina) COR. Aspetto un amico. PANT. L’aspetta un amico? (fa il falsetto, imitando la voce di Corallina) (O che l’è un musico, o che l’è una donna). (da sé) COR. (È meglio ch’io me ne vada). (da sé) PANT. (Vôi véder cossa xe sto negozio). (da sé) La diga patron, chi aspettela? COR. Niente, signore, la riverisco. (vuol partire) PANT. Xela fursi anca ella uno de quei della compagnia de sti galantomeni? COR. Sì signore. PANT. Mo perché donca, co ghe digo amicizia, no me rispondela amicizia? COR. Ah sì, non vi avevo inteso. Amicizia. PANT. (Eh, la xe una donna; cossa diavolo xe sto negozio!) Perché no vala drento? (a Corallina) COR. Aspettava il signor Ottavio. PANT. Tutti gh’ha le so chiave. No la le gh’ha ella? COR. Oh sì signore, le ho ancor io. PANT. La lassa véder mo. COR. Che serve? le ho. PANT. Co no la le mostra, xe brutto segno. COR. Eccole. (fa vedere le chiavi) PANT. Via donca, la resta servida: la vaga in casa. COR. Andate voi, che or ora verrò ancor io. PANT. Mi gh’ho un pochetto da far. Vago in t’un servizio e po torno. La vaga ella. COR. Farò come comandate. PANT. (Vôi ben véder dove va a finir sto negozio). (da sé) COR. Va ella? o vado io? PANT. La vaga pur ella. Amicizia. COR. Amicizia. PANT. (Nell’accostarsele, afferra le chiavi in mano a Corallina) COR. Come, signore? (si difende) PANT. Chi v’ha dà ste chiave? Chi seu? Cossa voleu? COR. Amicizia. PANT. Colle donne no vôi amicizia. COR. Sono scoperta. Aiutami, gambetta. (parte correndo) PANT. A rotta de collo! Ti gh’ha rason, che no gh’ho voggia de correr. Come xelo sto negozio? Do mue de chiave fora de man? Ste chiave in man de do donne? Donne introdotte in te la nostra conversazion? A monte tutto; fogo a tutto; no ghe ne vôi più saver. (entra in casa, e chiude)


SCENA DICIANNOVESIMA OTTAVIO e LELIO LEL. Ho piacere d’avervi trovato. Ho perso le chiavi, e non so dove e non so dir come; appunto stavo in attenzione di qualche amico che aprisse. OTT. Vi servirò io. Ma, caro amico, tenetene conto di quelle chiavi. Il povero signor Pantalone di quando in quando, se si perdono, le fa mutare. LEL. Eh! ho un sospetto in testa. OTT. Di che? LEL. Ho paura che me le abbia prese mia moglie; se ciò è vero, da galantuomo, le do un ricordo per tutto il tempo di vita sua. OTT. Oibò, non v’inquietate. Soffritela, se potete, e se non potete, mandatela al suo paese. LEL. Se sapeste quanto mi ha fatto arrabbiare con un maladetto lo saprò. OTT. Oh via, andiamo.


SCENA VENTESIMA FLORINDO e detti. OTT. Oh, ecco un altro camerata. Amicizia. LEL. Amicizia. FLOR. Amicizia. Appunto veniva in traccia di voi. OTT. Sì, andiamo insieme. FLOR. No, cercavo appunto di voi per far le mie scuse, e pregarvi di farle col signor Pantalone. Questa sera non vengo. OTT. No? Per qual causa? LEL. Tant’e tanto, se non venite, pagherete la vostra parte. FLOR. Sì, pagherò: è giusto. OTT. Diteci almeno il perché non venite. FLOR. Ho un affar di premura. Questa sera non posso. OTT. Oh via, ho capito. Non viene, perché ha paura. LEL. Ve lo ha proibito la sposa? FLOR. Non me lo ha proibito: ma posso far meno per soddisfarla? OTT. Bravo, genero. Io vi lodo, che siate compiacente con mia figliuola, ma voglio darvi un avvertimento: non vi lasciate prender la mano sì di buon’ora, perché poi ve ne pentirete. Le donne dicono volentieri quella bella parola voglio; e quando si fa loro buona una volta, non la tralasciano più. FLOR. Non so che dire. Questa volta ho dovuto fare così; un’altra volta poi… OTT. Oh via, regolatevi con prudenza. Amico Lelio, andiamo, e lasciamo in pace questo povero innamorato. (cerca la chiave) LEL. Eh amico, quando sarete ammogliato, vedrete il bel divertimento! Se vi tocca una moglie come la mia, volete star fresco. OTT. Che chiavi sono queste? LEL. Non sono le vostre chiavi? OTT. Oibò. Ora me ne accorgo; Corallina, nel darmi le chiavi, ha errato. Questa è quella della cantina, e questa è quella della dispensa. Come diavolo le aveva io in tasca di quell’altro vestito? Non la so capire. LEL. Come faremo a entrare? Bisognerà battere. OTT. Ci favorirà il signor Florindo. Ci darà egli le sue. FLOR. Mi dispiace… ch’io non le ho. OTT. Oh bellissima! LEL. Che cosa ne avete fatto? FLOR. Sapendo che io non veniva questa sera, le ho serrate nel mio burrò. OTT. Vedete, egli è un giovine di garbo; custodisce le chiavi, non le perde come fate voi. (a Lelio) LEL. E voi le lasciate in balìa delle donne. OTT. Questo è un bel caso: tutti tre senza chiavi. LEL. Bisogna battere. OTT. Sì, battiamo. (battono)


SCENA VENTUNESIMA PANTALONE esce di casa, e detti. PANT. Coss’è, siori, no le gh’ha chiave? LEL. Io l’ho perduta. OTT. Ed io l’ho lasciata in casa. PANT. Le varda mo, ghe saravele qua le soe? LEL. Corpo di bacco! Ecco le mie. OTT. Oh bella! Ecco le mie. PANT. Le impara a custodirle. Le impara meggio a mantegnir la parola; e le se vergogna de prostituir el decoro alle lusinghe, alle curiosità delle donne. (entra) LEL. Come! Che dite? Cospetto! Cospettonaccio! Mia moglie l’ammazzerò. (entra) OTT. (Fa varie ammirazioni colle chiavi ed entra)


SCENA VENTIDUESIMA FLORINDO solo. FLOR. Che imbrogli sono mai questi? Fra quelle chiavi vi sarebbero mai le due che ho dato a Rosaura? No, perché essi due le hanno per le loro riconosciute; e poi Rosaura capace non sarà di tradirmi. Certamente queste donne ardono di volontà di sapere… Vedo gente… Colui colla lanterna è Arlecchino. Vi è una donna in zendale con lui; che sia forse la signora Beatrice, in traccia di suo marito? Vuò rimpiattarmi ed osservare. (si ritira)


SCENA VENTITREESIMA ROSAURA in zendale alla bolognese, ARLECCHINO con lanterna da mano, FLORINDO ritirato. ROS. Vieni con me, non aver paura. ARL. Ma mi, siora, in sta sorte de contrabbandi me trema le budelle in corpo. ROS. Insegnami solamente dov’è la porta di quella casa che già ti ho detto. ARL. La porta l’è quella lì. ROS. Tu ci sarai stato dentro più volte. ARL. Sigura. Ghe vago squasi ogni dì. ROS. Vorrei entrare ancor io. ARL. Oh, siora no; donne femene no ghe ne va. ROS. È notte; non si sente nessuno. Possiamo entrare con libertà; e poi sappi che vi è mia madre, e vi posso andare ancor io. ARL. Se batto, i vien a avrir, i me vede con una donna, e i me regala de bastonade. ROS. Senti. Ho le chiavi. ARL. Avì le chiave? Chi ve l’ha dade? ROS. Me le ha date mio padre: eccole. Apriremo da noi, senza che nessuno se ne accorga. Vi è niente colà da nascondersi? ARL. Gh’è un camerin… ma… no l’è mo a proposito. ROS. Presto, presto, andiamo. ARL. Corpo del diavolo… no vorria… ROS. Tieni le chiavi, apri. ARL. Basta. Avro, e me la sbigno[ref]È una parola in gergo, che vuol dire fuggo via[/ref]. (mette le chiavi nell’uscio) FLOR. Lascia a me queste chiavi. (le prende) ARL. La se comoda, che l’è padron. ROS. Come! Così mantenete la vostra parola? Mi promettete di non venire, e poi venite al casino? FLOR. Ah ingrata! Così voi mi serbate la fede? Mi carpite le chiavi, mi giurate di custodirle, e le impiegate in tal uso? ROS. Vi ho promesso che escite non sarebbero dalle mie mani. FLOR. Promesse accorte, con animo d’ingannare. Ma chi non sa che sia fede, non merita che a lui si serbi. Giacché voi mi avete insegnato ad operare a capriccio, mi valerò de’ vostri barbari documenti; ed ora sugli occhi vostri anderò in quel luogo medesimo, dove non volevate ch’io andassi. ROS. Ah no, caro Florindo… FLOR. Tacete; se non mi amate, non meritate di essere compatita; e se mi amate, vi serva di regola e di castigo la pena che giustamente provate. (apre ed entra)


SCENA VENTIQUATTRESIMA ROSAURA ed ARLECCHINO ROS. Oimè! Arlecchino. ARL. Signora. ROS. Mi vien male. ARL. Forti. Mi no gh’ho alter che un poco de moccolo de lanterna. ROS. Mi sento morire. ARL. Aiuto, gh’è nissun?


SCENA VENTICINQUESIMA BEA TRICE, ELEONORA, CORALLINA, da varie parti; e detti. ELEON. Che c’è? COR. Che cosa è stato? BEAT. Figliuola mia. ROS. Signora madre, veniva in traccia di voi. BEAT. Ed io veniva in traccia di te. ARL. E mi andava a scarpioni[ref]Dice che andava a caccia di scorpioni, per dire una facezia.[/ref].


SCENA VENTISEIESIMA BRIGHELLA colle candele di cera, e detti. BRIGH. Coss’è sto negozio? A st’ora? Coss’è sto mercà de donne? COR. Brighella, eccoci qui: una, due, tre e quattro. Siamo quattro femmine disperate. ARL. E mi che fa cinque. BRIGH. Ma desperade per cossa? Fursi per curiosità de saver quel che se fa là drento? COR. Non è curiosità, ma volontà rabbiosissima di sapere. BEAT. Mi preme di mio marito. ELEON. Voglio sapere di mio marito. ROS. Vo’ sapere che fa il mio sposo. COR. Ed io non ho né parenti, né amici, ma ho certo naturale, che vorrei sapere tutti li fatti di questo mondo. ARL. Da resto po, no se pol dir che le sia curiose. BRIGH. Signore, le se ferma un tantin. (Ste donne vol far nasser dei despiaseri; adesso ghe remedierò mi). (da sé) Vorle vegnir là drento? COR. Oh, il ciel volesse! BEAT. Pagherei cento scudi. BRIGH. Zitto. Le lassa far a mi, che da galantomo le voggio sodisfar. BEAT. Ma come? BRIGH. Se fidele de mi? COR. Sì Brighella è uomo d’onore. Fo io la sicurtà per lui. BRIGH. Arlecchin, ti ti sa dov’è la porta che referisse in cantina. ARL. Cussì no la savessio! Ho portà tante volte la legna. BRIGH. Tiò sta chiave. Averzi quella porta che va nella stradella; condusile drento con quella lanterna, e po serra, e vien per de qua, che te aspetto. BEAT. Ah Brighella, non ci tradire. BRIGH. Me maraveggio: le se fida de mi. COR. Finalmente siamo quattro donne; non abbiamo paura né di venti, né di trenta uomini. ARL. Le favorissa, le vegna con mi, che averò l’onor de far la figura de condottier. (parte) BEAT. Rosaura, andiamo. Già che ci siete, non so che dire. (parte) ROS. Non ci sarei, s’ella non mi avesse dato l’esempio. (parte) ELEON. O in un modo, o nell’altro, purché veda, sarò contenta. (parte) COR. Caro Brighella, fateci veder tutto: non già per curiosità, ma così per divertimento. (parte)


SCENA VENTISETTESIMA BRIGHELLA solo. BRIGH. Sta volta me togo un arbitrio, che no so come el me passerà, ma fazzo per far ben, e spero de far ben. Ste donne le son indiavolade; ognuna l’è capace de precipitar la casa, el marido, e tutti quei de sto logo. Se me riesce quel che m’è vegnù in tel pensier, spero che i mi padroni sarà contenti, le donne disingannade; e mi averò la gloria d’aver contribuido alla pase comun, al comun contento de tutti, e alla sussistenza de un logo, dove anca mi ghe cavo el mio profitto, e vivo da galantomo. Perché al dì d’oggi, co se g’ha un tocco de pan, bisogna sfadigarse, suar e strologar per mantegnirselo fin che se pol. (parte)



ATTO TERZO SCENA PRIMA Camera nel casino della conversazione, con varie porte. ROSAURA, BEA TRICE, ELEONORA, CORALLINA e BRIGHELLA BRIGH. Le vegna con mi, e no le se indubita gnente. Le metterò in t’un logo, dove senza esser viste le vederà. BEAT. Che luogo è quello dove ci volete mettere? BRIGH. Una camera scura dove no ghe va nissun. COR. Che sia la camera del tesoro? BRIGH. Siora sì, gh’è el tesoro da ingrassar i campi. ELEON. Vi sono i fornelli? BRIGH. No, la veda: i fornelli xe in cusina. BEAT. Qual è la camera del giuoco? BRIGH. Qualche volta i zoga qua colla dama. ROS. Colla dama, eh? Sì, sì, vi ho capito. Si divertono colle donne. BRIGH. Le vederà con che donne che i se diverte. Le so donne le son le bottiglie. COR. Le bottiglie, o le pentoline? BRIGH. Pentoline? Pignatelle? Da cossa far? COR. Per far le stregherie, per cavar il tesoro. BRIGH. Sì, sì, brava, la dise ben. Presto, presto, le se retira, che sento zente, e le varda ben, le staga zitte, no le fazza sussurro. ROS. (Se vedo donne, non mi tengono le catene). (da sé, entra) BEAT. (Se mio marito giuoca, vado a strappargli le carte di mano). (entra) ELEON. (Voglio rompere tutti i loro lambicchi). (entra) COR. (Se cavano il tesoro, ne voglio anch’io la mia parte). (entra) BRIGH. Per sincerar ste donne curiose, no gh’è altro remedio che farle véder coi propri occhi… Vien i patroni, vado a finir de parecchiar la cena. Se la invenzion va ben, son el primo omo del mondo. Se la va mal, pazienza. Co l’intenzion l’è bona, se compatisse chi falla. (parte)


SCENA SECONDA PANTALONE, OTTAVIO, LELIO e FLORINDO LEL. Ella è così senz’altro. Mia moglie mi ha levate di tasca furtivamente le chiavi. PANT. Chi sa che no la fusse quella che in abito da omo zirava qua intorno? LEL. Mia moglie da uomo? Non crederei. Abiti che le vadan bene, in casa non ve ne sono. PANT. La sarà stada donca quella in zendà, che ha trovà Brighella colle chiave, in atto de avrir. LEL. Se ciò è vero, se colei me l’ha fatta, giuro al cielo, la fo morire sotto un bastone. OTT. No, amico, non tanta furia. LEL. Siete qui voi colla vostra flemma. OTT. Lasciatemi dir due parole. Voi siete stato burlato da vostra moglie, io dalla mia, ed il signor Florindo da quella che sarà sua. Consideriamo un poco il motivo di questo loro trasporto. O provien dall’amore che hanno per noi, e non ce ne possiamo dolere; o proviene da un difetto di natura, chiamato curiosità, e dobbiamo compatire il loro temperamento. Chi nasce con dei difetti, merita compassione. L’uomo saggio deve procurar di correggerli senza scandalizzarsi. Ma sappiate, amico, che non è l’ira quella che produca le correzioni, ma la ragione. Battete la moglie dieci anni, vent’anni, diverrà sempre peggio. Onde una delle due, o correggerla con amore, o non curarla con indifferenza. PANT. Sior Ottavio dise benissimo, el parla da omo de garbo e da filosofo vero; ma mi gh’ho un’altra regola, che me par più segura, e che ho imparà a mie spese. Dalle donne ghe stago lontan, e in fatti ho procurà de far sta union de omeni senza donne, e donne qua no ghe n’ha da vegnir. E ve prego, cari amici, custodì le chiave; che se le donne ve tol le chiave, avè persa affatto la libertà. FLOR. Io sono stato il più debole, il più pazzo di tutti. Confesso la mia insensatezza. Ho date io medesimo le chiavi in deposito alla signora Rosaura, né mi sarei mai creduto ch’ella mi potesse tradire… OTT. Via, non andate in collera. Amore accieca. Ha acciecato voi nel dargliele, ha acciecato lei nel servirsene. Col tempo ci vedrete meglio. Verrà pur troppo quel tempo, che voi non le renderete conto dei vostri passi, ed ella non curerà saper dove andiate.


SCENA TERZA LEANDRO e detti. LEAN. Amicizia. (tutti fanno con lui il solito complimento) Signor Pantalone, avete detto nulla a questi signori di quel compagno che vi ho proposto? PANT. Cossa diseli, patroni, xeli contenti che recevemo sto nostro camerada? OTT. Chi è? Come si chiama? LEAN. Egli è il signor Flamminio Malduri. Lo conoscete? OTT. Io no. LEL. Lo conosco io. È galantuomo. Merita esser ammesso nella vostra conversazione. PANT. Bon. Co do lo cognosse, el se pol recever. Cossa diseli? OTT. Io son contentissimo. FLOR. Ed io pure. LEAN. Posso dunque farlo passare. PANT. Mo l’aspetta un pochetto. L’avemio da far vegnir cussì colle man a scorlando? Sto liogo ne costa dei bezzi assae; nu avemo speso, e avemo fatto quel che avemo fatto, xe ben giusto che chi entra novello, abbia da pagar qualcossa. Cossa ghe par? LEAN. Questi è un uomo generoso, soccomberà volentieri ad ogni convenienza. PANT. Femo cussì, che el paga la cena de sta sera. Ah? dighio mal? LEL. Dite benissimo. Può pagar meno per entrare in una simile compagnia? FLOR. Per me darò la mia parte. PANT. Gnente, sior Florindo, no femo miga per sparagnar la parte. Semo tutti omeni che un felippo non ne descomoda. Se fa per un poco de chiasso, per un poco de allegria. Cossa diseu, sior Leandro? LEAN. Va benissimo, ed ora con questo patto lo introduco senz’altro. (parte) PANT. Più che semo, più stemo allegri. Oh, m’ho desmentegà de domandarghe una cossa. LEL. Che cosa? PANT. Se sto sior el xe maridà. Da qua avanti no solo no voggio donne, ma gnanca omeni maridai. FLOR. Perché, signore? PANT. E gnanca sposi. FLOR. Ma perché? PANT. Perché no i sa custodir le chiave.


