In questo angolo ospitiamo interventi di importanti studiosi e liberi pensatori che arricchiscono il nostro dibattito.

Presentazione FIM – Campania

In questo senso, allora, sarà nostro obiettivo moltiplicare le occasioni di incontro e di dibattito, anche in luoghi non “istituzionali”, al fine di coinvolgere, socraticamente, le intelligenze di tutti. Del resto, se nel nostro contemporaneo è in atto un conflitto, e sulla base delle cose dette, sembrerebbe proprio di sì, dobbiamo presupporre che ciascuno di noi abbia il proprio, specifico modo di affrontarlo.

Simplicio e la scienza, o della necessità della filosofia

La cosa più difficile da far capire al Simplicio nostro contemporaneo – utilizziamo questo nome in onore a Galileo – è che quando sta parlando di cosa sia la scienza e di cosa includere o meno al suo interno, non sta facendo più scienza (la sua specialistica scienza nella quale può essere anche bravo: fisica, chimica, matematica e quant’altro), ma qualcosa di diverso da essa. Chiamatelo come volete (filosofia, epistemologia, “discorso sensato”, buon senso ecc.), ma non è certo scienza, cioè quella scienza della quale vuole difendere la “scientificità”.

L’educazione sentimentale. Fondamenti teorici e presupposti metodologici

L’educazione sentimentale si rivolge a una sfera della persona che precede l’eventuale concretizzazione del rapporto una volta che i due (o più) individui sono entrati in relazione: che sia la realizzazione di un’amicizia, dell’ingresso in un gruppo o in una squadra come anche di un rapporto amoroso, una corretta «alfabetizzazione» emotiva e relazionale è alla base della possibilità di allacciare relazioni sane ed equilibrate.

La disgregazione del legame sociale

I concorrenti a qualsivoglia incarico o selezione non accettano i giudizi delle commissioni; i parenti del paziente che muore sotto i ferri, immediatamente fan causa ai medici per la loro imperizia, al punto che si è sviluppata un vero e proprio ramo assicurativo, la “medicina difensiva”; chi perde una causa se la prende coll’avvocato che lo difende; i genitori dei ragazzi bocciati a scuola mettono sotto accusa i docenti; chi viene bocciato in un concorso universitario, immediatamente evoca una combine di baroni. E tutti, se possono, fanno ricorso al TAR, che spesso si mostra assai ben disposto a riconoscere le ragioni dei presunti maltrattati.

Si assiste a un sempre più endemico diffondersi di comportamenti analoghi. In passato questo comportamento non era così diffuso. Cosa è cambiato allora, in cosa la società si è modificata per dare luogo a questa micro-conflittualità così diffusa e pervasiva?

Prendiamo il caso più eclatante: una volta il paziente si affidava fiducioso alle cure del proprio medico, consapevole che questo avrebbe fatto tutto il possibile per curarlo. E quando entrava in ospedale, non pensava che i medici fossero lì riuniti per mandarlo all’altro mondo, ma che agivano al meglio delle loro possibilità, in scienza e coscienza, per rimetterlo in sesto. Certo, poteva scapparci il morto, l’operazione poteva andar male, l’imperscrutabilità del caso poteva metterci il proprio zampino. Ma questo rientrava a pieno titolo nella contingenza delle cose umane, nella imperfezione degli eventi, nella possibile fatalità delle circostanze, nell’inevitabile margine di errore che è proprio di ogni cosa posta in atto dalla normale umanità, non dai marziani. A contare di più era la consapevolezza di aver ricevuto una assistenza umana, di essere stati trattati non come pazienti affetti da un morbo da curare, ma come uomini di cui ci si prende cura nell’integralità del loro essere, avendo rispetto per i loro sentimenti, la loro personalità, con il senso di affetto che deriva da una famiglia che può in qualche modo compartecipare alla cura e dei medici che non lo vedono come un “paziente”, solo un numero su una cartella, ma un umano sofferente nella totalità del suo essere. E anche la morte, in questo caso, non si accompagna con quel senso di disperante solitudine di chi si vede abbandono in un letto, in una camera dalle pareti bianchi di un freddo, anche se efficiente ospedale.

Lo stesso avveniva nelle varie prove che si dovevano superare nel corso della vita (concorsi, esami, giudizi): si metteva in conto il raccomandato e il fatto che la commissione era fatta da persone che potavano azzeccare o sbagliare il giudizio, ma il più delle volte i bocciati non pensavano di essere i più bravi che ingiustamente erano stati scartati a favore di persone che erano tutte più asini. Il più delle volte si era consapevoli di non avercela fatta, di aver sbagliato la prova, di essere stati impari al compito o semplicemente di essere stati sfortunati. E così avveniva a scuola: il bocciato non era la vittima di una sadica pratica educativa, ma era tale perché immeritevole, perché non aveva studiato; e le famiglie non davano la colpa ai docenti, ma al proprio figlio che si era poco applicato e magari lo prendevano a ceffoni affinché si mettesse sulla giusta via.