SCENA QUARTA LEANDRO, FLAMMINIO e detti. LEAN. Amicizia. PANT. Amicizia. Gh’aveu insegnà el complimento? (a Leandro) FLAMM. Servo di lor signori. PANT. Che servo? Amicizia. (abbracciandolo) FLAMM. Amicizia. (tutti fanno lo stesso) Mi ha detto l’amico Leandro, che lor signori si degnano favorirmi… PANT. Che degnar? Che favorir? Sti termini da nu i xe bandii. Bona amicizia, e gnente altro. FLAMM. Son qui disposto a soccombere a quanto sarà necessario. PANT. Gnente. Co l’ha pagà una cena, l’ha fenio tutto, e quel che stassera la fa ella, un’altra volta farà un altro novizzo, e cussì se se diverte, e se gode. FLAMM. Se mi credete abile a supplire a qualche incombenza, mi troverete disposto a tutto. PANT. Qua no ghe xe maneggi, no ghe xe affari, tutto el daffar consiste in provéder ben da magnar, ben da bever, e devertirse. FLAMM. Eppure si dice che qui fra di voi altri abbiate diverse inspezioni, diverse incombenze, alle quali si arriva col tempo. PANT. Oibò, freddure. Chiaccole della zente, alzadure d’inzegno de quelli che no volemo in te la nostra conversazion, i quali mettendone in vista per qualcossa de grando, i ne vorave precipitar. LEAN. Queste cose gliele ho dette ancor io, e non me le ha egli volute credere. OTT. Sì, tutto il mondo è persuaso che la nostra unione abbia qualche mistero. Questo è un effetto della superbia degli uomini, li quali vergognandosi di non sapere, danno altrui ad intendere tutto quello che lor suggerisce la fantasia stravolta, sconsigliata e maligna. LEL. A tavola questa sera vedrete tutte le nostre maggiori incombenze. Chi trincia, chi canta, chi dice delle barzellette, e chi applica seriosamente a mangiar di tutto, la qual carica, indegnamente, è la mia. FLOR. Saprete che qui non è permesso alle donne l’intervenirvi. FLAMM. È vero, ed esse appunto sono quelle che fanno assai mormorare di voi e dicono che vi è dell’arcano. PANT. Coss’è sto arcano? Qua no se fa scondagne, no se dise mal de nissun, né se offende nissun. Ecco qua i capitoli della nostra conversazion. Sentì se i pol esser più onesti, sentì se ghe xe bisogno de segretezza. 1. «Che non si riceva in compagnia persona che non sia onesta, civile e di buoni costumi». 2. «Che ciascheduno possa divertirsi a suo piacere in cose lecite e oneste, virtuose e di buon esempio». 3. «Che si facciano pranzi e cene in compagnia, però con sobrietà e moderatezza; e quello che eccedesse nel bevere, e si ubbriacasse, per la prima volta sia condannato a pagar il pranzo o la cena che si sarà fatta, e la seconda volta sia scacciato dalla compagnia». 4. «Che ognuno debba pagare uno scudo per il mantenimento delle cose necessarie, cioè mobili, lumi, servitù, libri e carta ecc.». 5. «Che sia proibita per sempre la introduzion delle donne, acciò non nascano scandali, dissensioni, gelosie e cose simili». 6. «Che l’avanzo del denaro che non si spendesse, vada in una cassa in deposito, per soccorrere qualche povero vergognoso». 7. «Che se qualcheduno della compagnia caderà in qualche disgrazia, senza intacco della sua riputazione, sia assistito dagli altri, e difeso con amore fraterno». 8. «Chi commetterà qualche delitto o qualche azione indegna, sarà scacciato dalla compagnia». 9. (E questo el xe el più grazioso, el più comodo de tutti). «Che sieno bandite le cerimonie, i complimenti, le affettazioni: chi vuol andar, vada, chi vuol restar, resti, e non vi sia altro saluto, altro complimento che questo: amicizia, amicizia». Cossa ghe par? Èla una compagnia adorabile? FLAMM. Sempre più mi consolo di esservi stato ammesso.


SCENA QUINTA BRIGHELLA e detti. BRIGH. Signori, co le comanda, è in tavola. (parte) PANT. Andemo. FLAMM. Favorite. (fa cenno che vada prima) PANT. Vedeu? Queste le xe freddure contra el capitolo ultimo. Chi xe più vicini alla porta va fora prima dei altri. Senza complimenti. Amicizia. (parte) FLAMM. Oh bella cosa! Oh bellissima cosa! (parte) LEL. Andiamo, amici. La rabbia che ho avuto con mia moglie, mi ha fatto venire un appetito terribile. (parte) OTT. Io mangio sempre bene ugualmente, perché rido di tutto, e non m’inquieto mai. (parte) FLOR. Io non posso dire così. Amo Rosaura, e peno rammentandomi d’averla disgustata. Ella lo ha meritato, ma il mio cuor mi rimprovera di averla troppo villanamente trattata. (parte)


SCENA SESTA BEATRICE, ROSAURA, ELEONORA e CORALLINA ELEON. Avete veduto? BEAT. Avete sentito? COR. In fatti, chi mi ha detto del tesoro, non ha fallato. ROS. Come non ha fallato? Il tesoro dov’è? COR. Ecco lì. (accenna la porta dove sono entrati gli uomini) Una buona tavola, allegra e di buon cuore, è il più bel tesoro del mondo. ELEON. Povero mio marito! Si diverte, non fa alcun male. BEAT. Mi pareva impossibile che Ottavio giocasse. ROS. Florindo è un giovane savio e dabbene, ma mi ha rimproverata con troppa crudeltà. COR. Vostro danno, signora, dovevate fidarvi di lui, e non mostrare tanta curiosità. ROS. Me ne ha fatto venir volontà la signora madre. BEAT. Io non l’ho fatto per curiosità, l’ho fatto per impegno. ELEON. Anch’io per un puntiglio. BEAT. E che sia la verità, andiamo a casa, che non vuò veder altro. ELEON. Sì, andiamo, signora Beatrice, che non paia che vogliamo vedere i fatti degli altri. ROS. Oh Dio! Chi sa se Florindo mi vorrà più bene! Vorrei vedere se mangia, o se sta malinconico. BEAT. Via, via, basta così. (s’avvia per partire) COR. Aspettate un momento, vedrò io se il signor Florindo mangia o non mangia. (va a spiare alla porta) ELEON. Eh via, che non istà bene spiare alle porte. BEAT. Andiamo, andiamo. COR. Oh che bella tavola! Oh che bella cosa! BEAT. In quanti sono? (torna indietro) COR. (Guarda) In sei. ELEON. Mangiano? (s’accosta) COR. Diluviano. ROS. Florindo mangia? (fa lo stesso) COR. Discorre. BEAT. Egli fa così. Mangia adagio, e parla sempre. ELEON. E mio marito? COR. Oh se vedeste! ELEON. Che cosa? COR. Che bel pasticcio! ELEON. Come? (corre al buco della chiave) BEAT. Pasticcio di che? (corre anch’essa per vedere) ELEON. Via, signora, ci sono prima io. (guarda dal bucolino) BEAT. Spicciatevi, voglio veder ancor io. (ad Eleonora) ROS. (E poi diranno ch’io son curiosa!) (da sé) ELEON. Oh bello! BEAT. Lasciatemi vedere. (fa andar via Eleonora, e guarda) COR. Questa fessura non la do a nessuno. BEAT. Oh bella cosa! (guardando) ROS. Ed io niente. BEAT. Bevono. ELEON. Chi? Voglio vedere. ROS. Voglio veder ancor io. BEAT. Venite qui. (a Rosaura, dandole luogo) ROS. Florindo beve. ELEON. E Lelio? ROS. Taglia un pollo. ELEON. Voglio vederlo. (tira via Rosaura con forza) COR. Presto, presto, ritiriamoci. (si scosta) ELEON. Perché? COR. Arlecchino viene verso la porta. BEAT. Che cosa fa Arlecchino? COR. Serve in tavola. BEAT. Voglio vederlo… (s’accosta all’uscio)


SCENA SETTIMA ARLECCHINO dalla porta, con un tondo in mano con delle paste sfogliate; e dette. ARL. (Entrando s’incontra in Beatrice, e resta sospeso) BEAT. Zitto. (ad Arlecchino) ARL. Cossa feu qua? ELEON. Zitto. ARL. Se i ve vede, poverette vu. COR. Bada bene, non dir nulla. ARL. Per mi no parlo. Vag a metter via ste bagattelle, e po torno. COR. Che cosa sono? ARL. Quattro sfoiade: i mi incerti. COR. Lascia un po’ vedere. (ne prende una) ARL. Bon! Comodève. COR. Oh com’è buona! BEAT. Lascia sentire. (ne prende un’altra) ARL. Padrona. ELEON. Con licenza. (ne prende anch’essa una) ARL. Senza cerimonie. ROS. Ed io niente? ARL. Se la comanda, la toga questa. ROS. Per sentirla. (prende la pasta sfogliata) ARL. Cussì ho destrigà el piatto presto. Torno a oselar[ref]A uccellare, a buscar qualche cosa.[/ref]. COR. Portami qualche cosa di buono. ARL. Andè via, siora, che se i ve vede… BEAT. Non dir niente. ARL. Non parlo. (entra e chiude la porta) BEAT. Andiamo via, prima d’essere scoperte. ELEON. Sì, sarà meglio. ROS. Andiamo, che il signor Florindo non abbia motivo un’altra volta di rimproverarmi. COR. Un’occhiatina, e vengo. (corre alla porta) BEAT. Via, curiosa! COR. Oh bello! (guardando) BEAT. Che cosa c’è di bello? (torna verso la porta) COR. Il deser. ELEON. Il deser? (verso la porta) ROS. Con i lumi? COR. Bello, di cristallo, coi fiori. Pare un giardino. BEAT. Voglio vedere. ELEON. Voglio vedere. ROS. Ancor io. (tutte s’accostano e sforzano per vedere, onde si spalanca la porta ed escono)


SCENA OTTAVA PANTALONE, OTTAVIO, LELIO, FLORINDO, LEANDRO, FLAMMINIO, alcuni con salviette, alcuni con lumi; e dette. PANT. Coss’è sto negozio? LEL. Eh, giuro a Bacco… (contro Eleonora) OTT. Fermatevi: prudenza, moderazione. (a Lelio) PANT. Come xele qua ste patrone? Chi le ha menade? Chi le ha introdotte?


SCENA ULTIMA BRIGHELLA e detti. BRIGH. Sior padron, son qua mi. Siori, son causa mi; le abbia la bontà de ascoltarme; se merito castigo, le me castiga, se merito premio, le fazza quel che le vol. OTT. V’ho capito. Brighella le ha introdotte per disingannarle, perché non sospettino male di noi: è egli vero? BRIGH. Signor sì, le ho introdotte per questo. Una diseva che qua se zoga, e se rovina le case; l’altra che vien donne cattive, e se maltratta la reputazion; una voleva che se fasse el lapis philosophorum; l’altra, che se cavasse un tesoro. Ste cosse in bocca delle donne le impeniva in poco tempo el paese, e per levarghele dalla testa, el dir no bastava, el criar giera gnente e no remediava. Bisognava sincerarle, bisognava che co i so occhi, colle so orecchie le vedesse, le sentisse, e le se cavasse dal cuor sta maledetta curiosità. Le ha visto, le ha sentìo, no le sospetterà più, no le sarà più curiose. Mi l’ho introdotte, mi l’ho fatto per ben, e spero che da sta mia invenzion ghe ne deriva del ben. PANT. No so cossa dir. Ti t’ha tolto una libertà granda; ti ha disobbedio el mio comando; ti meriteressi che te cazzasse subito via de qua. Ma se xe vero che sincerade ste donne le abbia da lassar in pase i so omeni, e lassar in quiete sto nostro liogo, te perdono, te lodo, e te prometto un regalo. BRIGH. Cosa disele, patrone, èle sincerade? BEAT. Io non aveva bisogno di vedere, per assicurarmi della prudenza di mio marito. OTT. Perché dunque siete venuta? BEAT. Per contentare mia figlia. FLOR. La signora Rosaura non mi crede? ROS. Le male lingue mi facevano dubitare, ma io era certissima della vostra fede. LEL. E voi, signora consorte carissima, l’avete voluto sostenere quel vostro indegnissimo lo saprò. ELEON. Via, marito, non vi è più pericolo ch’io dica lo saprò. LEL. Perché avete saputo. COR. Cari signori, compatiteci: alfin siamo donne. Quel sentir a dire: là dentro non possono andar le donne, è lo stesso che metterci in desiderio d’andarvi. E per me, se dicessero: in fondo d’un pozzo vi è una cosa che non si ha da sapere che cosa sia, mi farei calar giù sin alla gola, per cavarmi una tale curiosità. PANT. La curiosità ve l’avè cavada. Seu contente? ELEON. Per me son contentissima. Caro marito, non vi tormenterò più. LEL. Se avrete giudizio, sarà meglio per voi. BEAT. Siete in collera, signor Ottavio? OTT. Niente, consorte mia, niente. Conosco il sesso, lo compatisco. Niente. ROS. E voi, signor Florindo? FLOR. Scordatevi de’ miei trasporti, ch’io mi scorderò di ogni vostro vano sospetto. OTT. Le mie chiavi come diavolo le avete avute? COR. Niente, signore, con una chicchera di caffè. OTT. Ah galeotta! Ora me ne ricordo. E voi che volevate ch’io mi levassi il vestito? (a Beatrice) BEAT. Compatitemi. PANT. Via, a monte tutto. Sarale più curiose? BEAT. Non v’è pericolo. ELEON. Io no, sicuro. ROS. Né men io certamente. COR. Oh, mai più curiosità, mai più. PANT. Donca le se quieta, le se consola, e le vaga tutte a bon viazo. Qua no volemo donne. Le ha sentìo el perché. Le ne fazza sta grazia, le vaga via. BEAT. Andiamo? ELEON. Che dite, signora Rosaura? ROS. Bisognerà andare. PANT. Mo via, cossa fale che no le va? COR. Io vi dirò, signore, muoiono di volontà di veder quel bel deser. ELEON. Sì, e tutte quelle belle camere. BEAT. Via, giacché ci siamo. ROS. Questa volta, e non più. PANT. Da resto po no le sarà più curiose. Andemo, sodisfemole, femoghe véder tutto. E po? no le sarà più curiose. Questo xe un mal, che dalla testa no gh’el podemo levar. Basta ben che de nu le sia sincerade, che el nostro modo de viver el sia giustificà, e che le ne lassa gòder in pase tra de nu, senza pettegolezzi, la nostra onoratissima conversazion. Amicizia. TUTTI Amicizia, amicizia. Fine della Commedia

Le Ragioni della Politica

Le Ragioni della Politica

di Mario Reale

Scarica gratuitamente il documento in formato PDF

Prefazione alla presente edizione

 Questo libro, uscito nel 1983, era ormai da tanti anni fuori commercio. Colleghi che l’hanno adottato, e l’adottano, per corsi universitari, studenti e studiosi, sono stati costretti al duro lavoro delle fotocopie. Sono perciò lieto che il libro venga ristampato come e-book gratuito. Sarebbe difficile aggiornare un libro come questo. Da un lato, le note sono già fin troppo fitte, per seguire la valanga degli studi su Rousseau, che si fa, di mese in mese, più impetuosa; dall’altro, il libro, la cui sostanziale natura è quella di commento al Discorso sull’ineguaglianza e al Contratto sociale, è anche relativamente immune dalle novità. La ragione principale è, però, che ritengo ancora valido l’impianto del libro. In questi anni, sono tornato qualche volta su Rousseau, riguardo ad argomenti particolari, e solo in un’occasione m’è capitato di riprendere i temi centrali del libro, scrivendo alcune voci, a cominciare da “Politique“, per il Dictionnaire de Jean-Jacques Rousseau (sotto la direzione di R. Trousson e F.S. Eigeldinger, Champion, Paris 1996). Anche qui, tuttavia, la sostanza del libro è rimasta, e spunti nuovi dovrebbero esser svolti in altra sede.
Ringrazio l’amico Antonio Cecere, che ha studiato e si è laureato con me su Rousseau, e ha continuato a coltivarlo con intelligenza e passione: sua è stata l’idea di questa ristampa, e sua la fatica di approntarla.

Roma, gennaio 2013


Prefazione alla edizione del 1981

 Con evidente allusione all’illuministica ‘politica della ragione’ il titolo di questo libro vuole richiamare l’impegno e la radicalità della riflessione politica di Rousseau: quasi che la politica prima di essere ricavata dalla raison dovesse mostrare i suoi titoli di legittimità e di pensabilità – le sue ragioni. Il lavoro si presenta così incentrato sulla riflessione filosofico-politica di Rousseau, su quei presupposti antropologici che nell’opera del ginevrino appaiono indisgiungibili dai «risultati» politici, anche quando quest’ultimi assumano veste specifica e tecnica. La durezza del problema politico russoiano (diremo sempre così italianizzando al tutto il nome) e l’impegno messo a risolverlo lasciano già intravedere un carattere – e si capisce un risultato critico – che è bene subito anticipare e che si potrebbe dire dell’«antiutopismo», Rousseau che non vuol vedere relegato il suo Contratto «dans le pays des chimeres», ci è parso che meritasse di essere preso in parola (proprio allo stesso modo per cui a nessuno verrebbe in mente di porre Hobbes con «l’Utopie e les Sévarambes», sebbene siano prevalenti oggi le letture che si muovono proprio in direzione opposta a questa. L’ambito di ricerca del libro è circoscritto dal sottotitolo, o a dir meglio dalla specificazione del titolo. Discorso sull’ineguaglianza e Contratto sociale non devono tuttavia esser presi in modo statico, come il termine a quo e quello ad quem di un’indagine. Ciò che si è voluto studiare è proprio la connessione intrinseca tra queste due opere: la frattura (e la continuità) che le segna e perciò lo sviluppo di pensiero in cui si iscrivono. E poiché in queste due opere, che costituiscono i maggiori scritti filosofico-politici del ginevrino, ci è parso che si riassumesse per intero il significato forte della riflessione politica di Rousseau, la stessa delimitazione finisce per essere soprattutto materiale, avendo il libro in realtà per oggetto – da una prospettiva critica di cui si darà conto – la politica di Rousseau. L’esclusione da un’analisi diretta (a volte parziale a volte più radicale) di altre opere, politiche o anche politiche, di Rousseau – dall’Essai sur l’origine des langues a Economia politica per citare gli scritti più prossimi a questa ricerca – è frutto, com’è ovvio, di una previa inclusione. Preoccupazione di non appesantire ulteriormente la mole già considerevole del libro e soprattutto consapevolezza che un esame diretto di tali scritti avrebbe bensì complicato e arricchito non mutato la sostanza delle questioni indagate, hanno consigliato di lasciarne cadere l’analisi o di affidarla ad altra sede. Un’eccezione si è fatta per il Discorso sulle scienze e sulle arti, in quanto cominciamento e della carriera letteraria di Rousseau e della sua riflessione sulla politica; cenni al quadro concettuale in cui s’iscrivono scritti come quelli sulla Corsica o sulla Polonia si trovano nell’ultimo capitolo del libro.

Diverso è il caso delle grandi opere dove la politica entra di scorcio (l’Emile, la Nouvelle Hèloïse, le stesse Confessioni) o non entra quasi affatto (i dialoghi di Rousseau juge de Jean Jaques o Les Rêveries). Qui l’esclusione è stata in qualche modo preventiva: si è costituita cioè all’origine della ricerca e si è persino consolidata nel corso del suo svolgimento. L’alternativa meno radicale poteva essere rappresentata da un ricorso più largo a citazioni di altri scritti, utilizzate nella simultaneità. Ma una sorta di ostinata fedeltà al taglio analitico del lavoro e una preoccupazione di storicizzazione hanno fatto sì che ciò non avvenisse, o avvenisse con estrema parsimonia. È evidente del resto che la parzialità, quando sia consapevole, si costituisce sempre su una presunzione di totalità. Anche in questo caso un problema almeno – tra tanti che si son dovuti solo escludere – è stato tenuto presente e riceve ci pare dall’analisi complessivamente svolta qualche luce: quello del perché  si assiste nel Rousseau della maturità (e già in sostanza coevo al Contratto, a cominciare dall’Emile) e nell’ultimo Rousseau a una sorta di rarefazione del tema della politica, a una ricerca che affronta per altre vie e su altri toni quegli stessi problemi che si era cercato di stringere nel fuoco unitario della politica. Un discorso in parte analogo a questo dovrebbe farsi per la più larga storia civile e culturale in cui l’opera di Rousseau si iscrive, per la complessa personalità di Rousseau, per i rapporti con Ginevra, e così via. Qualcosa in questa direzione si è fatto, moltissimo è rimasto fuori, nulla di esplicito si è tentato di dire intorno alla personalità del ginevrino: il libro, per dirla in una battuta, è su Rousseau, non su Jean-Jacques. Che questa separazione sia più riduttiva in Rousseau di quanto non sia in altri autori, non c’è bisogno di dirlo. Il problema si è presentato qui nella forma della difficoltà a storicizzare una complessiva esperienza intellettuale (se non anche esistenziale), prima che i pensieri che a questa esperienza danno alla fine significato – secondo un nostro radicato e «tradizionale» convincimento – ci fossero sufficientemente chiari e da parte loro apparissero già «storicizzati».