Ma il fatto che oggi tali meccanismi non funzionino più così è il sintomo di ciò che si potrebbe definire la progressiva disintegrazione del legame sociale, ovvero il decadimento della solidarietà tra le diverse parti che funzionalmente compongono la società. In ogni sistema complesso, in ogni società, v’è una interconnessione tale per cui ciascuna sua parte si affida al funzionamento dell’insieme. Si può dire che senza questa fiducia, senza questa solida e tacita base, mai messa in discussione, non si potrebbe nemmeno articolare la vita sociale. Certo esistono i conflitti, ma questi possono avvenire solo nella misura in cui ci si affida ad altri: ai propri compagni; ai componenti del proprio gruppo, della propria famiglia, della propria comunità; e nel momento in cui scoppiano con violenza, tendono poi a ricomporre un nuovo equilibrio, una nuova forma di solidarietà. E così, per continuare nel nostro esempio, accade che il paziente ha fiducia nel medico ritenendolo portatore di una conoscenza certificata da una università in cui i docenti hanno fatto il proprio meglio per trasmettergli la capacità di utilizzare le terapie migliori. Ma quando si viene a spezzare questo legame di fiducia, si diffida della conoscenza di cui il medico è garante, si nutre un profondo discredito dell’università che gli ha conferito il titolo, non si pensa che questa raccomandi le terapie migliori. Ed ecco allora il ricorso ai guaritori, alle medicine alternative, ai centri di cura eterodossi. Lo stesso avviene negli altri campi: il proprio ragazzo è bocciato? Sono i docenti ad essere incompetenti, e l’università che li ha formati non li ha saputo preparare, perché i suoi docenti sono dei fannulloni dediti solo ad ordire trame concorsuali. E così via.

Si viene così pian piano a logorare quel reciproco inconsapevole affidarsi, che è al tempo stesso un complessivo avallo del sistema sociale e dei processi di formazione, selezione e valutazione messi in atto dall’organizzazione complessiva di uno stato e dalle sue articolazioni territoriali e istituzionali. Ciascuno diffida del proprio prossimo e della qualifica, della competenza, della moralità di cui è portatore; e alla prima occasione, appena in qualche modo ritiene di essere stato danneggiato, è pronto a fare ricorso all’autorità giudiziaria. E sempre più spesso v’è qualcuno che si ritiene danneggiato: lo sono per definizione tutti i bocciati, gli esclusi, gli emarginati. In questo clima ha una funzione di ulteriore disgregazione la martellante campagna di diffusione dell’odio sociale che si esprime continuamente in vari ambiti: immigrati contro residenti; immigrati di seconda generazione contro quelli appena arrivati; assegnatari di case popolari contro gli abusivi; cittadini stanziali contro zingari; regioni contro altre, persino juventini contro interisti. Eppure tutto ciò non porta al conflitto aperto, alla crisi che poi è foriera di un riassetto del legame sociale su nuove base, a una “lotta di classe” che permette di ristabilire diversi equilibri. No, si ha un progressivo, lento, sterile e privo di prospettive deteriorarsi del legame sociale, alla cui fine restano solo le macerie.

Non è la prima volta nella storia che accadono fenomeni simili; e ogni volta o la società ha ritrovato in sé la forza di rinsaldare il legame sociale, oppure è andata incontro a un processo di progressivo sfaldamento che non l’ha posta in grado di reggere le sfide del futuro. È stata la condizione tipica dell’impero romano nel periodo della sua decadenza, quando non bastava la moltiplicazione delle norme e dei regolamenti a rimettere in piedi un organismo in disfacimento; è stata la condizione dell’Ancien Régime, in Francia, come nella Russia zarista e poi in quella sovietica. Sembra anche la condizione dell’Europa d’oggi, nella quale un singolare ruolo di avanguardia sembra stia avendo proprio l’Italia.

Italian Theory?

 

Che cos’è la cosiddetta “Italian Theory”? Per quali ragioni è diventata di recente così centrale in una serie di dibattiti ontologici e politici, soprattutto nel mondo anglofono, dibattiti che coinvolgono non soltanto la filosofia ma anche le scienze sociali? E anche: da dove proviene la sua spesso elusiva prossimità alla biopolitica, una politica per la quale, seguendo la definizione di Giorgio Agamben, “il potere non ha di fronte a sé che la pura vita biologica senza alcuna mediazione”?

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J.V. Andreae e l’”illuminismo” rosacrociano

Il secolo dei contrasti: La rivoluzione scientifica e l’Illuminismo, le due colonne portanti della civiltà contemporanea, da un punto di vista storiografico, sono relativamente semplici da “comprendere”, se si osservano da una prospettiva che li presuppone, guardando dal presente verso il passato, per coglierne gli elementi caratterizzanti, innovativi e ricchi di conseguenze; decisamente più complesso è, invece,  il lavoro che attende chi vuole cimentarsi con le profonde e intricate radici da cui hanno avuto origine.

La storiografia ha sostanzialmente seguito la via più semplice fino alla prima metà del Novecento, individuando nella rivoluzione scientifica il discrimine tra magia e scienza, tra prospettive metafisico-teologiche e indagine sperimentale. Ma questo atteggiamento, riduzionista e positivista, perdeva di vista i tipici contrasti seicenteschi, la complessità caratteristica dei grandi fenomeni culturali e dei mutamenti paradigmatici [ref]T. Khun, La struttura delle rivoluzioni scientifiche,  1962[/ref].