E avendo finora detto, a illustrazione del titolo e dell’ambito di ricerca, soprattutto ciò che in questo libro non è da cercare, veniamo adesso, com’è costume, a ciò che vi si trova. Troppe cose sarebbero qui da dire, né è il caso di cavarsela con il consueto e ormai un po’ retorico rinvio alla prefazione hegeliana della Fenomenologia, che ha oltretutto l’estensione e la rilevanza che tutti conoscono. Tenendosi all’essenziale o alla «tesi» che in questo libro viene svolta (e anche frequentemente riesposta e verificata, come si vedrà) si può dire che essa nasce dalla consapevolezza di una diversità di impianto concettuale – e a rigore di un’opposizione – tra il Discorso sull’ineguaglianza e il Contratto. Leggibile nelle premesse – che nel primo caso riguardano l’antropologia dell’essere «entier absolu», nel secondo l’uomo «relativo» e parte di un tutto – una simile diversità è costatabile parimenti nei «risultati», i quali configurano la politica nel Discorso come alienazione e nel «Contratto» come luogo eminente di realizzazione dell’uomo. La tesi di una non congruenza tra le due opere era stata qualche volta avanzata – molto male in genere e in un contesto interpretativo non sostenibile – dalla vecchia letteratura russoiana della fine del secolo scorso e dei primi decenni del nostro; è stata nel complesso sacrificata dalla nuova, e tanto più attendibile critica, alle ragioni non di rado immediate (e certo, immediatamente russoiane) del «système». Si è cercato qui di argomentarla senza nulla concedere ci pare alla vecchia storiografia delle «contraddizioni» e anzi proprio al fine di rinvenire, passando per la frattura, una configurazione unitaria più radicale del problema politico perseguito da Rousseau.

Muovendo da una simile impostazione, non si poteva non dedicare grande spazio al punto di costituzione della specifica tessitura del Discorso sull’ineguaglianza, e cioè allo stato di natura, alla sua formazione concettuale, al suo metodo e soprattutto alla sua caratteristica, definita e intrascendibile struttura. Ma era al tempo stesso necessario soffermarsi con grande cura su quella misteriosa uscita dal puro stato di natura che fonda la storia irreparabile di corruzione; e quindi su quelle figure o quei momenti della storia che sembrano contrastare la radicalità di un simile esito e perciò la politica come «alienazione». All’analisi e alla valutazione di questi temi è dedicata la prima parte del libro. Proprio quando tuttavia l’analisi sembrava confermare, con immagine russoiana, la chiusura del circolo e il ritorno al «punto di partenza», più viva si faceva l’esigenza di fare qualche luce sul rapporto tra questa struttura senza appigli e la diversa configurazione del Contratto. A questo proposito si è fatto un posto considerevole al capitolo sulla «società generale del genere umano» della prima redazione del Contratto, letto come il documento più significativo del passaggio (critico e autocritico), dall’una all’altra opera. La prima redazione del Contratto del resto, nota come il Manoscritto di Ginevra, è stata sempre tenuta presente nella ricerca e considerata parte integrante del «petit traité» pubblicato nel 1762.

Del Contratto – la cui analisi occupa la seconda parte del libro, in una forma che ancor più è vicina al «commento» – si prende in esame anzitutto la diversa configurazione della politica rispetto al Discorso; e, venendo allo svolgimento dell’opera, si cerca di fermare la non univoca concezione di natura che comanda il contratto, e perciò il duplice atteggiarsi della formula contrattuale. Hobbes e Locke ci sono sembrati su questo terreno decisivi, e nel tentativo di una loro utilizzazione simultanea si è indicata la novità dell’«unione reale» o della democrazia perseguita da Rousseau, come quella che fosse espressione a un tempo del massimo di unità o di coesione sociale e di realizzazione dei diritti della persona. Ma proprio nel vivo di questa ardua ricerca e dentro le sue difficoltà ci è parso che si facesse strada, con il capitolo sull’ètat civil e con la delineazione della sovranità o volontà generale, una concezione diversa dell’uomo e della politica che, abbandonando il presupposto della natura (come che fosse configurato) e perciò la stessa tematica contrattuale, piuttosto si affidava al ricominciamento unitario della libera volontà che pone la legge. La difficoltà tuttavia di articolare da questo punto alto l’intera realtà sociale, gli ostacoli che la legge incontra nel suo cammino e alla fine la permanenza della natura entro l’état civil, hanno obbligato a un non semplice sforzo di analisi per cercare di porre nei termini costitutivi e originari il rapporto post-contrattuale di sovranità-legge e natura. Nel capitolo, lungo e anche un po’ faticoso, dedicato al tema di volontà generale e volontà particolare, questo rapporto (e perciò in definitiva la risposta di Rousseau al problema politico) viene risolto, ma si dovrebbe dire dissolto, in una Radicale e strutturale opposizione tra le due volontà, che è rivelativa del carattere proprio della volonté générale e dove si può leggere, con la presenza ingombrante di Hobbes, un punto di connessione con il Discorso sull’ineguaglianza. Dal tema di volontà generale e volontà particolare, dobbiamo confessarlo, ci aspettavamo di più all’inizio della ricerca e perciò le conclusioni cui si perviene sono anche un po’ sofferte. Nei capitoli finali vi è la conferma di questa scissione: sia sul piano strutturale, attraverso il governo che ne ripete i termini al suo interno, sia attraverso la figura del legislatore che, esprimendone la consapevolezza, ripropone dal nuovo l’intera questione e apre di fatto la via a una soluzione politica diversa da quella esplorata con lo Stato legittimo.

Il problema che ha mosso questa ricerca e vi ha agito, sebbene rimanendo configurato più spesso sullo sfondo, è quello del posto che a Rousseau spetta nella storia del pensiero politico e nella più larga storia civile e culturale dell’età moderna. La vecchia disputa su Rousseau assolutista-collettivista o liberale-individualista, ripresa, complicata di molti temi e giunta alle soglie del dibattito politico in anni vicini-remoti da noi ci pare che sia stata lasciata cadere in parte per l’intrinseca debolezza con cui molte questioni venivano affrontate, in parte, e forse soprattutto, per quei mutamenti che nel tempo si producono. Anche per l’insieme di questi motivi – e in un momento in cui la letteratura russoiana sembra complessivamente piuttosto imboccare vie diverse dalla centralità del problema politico – ci è parso utile un ripensamento che mentre da un lato cercasse, con aderenza ai testi, di tenere insieme la difficile implicazione russoiana dei temi «assolutistici» e «liberali», nel tentativo di dar risposta alla forma economica di affermazione borghese (lasciando senz’altro cadere quindi quelle suggestioni socialistiche, presocialistiche o post-socialistiche che ci sono risultate di scarso rilievo per un pensatore che appare alla fine piuttosto saldamente attestato entro un orizzonte borghese), dall’altro non fosse insensibile ai mutamenti e alla «lezione» del tempo. La domanda ha così riguardato il contributo di Rousseau alla democrazia moderna, e poiché l’espressione rischia di dire troppo e insieme quasi nulla, convien dire alla democrazia che sperimentiamo giorno per giorno nella sua forza e nella sua debolezza, nella sua difficoltà a mantenersi se non si ripensa e non si sviluppa, o se non trova forme più convincenti di connessione tra le «volontà particolari» e la «volontà generale»: Per questo si è appena accennato a quei contributi, anche russoiani, che sono stati per così dire incorporati nella democrazia moderna in un senso più largo – e diciamo per tutti, la radicale estensione e la difesa della sovranità popolare o la distinzione di sovranità e governo – sui quali tanti interpreti si sono giustamente soffermati, volgendoci invece a quel più interno tema del rapporto tra le due volontà che è sembrato da un lato essenziale per la tenuta della costruzione russoiana, dall’altro meglio disposto a incontrarsi con le domande del presente. Una certa delusione – se n’è fatto un breve cenno – proprio su questo punto, al termine della ricerca, significa che il problema (oltre che, si capisce, enormemente più complesso e nuovo di quanto non si presentasse a Rousseau, per l’avvento sulla scena politica di grandi masse e delle loro forme di organizzazione) è anche nella sua costituzione più difficile di come ci si configurasse alla prima considerazione. E il tempo sembra offrire un riscontro di ciò, proprio mentre d’altra parte ci pare più urgente una chiarificazione e un avanzamento su questo terreno. Il compito in effetti (mantenendo come ci pare giusto l’intuizione russoiana di una democrazia come luogo della coesione e dei diritti) di superare l’irrigidimento corporativo di ciò che Rousseau chiamava le «sociétés particulières», di utilizzare  gli strumenti esistenti e di approntarne di nuovi per far meglio coincidere la democrazia con la sua base reale appare tanto urgente quanto delicato, bisognoso di tenacia e a un tempo, per le cose stesse, di rapida maturazione. Ma soprattutto quelle forze che fondano la novità dell’attuale democrazia dispongono crediamo di riserve per impegnarsi in questo compito; né è detto, d’altra parte, che i «fallimenti», se così vogliamo chiamarli, abbiano meno cose da dire delle conferme.

Qualche parola si deve ora spendere intorno al metodo di questo lavoro, che consiste alla fine nel vecchio metodo della lettura, spesso riga per riga; e, si capisce, di testi che, molto più che editi, sono presenti alla memoria culturale di ognuno. Il taglio analitico, l’opera a volte puntigliosa di «esplication du teste», sono risultati alla fine predominanti più di quanto avremmo voluto e forse anche più di quanto sia lecito alla buona storiografia che sa far dimenticare le cucine, tenendosi alle portate. Questo è dipeso certamente dalla personale disposizione e dalla debolezza dell’interprete. Ma anche la difficoltà di un autore all’apparenza così facile come Rousseau vi ha avuto la sua parte. La «trasparenza» di Rousseau, per dirla con Starobinski, ci si è venuta rivelando piena di «obstacles». Che queste difficoltà appartengano poi tutte al testo o siano anche dell’interprete che ve le ha proiettate, è questione, com’è ovvio, da rimettere interamente ai lettori. Sta di fatto che, eccetto nelle linee proprio generali (e anche queste spesso sottoposte a verifica), il lavoro si è venuto come costituendo nel vivo dell’analisi, seguendo le oscillazioni e a volte le sfumature del testo, al punto da richiederlo qualche volta sottomano per una migliore intelligenza del «commento». I raccordi «strutturali» che di tanto in tanto fanno capo nell’analisi sono stati volutamente mantenuti, nonostante comportino di necesità delle ripetizioni, perché costituiscono un modo, intrinseco al lavoro, di rifare i conti o di interrogarsi di nuovo sulla connessione della parte al tutto e sulla configurazione della totalità. L’utilità di questi lavori – lo si dice ovviamente senza alcun riguardo al merito – dipende da un lato dalla convinzione che il testo abbia ancora qualcosa da dire e non sia stato «esaurito» nelle sue possibilità, dall’altro dal fatto che l’interprete riesca a percorrere vie non battute né già acquisite. L’impegno analitico è comunque d’obbligo. Dire alla fine dell’analisi che tutte le questioni del testo ci risultano chiare, sarebbe temerario né corrispondente al vero; tutte però sono state discusse, cercando di rinvenirne sia la consistenza specifica, sia la connessione volta a volta con la struttura dell’opera e con il criterio più generale d’indagine.

Si tratta com’è noto di passi su cui pesano più di due secoli di interpretazioni illustri e no, in tutti i casi numerosissime. Anche il rapporto con la «bibliografia» è risultato alla fine meno ricco di quanto si sarebbe voluto e potuto. Man mano che la ricerca si assestava nella sua configurazione specifica, il rapporto con la letteratura critica si è venuto un po’ rarefacendo o è stato piuttosto affidato all’esemplificazione, per timore di appesantire di troppe valutazioni e discussioni le note e per una certa riluttanza ad assommare semplici titoli. È capitato così che anche autori e testi che hanno avuto un peso nella genesi remota o prossima di questo lavoro non siano stati citati. Si è cercato comunque di tener presente sullo sfondo delle analisi e delle questioni più controverse le interpretazioni «classiche», specie del secondo dopoguerra, e di ciò dovrà essere giudice l’orecchio del lettore avvertito; mentre maggiore spazio si è fatto, dato il carattere del lavoro, ai commenti: soprattutto a quello di Starobinski per il Discorso, a quelli di Halbwachs e di Derathé per il Contratto. Con Derathé ci è capitato di dissentire forse un po’ troppo spesso; per questo ci piace qui ricordare il debito che la nostra ricerca mantiene verso questo valente studioso. Anche il commento di Halbwachs, uno studioso vittima della barbarie nazista, ci è stato in alcuni punti molto utile. Le fini analisi di Starobinski hanno avuto un peso, come si capisce, nell’interpretazione dello stato di natura. Come un commento e di alto livello è da considerare il libro di V. Goldscmidt, al quale avremmo voluto fare ancora maggior posto. Una vecchia «infatuazione» per l’intelligenza di Vaughan non ha retto benissimo alla prova. Abbiamo detto fin qui delle interpretazioni che conosciamo; moltissime com’è naturale ci sono ignote. La letteratura russoiana è stata qualche anno fa paragonata a un «raz de marée», ma dopo il recente centenario bisognerebbe evocare cataclismi naturali ancor più minacciosi. Solo a dar conto critico delle pubblicazioni uscite in occasione del bicentenario, appena ricordato, dalla morte di Voltaire e di Rousseau (un confronto che è stato diremmo fin troppo svantaggioso per Voltaire) bisognerebbe scrivere un volume di dimensioni non trascurabili. Di questa letteratura abbiamo cercato, come ci è stato possibile, di sentire il polso e di individuare almeno le direzioni prevalenti di indagine. Per questi stessi motivi si è rinunciato all’arduo compito di cimentarsi con una bibliografia finale.

Il lettore consentirà ora, al termine di un lavoro che ci ha occupati per molti anni, qualche parola di personale ringraziamento. E uno particolare questo libro deve a Gennaro Sasso che l’ha seguito passo passo nella sua faticosa genesi, incoraggiandolo e in più modi sollecitandolo. Della capacità metodica di Sasso di sottoporre a domande un testo ripensandone i pensieri, che a me pare «estraordinaria» e perciò non certo facile da «aggiungere» (avendola sperimentata, oltre che negli scritti, durante molti anni di amicizia e di collaborazione al suo insegnamento) mi auguro che questo libro mantenga qualche traccia e, per dirlo ancora nella lingua di Machiavelli, «ne renda qualche odore». Con Sasso e con gli amici Marcella D’Abbiero e Francesco Trincia partecipai molti anni fa a un corso di Storia della filosofia dedicato al Discorso sull’ineguaglianza che costituì un’occasione prossima per intensificare i miei interessi russoiani. Dei molti debiti che questo libro ha accumulato negli anni verso mia moglie Paola vorrei almeno ricordare le discussioni sulle questioni riguardanti Hobbes e Locke. Un aiuto prezioso per l’allestimento in volume del lavoro m’è venuto da Mariella Guercio. Nelle sale, splendide e oltremodo ospitali, dell’Ecole Française di Roma questo lavoro è stato in gran parte elaborato e scritto; delle molte cortesie ricevute ringrazio la direttrice e gli amici bibliotecari. Un ricordo mi pare doveroso alla memoria di Augusto Guerra, con il quale già da studente e da laureando discussi di problemi che sono intrecciati a questa ricerca e che sempre era interessato alle cose che altri facevano.

Collettivamente e come direbbe Rousseau «en corps» – sia perché sono molti, sia perché lavorano entro un orizzonte politico unitario – vorrei ricordare i redattori e i collaboratori dei «Quaderni della Rivista Trimestrale», ma tra questi ultimi un’eccezione mi par giusta per Franco Rodano, cui mi uniscono oltre tutto particolari legami d’affetto e di stima. Essi sono stati per me di valido aiuto in questi anni, e hanno rappresentato un costante punto di riferimento e di stimolo, anche quando la ricerca si è mossa su sentieri più rarefatti e specialistici rispetto a quei vivi problemi della democrazia, nel suo rapporto col capitalismo e il socialismo, che sono indagati, da diverse prospettive, nella rivista.

Sui «Quaderni» ho pubblicato, tra il 1974 e il 1979, numerosi articoli di argomento russoiano, molti dei quali sono entrati a far parte di questo libro. La sistemazione in volume ha comportato da un lato l’esclusione di contributi che apparivano troppo generali o troppo particolari rispetto al tema; dall’altro l’aggiunta di capitoli (del tutto inediti sono il terzo, l’ottavo e il nono) o di sezioni e di parti che servissero a completare l’analisi. Interamente rivisti nella forma, i capitoli già comparsi come articoli hanno subito anche modificazioni, spostamenti e soppressioni, sono stati arricchiti di aggiunte, soprattutto nelle note. Dei contributi russoiani non inclusi in questo volume si dà conto nelle note.

Roma, gennaio 1981            

Rituali della compagnia dei galantomeni

(i calici piccoli dei convenuti sono preventivamente riempiti di vino in vista del brindisi finale)

Pantalone (il Sommo Simposiarca) – Affinché sia strumento di felicità e fortuna… Brighella (il Segretario) – Istituiamo una società socratica Pantalone (il Sommo Simposiarca) – Fiorisca la filosofia Balanzone (l’Oratore) – Con le arti liberali Pantalone (il Sommo Simposiarca) – Tacete. Questa riunione, e tutto ciò che in essa sarà pensato, detto e fatto, sia consacrata alla Verità, alla Libertà, alla Ragione, secondo il triplice voto dei saggi. Brighella (il Segretario) – Ora e sempre Pantalone (il Sommo Simposiarca) – Chiamiamoci uguali e fratelli Balanzone (l’Oratore) – Come pure compagni ed amici Pantalone – Siano lontani la contesa, l’odio, l’ostinazione Brighella – Siano presenti la mitezza, la sapienza, l’amicizia Pantalone – Siano graditi gli scherzi e il riso Balanzone – Siano propizie le muse e le Grazie Pantalone – Non bisogna giurare sulla parola di nessuno Balanzone – Neppure su quella di Socrate Pantalone – Ma per procedere secondo le regole ascoltate, carissimi Galantomeni, le parole di Catone. Siamo soggetti alla verità e alla libertà, così da essere liberati dalla tirannide e dalla superstizione. «Prima di tutto», dice Catone, «ho avuto sempre dei compagni di sodalizio. Partecipavo ai conviti insieme ai sodali con grande moderazione. Non apprezzavo tanto la gioia di tali conviti per i piaceri del corpo, ma per la compagnia degli amici e la conversazione. I nostri antenati hanno giustamente chiamato “convivio” lo stare a tavola insieme agli amici, in quanto comporta una comunanza di vita; meglio dei Greci, che lo chiamano “bevuta in Comune”, o “cena in Comune”, poiché sembra che apprezzino di più quello che è meno importante per questo genere di riunioni». Brighella – Siano lodati Socrate e Platone, Marco Catone e Marco Cicerone Pantalone – Qualunque sia il tema delle nostre discussioni serie, facciamo frequenti pause per conversare Balanzone – In modo elegante, modesto, spiritoso Pantalone – «In verità», prosegue Catone, «mi piacciono l’organizzazione dei banchetti istituiti dagli antenati; e quei discorsi che, secondo l’uso degli antichi, si fanno tra i bicchieri a cominciare da colui che presiede; e i bicchieri piccoli e da centellinare goccia a goccia, come nel Simposio di Senofonte, e la frescura d’estate, il calore o il fuoco d’inverno. Queste cose le cerco di solito anche in Sabina e tutti i giorni riempio di vicini il convito, prolungandolo quanto più possibile fino a tarda notte, con varia conversazione. Brighella – È degno di lode Senofonte, e vanno imitati i rustici Sabini. Pantalone – Saziamo dunque soprattutto la mente, e con moderazione il corpo Balanzone – Tutti in piedi e con il calice in mano Pantalone – Brindo in onore della Compagnia de Galantomeni Brighella – Beviamo nei calici piccoli

CHIUSURA DI AGAPE

DELLA COMPAGNIA DE GALANTOMENI

Dal Formulario per la celebrazione della società socratica,

contenente le usanze e i principi della società

(Londra, 1720)

(i calici grandi dei convenuti sono preventivamente riempiti di vino in vista del brindisi finale)