La storiografia più recente[ref]Per esempio, W. Pagel, D.P. Walker, F.A. Yates, C. Webster , E. Garin, P. Rossi[/ref] ha evidenziato tale complessità, portando alla luce la convivenza di istanze metafisiche, teologiche, magico alchemiche e proto-scientifiche nei grandi protagonisti della rivoluzione scientifica e nei precursori dell’illuminismo. L’eliocentrismo copernicano fu ispirato da una visione del mondo neoplatonica ed ermetica, le leggi di Keplero nacquero sulla base del “presupposto” neoplatonico di un divino ordine geometrico del cosmo, il metodo sperimentale galileiano fu formulato anche grazie all’ispirazione del Timeo platonico e la fisica newtoniana fu anche espressione di una visone del mondo magico-ermetica e alchemica[ref]Michael White, Newton. L’ultimo mago, Rizzoli, 2001[/ref].

Relativamente ai contrasti e alla convivenza di istanze magico-esoteriche con altre scientifiche e preilluministiche, paradossali per la mentalità contemporanea, ma, di fatto, strutturali nel Seicento e nel Settecento, risulta emblematica la figura del teologo luterano Johann Valentin Andreae (1586-1654), unitamente alle vicende della misteriosa setta dei Rosacroce, di cui egli fu certamente, quantomeno, autorevole rappresentante.

Johann Valentin Andreae:

Andreae nacque a Herrenberg il 17 agosto del 1586. La sua personalità complessa e, per certi versi, enigmatica, fu probabilmente influenzata sia dal nonno  Jacob, teologo e fautore dell’ortodossia luterana, sia dal padre Johann, appassionato di astrologia, alchimia e di tutti gli aspetti dell’esoterismo.

La sua vita rappresenta in modo emblematico il secolo dei contrasti e degli ossimori. L’oscillazione tra tradizione e utopia, l’impegno nel campo della cultura accompagnato da quello nell’assistenza ai poveri e ai  malati nell’Europa funestata dalla guerra dei 30 anni, i riconoscimenti pubblici spesso oscurati dalle accuse e dai sospetti legati ai suoi presunti legami con i Rosacroce, con conseguenti problemi per la sua carriera ecclesiastica, sono gli aspetti principali di un’esistenza dedicata alla realizzazione dei valori cristiani, di un uomo che, attraverso una rete di contatti con le menti più illuminate del tempo, da Hartlib a Comenio, favorita dalla comune appartenenza a una società esoterica,  si prefiggeva un rinnovamento generale, spirituale, culturale e politico, oscillando tra cristianesimo, ermetismo e idee non distanti dalla sensibilità scientifica e illuminista.

Andreae studiò teologia a Tubinga, dove strinse amicizia, tra gli altri,  con Christoph Besold (1577-1638), che si interessava di cabbala e occultismo e tradusse un testo satirico di Traiano Boccalini (1556-1613)  intitolato I Ragguagli di Parnasso, con Johann Arndt (1555-1621), mistico sospettato di essere rosacrociano, con Tobias Adami (1581-1643), filosofo, amico e curatore delle opere di Tommaso Campanella e con Tobias Hess (1558–1614), uomo di straordinaria erudizione, eminente giurista, teologo e cultore della medicina paracelsiana. Queste amicizie gli valsero numerosi problemi e sospetti legati allo scalpore seguito alla pubblicazione dei manifesti rosacrociani, apparsi anonimi a Kassel e Francoforte tra il 1614 e il 1615. Intrighi e sospetti costrinsero Andreae ad esprimersi più volte, in vari scritti, contro la favola e il “ludibrio” rosacrociano e a numerosi viaggi, in Svizzera, in Francia, a Venezia e Roma. Negli anni successivi tentò di costituire una “Società cristiana”, insieme agli stessi amici del circolo di Tubinga e ad altri dotti quali Keplero e Comenio. Lo scopo di questa associazione era quello di una riforma generale, con intenti irenici riguardo al cristianesimo, concepito come meno dogmatico e più orientato all’assistenza degli ultimi, e con un grande ruolo attribuito al rinnovamento del paradigma pedagogico, prefigurato nella Christianopolis andreana e certamente incentivato dalla presenza di Comenio. Lo stesso Andreae scriverà nell’autobiografia che molti videro nella “Società cristiana” una manifestazione, sotto altro nome, della Confraternita rosacrociana.

La Guerra dei Trent’anni limitò fortemente l’attuazione del progetto di “Società cristiana”: non solo erano difficili i contatti tra gli aderenti, ma andarono anche dispersi molti manoscritti delle opere che intendevano propagandare gli ideali di tale Società (in particolare la Christianae societatis imago e la Christiani amoris dextera porrecta). La stessa biblioteca di Andreae fu distrutta da un incendio di cui fu vittima la città di Calw, in cui il nostro svolgeva la funzione di abate.

Malgrado le grandi difficoltà e qualche momento di sconforto (nel 1629, con una lettera, incaricò il suo ammiratore e amico Comenio di portare avanti il progetto di Società cristiana, dichiarando il proprio fallimento), Andreae continuò a tentare di realizzare la sua Società e i suoi intenti riformatori, cercando, ad esempio, di coinvolgere il duca Augusto di Brunswick-Lunebourg e impegnandosi in un progetto di riforma del sistema scolastico nel Wurttemberg, a partire dal 1638. Andreae morì nel 1654, dopo essere stato nominato abate di Adelberg.