Pantalone (il Sommo Simposiarca) – Bisogna sempre augurarsi di avere una mente sana in un corpo sano; e come non si deve rinunciare alla vita con leggerezza, così non si deve mai temere la morte Brighella – Nulla va desiderato di più: e bisogna adoperarsi affinché accada sempre Pantalone – Per i sapienti la gioia è preferibile al guadagno Balanzone – La letizia è propria dell’uomo libero; la tristezza è segno di schiavitù Pantalone – È meglio non comandare nessuno che servire qualcuno Brighella – Senza un servo infatti non si può vivere onestamente, ma in nessun modo si può vivere con un padrone Pantalone – È necessario tuttavia obbedire alle leggi, poiché senza di queste non esiste né proprietà né sicurezza Balanzone – Siamo dunque sottomessi alle leggi per poter essere liberi Pantalone – La libertà è infatti tanto lontana dalla licenza… Brighella – Quanto la schiavitù dalla libertà Pantalone – Ascoltate dunque, Galantomeni nobilissimi, ricevete nell’animo e confermate sempre con le azioni la norma più sicura per vivere bene, morire contenti e comportarsi sempre in modo retto; ossia la regola infallibile e la legge inviolabile, che ora vi sarà comunicata negli stessi termini con cui un tempo è stata esposta in modo inimitabile da Marco Tullio Balanzone – Ascolteremo con attenzione, elevando i nostri cuori Pantalone – La retta ragione è una vera legge, conforme alla natura, diffusa in tutti, costante ed eterna; essa vincola gli uomini ai doveri con i suoi comandi e li allontana dal male con i suoi divieti; non comanda né ammonisce invano i virtuosi, sebbene i malvagi non siano toccati dalle sue minacce o imposizioni. Di questa legge nulla può essere mutato, né alcuna parte può essere abrogata, né può essere abolita nella sua totalità: non possiamo essere esentati dalla sua osservanza dall’autorità del senato o del popolo. Non bisogna cercare altro commentatore o interprete; non ve n’è una Roma, una ad Atene, una in quest’epoca e un’altra in seguito; ma la stessa legge, eterna ed immortale, è destinata a governare tutti i popoli e in tutti i tempi. Brighella – Vogliamo essere diretti e governati da questa legge: e non dalle menzogne di uomini superstizioni Pantalone – Le leggi inventate non sono chiare, né universali; non sono sempre le stesse, né sempre efficaci. La superstizione, diffusa tra i popoli, oppresse gli animi di quasi tutti, dice giustamente Tullio, e prese il sopravvento sulla debolezza umana. Ci sembrò utile per noi stessi estirparla dalle radici. Ma in verità eliminando la superstizione non si abolisce la religione: infatti da un lato è proprio del sapiente custodire le istituzioni degli antenati e mantenere le cerimonie sacre; dall’altro la bellezza del mondo e l’ordine delle cose celesti inducono ad ammettere l’esistenza di una qualche natura eterna suprema e la necessità che sia contemplata e venerata dal genere umano. Perciò come va propagata la religione che è unita alla conoscenza della natura, così tutte le radici della superstizione vanno divelte Balanzone – Il superstizioso non veglia e non dorme tranquillo; non vive felice né muore sereno; sia da vivo che da morto si fa vittima dei preti Pantalone – Di quanto tempo è concesso a ciascuno di vivere nella natura… Brighella – … di tanto deve essere contento Pantalone – Chi ha paura di ciò che non può evitare, non può mai vivere con animo tranquillo Balanzone – Ma chi non teme la morte, in quanto necessaria, si procura la garanzia di una vita felice Pantalone – Come la vita ci ha portato l’inizio di tutte le cose, così la morte ci porterà la fine Brighella – Come nessuna di queste ci riguardava prima della nascita, così nulla ci riguarderà dopo la morte Pantalone – Ed è sciocco chi piange perché non può vivere mille anni Balanzone – Come colui che piangesse per non essere vissuto mille anni prima Pantalone – Solo alla fama e alla consuetudine vanno attribuite le cerimonie funebri e le esequie Brighella – Perciò tali usanze vanno disprezzate fra noi, ma non trascurate per i nostri cari Pantalone – Brindiamo Balanzone – Così sia Brighella – Tutti in piedi e con i calici grandi in mano Pantalone – Brindo in onore della Compagnia de Galantomeni

Logoanalisi e Biblioterapia

1. La Filosofia o è pratica oppure non è

La filosofia nasce pratica. Chiariamoci subito su questo. È vero tutto quello che vi pare, è vero che Gerd Achenbach ha avuto per primo l’idea di aprire uno studio di Consulenza filosofica, è vero che Lou Marinoff sull’idea che Platone sia meglio del Prozac ha venduto milioni di copie, è vero che Ran Lahav per citare il più conosciuto, si sta dando da fare da tempo per cercare strade originali all’interno del counseling. Ed è vero, come spesso provocatoriamente sottolineo, che la Consulenza filosofica nasce in realtà in Italia. Non con Umberto Galimberti, ma con Edoardo De Filippo che ne L’Oro di Napoli interpreta negli anni cinquanta un consulente filosofico ante litteram, don Ersilio Miccio, da cui si reca tutto il quartiere per consigli di ogni genere.

Dobbiamo subito sottolineare però che la Filosofia non è astratta e teorica. Non lo è mai stata e continua a non esserlo. Aristotele nella Metafisica ci dice che la filosofia nasce dallo ‘zauma’, termine spesso tradotto in senso debole con ‘meraviglia’, ma che Emanuele Severino invita a tradurre piuttosto con ‘paura’. La Filosofia da subito è chiamata a dare risposte, universali e di ragione, a una esigenza naturale dell’uomo, che è quella del senso. Tutto quell’ambito disciplinare che oggi chiamiamo Filosofia teoretica, ma anche l’Ontologia, la Filosofia della Religione non è altro che questo: come la saggezza dell’umanità ha risposto a quei problemi, da Platone a Heidegger. Non solo. La Filosofia politica è una filosofia pratica, il suo scopo è quello di fornire modelli di interpretazione, di critica del reale. Nelle sue forme più forti e complesse come è noto questo reale non lo si doveva solo pensare o capire, ma addirittura trasformare. Ancora, la filosofia morale. Anche qui la Filosofia è ben lontana dall’essere una disciplina difficile e algida, avvolta nelle torri d’avorio del sapere. Ultimo esempio: la Logica. Ora, la Logica ha probabilmente fallito il suo compito più titanico, quello di descrivere la realtà, il modo di pensarla, come i dati si organizzano nella nostra memoria, come vengono trattati dalla nostra coscienza. Ma il suo contributo, da Aristotele, alla Logica Formale, a Godel, è tutt’altro che estrinseco dalla quotidianità, perché si è evoluta nei linguaggi di programmazione. Oggi le App dei nostri iPhone e iPad vengono programmate in C++; ma la parentela è ancora più stretta nei linguaggi di programmazione per così dire più didattici, come il Basic o il Pascal. C’è addirittura un linguaggio di programmazione che si chiama ProLog (dal francese ‘Programmation en Logique’), che tenta di formulare il problema (e quindi la sua soluzione) in forma logica, e non sotto la forma tradizionale di un algoritmo. La piantiamo qui, anche se potremmo continuare con la Filosofia della Scienza, l’epistemologia, e così quasi all’infinito.

La Filosofia non è quella disciplina “con la quale o senza la quale tutto rimane tale e quale”. In 2500 anni di storia è riuscita a dare contributi concreti. Quali sono i suoi limiti oggi? Probabilmente la specializzazione, la Filosofia tramonta nel momento in cui perde di vista il tutto. “Con il Dio che muore, scomparendo dall’orizzonte ultimo della pensabilità, la verità s’inabissa nell’immanenza e si frantuma nel puro scenario della temporalità e dalla finitezza, privando così la filosofia del suo compito originario: la ricerca del fondamento primigenio e del senso ultimo di tutte le cose” (Giannatiempo Quinzio A., 1999, p. I). Questo impoverimento del pensare può però predisporre l’uomo all’attesa e alla ricerca. Magra consolazione.

C’è un’altra questione invece, che è la Torre d’Avorio. L’Università, l’Accademia. Che ha il grande merito di non aver mai banalizzato la Filosofia, di averla preservata da “contaminazioni”. E l’altrettanto grande merito di averci formati. Ma spesso si è pensato, e lo si pensa ancora, che la Filosofia la si possa fare solo lì, o nei Licei. Il Filosofo è come un contabile, e lo diceva già Hegel, che mette ordine al pensiero altrui. È un ragioniere dello Spirito. Le Pratiche filosofiche vanno contro questa idea. Il Filosofo si confronta con la società, e non con l’Accademia. La Consulenza filosofica va a portare ai suoi clienti, agli “ospiti” per dirla con Achenbach, 2500 anni di sapienzialità, con i suoi temi, i suoi sgambetti, le sue discese vertiginose verso l’abisso e la follia, le sue risalite verso quelle vette che gli altri non riusciranno nemmeno a seguire con lo sguardo.

2. La Filosofia può curare?

Fatte queste (doverose) premesse possiamo rispondere alla domanda: la filosofia può curare? La filosofia non interviene in ambiti patologici, per cui se per cura si intende: diagnosi e terapia, la risposta è sicuramente no. Ma la filosofia può intervenire con la sua autorevolezza per percorsi di chiarificazione e sostegno nel disagio diffuso e quotidiano, cioè nei tanti problemi che un uomo può incontrare nella sua vita. Perché la Filosofia è sempre stato questo: un raffinato ragionare intorno ai problemi, a partire dal principale che è quello esistenziale.

Si tratta di confrontarci su come la Filosofia possa intervenire in una Consulenza filosofica. La bibliografia è molto lacunosa e tocca darci da fare, sia nell’elaborazione di metodi, per esempio. Quello che dobbiamo fare secondo me è evitare che la Consulenza filosofica sia figlia minore come professione d’aiuto delle psicoterapie. La Filosofia deve scendere in campo senza crisi di identità né (ingiustificabili) complessi di inferiorità. Ci sono cose che mi piacciono poco, e che secondo me poco hanno a che fare con l’aggettivo filosofico che qualcuno pone accanto al sostantivo counseling.

Cosa mi piace? C’è uno strumento dell’epoché – il Consulente nei processi di ricondizionamento autonomo non interviene con giudizi – che a me sembra molto convincente. Ed è la Logoanalisi Coscienziale, uno strumento dell’Antropologia esistenziale, il cui papà non è don Ersilio Miccio, ma è un altro napoletano, uno psicologo, laureato anche in Filosofia, Ferdinando Brancaleone. Ce ne fossero. Con Gianfranco Buffardi, che è uno psichiatra, hanno preso spunto dal modello esistenziale della logoterapia di Viktor Frankl e dal pensiero antropologico di Jaspers e quindi creato una scuola Antropologica esistenziale che è quella dell’Isue, l’Istituto di Scienze Umane ed Esistenziali. Aiutare un uomo a ritornare alla propria esistenza, significa aiutarlo a percepire il campo vasto delle possibilità che gli si offrono da realizzare e che costituiscono in effetti una sfida. Dal momento che ogni esistenza è sempre specifica, unica e irripetibile anche la Consulenza non è qualcosa di generale, di valido per tutti e per ognuno, di permanente in ogni tempo, non inquadra in una patologia, o in disturbo del DSM, il Manuale Diagnostico degli psicologi, perché si modella all’unicità e all’individualità di ciascuno. L’uomo di Frankl è unione ed interazione di tre parti: quella somatica, le cui patologie sono di pertinenza della psichiatria, quella psicologica e quella noetica. Brancaleone è riuscito a ritagliare uno spazio tutto filosofico. Innanzitutto lo sfondo filosofico è l’esistenzialismo, la traduzione filosofica di quanto abbiamo accennato è la progettualità dell’esserci-nel-mondo, con un pantheon di filosofi che va almeno da Kierkegaard ad Heidegger passando per Nietzsche, ma che include anche Sartre, Unamuno, Camus. Ma anche la Logoanalisi ha una genesi tutta filosofica, essendo il lessico mutuato dalla Grammatica Generativo -Trasformazionale di Noam Chomsky. E la Logoanalisi Coscienziale è una metodica comunicativa volta a rendere sempre maggiormente chiara ed esplicita la “struttura profonda” di una comunicazione, sottesa ad una struttura superficiale attraverso cui ha luogo la comunicazione tra il consulente e il cliente.

Apriamo una parentesi sul rapporto con le psicoterapie. La Consulenza filosofica, è chiaro da quanto abbiamo detto, non si pone in contrapposizione né teorica (è altro il campo di intervento), né pratico. Va detto che quella del DSM è una situazione davvero paradossale: nel 1952 indicava complessivamente 112 turbe, nel 1968 il DSM II ne elencava 163. Nel 1980 il DSM III riportava 224 turbe e l’ultima edizione ne elenca 374. Negli anni Ottanta si riteneva che un cittadino americano su dieci fosse ammalato. Negli anni Novanta lo era uno su due. Non si può non condividere l’opinione di Marinoff e cioè che tra un po’, psicologi e psichiatri a parte, saremo tutti malati. Oppure funziona alla rovescia, e cioè che la malattia sta in chi vede malattie. Psicoterapeuti e psichiatri hanno interesse a patologizzare l’esistente per questioni di bottega e di mercato e per questo, in assenza di mercato, possono tendere a crearselo ad hoc. Un po’ per calcolo un po’ anche in buona fede perché come ha giustamente fatto notare Abraham Masslow se l’unico arnese nella tua cassetta è un martello, molte cose cominceranno ad apparire simili ai chiodi. La Consulenza filosofica parte da questo bisogno: che nella nostra società c’è bisogno di dialogo e non solo di diagnosi. E che la Filosofia può offrire sia un percorso di Bildung, di formazione, di crescita critica, di consapevolezza che non è né sterile citazionismo, né salotto. Altrimenti finiremo tutti per credere che la massima forma di manifestazione del nostro pensiero sia quella di mettere Mi Piace su uno stato altrui su Facebook.

3. La Biblioterapia a sostegno della Logoanalisi esistenziale

Può la Logoanalisi, da sola, sostanziare un intero ciclo di consulenze? Probabilmente no. Ed ecco il motivo per cui studio da qualche tempo la possibilità di affiancare la Logoanalisi con la Biblioterapia, cioè l’utilizzo nei processi di chiarificazione di alcuni testi (di alcuni brani in realtà) tratti dalla letteratura filosofica. Non è questa la sede per una articolata analisi dei testi in relazione ai problemi portati. Basta solo accennare a quanto utili possono essere riflessioni condotte attorno al De Anima di Aristotele o al Fedone di Platone in problemi di ambito esistenziale. O in ambito morale alcune pagine di Kant, o di Hegel, o di Nietzsche in problemi generati tra l’identità tra colpa e pena. Ma molta letteratura stoica è funzionale al tipo di lavoro che dovremmo fare. Molto interessante il lavoro che sta proponendo da tempo Ferdinando Testa, sull’utilizzo dei Miti. O il lavoro di Giancarlo Marinelli su Dostojevksij, o di Arcangela Miceli su Cartesio e Pascal. C’è un saggio che non si può non citare ed è quello di Pierre Hadot, tutto dedicato all’utilità pratica della filosofia antica: Epicuro, Seneca, Epitteto, Marco Aurelio. Insomma, secondo me siamo chiamati a fare filosofia così. Il filosofo non è soltanto chi è dotato di un’anima bella che il volgo non avrà mai, ma deve mettere in gioco il proprio sapere. Parafrasando Nietzsche oggi sono i poveri che fraintendono la loro povertà. Non hanno perso tutto. Hanno gettato tutto. La Consulenza filosofica possiamo leggerla alla voce del verbo trovare.

4. L’Idraulico e la consulenza filosofica

Ci sono quelle giornate un po’ così, in cui un po’ ti gira e un po’ no. Magari ti arriva un assegno della casa editrice, pochi spiccioli, e ti sembra che spunti il sole. A me capita di essere meteopatico alla rovescia. Poi arrivi a casa, vai per lavarti le mani, e una vitina scema del telefonino che tieni nella tasca della camicia ti cade dentro il lavandino. In queste giornate un po’ così ti senti un cartone animato, mentre, maldestro, tenti di recuperarla prima che ti cada giù nello scarico. Lei ti prende in giro, e per prenderti in giro non trova meglio da fare che girare, girare, girare. E poi ploff, quel buco se lo infila svelta. E ti sembra persino che prima di andarsene ti faccia marameo. In queste giornate un po’ così ti viene l’intuizione del genio. Sviti il sifone e recuperi la preziosissima vite dal raccordo sotto lo scarico. Sulla carta l’idea non è male. La teoria ha un suo aspetto nobile che poi la pratica smentisce. Infatti svitare il dado non è tra le operazioni più agevoli per chi scrive libri e fa il filosofo. Intanto non riesci a fare un giro completo con la pinza, perché ci sono le piastrelle. E se ti scivola, nel mezzo giro di cui ti devi accontentare, tra la pinza e la piastrella ci resta il tuo dito. Un colpo secco. Tac. E fa un po’ male. Appena hai finito ti resta in mano la guarnizione e tre anelli, che metti via non immaginando che non sarai più in grado di ricomporli insieme nell’esatta sequenza. Tu pensi solo alla vite. È la vite che fissa l’antenna al telefonino, mica una vite qualsiasi. Ti pare sia facile trovarla? Inclini il tubo e viene giù? Ma beato te! Te la devi guadagnare, mentre sei lì in ginocchio, sudaticcio, a rovistare con le dita tra fango, capelli, grasso, sapone. Quando la trovi sei pure contento. Non sai che il peggio deve ancora arrivare. Perché smontare è stato facile. Montare mica tanto. Oltretutto il tubo era pure un po’ arrugginito e se ne è spezzata una parte. Gli anelli e la guarnizione sono l’enigma del giorno, il rompicapo che non ti aspetti. Manco il cubo di Rubik. Morale della giornata un po’ così: hai fatto l’eroe per una vite, roba che a momenti la Nintendo ti scrittura per la versione sfigata di Super Mario, e per risparmiare 10 centesimi hai combinato una catastrofe da 200 euro. Di viti te ne compravi 2000. Non ti resta che chiamare l’idraulico, quello vero. Dei dieci minuti che se ne sta nel tuo bagno, due lavora, gli altri otto ti prende per il culo. Per due minuti ti chiede, per l’appunto, 200 euro. Più Iva. Sei fortunato che almeno per il culo ti ci ha preso gratis. Per pagarlo l’assegno del giorno manco ti basta. Devi pure aggiungerci dei contanti.

È in questi giorni un po’ così che pensi: nella vita dovevo fare l’idraulico. Infatti adesso non so, quando mio figlio prende un bel voto a scuola, se devo premiarlo o punirlo. Prendi ottimo a storia? E io ti tolgo la paghetta settimanale. La professoressa mi dice che sei bravissimo ad Epica? Ti riempio di botte, così impari. Sei impreparato a spagnolo? Ti porto un fine settimana a Disneyland.

Pier Aldo Rovatti ha un’idea diversa. Lui è di quelli che si spende per un esercizio pratico ed una concretezza della filosofia e della cultura umanistica in genere. La Consulenza filosofica, appunto, che per lui ha due compiti fondamentali: uno, istituzionale, che è quello di affiancarsi alle terapie del disagio diffuso, anzi di sostituirle con un rapporto non medicalizzato e dunque non terapeutico della filosofia, facendo pesare il suo prestigio anche nella casa di Psiche; l’altro quello di dotare i giovani laureati di una possibilità lavorativa ed economica in più. Almeno per guardare dritto in faccia un idraulico, con dignità, senza abbassare lo sguardo. «L’ibridazione nelle Università dissimula una lotta di modelli culturali, assai più di quanto contribuisca a una sintesi sensata. Il modello tecnico (apparentato a quello aziendale) vi gioca la sua partita, con pretese di leadership, nei confronti di quello umanistico, il quale non sembra oggi capace di un rilancio o di una positiva metamorfosi delle sue motivazioni di fondo». Il rischio è quello di una banalizzazione della filosofia stessa. Ma è un rischio che darà all’uomo di cultura in genere la piena padronanza del suo lavandino.

 

*Rielaborazione degli interventi tenuti all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofi per il convegno «Esistere per essere. L’antropologia clinica esistenziale: sviluppo futuri nelle professioni d’aiuto»» a cura dell’Isue il 19 aprile del 2013 e al Palazzo Pretorio di Certaldo in occasione del convegno «La filosofia può curare?» organizzato dall’Associazione Nazionale Pratiche Filosofiche.

 

Bibliografia

Achenbach G. (2009), La consulenza filosofica, Feltrinelli, Milano

Brancaleone F. (2004), Existentia, Ofb Editing, Curti (Caserta)

Brancaleone F. (2004), Logodinamica generativo-trasformazionale, Ofb Editing, Curti (Caserta)

Brancaleone F. Buffardi R., Traversa G (2008), Helping, La Melagrana, San Felice a Cancello

Cascio M. (2013), Al divino dall’umano, Bastogi, Foggia

Cascio M. (2007), L’Autocoscienza, Bastogi, Foggia

Frankl V. (2004), Alla ricerca di un significato della vita, Mursia, Milano

Hadot P. (2005), Esercizi spirituali e filosofia antica, Einaudi

Galimberti U. (2005), La casa di Psiche, Feltrinelli, Milano

Lahav R. (2010), Oltre la filosofia, Apogeo, Milano

Marinelli G, Miceli A. (2010), Le polifonie dell’anima, Bonanno, Catania

Marinoff L. (2007), Platone è meglio del Prozac, Piemme, Milano

Rovatti P.A. (2006), La filosofia può curare?, Cortina Raffaello, Milano

Testa F. (2012), Le idee dell’anima. Jung e la visione del mondo, Bonanno, Catania

de Unamuno M. (2007), Inquietudini e meditazioni, Rubbettino, Soveria Mannelli

La volontà generale

Un saggio che analizza la volontà generale nella sua genesi, fornendo analisi e prospettive accurate partendo da una ricca letteratura aggiornata. Un ricerca sul fondamento teorico del Contratto sociale di Jean Jacques Rousseau.

I mass-media, Gramsci e la costruzione dell’uomo eterodiretto

L’articolo si propone di recuperare alcune categorie fondamentali del pensiero gramsciano,
e nel metterne in evidenza la portata innovativa rispetto al marxismo ortodosso, utilizzarle per
comprendere adeguatamente un fenomeno che accomuna gli anni fra le due guerre mondiali
e il nostro tempo. Ossia la costruzione dell’uomo eterodiretto.

La (nuova) «grande trasformazione»: Badiou e il risveglio della Storia

[drop_cap style=”2″ bgcolor=”#dddddd” color=”#787882″]C[/drop_cap]on il 1989 il mondo occidentale e liberale ha subito una seconda grande trasformazione, dopo quella degli anni fra le due guerre mondiali, che ne ha messo in discussione l’identità e le prospettive. Secondo Alain Badiou si sono riaperte le porte per l’affermazione dell’Idea comunista. La crisi del sistema capitalistico è oggettiva, con buona pace di chi aveva decretato la «fine della storia», ma a leggere l’autore francese, più che di una «rinascita della Storia», sembra di trovarsi di fronte all’ennesima, sterile utopia. Il mondo contemporaneo è protagonista di rivolgimenti straordinari che ne stando mutando assetti e configurazioni. Tanto che, ai più vari livelli, ci si può tranquillamente esprimere in termini di «cambiamento epocale». I giornalisti e poi gli storici, dovendo rispondere alla necessità di individuare delle date simboliche, solitamente si rivolgono all’11 settembre del 2001 e ai terribili accadimenti di New York e Washington. Ma se non c’è dubbio sul valore tragicamente simbolico di questa data, ce ne sono molti, invece, sulla sua capacità di spiegare cause ed origini della nuova e grande trasformazione in atto. Coloro che vogliono comprendere servendosi della ragione storica, infatti, e non (solo) emozionarsi ricorrendo a quello strumento senza tempo (e spesso privo di nessi causali che agevolino l’intelligenza dei fatti) che è il sentimento del dramma immediato, devono piuttosto ricorrere a una data anteriore a quella del 2001, che semmai è uno dei frutti avvelenati del 1989. E’ con il 1989, insomma, con la fine del mondo diviso in blocchi e, soprattutto, con la caduta della presenza fattiva dell’Idea comunista nei paesi del blocco sovietico (latente in quelli occidentali), che abbiamo assistito all’inizio del passaggio epocale, della seconda grande trasformazione del XX secolo dopo quella descritta da Karl Polanyi, che si riferiva agli anni fra le due guerre mondiali.

 

1 La prima grande trasformazione

La prima grande trasformazione del Novecento, era quella seguita alla pace dei cento anni (1814- 1914), ossia a quel vero e proprio accordo internazionale che impedì l’esplodere di conflitti tra le grandi potenze, fondato su un sostanziale «equilibrio di potere» (a spese dei paesi poveri e colonizzati), sulla «base aurea internazionale» che simboleggiava un’organizzazione unica dell’economia mondiale, nonché sul «mercato autoregolantesi», che produceva un benessere economico senza precedenti. Il tutto, tenuto insieme dallo «stato liberale», vero e proprio collante di un mondo occidentale costituito su queste basi (Polanyi 1974: 3). La grande trasformazione, titolo dell’opera omonima di Polanyi, trovò la sua sostanza nel crollo radicale di tutte queste caratteristiche che avevano permeato le nazioni liberali fino a quel momento, trasformando il mondo occidentale prima attraverso la «soluzione fascista (secondo la controversa tesi dell’autore), poi attraverso un rivolgimento più generale, che vide da una parte la Russia approdare al «socialismo dittatoriale», dall’altra i campioni del liberalismo economico (Usa e Gran Bretagna) costretti a ricorrere al New Deal e alle soluzioni keynesiane (stataliste) per riuscire a sopravvivere alla terribile crisi economica del 1929. Comun denominatore di tutti questi stravolgimenti, annotava Polanyi, era l’abbandono del dogma liberale del laissez-faire (Polanyi 1974: 245, 250-2). Il mondo occidentale uscito da questa imponente trasformazione aveva assunto dei connotati straordinariamente nuovi, tanto che uno storico come Hobsbawm, nella sua fortunatissima sintesi del «secolo breve», riferisce del «capitalismo post-bellico» come di un sistema partorito da «una sorta di matrimonio fra il liberalismo economico e la democrazia sociale […] con aspetti non secondari presi a prestito dalla politica economica dell’Urss, che per prima aveva praticato la pianificazione economica» (Hobsbawm 1994: 212). Tutto ciò malgrado la fervida opposizione da parte dei teologi del libero mercato (su tutti il von Hayek di The Road to Serfdom, del 1944), i quali ritenevano che questa grande trasformazione dell’economia (e in genere delle politiche e delle società) dell’Occidente avrebbe condotto direttamente a una nuova servitù della gleba: «Essi – ricorda ancora Hobsbawm – si erano schierati per l’intoccabile purezza del mercato anche durante la Grande Crisi. Continuarono poi a condannare le politiche che fecero aurea l’Età dell’oro, quando il mondo divenne più ricco e il capitalismo (insieme col liberalismo politico) rifiorirono grazie alla mescolanza di mercato e di stato nell’economia. Ma fra gli anni ’40 e gli anni ’70 nessuno prestò orecchio a questi vecchi credenti» (Hobsbawm 1994: 318-9).

 

2 La seconda grande trasformazione

L’occidente liberale, uscito dalla prima trasformazione del Novecento con le caratteristiche che abbiamo sommariamente ricordato, è durato effettivamente fino agli anni Settanta, quando qualcosa cominciò a incrinarsi, fino all’esplosione raffigurata simbolicamente dal crollo del Muro di Berlino e, con esso, di un blocco ideologico e politico che aveva rappresentato, e difeso, a livello mondiale le istanze comuniste. Tutto ciò, sarebbe scorretto negarlo, in un contesto che vedeva comunque le potenze occidentali continuare ad «esternalizzare» (nei confronti dei paesi più deboli, del Medioriente, dell’Africa, dell’America latina) quelle forme di sfruttamento che si sono rivelate consustanziali al sistema capitalistico nel corso della sua travagliata storia, e che hanno spinto l’Occidente a dipingersi ogni volta come l’«araldo di una modernità trionfante», mosso dalla «vocazione a costituire il modello della modernizzazione del mondo» (Bessis 2001: 56-7). Né le cose sono cambiate ai nostri giorni, tanto da spingere un autorevole studioso a definire gli stati occidentali come «cattivi samaritani», pronti cioè a proteggere anche militarmente le proprie economie e i propri interessi salvo imporre ai paesi più deboli i dogmi del liberismo più rigido e assurdo, fino a fare della competizione economica globale «un gioco di giocatori ineguali» (Chang 2008: 218-9). Ma certamente l’esistenza del forte blocco comunista, e con esso di influenti partiti di ispirazione marxista all’interno degli stati occidentali, aveva spinto gli stati liberali da una parte a mollare (seppur limitatamente e con palesi contraddizioni) gli istinti colonizzatori nei confronti dell’esterno, dall’altra a rafforzare al proprio interno quel matrimonio fra libero mercato e giustizia sociale destinato a garantire crescita economica e benessere per più ampi strati della popolazione. Questa è almeno la convinzione, nonché la premessa, contenuta nel libro di Alan Badiou Il risveglio della storia. Filosofia delle nuove rivolte mondiali, uscito in Francia nel 2011 e tradotto in Italia l’anno dopo per i tipi di Ponte alle Grazie. Badiou che, certamente, non manifesta simpatia per la forma di «democrazia» elaborata dagli stati occidentali, frutto dell’inconfessabile alleanza (con tanto di finta opposizione reciproca) fra il capitalismo di mercato dei liberali e il capitalismo di stato dei traditori di Marx (che pure a lui hanno continuato a richiamarsi per molto tempo). In questo ricordando oltremodo le tesi dell’ultimo Debord, quando nei Commentari sulla società dello spettacolo escogitava la formula dello «spettacolare integrato» per descrivere la forma di dominio di un potere, quello del capitalismo di stato (così chiamato anche da Badiou), che si era costruito sull’alleanza tra vecchi (e finti) oppositori, marxismo e liberalismo, su quel connubio inossidabile fra stato e mercato in grado, come nessun potere prima, di esercitare un dominio assoluto sulla totalità della dimensione umana (Debord 1988: § 4). Ma a differenza di Debord, Badiou è convinto che oggigiorno ci troviamo di fronte a una possibilità di riscatto radicale, resa possibile da quella seconda grande trasformazione del Novecento che si connota per due aspetti fondanti: da una parte, a partire proprio dal 1989, stiamo assistendo alla «reazione» del capitale contro le conquiste sociali faticosamente ottenute in decenni di lotte dai movimenti comunisti e socialisti, fino ad arrivare al compromesso storico e sociale del welfare state; dall’altra si assiste a un «risveglio della storia» (con buona pace di chi ne aveva proclamato la fine, proprio nel 1989, come nel caso di Fukuyama) caratterizzato dall’esplodere di movimenti di massa, più immediati e latenti in Occidente, più storici e quindi capaci di una rivoluzione fattiva in Oriente (Primavera araba).

 

3 Il ritorno dei morti viventi

Risveglio della storia a cui mancherebbe, per completare il progetto rivoluzionario, l’incontro di questi movimenti con l’Idea in grado di fornirli di senso, entusiasmo, unità e, quindi, di un progetto unitario volto alla distruzione di quell’ordine capitalista oggi finalmente colpito da una crisi strutturale e irrimediabile (le previsioni di Marx si sono avverate con un secolo e mezzo di distanza, secondo la tesi di Badiou). L’Idea di cui parla l’autore francese, ed è lui stesso a usare la maiuscola, è quella «comunista», finalmente rispettosa del disegno marxiano e non disposta a corrompersi e degradarsi come nel caso della dittatura di stato sfociata in Urss e nella Cina maoista. L’armamentario a cui Badiou decide di ricorrere è quello classico, seppure rivisitato in chiave moderna e alla luce delle sconfitte storiche: parliamo di «ritorno dei morti viventi» non in senso spregiativo o dileggiante, quanto piuttosto nel senso tecnico di riportare alla luce, e al ruolo di protagoniste, delle «entità» che troppo semplicisticamente si erano date per sconfitte e defunte, quando invece si erano ritirate a uno stato di latenza (non privo di una qualche oggettiva capacità di influenza). Si parte dalla spinta anarchica (propria delle pulsioni messianiche del giovane Marx, da lui stesso poi ampiamente corrette) per cui inserire lo stato fra i nemici da combattere e quindi superare (esso è produttore di stragi, di divisioni umane, di finzioni inesistenti ma funzionali al potere, oltre ad essere naturalmente il rappresentante legale degli interessi capitalistici). Si condanna la democrazia occidentale (sì, anche quella rappresentativa) come una forma capziosa di dominio su masse deleganti e, quindi, auto-relegantesi al ruolo di strumenti passivi della macchina del potere. Si biasima l’ingenuità, oltre che la disonestà intrinseca, di quel relativismo culturale per cui abbiamo imparato a non riporre fiducia (meno ancora fede), in «verità assolute», portatrici di un progetto totalizzante, e salvifico al tempo stesso, di riconfigurazione totale della società umana: Badiou rivendica per l’Idea comunista il valore di Verità cui aderire con «entusiasmo» (da notare il termine di marcata origine religiosa, visto che alla lettera vuol dire «avere dio dentro»). L’autore francese si pone anche il problema del «soggetto rivoluzionario», in grado di dirigere il processo di organizzazione delle masse rivoluzionarie (che abbisognano di «rettitudine e vera fedeltà alla lotta»), che egli riconosce, alla luce delle esperienze storiche, non poter essere rappresentato dalla forma-partito, ormai diventata obsoleta: «E’ il problema principale che ci è stato lasciato in eredità dal comunismo di Stato del secolo passato» (p. 83). Ma ecco che, dopo tanti decenni di sconfitte, «sta arrivando (tornando?) il nostro turno. E per noi il problema centrale sarà quello di un’organizzazione politica in cui il “fuori tempo” sia anche il “fuori-partito”, se è vero che l’epoca dei partiti, inaugurata dal club dei giacobini durante la Rivoluzione francese, alla fine del XVIII secolo, scandita dai “comunisti” nel senso dell’Internazionale fondata da Marx a metà del XIX secolo, istituzionalizzata dal partito socialdemocratico tedesco negli anni intorno al 1880, rivoluzionata dal Lenin di Che fare? all’inizio del XX secolo, si è chiusa negli anni Sessanta e Settanta, quando la Rivoluzione culturale cinese non è riuscita a realizzare il desiderio di Mao e degli studenti e operai rivoluzionari di trasformare il Partito della dittatura socialista in Partito del movimento comunista» (p. 84). La differenza più forte rispetto al marxismo tradizionale (e ancor di più rispetto a Marx), è quella per cui Badiou, diremmo paradossalmente, vede il terreno più fertile di realizzazione di questa rivoluzione comunista ben «fuori dall’Occidente» del capitalismo avanzato (e in agonia), riponendo una fiducia incredibilmente esagerata e persino ingenua nei movimenti della Primavera araba (contemporanei al momento di composizione del libro).

 

4. Risveglio della Storia o ritorno dell’Utopia?

Ma è proprio a partire dalla questione del soggetto rivoluzionario, di cui lo stesso Badiou ammette tanto la centralità quanto le difficoltà connesse, a portare alla luce un limite intrinseco al suo progetto di risveglio della storia (e della rivoluzione comunista). Certamente egli ha il pregio di chiamarsi fuori dalle fragili e curiose proposte (ad esser buoni) di individuare un soggetto politico avanzate da alcuni dei più illustri autori di ispirazione marxista della contemporaneità. E’ sufficiente aprire alcuni di questi volumi per rendersi conto della fragilità teorica che lo ha preceduto rispetto a tale questione: il Marco Revelli di Oltre il Novecento riteneva di individuare il nuovo soggetto rivoluzionario nel «passaggio dall’estenuata figura del militante a quella, ancora incerta e vacillante, del Volontario (scritto, anche qui, con la maiuscola); Hardt e Negri, nel loro celebre Impero, dopo una raffinata e fascinosa analisi delle nuove contraddizioni insite nel capitalismo globalizzato, riponevano le speranze di riscossa nientemeno che nel «militante creativo», ispirato da un «progetto di amore» che deve trarre spunto dalla figura di S. Francesco. Né le cose vanno meglio se ci rivolgiamo al testo, più recente, di Žižek, che individuando nelle «baraccopoli» il fenomeno geopolitico quantitativamente più rilevante del capitalismo globale, suggerisce che da questi abitanti, e dalle vittime dell’apartheid e del «terzo mondo» in genere possano emergere i nuovi soggetti rivoluzionari: si tratta, per Žižek, nientemeno che di «politicizzare, organizzare e disciplinare le “masse destrutturate” degli abitanti delle baraccopoli» (Revelli 2001: 286; Hardt-Negri 2000: 381; Žižek 2008: 424-7; Ercolani 2011: 444-8). Grande è la confusione sotto al cielo, e a questa confusione ci sembra fornire un apporto non indifferente anche Badiou, soprattutto laddove decide di ritirare fuori (ed è l’ennesimo ferrovecchio) la proposta della «dittatura», una «dittatura popolare» rappresentata da «un’autorità che si legittima da sola proprio a partire dall’autolegittimazione della propria verità» (p. 62). Al rifiuto della democrazia rappresentativa, insomma, Badiou fa seguire la proposta di una «democrazia di massa» in grado di imporre la dittatura delle proprie decisioni, in virtù del fatto che è costituzionalmente portatrice di una verità in grado di affermarsi come «volontà generale». Il pensiero corre a Rousseau, certamente, ma occorre ricordare che persino il ginevrino giungeva ad ammettere, alla fine dei conti, la necessità di una «figura mitica» come Mosé o Licurgo, insomma un legislatore in grado di elaborare e codificare la volontà generale, che è sì sempre retta, ma non sempre guidata da un giudizio illuminato, poiché «il popolo vuole sempre il bene, ma non sempre è capace di vederlo» (Rousseau 1959-69, tomo III: pp. 380-2). La storia non finisce, e quindi non si risveglia. Essa, piuttosto, segue un percorso che è bene conoscere per trarne delle lezioni che possono tornare utili nel momento presente. Il limite di fondo di Badiou, invece, consiste proprio in questa sua riproposizione, per quanto aggiornata, di schemi che non tengono per nulla conto delle lezioni della storia. Non sono le masse a poter guidare la storia, e qualunque dittatura popolare è sempre sfociata nel potere dispotico di un grande Capo o, tutt’al più, di un’oligarchia privilegiata. Non sorprende affatto che questa soluzione populistica provenga da un autore che ha trascurato, nella sua analisi del mondo contemporaneo, due fenomeni invece centrali per evitare il pericolo di nuove forme di anarchia e di teologia senza dio (apparentemente): la religione e la Rete (nuova forma di religione panteistica). Si tratta, in fondo, di un meccanismo ben compreso dal filosofo spagnolo Ortega Y Gasset, quello per cui l’uomo si ammanta di «credenze» cui aderire totalmente, fino a sostituirle alla realtà, perché a differenza delle «idee» esse non presentano aspetti problematici. Se è vero, insomma, che uno storico che voglia comprendere un uomo o un’epoca deve prima investigare il «sistema di credenze» (Ortega Y Gasset 1946-68, tomo IX: 500) che li caratterizza, l’errore principale di Badiou risiede proprio nell’incapacità di innalzarsi su un piano scientifico e razionale, finendo per rimanere lui per primo coinvolto da una nuova forma di teologia politica che egli chiama «risveglio della storia», ma che in realtà somiglia assai di più a quel «sonno della ragione» generatore di mostri che non vorremmo vedere più.

 

Riferimenti bibliografici

Bessis S. (2001): L’Occident et les autres. Histoire d’une suprématie, La Découverte, Paris Chang H.J. (2008): Bad Samaritans. The Mith of Free Trade and the Secret History of Capitalism, Bloomsbury Press, New York Debord G. (1988): Commentaires sur la société du spectacle, Éditions Gérard Lebovici, Paris Ercolani P. (2011): La storia infinita. Marx, il liberalismo e la maledizione di Nietzsche, presentazione di Luciano Canfora, La Scuola di Pitagora, Napoli Fukuyama F. (1989): The End of History?, in The National Interest, Summer Gasset O.Y. (1946-1968): Obras Completas, Revista de Occidente, Madrid Hobsbawm E.J. (1994): The Age of Extremes. The Short Twentieth Century 1914-1991, Abacus, London Polanyi K. (1974): The Great Transormation. The Political and Economic Origins of Our Time (1944), Beacon Press, Boston Revelli M. (2001): Oltre il Novecento. La politica, le ideologie e le insidie del lavoro, Einaudi, Torino Rousseau J.J. (1959-69): Oeuvres Complètes, Gallimard, Paris Hardt M. – Negri T. (2000): Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano Žižek S. (2008): In Defense of Lost Causes, Verso, London – New York Paolo Ercolani insegna storia della filosofia e teoria e tecnica dei nuovi media all’Università di Urbino. Collabora all’inserto culturale del Corriere della sera («La Lettura»), è redattore della rivista Critica liberale e membro dell’Osservatorio filosofico. Fra i suoi libri, che più volte hanno suscitato un dibattito acceso sui media nazionali: Il Novecento negato. Hayek filosofo politico (Perugia 2006), Tocqueville: un ateo liberale (Bari 2008), La storia infinita. Marx, il liberalismo e la maledizione di Nietzsche, presentazione di Luciano Canfora (Napoli 2011) e L’ultimo Dio. Internet, il mercato e la religione stanno costruendo una società post-umana, prefazione di Umberto Galimberti (Bari 2012).