Andreae e i Rosacroce: 

Sono state scritte tantissime pagine nel tentativo di chiarire il rapporto che è intercorso tra J.V. Andreae e la misteriosa Confraternita Rosacrociana di cui si parla nei due manifesti apparsi anonimi a Kassel e Francoforte tra il 1614 e il 1615, ovvero la  “Fama Fraternitatis“[ref]La  “Fama Fraternitatis” fu pubblicata anonima, in lingua tedesca, a Kassel nel 1614. Il libello conteneva anche un’epistola al lettore, la Generale riforma dell’Universo, che era la traduzione del Ragguaglio LXXVII, tratto dai Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini, opera edita a Venezia nel 1612. In tale Ragguaglio, Boccalini immagina che Apollo consulti i sette savi della Grecia per trovare un rimedio alla terribile situazione nella quale è precipitato il mondo; tra le varie proposte, agli autori della “Fama” , vista anche la comunione dei beni praticata nella “Christianopolis” di Andreae, doveva piacere quella di Solone, che, in quest’opera, attribuisce all’ineguale distribuzione delle ricchezze la causa di tutti i mali;  La “Fama” narra le vicende del misterioso e illuminatissimo Christian   Rosenkreutz, che dedicò la propria lunga esistenza (1378 – 1484)  a una riforma generale. Rosenkreutz fu formato in Germania in un convento ed ebbe occasione di viaggiare a Damasco, Damcar, Fez, e in Egitto; apprese così numerosi segreti, tradusse il misterioso Liber M e osservò l’abitudine dei dotti africani e arabi di riunirsi periodicamente per confrontarsi sulle nuove conoscenze relative alla natura, alla matematica e alla magia. Rientrato in Germania, Rosenkreutz fondò la confraternita rosacrociana, insieme ad otto confratelli, che si impegnarono a rispettare alcune regole, come curare i malati gratuitamente e adeguarsi ai costumi e agli abiti dei paesi dove soggiornavano (l’invisibilità era una prerogativa fondamentale dei Rosacroce). Il testo della “Fama” è fortemente influenzato dalle idee paracelsiane. Di Paracelso si dice che, pur non avendo aderito alla Fratellanza rosacrociana, aveva tuttavia letto il misterioso Liber M che Cristiano Rosacroce aveva tradotto in latino e portato con sè dall’Arabia; si dice inoltre che i suoi libri furono ritrovati nella cripta di Christian Rosenkreutz e, in linea col suo pensiero, si condanna la falsa alchimia che persegue la fabbricazione dell’oro e si promuove quella che mira al rinnovamento interiore, tema caro anche al secondo manifesto rosacrociano.[/ref] e la “Confessio Fraternitatis“[ref]La ” Confessio Fraternitatis” fu pubblicata a Kassel nel 1615 insieme alla Secretioris philolosophiae consideratio brevis a Philipp a Gabella, ispirata alla “Monas Hieroglyphica” del matematico inglerse Johon Dee. Nella “Confessio” vengono ampliate alcune tematiche accennate nella “Fama”,  in 14 brevi capitoletti in cui, tra l’altro, si  sottolinea che è Dio che vuole cambiare il corso del mondo e che non ci sono né eresia né intenti rivoluzionari in seno alla Confraternita. Il settimo capitolo annuncia un’epoca di luce, verità e gloria, paragonabile al Paradiso perso da Adamo, che precederà la fine del mondo.Tutto ciò sarà facilitato dagli scritti e dall’opera di uomini illuminati.  Secondo F. A. Yates, i Rosacroce vedevano come potenziale artefice della riforma generale della società Federico V del Palatinato, la cui sconfitta, nella battaglia della Montagna bianca del 1620, segnò, infatti, l’attenuarsi dell’entusiasmo rosacrociano. La condanna dei ciarlatani, l’odio per la brama di ricchezze e di qualsiasi bene superfluo, così come anche delle guerre e del papato, sono tutti temi particolarmente cari ad Andreae, e spesso presenti nelle sue principali opere.[/ref]. Certamente Andreae è l’autore delle “Nozze chimiche” di Christian Rosenkreutz: anno 1459[ref]La terza opera in cui si riscontrano notizie biografiche sul mitico Christian Rosenkreutz, ovvero Le Nozze chimiche Nozze chimiche di Christian Rosenkreutz: anno 1459, fu scritta in lingua tedesca da Andreae e pubblicata anonima nel 1616 a Strasburgo dall’editore Zetner.Il racconto delle “Nozze” è biblicamente scandito in 7 giorni ed è ricco di simboli, sotto forma di immagini, strani episodi, animali mitici, numeri e disegni etc. che alludono, presumibilmente, al cammino spirituale dell’anima verso l’illuminazione. I temi trattati sono quelli cari ad Andreae e al Circolo di Tubinga: l’ideale di una società basata sull’uguale distribuzione delle ricchezze; la pratica dell’alchimia spirituale, contrapposta a quella dei “soffiatori”; il percorso iniziatico individuale, che parte dall’abbandono delle pesanti catene che legano l’uomo, cioè i vizi e le passioni terrene, per passare attraverso la conoscenza della natura e culminare nella suprema ignoranza, che consiste in una  condizione di “vuoto” interiore teso a favorire l’unione mistica con Dio.[/ref], apparse a Strasburgo nel 1616, in stretta connessione coi due suddetti manifesti, poiché egli stesso lo ammise nella Vita ab ipso conscripta, giudicandolo un “ludibrium plane futile”.

È certo, inoltre, che a partire dal Menippus del 1617, Andreae si è, almeno formalmente, apertamente schierato contro i Rosacroce. In una nota della sua corposa monografia su Andreae e i Rosacroce, Roland Edighoffer[ref]Roland Edighoffer, Rose-Croix et Société ideale selon Johann Valentin Andreae, 2 voll., Neully-sur-Seine, Arma Artis, 1982[/ref] suddivide in quattro gruppi gli studiosi che si sono pronunciati riguardo all’autore dei manifesti: ci sono coloro che ritengono che l’autore sia Andreae; quelli che propendono per una paternità incerta; altri ritengono che siano opera di un cenacolo; e infine c’è chi esclude in modo assoluto una partecipazione di Andreae.

Il panorama delle interpretazioni si complica ulteriormente quando la ricerca concerne la reale esistenza o meno di una Fraternità rosacrociana e dunque l’appartenenza di Andreae ad essa e il suo eventuale successivo abbandono.

L'”insolubilità” di questa vicenda è legata all’ambiguità del linguaggio di Andreae riguardo ai Rosacroce e alla mancanza di documenti che provino l’esistenza di una società segreta rosacrociana nel  XVII secolo e che smentiscano quelli che, con Paul Arnold[ref]Paul Arnold, Storia dei Rosa-Croce [HistoirHistoire des Rose-Croix Paris, 1955], traduz. di Giuseppina Bonerba, prefaz. di Umberto Eco, Milano, Bompiani, 1991, p. 171[/ref], sostengono che all’inizio non esisteva nessuna Fraternità rosacrociana, ma solo un gioco letterario portato avanti da un cenacolo di Tubinga e nel quale era implicato Andreae.

Diversi autori considerano sincere le prese di posizione andreane contro i Rosacroce. Tra questi si trova Enrico De Mas, che fa risalire il mutamento di prospettiva avvenuto dopo il 1616 alla lettura della Citta del Sole di Tommaso Campanella. Secondo De Mas, Andreae si sarebbe reso conto dell’inconciliabilità tra l’ermetismo e la teologia riformata[ref]E. De Mas, Introduzione, in J.V.A., Descrizione della Repubblica di Cristianopoli, [Reipublicae christianopolitanae descriptio, Argentorati,1619], introduz., traduz. e note a cura di Enrico De Mas, Napoli, Guida, 1983. p. 15[/ref].

John Warwick Montgomery[ref]J.W.Montgomery, Cross and crucible-Johann Valentin Andreae (1586-1654) Phoenix of the theologians, The Hague,  Nijhoff, 1973[/ref] e Roland Edighoffer interpretano gli attacchi di Andreae ai Rosacroce come segni di pentimento per la recente avventura ermetica; entrambi considerano le “Nozze chimiche” come un’opera scritta per testimoniare il ritorno all’ortodossia luterana.

Edighoffer individua tra le fonti delle “Nozze” il Corpus Hermeticum, la Monas hieroglyphica e l’Amphiteatrum sapientiae aeternae di Heinrich Kunrath, ma asserisce che gli elementi e i simboli tratti da queste opere sono utilizzati in un contesto completamente diverso, che non ha nulla a che vedere con le speculazioni ermetiche o cabbalistiche. Nelle “Nozze” si assisterebbe, dunque, a una sorta di conversione di Ermete e si avrebbe a che fare con una Alchimia cristiana che, servendosi di metafore, esprime il mistero cristiano della rigenerazione. Dunque l’ortodossia cristiana delle “Nozze” avrebbe lo scopo di correggere l’eterodossia pagana della “Fama”.

Frances Yates[ref]F. A. Yates, L’illuminismo dei Rosacroce [The Rosicrucian Enlightenment, London, 1972], traduzione di Metella Rovero, Torino, Einaudi, 1976, pp.170 e sg.[/ref], invece, non prende sul serio gli attacchi di Andreae ai Rosacroce e fornisce un’interpretazione sia politica che culturale dell’entusiasmo rosacrociano del primo ventennio del XVII secolo. Nei manifesti rosacrociani e nelle “Nozze” ella vede, per quanto concerne l’aspetto culturale, il convergere della tradizione ermetica con la Cabbala cristiana rinascimentale, il pensiero di Giordano Bruno con quello di John Dee.

Per l’aspetto politico individua in Federico V del Palatinato il leone e l’Elia artista di cui parlano i manifesti rosacrociani e il cui avvento era profetizzato come l’inizio di una nuova era di felicità: In particolare i rosacrociani avrebbero individuato in lui il campione che avrebbe fatto trionfare le religioni protestanti sugli Asburgo e sul papato.