Searle e la filosofia del Novecento

[drop_cap style=”2″ bgcolor=”#dddddd” color=”#787882″]I[/drop_cap]l percorso filosofico di J. Searle rappresenta sicuramente una felice coniugazione tra la tradizione cosiddetta “continentale” e lo stesso terreno di gestazione del suo pensiero, ossia la filosofia analitica americana. Nato a Denver nel 1931, Searle si è formato inizialmente ad Oxford in Gran Bretagna sotto la guida del suo maestro J. Austin per sviluppare nel corso degli anni 60 del secolo scorso la teoria degli Atti Linguistici il cui libro è uscito nel 1969. In questa importante opera Searle evidenziava come il nostro linguaggio non è solo un strumento di rappresentazione della realtà ma un “agente” diretto, un “fare”. In sostanza con le parole o le frasi non ci limitiamo a dare un Significato al mondo, bensì facciano cose. Il linguaggio, dunque, è uno strumento di comunicazione in cui “parlare”, è sempre un impegno in una forma di comportamento. In questo senso Searle distingue 4 atti linguistici diversi , così riassumibili:

1) Atti linguistici che proferiscono;
2) Atti proposizionali;
3) Atti illocutivi;
4) Atti perlocutivi;

Tra questi, di cui Searle in questa opera studia il secondo e terzo tipo, è veramente centrale il terzo, ossia gli atti illocutivi. Solo questi indicano la completezza dell’atto linguistico stesso. In altre parole solo gli atti illocutivi nel dire “fanno”.

Un atto linguistico illocutivo è il solo che ci fornisce una vera e propria cognizione di ciò che significa comunicare. Il caso della promessa che un parlante A fa nei confronti di un parlante B viene utilizzata da Searle come “paradigma” di riferimento della sua teoria degli atti illocutivi. A Searle interessa dunque ciò che si fa mentre parliamo. Come filosofo del linguaggio Searle ha avuto una certa influenza sulla linguistica contemporanea proprio nel dare una priorità concettuale alla completezza di quegli atti linguistici che chiamiamo “illocutivi” (locutivo ed illocutivo è una distinzione di Austin, solo in parte accettata da Searle), come sono dare ordini, fare promesse, affermare, domandare.

Ben presto però la teoria degli atti linguistici sarà ritenuta non sufficiente a spiegare una cognizione fondamentale della filosofia contemporanea, ossia il concetto di intenzionalità, rimesso in auge da Brentano a fine ottocento e ritenuto in seguito dalla stessa fenomenologia un suo asse portante. Proprio perché l’Intenzionalità rappresenta la possibilità di discriminare il mondo fisico dal mondo psichico era necessario individuare una cornice teorica più ampia per giustificare le scoperte della linguistica novecentesca, che avevano denotato la prima fase del lavoro di Searle. Dunque, fin dal 1983 con l’opera dal titolo “Dell’intenzionalità”, e poi in seguito nel 1992 con l’opera “La riscoperta della mente”, Searle estende il suo impegno epistemologico concentrando i suoi interessi filosofici nella critica al cognitivismo e alle scienze cognitive che avevano “ridotto” gli studi sul rapporto mente-cervello ad un modello computazionale.

Con la teoria della Stanza Cinese Searle critica fortemente la possibilità di descrivere il funzionamento della mente come un sistema di calcolo, distinguendo tra le giuste conquiste delle scienze neurobiologiche e il permanere di un’ontologia in prima persona e cioè di una soggettività irriducibile a processi neurocomputazionali. La sua teoria della coscienza rappresenta il modello attuale più originale di confluenza tra gli studi neurobiologici e il mantenimento di una visione “fenomenologica” della mente che dia conto dell’esperienza cosciente soggettiva.

Etica della parola

Partirei dal sintagma stesso “etica della parola” e innescherei subito il doppio senso del genitivo, oggettivo e soggettivo. Etica, cioè, come un qualcosa che è una proprietà della parola e di cui quest’ultima è, a sua volta e al tempo stesso, una declinazione.

Etica, come si sa, viene da ethos: un termine che Heidegger ci ha invitato a intendere nel senso di abitare. Per cui, in via assolutamente iniziale, potrei dire che concepisco la parola come un modo di abitare il mondo, non però poeticamente – come voleva lo stesso Heidegger –, ma prosaicamente. Termine, quest’ultimo, che mi fa pensare a un qualcosa che mette radici in quella “carne” – il riferimento è, ovviamente, a Merleau-Ponty[ref]Su questo punto, cfr. il mio La prosa del senso. La dinamica della significazione in Merleau-Ponty, IF Press, Morolo (Fr) 20122.[/ref] – che è la pasta comune di cui siamo fatti noi stessi e il mondo.

Parto da un’ipotesi poco ortodossa dal punto di vista strettamente linguistico, ossia che la parola sia la cellula e il nucleo germinale del linguaggio. Poco ortodossa, perché nel campo dei miei studi vige, da qualche tempo, incontrastata, una tesi: quella secondo cui la parola, intesa come atto creativo individuale, sarebbe sempre preceduta dalla lingua, intesa come sistema. Facendo mio il principio secondo cui il linguaggio articolato metterebbe radici nel terreno della gesticolazione e della corporeità, do grande importanza alla dimensione cosiddetta “circostanziale”, in quanto sfondo extralinguistico indistinto su cui si staglia l’apparizione della parola. Tale sfondo lo faccio coincidere anche con l’esperienza del “voler dire qualcosa”, inteso con quella riserva permanente di senso che, convertendosi solo parzialmente nel parlare, fa della lingua, in quanto allusione, un continuo processo di metaforizzazione. Al riguardo, parlando di metafora, voglio ricordare che il primo accesso a quest’ordine di problemi lo devo all’autore cui ho dedicato la mia tesi di dottorato: Vico, di cui ho approfondito, appunto, la filosofia implicita nella sua riflessione sulla retorica.

Dicevo che parto da un’ipotesi poco ortodossa dal punto di vista strettamente linguistico. La preciso meglio, appropriandomi della definizione di un filosofo americano, ingiustamente definito comportamentista, George Herbert Mead, il quale afferma quanto segue:

ciò a cui la parola si riferisce è qualcosa che può risiedere nell’esperienza dell’individuo a prescindere dall’uso del linguaggio[ref]G. H. Mead, Mente, sé e società. Dal punto di vista di uno psicologo comportamentista (opera postuma: 1934), tr. it. di R. Tettucci, Barbera, Firenze 1966, p. 44.[/ref].

E se vi prescinde, vuol dire che essa è intesa in qualità di gesto incardinato in un comportamento, ossia, pragmatisticamente, in termini di “abito”.

In un testo che ho in preparazione e che s’intitola: Semiotica dell’espressione, studio il passaggio dal gesto alla parola attraverso la mediazione di una terza figura: il ritmo. Il sottotitolo del libro è infatti: Il gesto che si fa ritmo, parola.Cosa intendo per ritmo? Uno degli autori da me studiati in questo testo, l’antropologo e linguista francese – ahimè poco noto, ma vi garantisco geniale – Marcel Jousse, parla di «gesto proposizionale»[ref]Cfr. M. Jousse, L’antropologia del gesto (opera postuma: 1969), tr. it. di E. De Rosa, Paoline, Roma 1979.[/ref], attribuendo al gesto la propensione naturale a strutturarsi “sintatticamente”, dandosi, appunto, una cadenza strutturale ritmica. Per l’autore da me appena citato, il nostro corpo, dopo aver captato i segnali che provengono a esso dalla realtà circostante e averli raccolti in quelli che lui chiama «mimemi» – e qui starebbe, appunto, l’origine del linguaggio –, li rilancia, infine, sotto forma di pensiero o di azione. I momenti da tener presente sono, dunque, tre: il momento mimetico originario, il momento ritmico, che consiste in una riarticolazione e in un assetto più coeso della fase precedente e, infine, il momento in cui codifichiamo le due fasi orali precedenti nella scrittura.

Ma torniamo al ritmo. Un altro autore che studio nel mio prossimo libro, il linguista francese Henri Meschonnic, invita a intenderlo non, come abbiamo fatto, da tempo immemorabile, fin qui, nel quadro della legge del numero e come sinonimo di ordine e di misura, ma come un qualcosa di connaturato al linguaggio, così che, per questa via, arriveremmo a superare la canonica – e ormai poco produttiva – distinzione, nel segno, fra significato e significante, nonché, in un testo, fra contenuto e forma. Potremmo pensare, cioè, al darsi di un senso extralessicale che, permeando di sé tutto il discorso, si struttura, appunto, in termini di continuità del ritmo[ref]Su questo punto, cfr. il mio Il movimento della parola del linguaggio. Meschonnic e la poetica del ritmo, in «Testo e senso», 2012, n. 13, pp. 117-33.[/ref].

Parlando di gesto come “abito” e prospettandolo come ipotesi naturale circa l’origine del linguaggio, trovo inevitabile risalire a un autore che sta all’origine di molte questioni ancora aperte del nostro tempo: Darwin. Da lui, riprendo l’idea relativa al carattere “modulare” del linguaggio umano, nel senso di un sistema combinatorio che funziona scomponendo e ricomponendo elementi discreti in ordini e combinazioni particolari sempre nuove. Idea di cui egli si serve, in chiave esplicativa, soprattutto, nell’opera: L’espressione delle emozioni nell’uomo e neglianimali (1872).

Un’altra tesi di Mead che mi sta molto a cuore è che «parlare è [innanzi tutto] parlarsi», nel senso che la «comunità della risposta è [a tal punto] essenziale alla insorgenza della parola»[ref]C. Di Martino, Linguaggio e autocoscienza in George Herbert Mead, in Id., Segno, gesto, parola. Da Heidegger a Mead e Merleau-Ponty, ETS, Pisa 2005, pp. 141-2.[/ref] che noi stessi, per primi, ci percepiamo come membri di una tale comunità. L’atto in cui ci udiamo parlare sarebbe, cioè, quello in cui si costituisce la nozione stessa di significato, poiché, nel momento in cui incardiniamo ciò che diciamo in un profilo dal tratto fermo e stabile, mettiamo capo ad un qualcosa che vale, al tempo stesso, per noi e per gli altri.

Un antropologo tedesco del Novecento, Arnold Gehlen, ha definito questo fenomeno come «autoaffettività della voce»[ref]A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo (1940), tr. it. di C. Mainoldi, Feltrinelli, Milano 1983.[/ref] e l’ha indicato come quello in cui sarebbe custodita, per lui, la radice principale del linguaggio.Grazie ad un tale fenomeno, noi impariamo a dislocarci, a “trasferirci” nella reazione dell’altro, per cui l’interiorità nascerebbe nel segno di una figura non mentalisticamente autocentrata, ma eteroreferenziale. Che è proprio ciò che, ad esempio, ha consentito a Ricoeur di parlare – è anche titolo di un suo libro – del “sé come un altro”[ref]Cfr. P. Ricoeur, Sé come un altro, a cura di D. Iannotta, Jaca Book, Milano 1993.[/ref]. È questa una scoperta molto importante, perché, gettando luce sul modo di insorgere del linguaggio, siamo arrivati a vedere come sia proprio nel segno di esso che, dischiudendosi la dimensione del sé, si dischiude, al tempo stesso, anche la dimensione dell’alterità.

Definendo la parola, nella sua essenza, come gesto, penso, ovviamente, al gesto deittico, indicativo. Ora, approfondendo il problema filosofico e linguistico dell’enunciazione[ref]Cfr. il mio L’istanza del soggetto parlante. Il problema linguistico dell’enunciazione, Lithos, Roma 2010.[/ref], ho potuto mettere meglio a fuoco il carattere, fondamentalmente, interlocutivo dell’alterità, prospettando la parola, nel suo profilo ostensivo, come quello spazioetico in cui facciamo originariamente esperienza della comunanza umana, dell’incontro e della prossimità.

Dandosi a noi nel segno dell’indicazione, la parola mostra, inoltre, di avere un vero e proprio volto, nel senso che la percezione e l’identificazione del parlato avvengono sempre secondo modalità di tipo fisiognomico, esattamente come noi riconosciamo una faccia o un oggetto familiare. E proprio questa dimensione che si concretizza nella materialità della voce è quella che, forse, più è stata affossata nel regime, sotto cui da lungo tempo ci troviamo, cosiddetto di «devocalizzazione del logos»: regime che, oltre a «fissare il primato ontologico del pensiero sulla parola», ha provveduto anche a disincarnare quest’ultima, liberandola «dalla corporeità del fiato e della voce»[ref]A. Cavarero, A più voci. Filosofia dell’espressione vocale, Feltrinelli, Milano 2003, p. 74. Sulla voce come ciò che «sgorga prima che qualsiasi carattere semiotico/semantico abbia a formularsi», cfr. C. Bologna, Flatus vocis. Metafisica e antropologia della voce, il Mulino, Bologna 1992, p. 29. Infine, circa «il disincarnarsi della lingua dalla voce», G. Agamben, La parola e il sapere, in «aut aut», 1980, n. 179-180, pp. 155-66, afferma che, da tutto ciò, la prima, in quanto «costruzione del sapere», ne esce guadagnando un’autonomia radicale rispetto alla seconda e «all’atto concreto di parola» (pp. 162-3).[/ref]. Trovo che un motivo da recuperare sarebbe proprio questa unità originaria – e spezzata – fra logos e voce. E ciò a partire dal ripensamento della famosa definizione aristotelica del linguaggio come phoné significativa: come un qualcosa che ci dà prova, cioè, della genesi, naturale e contemporanea, di articolazione vocale e di attività logico-cognitiva[ref]Cfr. F. Lo Piparo, Aristotele e il linguaggio. Cosa fa di una lingua una lingua, Laterza, Roma-Bari 2003.[/ref].

Oltre al titolo “Etica della parola”, l’incontro di oggi presenta anche un sottotitolo: “Politica, comunicazione, responsabilità”. Lascio cadere, senza alcuna esitazione, il primo termine, non rientrando la problematica relativa a esso nella mia sfera di competenza specifica, e mi approprio, invece, degli altri due. Ebbene, “comunicazione” e “responsabilità” posso considerarli come le parole-chiave intorno a cui si raccolgono due miei testi, già citati in precedenza: uno dedicato a Merleau-Ponty e l’altro a Ricoeur.

Merleau-Ponty impianta il processo della comunicazione sulla dialettica fra silenzio ed espressione. Poiché, per lui, vi è un senso prima che vi sia linguaggio, il lasciarsi guidare dalle cose così come esse si danno e si manifestano, è un far sì, letteralmente, che esse “prendano la parola”: parola che, perciò, è da sempre già iscritta nella “carne” viva dell’esperienza prelinguistica e preriflessiva.

Nella sua opera, forse, maggiore: Fenomenologia della percezione, Merleau-Ponty interpreta il motto fenomenologico che prescrive un “ritorno alle cose stesse” come un recupero di quel «mondo anteriore alla conoscenza» di cui essa «parla sempre», come l’«espressione seconda» di quella vita irriflessa della coscienza che opera in modo inavvertito e silenziosamente. Prima del «significato concettuale», che fa leva sulla funzione rappresentativa ed eteroreferenziale del segno verbale, si darebbe, cioè, un «significato gestuale», «esistenziale», «emozionale», che è «immanente alla parola» e che coincide con «uno degli usi possibili del mio corpo». Dietro la parola c’è sì un’operazione categoriale, ma ciò non vuol dire che essa riposa sul concetto come sul suo fondamento: parlare non è accedere ad un oggetto posto da un’intenzione conoscitiva o da una rappresentazione, ma quella dimensione espressiva entro cui il pensiero stesso trova la sua ragion d’essere e il suo compimento. Le parole “abitano” non solo le cose, ma anche il soggetto stesso quando le pronuncia. E ciò che ci consente di affidarci spontaneamente alla parola e di “muoverci” a nostro agio in essa è proprio il fatto che noi ne possediamo l’essenza articolare come una «modulazione» o un certo «stile di condotta» del nostro corpo. In tal senso, proprio come noi non ci rappresentiamo mai lo spazio esterno quando ci muoviamo in esso, ma lo viviamo come quel campo d’azione che ci si apre d’intorno, così non abbiamo bisogno di rappresentarci la parola per capirla e per pronunciarla: essa è un «certo luogo del mio mondo linguistico, fa parte della mia costituzione». Ne discende che la parola non è il modo di designare un pensiero, ma la presenza di questo stesso pensiero nel mondo sensibile: «non il suo vestito, ma […] il suo corpo»[ref]M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione (1945), tr. it. di A. Bonomi, Bompiani, Milano 2003, pp. 251 e 253.[/ref]. Una riflessione, quest’ultima, che – quasi identica – possiamo trovare anche nello Zibaldone di Leopardi[ref]G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, 2 voll., a cura di A. M. Moroni, Mondadori, Milano 1972, vol. II, p. 610 (n. 1694).[/ref].

E passiamo al termine “responsabilità”, una parola che – come sapete – ha un profilo linguistico, prima ancora che etico, stando a significare, propriamente, “abilità nel rispondere”. Su questo punto, di Ricoeur, ho sviscerato, soprattutto, la sua riflessione intorno al fenomeno della promessa, nel cui segno egli intende l’identità personale come fedeltà alla parola data. Per il filosofo appena menzionato, tre sono i fattori che ci obbligano a mantenere una promessa. Innanzi tutto, chi promette si vincola all’impegno di fare qualcosa, dando prova, così, di essere fornito di autostima. In tale autostima, trova espressione, poi, il bisogno di essere riconosciuti da altri: è sempre a qualcuno, infatti, che si promette. Ed è qui che il fare di cui si è appena detto si configura, propriamente, come un dare: un dare all’altro qualcosa di ritenuto buono da chi promette. Infine, dietro il mantenimento di una parola data c’è sempre la volontà di «preservare la struttura del linguaggio» e la sua «dimensione fiduciaria»: linguaggio che, nel suo uso normale, «ingloba una tacita clausola di sincerità e, se così si può dire, di carità»[ref]P. Ricoeur, Percorsi del riconoscimento. Tre studi, a cura di F. Polidori, Cortina, Milano 2005, p. 149.[/ref].

Vorrei terminare parlandovi della riflessione di Ricoeur in merito al problema della traduzione, perché è qui che trova la sua formulazione ciò che egli ha definito “etica dell’ospitalità linguistica”[ref]P. Ricoeur, La traduzione. Una sfida etica, a cura di D. Jervolino, Morcelliana, Brescia 2001.[/ref]. Si parte dal fatto che, nell’atto in cui noi ci rivolgiamo ad un’altro, in quest’ultimo c’è sempre un qualcosa dello straniero. Ciò fa sì che lo scambio comunicativo di tipo intralinguistico non sia strutturalmente diverso da quello di tipo infralinguistico. Concedere una spiegazione nella nostra lingua all’interlocutore di turno, presentandogli la cosa da lui non capita in un altro modo, presuppone, infatti, la ricerca di una corrispondenza fra due versioni dello stesso discorso. Che è proprio ciò che facciamo anche quando traduciamo da una lingua ad un’altra. Tanto nel primo quanto nel secondo caso, andiamo alla ricerca, cioè, di un principio di equivalenza, nel cui segno di svolge, perciò, qualsiasi forma di scambio interumano mediato linguisticamente.

In tal senso, rappresentando un modello di integrazione che concilia il proprio e l’estraneo, l’identità e l’alterità, la traduzione si configura come un ethos che è perfettamente funzionale sia alla politica di edificazione della nuova Europa sia alla cultura del dialogo ecumenico interreligioso.

Ecco, prima avevo lasciato cadere il termine “politica”. Ora – come potete vedere – lo riguadagniamo, ma solo dopo aver attraversato i percorsi contrassegnati dai termini “comunicazione” e “responsabilità”.