La Yates mette inoltre in correlazione le “Nozze chimiche”  col matrimonio del 1613 tra Federico V e Elisabetta d’Inghilterra, figlia di Giacomo I. Questo matrimonio dovette accentuare l’entusiasmo rosacrociano. Con l’appoggio del suocero, re di Inghilterra, la missione attribuita nei manifesti a Federico V dovette apparire ancora più prossima. Allora i rosacrociani e i protestanti in genere non potevano immaginare il cambiamento in senso filo-cattolico di  Giacomo I e la conseguente disfatta di Federico V.

Per quanto riguarda le dichiarazioni anti rosacrociane di Andreae e il suo tentativo di fondare una “Società cristiana”, la Yates sottolinea l’ambiguità del linguaggio di Andreae nell’accusare i Rosacroce e il suo insistente uso di vocaboli fuori contesto, come  “Theatrum” e “ludibrium”, nel parlare della misteriosa setta. La studiosa inglese non crede quindi che Andreae abbia mai abbandonato la Confraternita e gli ideali in cui ha creduto in gioventù. Le sue accuse ai rosacrociani dovettero essere legate a motivi di opportunità e di diplomazia, onde non compromettere la propria reputazione ed evitare la censura; Andreae intese inoltre reagire alla gran confusione che seguì alla pubblicazione dei manifesti e che lui stesso descrive nelle sue opere, nonché alla delusione per il mancato realizzarsi delle riforme auspicate dai manifesti.

L’interpretazione della Yates appare come la più condivisibile. Gli attacchi andreani ai Rosacroce sono facilmente spiegabili con l’esigenza di difendersi dai sospetti, tutelandosi, in modo da poter portare avanti i progetti di riforma. Come ha sottolineato la Yates, questi attacchi sono sempre caratterizzati da un linguaggio allusivo e “ambiguo” .Nell’ l’introduzione alla “Christianopolis“[ref]J.V. Andreae, Reipublicae christianopolitanae descriptio, introduz., traduz. e note a cura di Enrico De Mas,   Napoli, Guida, 1983 p. 91[/ref],pubblicata a Francoforte nel 1919, ad esempio, Andreae, riferendosi al clamore suscitato dalla pubblicazione della “Fama Fraternitatis”, scrisse: «E’ inutile dire quale confusione tra gli uomini seguisse a tale Fama, quale conflitto di ingegni, quale inquietudine tra gli impostori e gli imbroglioni. Vi è soltanto un unico dato che vorremmo aggiungere: cioè che vi furono alcuni che in questo terror panico desiderarono che il loro vecchio, antiquato e falso stato di cose venisse interamente conservato e difeso con forza. Vi furono altri che s’affrettarono invece ad abbandonare le loro opinioni e, dopo aver posto sotto accusa il grave giogo della loro servitù, si sforzarono di aspirare alla libertà. Altri ancora […] la incolparono di eresia e di setta fanatica per il fatto che inculcava la vita cristiana».

Qui, più che i Rosacroce, i bersagli di Andreae sembrano essere i conservatori che ne vollero impedire i progetti di riforma. Ma, un contributo decisivo, per chiarire la posizione di Andreae, cioè la sua mai cessata fedeltà al progetto rosacrociano, può derivare da un’analisi più attenta dei suoi testi, rivolta in particolare a ricercare significati volutamente mascherati per non incorrere nella censura, nella forma delle allusioni velate e dei crittogrammi.

L’uso della crittografia da parte di Andreae è già attestato[ref]Edighoffer, op. cit., p. 176[/ref]. È in questa direzione, in parte suggerita già dalla Yates, che occorre orientare la ricerca. Lo stesso teologo di Herrenberg, del resto, ha fornito alcuni importanti indizi su dove focalizzare l’attenzione. Nell’autobiografia Andreae confessò di aver dovuto celebrare le virtu’ dell’amico Tobias Hess per “involucra”, nascondendolo dietro la maschera di Ercole, perché nel 1615 non era permesso lodarlo pubblicamente, in quanto era accusato di essere chiliasta e rosacrociano

Le Herculis christiani luctae[ref]Herculis Christiani luctae XXIV,  Argentorati, 1615.[/ref] furono pubblicate a Strasburgo nel 1615 (quattro anni prima della “Christianopolis”). È una data molto importante: in quello stesso anno appariva a Francoforte la “Confessio Fraternitatis”. Si era pertanto in piena tempesta rosacrociana e Andreae e i suoi amici venivano accusati di essere membri della Confraternita e autori dei manifesti.

Andreae dedicò l’opera al cabalista Christroph Besold, ma molti anni più tardi, nell’autobiografia, come già sottolineato, ammise che l’eroe celebrato nelle “Luctae” era il medico paracelsiano Tobias Hess, insigne giurista e suo carissimo amico deceduto l’anno precedente.

Si tratta pertanto di un’ opera molto particolare, dove l’autore è volutamente oscuro e ricorre alla crittografia e agli anagrammi, che ci è riuscito di decrittare, per riferirsi al suo amico e alla sua appartenenza alla Confraternita rosacrociana. A tal proposto, già In calce all’ introduzione troviamo il saluto “oh sis beatus”, che è l’anagramma di “Tobia Hessus”.

L’opera è suddivisa in 24 “luctae”, ciascuna delle quali prende spunto da un episodio del mito di Ercole, le 12 fatiche, più altri 12 episodi. La maggior parte delle “luctae” sono strutturate secondo un medesimo disegno, che prevede tre diversi livelli narrativi. Il primo costituisce appunto lo spunto mitologico.

L’attribuzione di un nome all’avversario di Ercole, nome che quasi sempre indica un vizio (per es. il serpente indica l’ozio, il cinghiale d’Erimanto la voluttà etc.), consente il passaggio alla parte centrale della “lucta”, dove protagonisti diventano i mali che minano gli animi degli uomini e la società dell’epoca in cui vive Andreae, ai quali si contrappone un Ercole cristiano, che sappiamo essere Tobias Hess.

Nell’ ”Epilogo” dell’opera è lo stesso Andreae che invita il lettore ad andare oltre la superficie del testo e a tollerare le opinioni più audaci: «Si quid hic fuit obscuri, cogitate et interpretem et divinatorem intromissum, saltem ne scrupulosum, aut quod maximè deprecamur, suspicacem». Tutta l’opera è ricca di allusioni più o meno esplicite e Andreae usa frequentemente vocaboli quali “lusus”, “Fama”, “theatrum” il cui utilizzo, come ha evidenziato la Yates, racchiudeva riferimenti al gioco, alla “Fama Fraternitatis” e alla rappresentazione messa in scena nel teatro del mondo dai Rosacroce.

Particolarmente significativa è la “lucta” dedicata alla cerva dai piedi di bronzo, nella quale Andreae allude all’appartenenza di Hess alla Confraternita Rosacrociana, e ricorre a un anagramma per salutare il suo amico ormai defunto come “padre del tempio della Rosacroce”.

Temporis Cerva Aeripes – Lucata II: Nondum pubescebat, et cervae aripedis fama aures pueri diverberavit, ardet et cuius alii pernicitatem voluptariis oculis usurpant, ille insequi audet, non arcum depromit, non jaculum parat, non retia tendit, sed pedum facit periculum: caetera si assequatur feram brachiis confisus, volat illa verius quam praecurrit, nec vestigia pulveri relinquit: et quo vehementius properat, puerum facit incitatiorem. Tempus quippe ( hoc cervae nomen ) negligere, perdere, non facere lucrosum, scelus illi, quicquid hoc orbis senio, aeneis illud et luteis sit pedipus. Sic ergo apprehensam feram involat, sic amplectitur, ut exussus etiam cursum  omnè atque fugam oculis notet, nec divelli se ab ullo impetu patiatur. Itaque dum alii in tentoriis cuticulam curant, alii ob anhelantis bestiae furorem substerfugiunt, alii si cornu inflarint satisfecisse credunt, ille sudandum, congrediendumque ratus, non applausus venationis spectator, sed felix peractor est. Lucrum illi inde, eviscerare cervam, sive huius terrae aestus removere, excoriare, sive velum arcano temporis motui detrahere, dissecare, sive in combinationes suas partiri, augurari, sive temporis signa annotare, anatomice contemplari, sive temporis concentus exaudire, deniq; carnibus vesci, sive ad omnem horam, et fortunae dolos, tempus sibi accomodare.  Nonne laudanda haec in puero venatio, ob quam optimo ex auro purissimo cathenam accepit, rerum naturalium et divinarum continuam seriem, qua inter sodales ostensa, malis invidiam, bonis desiderium accendit, ac ut illis Seculis sui neglectum supinum exprobravit: ita his suo exemplo monstravit, quantum inter hominem, qui aetatem omnem deplorat, ac illum qui vincit, sibique tributarium reddit, discriminis intersit.

La mitica cerva dai piedi di bronzo e dalle corna d’oro, che l’Ercole pagano catturò dopo un lungo inseguimento, rappresenta in questa “lucta” il simbolo del tempo. Ma sembra avere anche molti punti in comune (che abbiamo sottolineato nel testo) con la Confraternita dei Rosacroce.

La caccia alla cerva da parte di Ercole, infatti, è tradizionalmente intesa come simbolo della ricerca della saggezza[ref]Cfr, Franco Cardini, Il cervo , Abstracta 12, febbraio 1987, pp. 38-45[/ref]. Così come la Confraternita Rosacroce si fece conoscere con la pubblicazione della “Fama“, è la “fama” della cerva dai piedi di bronzo che scuote l’eroe e lo induce a seguirla. Inoltre la velocità della cerva è “usurpata” dagli occhi sensuali di altri individui; ciò ricorda quanto racconta Andreae all’inizio della “Christianopolis” a proposito degli imbroglioni e degli usurpatori che, in seguito alla pubblicazione della “Fama“, «falsamente si denominano “Fratelli Rosacroce”»[ref]Andreae, “Christianopolis”, op. cit., p. 98[/ref].

Altra caratteristica della cerva è il fatto che essa non lascia tracce nella polvere, proprio come la Confraternita Rosacroce, della quale nella “Fama” e nella “Confessio” si dice che sarebbe stata invisibile e non rintracciabile per i malintenzionati.

Più avanti Andreae contrappone l’Ercole cristiano Tobias Hess agli altri cacciatori che “in tentoriis cuticulam curant”, definendolo come “felix peractor”, in linea con la sua consuetudine di parlare di teatro e di attori per riferirsi sia ai Rosacroce che ai falsi rosacrociani.