** Testo letto nell’ambito della rassegna «Le ragioni della politica», organizzato dall’Osservatorio filosofico e dalla Compagnia de’ Galantomeni (Latina, 16 aprile 2013).

Come nasce l’idea della Volontà Generale in Rousseau

 ENcyclopediePur condividendo il giudizio di Judith Shklar che considera Rousseau l’artefice della fortuna dell’espressione ‘volontà generale’ [ref]Judith N.Shklar, General will, in dictionary of the history of ideas a cura di Philip P.Wiener(New York, Charles Scribner’s Sons,1973) vol .2 pag 275.[/ref]ritengo però sia necessario tenere presente i debiti culturali e teoretici che il nostro filosofo contrasse con il dibattito filosofico in atto nel proprio tempo e nel proprio ambiente. Questa necessità mi pare chiara e doverosa proprio in virtù del modo attraverso cui lo stesso filosofo ginevrino mosse la propria riflessione a partire dal sistematico tentativo di confutare l’articolo di Diderot “Droit naturel” del 1755 , pubblicato sull’Enciclopedia, nel secondo capitolo del “ manoscritto di Ginevra”.

In questo capitolo, intitolato ‘della società generale del genere umano’ [ref]Si fa riferimento alla edizione a cura e con note di Maria Garin ed.Laterza 1994 “Rousseau scritti politici” volume 2 .[/ref], Rousseau riporta a scopo di confutarle, ben quattro proposizioni del suddetto articolo di Diderot. Sin dall’episodio di Vincennes, il rapporto di amicizia e il confronto intellettuale fra Rousseau e Diderot, ci dà l’idea del clima che nella Francia dell’enciclopedia si andava respirando.


Cap I: l’Encyclopédie[ref]“ L’Encyclopedie ou dictionnaire raisonnè des sciences , des arts et des metiers » titolo originale che noi rileggiamo nella traduzione e a cura di Paolo Casini ed.Laterza 2003.[/ref] di Diderot e d’Alembert come paradigma della modernità.

L’importanza di quest’opera non si misura nei ventotto volumi con 72000 voci, 2500 tavole redatte dai 160 collaboratori che Diderot scelse per le diverse materie fra gli intellettuali più diversi e ai quali lasciò completa libertà di espressione. Non si misura neanche nei 25000 abbonati e nel pubblico variegato fra cui borghesi di vari paesi europei. L’importanza di questa opera è da misurarsi entro il significato espresso dall’unione di uno studio sulle arti e sui mestieri a riflessioni sulla morale, sulla politica e sulle più alte questioni filosofiche. Tale significato coglieva in un opera a più voci la complessità del passaggio dal modello del filosofo o sapiente appartenente a determinate confessioni o stati a quella del filosofo militante che apparteneva a uno spazio europeo della cultura e della comunicazione letteraria, una sorta di “repubblica delle lettere”.

Laddove, come notò magistralmente Franco Venturi in “utopia e riforme nell’illuminismo”, il repubblicanesimo politico era ormai tramontato nelle istituzioni dei vari stati europei, grazie a questo esperimento culturale, l’etica e la morale repubblicana fondavano il cosmopolitismo e si ponevano come collante ideale per la nascente cultura riformatrice del vecchio continente.

Il ruolo essenziale che questi filosofi attribuiscono alle scienze e alle arti come motore del progresso dell’uomo, la predisposizione che il movimento tutto mostrava per la comunicazione internazionale, l’humus materialistico e razionalistico su cui basavano gran parte delle riflessioni sui disparati temi, rappresentano lo spirito di un tempo, il volto di un epoca.

Per capire quanto questa complessità fosse voluta e ricercata dai nostri autori e redattori, accennerò brevemente al famoso “discorso preliminare” di d’Alembert che proprio nella frase iniziale annuncia che: ”l’Enciclopedia, come suona il titolo, è opera di una società di scrittori”.

Unire le diverse esperienze e competenze per costruire dal basso l’edificio del sapere umano era entrato ormai nel vivo del dibattito culturale e l’enciclopedia doveva sancire la supremazia della filosofia che indagava la natura con i sensi e la ragione.

Questi assunti facevano emergere un sapere slegato da ogni dogma religioso, lontano da ogni dipendenza diretta dalle rivelazioni divine, eppure questo aspetto resta in secondo piano rispetto alle sottolineature sempre più marcate circa l’utilità che questo sistema culturale recava allo sviluppo e la crescita del genere umano.

Una filosofia empirista e proto-positivista faceva da sfondo a una riflessione sul metodo sperimentale e contestualmente venivano citati una pluralità di debiti teorici a una serie di padri nobili della filosofia occidentale. Tali riferimenti apparivano però sommari e tradivano da una parte una certa incoerenza nel discorso globale, da un’ altra ci danno la possibilità di gettare uno sguardo sulla complessità della sfida che gli enciclopedisti lanciavano al proprio tempo.

Nel “prospectus” Diderot pone in rilievo la volontà degli editori di porre in essere il grande progetto baconiano di fondere in un sol corpo le scienze, le arti e le tecnologie al fine di mostrare quali fossero gli strumenti della perfettibilità dell’uomo.

Le grandi polemiche e le contestazioni che questo passo di Diderot suscitò ci permettono un’ulteriore misurazione della centralità di questa opera nel dibattito intellettuale della metà del settecento.

Il prospectus uscì appena dopo il primo discorso di Rousseau e noi sappiamo quanto fu lo stesso Diderot a consigliare le linee guida del saggio del filosofo ginevrino.

Il punto in cui noi possiamo muovere un confronto serrato fra i due amici filosofi è nell’articolo “Diritto naturale” di Diderot che troviamo criticato da Rousseau nel manoscritto di Ginevra. In questo articolo Diderot espone i principi di un contrattualismo e giusnaturalismo laico, basandosi su una rilettura di Barberyac del famoso trattato di Pufendorf “De jure naturae et gentium” [ref]Secondo le indicazioni di R.Hubert così come riportato sul testo sopracitato di P.Casini.[/ref]; in questo passo il nostro editore contrappone al modello hobbesiano di uno stato di natura del modello del “bellum omnium contra omnes”, la teoria del diritto naturale di stampo giusnaturalistico con accenti a volte materialistici.

È in questa cornice che Diderot formula il concetto di Volontà Generale.

Nell’articolo che stiamo analizzando Diderot utilizza una proposizione in una forma solo apparentemente ipotetica sulla falsa sensazione di libertà che l’uomo avverte quando crede di essere lui a volere le cose che pensa e che sente.

Il determinismo che qui appare ancora non dichiarato apertamente è strumentale alla tesi che ogni nostra azione sia guidata dalla nostra natura che esula da “alcunché di materiale estraneo alla sua anima, la sua scelta non è l’atto puro di una sostanza incorporea”.

Per spiegare la propria posizione mette in contrasto il “raisonneur violent” di stampo hobbesiano e l’uomo di natura che ascolta il proprio lume razionale. La capacità di analisi razionale è patrimonio sia del buono che del cattivo, e ci fa vedere come in ogni azione umana, il singolo, può anche preferire sempre di seguire il proprio piacere personale a discapito di tutto il resto dell’umanità, ma non può non riflettere sulla propria condizione al contrario di quello che accade alle bestie che agiscono per necessità senza riflessione.

Grazie a questo raffronto il nostro autore afferma che l’uomo ha sempre la possibilità di scoprire in se stesso la verità, ovvero la strada razionale per agire in conformità della ragione nel rispetto dell’agire di ogni altro uomo.

“Non sono tanto ingiusto da esigere da un altro un sacrificio che non voglio fare per lui”.

Il salto teorico avviene proprio qui allorquando Diderot ci fa vedere che un uomo nella propria individualità può essere sia buono che cattivo quando deve compiere una scelta per se stesso, mentre si accorda facilmente con ogni altro quando si tratta di pensare la società generale del genere umano: la volontà del singolo è sempre sospetta, la volontà generale è sempre retta.

Alla volontà generale si deve rivolgere il singolo per comprendere ciò che è giusto o sbagliato per se, per comprendere i propri doveri di uomo, padre figlio e cittadino.

Ogni volta che ci si riferisce alla volontà generale, ogni pensiero che si accorda con essa, partecipa interamente all’interesse generale e comune.

Secondo Diderot l’uomo può trovare entro se stesso quella legge sublime che è la Volontà Generale quando fa tacere quella ferina volontà di opprimere il prossimo e al contrario ricerca l’accordo con una volontà che voglia l’interesse generale.

“Sono un uomo e non possiedo altri diritti naturali realmente inalienabili che quelli dell’umanità “.

Ma dove sta questa Volontà generale? Dove la troviamo?

“Nei principi scritti del diritto di tutte le nazioni civili; negli atti sociali dei popoli selvaggi e barbari” ; nelle tacite convenzioni strette dai nemici del genere umano ed anche nell’indignazione e nel risentimento due passioni che la natura pare aver dato perfino agli animali per sopperire alla mancanza di leggi sociali e di vendetta pubblica”[ref]Tutti i virgolettati di questo passaggio si riferiscono all’articolo Diritto Naturale di Diderot nella già citata edizione a cura di P.Casini.[/ref].

Dopo questa serrata dissertazione, il quadro che Diderot ha composto lo porta a concludere che l’individuo che ascolta solo il proprio interesse personale è un nemico del genere umano; che la Volontà generale, presente in ogni individuo, è un atto puro dell’intelletto che ragiona nel silenzio delle passioni, su ciò che l’uomo può pretendere dal suo simile e su ciò che il suo simile ha diritto a pretendere da lui; che questa considerazione sulla volontà generale è la regola aurea della condotta degli uomini nella società e nel rapporto simmetrico di ognuno con ogni altro.

Tutte le società si fondano sulla Volontà generale, perfino quelle che si basano sul delitto, ma le leggi devono essere fatte per tutti e non per uno, altrimenti torneremmo a basarci sul principio del “raisonneur violent” di hobbesiana memoria. La volontà generale non muta con il mutare delle generazioni in quanto il diritto naturale fa riferimento sempre alla specie umana nella sua generalità, per cui l’equità resterà sempre la causa della giustizia che fonda l’interesse generale.

Sia il discorso preliminare, sia l’articolo di Diderot, ci danno la misura del progetto degli enciclopedisti che si pongono come “summa” del dibattito filosofico di un epoca pronta a costruire dal basso una società che tenga insieme giustizia e utilità, dove il progresso dell’umanità si debba compiere grazie al contributo di tutti attraverso il lavoro e la ragione, l’arte e il pensiero.


Cap II: Rousseau e il processo di socializzazione.

Il nostro intento è quello di portare un contributo all’analisi del concetto di volontà generale, e i concetti non hanno ne una collocazione temporale ne possono essere riferiti come proprietà esclusiva di qualcuno.

Eppure, come già accennato nella brevissima introduzione, non possiamo trascurare gli effetti che l’articolo di Diderot suscitò nella riflessione di Rousseau, visto che a partire da questo confronto il concetto a noi tanto caro prende un significato che ormai non è più possibile trascurare se si vuole raggiungere una comprensione profonda circa l’aspirazione dei moderni nel rintracciare nell’uomo e solo nell’uomo quel principio di giustizia che è fondante la comunità politica.

Dove nasce la necessità delle istituzioni politiche?

Nel manoscritto di Ginevra, lavoro preparatorio a un opera che avrebbe dovuto intitolarsi “istituzioni politiche”, Rousseau comincia con il ribadire le sue considerazioni circa le modalità secondo le quali gli uomini sarebbero passati da un primo stadio di naturale solitudine individuale ad una progressiva socializzazione.

Soprattutto mette in risalto il rapporto fra particolare e universale e la connessione fra cittadino e società universale.

La necessità di condividere il proprio tempo con i propri simili nasce in ognuno allorquando mutano i bisogni; fino a quando l’uomo resta in uno stadio di autosufficienza, irrazionale e pacifica animalità, non avverte altro che il “amour de soi”, ovvero quel naturale amore per se stesso che lo spinge alla ricerca del cibo, riparo, sonno e sesso.

È nel momento in cui incontra gli altri uomini che nascono nuovi bisogni e avviene il mutamento dello stato umano dal “amour de soi” all’amour propre”.

L’analisi Roussoiana nasce proprio dalla capacità del ginevrino di mettere in luce l’importanza dei rapporti simmetrici fra gli individui che stanno alla base della fondazione della comunità politica, di mettere in risalto come questa comunità si formi, a quali regole è soggetta, e questo ci da la misura di come l’uomo è andato trasformandosi ed evolvendosi fino al momento della comprensione della necessità della instaurazione della società politica.

Abbiamo bisogno degli altri, ma le nostre passioni minano la possibilità di un unione spontaneamente pacifica.

“Una marea di rapporti, senza né misura, né regola, né consistenza, alterati e mutati di continuo dagli uomini”.

Se la società generale si fondasse sui bisogni degli uomini non riuscirebbe a corrispondere alla pluralità delle necessità dell’uomo trasformato dal confronto con gli altri;potrebbe solo esaltare e fortificare le nuove differenze fra gli uomini, quelle che si basano sui rapporti di ricchezza/povertà, che avvantaggerebbero di gran lunga i ricchi a scapito dei poveri.

Bisogna tener presente che l’uomo si unisce a gli altri per necessità, dunque è da escludere ogni riferimento a un eventuale principio che unisca in vista di una felicità o fine comune.

Utilizzare espressioni quali “il genere umano” , per Rousseau, vuol dire usare categorie collettive che nulla ci informano sulla reale composizione dei rapporti reciproci fra gli uomini.

L’uomo, inoltre, è un animale perfettibile, dunque in grado di migliorare se stesso e questo dipende in parte dal linguaggio e dalla cultura del tempo.

Laddove l’umanità viene valutata in un rapporto chiaro con la propria storia, è facile affermare che la perfettibilità risiede nel singolo tanto quanto nella specie, e si può misurare nello sviluppo della civiltà.

Ma quando si innesca il processo culturale, non solo grazie al linguaggio ma anche grazie all’evoluzione di categorie sociali quali la famiglia e piccoli gruppi sociali, inizia la preoccupazione dell’uomo non più solo per l’”amour de soi, ma anche dell’opinione degli altri e della propria posizione in seno alle gerarchie della propria comunità.

“L’interesse particolare e il bene generale non vanno affatto d’accordo, al contrario, nell’ordine naturale delle cose si escludono a vicenda”[ref] virgolettati di questo capitolo sono tratti dal cap II del Lib.I del manoscritto di Ginevra, ed Laterza 1994 a cura di Maria Garin, introduzione di Eugenio Garin.[/ref].

A seguito di questa affermazione, Rousseau attacca direttamente l’articolo di Diderot con una critica in quattro punti.

Il contrasto fra il “saggio” e “l’uomo indipendente” per Diderot si misura nel passaggio:” ma devo essere infelice o fare l’infelicità degli altri, e nessuno mi è più caro di me stesso”, mentre per Rousseau non vi è certezza per l’individuo che osserva la legge razionale che tutti gli altri lo rispettino allo stesso modo, inoltre non vi è assicurazione di trovare sempre persone più deboli su cui rifarsi.

In pratica per il Ginevrino “ o mi garantite da ogni ingiusto attacco o non sperate che , a mia volta, io me ne astenga”. Nessuna garanzia dunque da il rispetto della legge naturale mentre un alleanza dei più forti a scapito del debole garantisce una spartizione delle risorse più efficace , dal punto di vista dei vantaggi e di ogni discorso sulla giustizia. Un ritorno poi alle sanzioni divine non farebbe altro che inasprire i contrasti nel “genere umano” visto che ogni credenza nel divino risiede nelle ristrette aree delle diverse comunità, dove ognuno possiede un suo dio, sempre unico e sempre quello giusto. Se anche le religioni hanno fallito sempre nel garantire il “maggior bene di tutti”, chi mai potrà?

Per Diderot:” l’individuo, mi dirà, per sapere fino a che punto il suo dovere è di essere uomo, cittadino, suddito, padre, figlio, quando gli conviene vivere o morire, deve rivolgersi alla volontà generale”, per Rousseau invece anche se la regola è giusta da consultare non risulta adeguata per fornire un motivo di azione conforme in mancanza di una indicazione circa la convenienza ad essere giusti.

Ma se per il nostro editore “ la volontà generale , in ogni individuo, è un atto puro dell’intelletto che ragiona , nel silenzio delle passioni, su ciò che l’uomo può esigere dal suo simile e su ciò che il suo simile ha diritto di esigere da lui”, per Rousseau invece la regola della reciprocità non si attua al livello di legge che giustifica la comunità bensì come regola che garantisca la possibilità di una vita giusta e pacifica fra i partecipanti. Infatti il pensare leggi generali non garantisce all’individuo la possibilità di non ingannarsi negli innumerevoli casi particolari in cui si imbatte nei suoi simili.

Dove poi andrà rintracciata questa legge? Se per Diderot si trova “ nei principi di diritto di tutte le nazioni, il consenso tacito di tutti i nemici del genere umano”, per il nostro filosofo Ginevrino questa è eventualmente rintracciabile solo dall’ordine sociale che vige e a cui l’individuo è abituato a sottostare e dalla quale forse riesce, generalizzando, a proiettare un modello migliore.

La critica al cosmopolitismo dei “philosophe”, che espandendo il loro amor di patria all’amore per l’intero genere umano, “si vantano di amare tutti per essere in diritto di non amare nessuno”, è un analisi che parte da una nuova visione di quell’amor proprio, che nato dall’unione degli uomini in società, impedisce l’ascolto della legge razionale degli enciclopedisti, ma se bene inteso può offrire una chiave di lettura per correggere i difetti della associazione generale attraverso la creazione di nuove forme di associazione politica.

La critica severa che Rousseau rivolge all’articolo comincia a mostrare le differenze e le sfumature fra la diversa concezione dei due autori circa il concetto di Volontà Generale.

Per Rousseau questo concetto si rinnova continuamente e deriva direttamente dalla coscienza popolare, niente a che vedere con una statica ed imperitura legge giusnaturalistica depositata per sempre nei libri del diritto positivo dei giureconsulti.

Già nell’articolo “economia politica” scritto per l’enciclopedia, in un clima di sostanziale concordia con l’amico francese, Rousseau aveva posto un primo accenno alla distinzione tra sovranità e governo che svilupperà nel “contratto sociale” ma già viene inteso che la sovranità spetta al popolo, in una visione che appare organicista come pure in un accenno nel manoscritto quando parla della società generale come un essere morale diverso e superiore dalle parti che lo compongono.

Il rapporto fra questo corpo unico, questo essere morale e l’individuo sarà uno dei temi centrali della nostra analisi.

Dunque la genesi della volontà generale dipenderà più da un processo di socializzazione, nel senso di individui che si uniscono ad un corpo sociale, che da un diritto rintracciabile nella natura dell’uomo.


Cap III: l’amor proprio come chiave di lettura della socialità.

Se la volontà generale si rivela un paradigma così attraente, come io credo, certamente è dovuto alla promessa che sottende quando si pone come regola che lega i rapporti tra gli uomini in un piano di giustizia, libertà e rispetto reciproco.

Per Diderot abbiamo visto che essa si rivela ad ognuno che ragioni con calma in assenza delle passioni.

Questa visione razionalista ha il suo fascino e la sua presa teorica ma non spiega, a mio avviso, come questo principio possa incidere in presenza di individui irrazionali, mancherebbe, infatti la rassicurazione della reciprocità.

Questa come ricordiamo era pure la critica di Rousseau.

Il filosofo ginevrino aveva sottolineato come invece l’uomo avesse un bisogno naturale, una volta entrato in contatto con un determinato gruppo di altri soggetti, di essere accettato dagli altri come un simile, una sorta di preoccupazione per la propria posizione all’interno del gruppo in cui si inseriva. Questa preoccupazione di relazionarsi alla pari con gli altri è il bisogno che ognuno di noi sente di assicurare a se stesso un uguale livello di partecipazione, non solo alla vita del gruppo, ma anche alla condivisione delle risorse.

Questa condivisione sulla base di bisogni e aspirazioni impone a noi stessi e agli altri obblighi e limiti che saranno rispettati reciprocamente grazie alla possibilità che gli uguali bisogni sono riconoscibili naturalmente da ognuno.

Chiedere che il proprio bisogno venga accettato dagli altri ci predispone ad accettare spontaneamente lo stesso bisogno che è in ogni altro.

Su questo punto non vige una legge umana che bisogna comprendere ed aspettare che altri se ne convincano, qui Rousseau fa leva su una visione ampia dell’amor proprio che ognuno di noi sente in se stesso ed è spontaneamente capace di scorgerlo negli altri.

Dunque l’amor proprio ci spinge a riconoscere all’altro uno status di reciproca esistenza, un piano di reciprocità che più che analizzato razionalmente è sentito naturalmente e fatto proprio nell’agire in società. Se il principio di reciprocità è comunque decodificato dalla ragione, dalla coscienza ci muoviamo verso tale atteggiamento mossi da un sentimento.

Questa visione “ampia” dell’amor proprio non è quella classica seguita dalla letteratura sterminata su Rousseau, segue tuttavia la linea tracciata da John Rawls nella sua lezione all’università di Harvard nel 1994 di filosofia politica[ref]A pag. 210 dell’edizione Feltrinelli “lezioni di filosofia politica” John Rawls del 2009 è riportata un ampia spiegazione della visione ampia dell’amor proprio; Rawls nella nota 9 alla stessa pagina dichiara che questa visione è ripresa dagli studi di N.J.H. Dent, Rousseau, Blackwell ,Oxford 1988; e quello di Frderick Neuhouser in Freedom, dependance and general will, in Philosophical Review” luglio 1993 pp37 e seguenti. Neuhouser è il precursore di questa connessione fra l’amor proprio e la reciprocità.[/ref]. Se seguissimo la visione accettata da tutti dell’amor proprio e non questa di Rawls parleremmo unicamente di quel sentimento molto vicino alla vanità, che Rawls chiama amor proprio “perverso”, il quale come sappiamo è un desiderio di dominare l’altro nel confronto, di essere ammirati e onorati dagli altri.

Rawls per dimostrare la fondatezza di questa interpretazione chiama a testimoniare Kant, il quale nella Religione ( libro I, Sez. I, AK: VI : 27) si esprime così :”le disposizioni all’umanità possono essere collocate sotto il titolo generale dell’amore di sé, sempre fisico, ma tuttavia comparato (per cui si richiede la ragione); in quanto ci si giudica felici o infelici solo in confronto con gli altri. Da questo amore di sé deriva l’inclinazione dell’uomo ad acquistarsi un valore nell’opinione altrui ed originariamente , ad acquistarsi , senza dubbio,solo il valore dell’eguaglianza , per cui a nessuno permettiamo la supremazia su noi stessi, sentendo insieme la costante preoccupazione che altri possano aspirarvi.”

L’operazione che vuole fare Rawls è chiara: mettendo a confronto questo passo di Kant con il secondo discorso di Rousseau, ottiene un principio coerente per collegare il pensiero rousseiano fino al contratto in cui è un desiderio, l’amor proprio, che lega fra coscienza e ragione riflessa i cittadini del contratto sociale a un principio di uguaglianza che diviene prima di tutto un bisogno intimo e reciproco.

Un ulteriore confronto, a mio avviso, è da compiersi tra questa visione ampia di Rawls e il dibattito analizzato nel capitolo precedente tra Rousseau e Diderot.

Come ricordiamo Diderot aveva formulato il concetto di volontà generale come diritto naturale intrinseco alla natura umana, ogni individuo che nel silenzio delle passioni interroga la volontà generale può scoprire dentro se cosa è giusto e cosa è sbagliato nella società nel confronto con gli altri.

Rousseau aveva obiettato che anche qualora la legge fosse stata giusta non ci avrebbe dato certezze ne sulla convenienza a seguirla ne ci avrebbe tranquillizzato che gli altri, altrettanto razionalmente, avrebbero agito allo stesso modo verso di noi.

Dunque per Rousseau l’unico principio che potesse motivarci a cercare la comunità degli uomini sta nel bisogno che l’uomo ha del suo simile, quando non è più bastevole a sé e si sviluppa quel sentimento del confronto reciproco che ci accomuna in un istintivo relazionarsi sulla base di un uguale necessità.

L’uomo diventa qualcuno solo in relazione agli altri, in questa comparazione continua comprende il nesso della reciprocità e dunque dell’uguaglianza delle condizioni e dei bisogni che regolano la società umana.

Questi aspetti ci portano ad affermare che il passaggio dalla aggregazione di uomini al progetto politico, si fonda sulla convinzione che il bene di ciascun appartenente al corpo sociale, e così successivamente il bene di ogni sottoscrittore del contratto sociale, coincida con il bene di ogni altro.

L’interesse per se stessi una volta che è posto su un piano di simmetrica reciprocità e capacità di riconoscersi nell’altro diviene un interesse ben inteso, l’interesse per la vita della comunità.

Questo interesse che è comune a tutti fa divenire la volontà di ognuno, se bene intesa, la volontà generale . Il nostro è un ragionamento su come sia possibile la società, stiamo insomma cercando il movente dell’associazione, quel fondamento psicologico che Rousseau dichiarava nel manoscritto di Ginevra nel capitolo V del libro I: “l’utilità comune è dunque il fondamento della società civile”.

Ora però io sono pronto ad evidenziare anche una linea di continuità fra Rousseau e il contesto culturale della sua epoca, una sottolineatura che mi permette di vedere Rousseau allineato alle aspirazioni e prospettive dei lumi.

Infatti l’aver analizzato le differenze fra Diderot e Rousseau ci permette di condividere con quest’ultimo la preoccupazione e lo studio di una volontà generale che sia coerente con le passioni e i bisogni degli uomini veri, “così come essi sono”, ma nello stesso tempo ci mostra ancora una volta che Rousseau è perfettamente inserito nel progetto culturale della modernità posta in essere dagli enciclopedisti: porre l’uomo come unità irriducibile della deliberazione, dell’azione e della responsabilità di tutto ciò che è sociale, per cui i fini umani sono i motivi della nascita, dello sviluppo e del futuro dell’agire politico.

L’individuo umano è il principio della comunità pre-politica, il cittadino è il fine della società politica.


Social_contract_rousseau_pageCap IV: la Volontà Generale la genesi.

La distinzione più importante che concerne quanto detto fino ad ora è che Rousseau tiene sempre forte una divisione fra un popolo e un aggregazione di uomini.

La società politica che è espressione di un popolo, avrà possibilità di esistere solo qualora gli interessi particolari che spingono l’uomo ad aggregarsi ad un gruppo, possano essere superati o si possano evolvere nella direzione di interessi generali.

La prima definizione di Volontà Generale la troviamo nel libro primo, capitolo sei del contratto sociale:”ciascuno di noi mette in comune la propria persona, e ogni proprio potere sotto la suprema direzione della volontà generale; e noi in quanto corpo politico riceviamo ciascun membro come parte indivisibile del tutto”.

Ora ci porremo due domande a mio avviso essenziali, cosa significa volontà generale e qual è il suo ruolo, se ne ha uno, nella giustificazione dell’associazione politica.

Per capire come nasce la volontà generale abbiamo bisogno di muovere dei passi dall’analisi del momento aggregativo al momento dell’entrata di un individuo nel gruppo costituito.

Bisogna insomma fare dei passi all’interno della riflessione intorno al contratto sociale, in modo che se riusciremo a trovare delle risposte alle nostre due domande, certamente le avremo grazie alla nostra premessa circa il processo di socializzazione che in qualche modo prelude o già comprende il nesso con la possibilità della volontà generale.

Infatti la famosissima premessa capolavoro politico di Rousseau, uno degli incipit tra i più conosciuti nella storia della filosofia occidentale, se letto con attenzione già contiene in se tutte le domande e gran parte delle importanti questioni che attengono alla nostra riflessione:

“ voglio cercare se nell’ordine civile può esservi qualche regola di amministrazione legittima e sicura, prendendo gli uomini come sono e le leggi come possono essere. Tenterò di associare sempre in questa ricerca ciò che il diritto permette con ciò che l’interesse prescrive perché la giustizia e l’utilità non si trovino ad essere separate.”

Partire dalla reale natura dell’uomo, dai suoi bisogni e dalle sue passioni, per costruire una società che conughi giustizia e libertà è un progetto moderno, e illuminista, centrale nel dibattito dell’epoca in cui si trova il nostro autore, ma è anche un operazione che ha bisogno di un principio che funga da collante sicuro per non ricadere nell’utopia razionalistica dei philosophe che Rousseau aveva contestato.

Il punto resta che secondo Rousseau non avrebbe avuto senso parlare di leggi razionali per motivare l’uomo a lasciare lo stato di natura di relativa indipendenza e libertà per entrare in società senza mostrargli un vantaggio per questa scelta;invece c’ è la possibilità che il bisogno che nasce da una inadeguatezza delle possibilità dell’uomo , a un certo punto della sua storia, rispetto alle proprie necessità, fornisca il naturale stimolo alla accettazione della sottomissione alla volontà generale.

Tutti vogliono la società, è nell’interesse di ognuno ; comprendere questo sarà un equilibrio tra sentimento e ragione.

Il rispetto della comunità, nelle deliberazioni della società politica, sarà dunque un criterio normativo per fornire un fondamento alla società partendo appunto dalla comprensione che ogni singolo ha scelto liberamente di entrarvi in conformità al proprio bisogno di servirsi della forza comune in relazione alla propria condizione di uomo non più autosufficiente.

Ma è questa autosufficienza che va ricercando e la società dovrà dargliela e lui dovrà corrispondere altrettanto ai suoi simili, non perché una legge gli appare in se stesso, ma perché nel confronto l’uomo ha imparato a rivedere se stesso.

A questo punto posso azzardare un primo chiarimento su questo concetto a partire dal presupposto che per trovare il contenuto della volontà generale bisogna attendersi che l’individuo debba fare una distinzione precisa fra i suoi interessi al fine di poter individuare l’interesse ben inteso[ref]Per l’approfondimento di questa tesi faccio riferimento a:” eguaglianza interesse, unanimità” di Alberto Burgio ed bibliopolis 1989 napoli cap 6 “Volontè gènèrale e raison publique.[/ref].

Questa possibilità, io dico, è pensabile al momento che l’individuo che si trovi con una serie di necessità vitali non più soddisfabili nella sua ferina solitudine, compresa l’importanza che l’aggregazione con altri gli consente di superare questo handicap, sviluppi, prima ancora che una oziosa competizione con il proprio sodale, la capacità di leggere correttamente entro la propria coscienza l’uguale condizione di ogni altro che è la base di questa forza con cui l’aggregazione sopperisce alla propria condizione di inadeguatezza a restare indipendente.

La volontà generale è dunque una categoria trascendentale che nasce dalla riflessione che ogni uomo deve compiere per comprendere come l’interesse bene inteso al rispetto per la società è l’assicurazione al soddisfacimento dei propri bisogni; il riconoscimento che il proprio desiderio di essere accettati a pari condizioni in questa associazione passa per l’accettazione dello stesso diritto del proprio sodale, questa è la garanzia al successo dell’intera struttura.

È la convergenza degli interessi comuni che rende possibile la società politica, e l’interesse bene inteso produce quel legame sociale che fa nascere la volontà generale.

Ma fino a qui abbiamo analizzato l’entrata in società degli “uomini come sono”, proviamo ora a verificare se da questo presupposto si può passare alla comunità politica con le leggi come “dovrebbero essere”.

Il passaggio da una moltitudine a un popolo, e cioè da una aggregazione di uomini alla società politica, può avvenire allorquando il principio della volontà generale può essere innalzato a categoria generale e preso come contento valoriale per l’edificazione della società giusta ed uguale.

La mia ricerca è nata successivamente alla lettura del famoso saggio del prof. Mario Reale, “le ragioni della politica” che ancora oggi risulta essere una pietra di paragone per lo studio della teoria Rousseaiana , in considerazione che nel settimo capitolo, parlando del nucleo teorico del contratto sociale , il prof. Reale spiega che il punto più alto della teoria di Rousseau è : “quello che fa consistere la politica non già nella garanzia della coesistenza di interessi contrastanti, bensì in ciò che in questi stessi interessi è immediatamente comune, nel punto di unione dove essi si accordano e si fanno solidali”. Trovo questo passaggio essenziale per impegnarmi a comprendere a fondo come dal punto di vista della volontà generale, la politica, la società e tutto ciò che ne deriva possa essere inquadrata come un unione in vista del bene comune.

Ma questo bene comune non ha una accezione utilitarista, non è cioè un unione di uomini che agiscono per la massimizzazione dei loro interessi particolari anche se coincidenti; qui la convergenza degli interessi comuni rende possibile la società politica, la fonda e non crea uno strumento per la soddisfazione degli stessi, anzi questa convergenza, dovuta alla necessità che l’amor proprio genera, rende possibile la volontà generale che nell’atto di istituire la società politica, diviene il principio guida per formulare la regola su cui modellare quelle leggi “come possono”. Cosa vuole dunque la volontà generale se non che le leggi della società siano pensate esclusivamente su interessi comuni, e questi possono essere individuati solo in termini di interessi fondamentali quali la sicurezza della persona, la difesa della proprietà privata.

Questo è un punto evidente visto che l’uomo di natura indipendente ricerca il proprio simile, laddove nella propria originaria solitudine non riesce più a garantirsi quel cibo, quel riparo, quella difesa dagli altri predatori che invece l’unione con altri può garantire.

Dunque la sicurezza della persona è un interesse fondamentale coincidente e preesistente all’unione, che spinge verso essa e ci aiuta a comprendere che la volontà generale muove da questa ricerca e produce leggi che devono rispondere a questi presupposti.

L’uomo vuol restare libero come prima, ma ha bisogno di una forza che da solo non possiede, per ottenere un equilibrio fra queste due necessità bisogna almeno verificare che la società che scaturisce da questa unione sia legittima, ovvero mostri una coerenza tra la natura della volontà generale e la sua espressione, cioè le leggi che ad essa si ispirano.


Cap V La legge come espressione della volontà generale

Nel paragrafo precedente ho sottolineato come il bene comune, che se ben inteso possiamo indifferentemente chiamare anche” la convergenza degli interessi”, non ha una natura utilitarista, anzi, questa convergenza nega ogni massimizzazione della felicità intesa come somma della soddisfazione di tutti gli interessi dei singoli. La società che si fonda sulla volontà generale non può che esprimere l’interesse di tutti nel senso di ottemperare alle aspettative di ognuno.

Già nell’articolo “economia politica” Rousseau bollava come la più esecrabile tra le tirannie quella società pronta a sacrificare un singolo in vista del bene comune. L’ interesse fondamentale comune a tutti gli uomini è dunque il bene comune. Questa società retta dalla volontà generale è resa possibile qualora la cooperazione sociale sia tesa alla realizzazione dei presupposti per una corretta attuazione degli interessi fondamentali di ogni membro. La cooperazione sociale deve produrre una sistema che mantenga inalterate le possibilità di ognuno di soddisfare i propri bisogni fondamentali, questo significa che ognuno cooperando allo sviluppo degli strumenti che innescano i processi deliberativi deve agire con il fine di armonizzarsi all’interesse comune.

Tanto che il singolo sia deputato alla formulazione di una regola generale, tanto che il singolo sia chiamato alla scelta tra diverse opzioni deliberative in relazione alle regole della società, ciò che è sempre richiesto dalla volontà generale è che il singolo agisca e scelga sempre in conformità a ragioni dipendenti solo dagli interessi fondamentali che condivide con ogni altro membro della società politica.

Qui l’interesse generale prevale su qualunque interesse particolare. Questa osservazione è comprensibile alla luce di quanto da me sostenuto nei capitoli precedenti, infatti gli appartenenti a questa società politica sono uomini consapevoli della necessità della società politica come rimedio alla propria inadeguatezza rispetto alle necessità vitali. Questi uomini agiscono dunque in una consapevolezza simmetrica rispetto ad ogni altro individuo, che attraverso il sentimento dell’amor proprio hanno imparato a riconoscere al fine di essere essi stessi riconosciuti come uguali.

Solo quelle scelte che hanno un senso entro la realizzazione degli interessi comuni saranno da considerarsi espressione della volontà generale.

Ognuno deve riconoscere all’altro un posto legittimo nella comunità, ognuno lavorando per gli altri lavora in realtà già per se stesso.

I doveri nella società politica sono vincolanti solo se sono reciproci, questo è il punto focale su cui Rousseau fa perno per pretendere che la società costruita dalla volontà generale è legittima.

La volontà generale nasce in ognuno disposto ad unirsi a tutti gli altri in una reciproca cooperazione per un fine comune, allo stesso tempo essa si riferisce a tutti quando ognuno è disposto a vedere in ciascuno gli stessi fini che si ricerca per se stesso.

Se la nostra lettura non ci inganna la certezza di ciò che ho affermato poggia sulla naturale predilezione che ognuno conserva per se stesso.

La società politica ci garantisce quella forza che ci manca per l’autoconservazione, ognuno di noi è qui per attingere a questa forza comune, l’interesse comune è l’interesse di ognuno.

Tuttavia potremmo concordare con David Hume che non è irrazionale preferire la distruzione di tutto il genere umano piuttosto di soffrire per un taglio al dito di una mano, eppure laddove il singolo riesca a leggere l’interesse ben inteso e sappia riconoscere gli interessi fondamentali che lo legano alla cooperazione sociale, allora la deliberazione avverrà su un piano di uguaglianza e le scelte che ne seguiranno garantiranno la giustizia.

La volontà generale garantisce un fondamento all’idea che la sovranità coincida con la totalità dei cittadini; essa ci dice che le deliberazioni di questa totalità, vanno dal popolo intero su e per il popolo intero. Il popolo fa atto sovrano solo quando emana regole generali che riguardano la società nel suo insieme. Queste regole, chiamate leggi, saranno espressione della volontà generale per origine e per contenuto. La volontà generale come giustificazione del potere legittimo, la regola di amministrazione legittima prendendo gli uomini come sono e le leggi come possono essere. Alla fine di questa analisi possiamo affermare che la volontà generale nasce come risposta all’obiezione dell’uomo razionale che chiedeva, a fronte di un comportamento giusto, di essere protetto da un’eventuale comportamento ingiusto da parte degli altri. La volontà generale nasce quindi come risposta alla ricerca di una razionalità che giustifichi la forza dello Stato; gli individui si sottomettono non a un potere qualsiasi, ma solo a quello che garantisca ognuno dalle ingiustizie dell’altro.

L’uomo indipendente “pre-sociale” è disposto a entrare nella società politica a patto che le deliberazioni del potere costituito si applichino a tutti in egual misura nella direzione di moderarne le passioni negative. Questo ordine sociale è solo quello fondato sulla volontà generale. Ne troviamo una dimostrazione nel passo di Rousseau: “Ciascuno di noi mette in comune la propria persona e ogni proprio potere sotto la suprema direzione della volontà generale; e noi in quanto corpo politico riceviamo ciascun membro come parte indivisibile del tutto”[ref]Contratto sociale,cap III …[/ref]. Questo passo ci dice che la volontà generale guida le forze dello Stato nella direzione per cui gli individui lo hanno creato e cioè nella direzione del bene comune. L’istituzione del patto sociale è fatta da individui che si sottomettono attraverso un patto a un corpo sovrano che essi stessi istituiscono e di cui essi stessi fanno parte. Ogni individuo diventa così sia cittadino che suddito, questa è la scelta razionale che obbliga ognuno ad obbedire ai comandi di un’autorità sovrana formata da loro stessi e che è pensata per deliberare nel senso del bene comune. Come diceva lo steso Rousseau è impensabile che “il corpo voglia nuocere a tutti i suoi membri”[ref]Contratto sociale 1 Cap.7[/ref], ciò andrebbe in contraddizione con i motivi della fondazione; la garanzia della reciprocità degli obblighi è data inoltre dal fatto che tutti i membri si trovano in una stessa e simmetrica obbligazione rispetto al sovrano. La volontà generale garantisce l’equilibrio fra l’interesse privato del singolo, che per questo accetta di entrare in società, e l’interesse pubblico che per tutti è la salute della società politica ben ordinata. Per capire meglio come sia possibile questo equilibrio fra l’eguaglianza dei diritti individuali e la reciprocità degli obblighi basta pensare ancora una volta alla teoria della legge: la legge per Rousseau è il fondamento della giustizia e della libertà. Essa è una deliberazione del Sovrano che si applica a tutti ed è universale nel senso che il suo oggetto è indirizzato a regole generali e mai a qualcuno in particolare.