I restanti passi della “lucta” che abbiamo sottolineato sono quelli in cui Andreae elenca i vantaggi che derivano all’Ercole cristiano dall’esser riuscito a raggiungere la cerva, che fanno pensare a quelli che potevano essere i vantaggi derivanti dal venire a conoscenza dei segreti della Confraternita rosacrociana.

Il “lucrum”, per l’eroe, fu quello di togliere il velo all’arcano moto del tempo, ovvero “temporis signa annotare”, altro riferimento ai Rosacroce, chiliasti, che nella “Confessio”[ref]”Confessio Fraternitatis”, cap. VII, in Edighoffer, op cit.[/ref]  alludono ai segni inviati da Dio per indicare che una nuova era stava per iniziare, cioè le “novae” apparse nel 1604 nelle costellazioni del Serpentario e del Cigno. Altro premio ricevuto da Tobias Hess per il successo nella sua caccia alla cerva del tempo, fu una catena d’oro purissimo, ovvero la serie continua delle cose naturali e divine.

Possedere questa catena significa, secondo Andreae, conoscere le intime connessioni tra le varie parti dell’universo, ovvero tra macrocosmo e microcosmo. Nella “lucta” XVII intitolata “Gerion Professionis“. Andreae mette in connessione la conoscenza dell’anatomia dell’universo, rappresentato dal corpo umano, con quella del macrocosmo (“universae machinae”) e considera saggio “qui intra se omnium centrum et originem, extra se omnium concathenationem animadvertit”. Per Andreae, come per Paracelso, le diverse parti dell’universo sono connesse tra loro come gli anelli di una catena. E’ la conoscenza dunque il risultato della caccia di Hess.

Questa conoscenza è in perfetta sintonia con quella “promessa” nella “Fama” e nella “Confessio” dai Rosacroce, millenaristi che, sulla base dei “signa temporis” presagivano un’epoca felice, e paracelsiani, il cui eroe eponimo Christian Rosenkreutz «riuscì a comprendere l’unità, attraverso la quale, come ogni nocciolo contiene l’intera struttura, o frutto, cosi l’intero universo è contenuto nel piccolo essere umano»[ref]”Fama Fraternitatis” ,  Kassel, 1614, in: J. P. Bayard, I Rosacroce, storia, dottrine, simboli, La simbolique de la Rose-Croix, Paris, 1975*, traduz. di Simonetta de Franceschi, Roma, Mediterranee, p. 30[/ref].

Con la caccia alla cerva descritta in questa “lucta”, Andreae ha inteso alludere segretamente alle conoscenze acquisite dal suo amico chiliasta e paracelsiano, entrando a far parte della Confraternita rosacrociana. La correttezza di questa interpretazione è confermata dal saluto al suo amico Rosacroce nascosto sotto forma di anagramma nel titolo della “Lucta”:

Schermata 2016-05-25 alle 13.31.36 anagramma per: Schermata 2016-05-25 alle 13.32.55

Hess e Andreae, dunque, furono tra i rosacrociani che scrissero e fecero pubblicare la “Fama” e la “Confessio” (cosa su cui concordano la maggior parte degli studiosi) e l’autore delle “Nozze” non abbandonò mai la Confraternita. I suoi attacchi alla Rosacroce e il suo tentativo di costituire “Società cristiana” nascondevano l’intento di portare avanti i progetti rosacrociani eludendo censure e sospetti, e di difendere la Confraternita dall'”inquinamento” rappresentato da quegli impostori che «falsamente si denominano Fratelli Rosacroce»[ref]Andreae, “Christianopolis“. op. cit., p. 88. La continuità tra la Confraternita Rosacroce e “Società cristiana” è confermata tra l’altro dall’iscrizione postuma del rosacrociano Hess tra gli aderenti a quest’ultima.[/ref].

Il progetto rosacrociano di Andreae. Tra rivoluzione pedagogica, progresso scientifico, esoterismo e mistica medioevale: Sia nei manifesti rosacrociani sia nelle opere andreane si può osservare la compresenza di elementi fortemente contrastanti e apparentemente inconciliabili, se li si osserva senza un’adeguata prospettiva storica. La mistica antimondana medievale, infatti, coesiste con l’ermetismo e con la proposta di un paradigma pedagogico rivoluzionario orientato al progresso scientifico. Emblematica, a tal proposito, è la Christianopolis, l’utopia andreana che illustra il progetto di riforma rosacrociano. Quella cristianopolitana è una società fortemente teocratica e in essa, su tutto, hanno preminenza la fede in Dio, l’umiltà cristiana e un forte sentimento antimondano. Malgrado ciò è fortissimo l’interesse dei cristianopolitani (e di Andreae) per il progresso scientifico. Secondo De Mas:

«in Christianopolis il messaggio delle scienze campeggia in tutta la sua vastità e si afferma come modello della struttura scolastica, ma è fortemente decurtato nei suoi effetti dirompenti e nelle trasformazioni sociali che ha la capacità di operare, perché in partenza è detto che gli abitanti della città cristiana fanno poco uso dei libri e sono sempre in guardia contro “l’inutile vanteria dell’ingegno umano»[ref]in Christianopolis, op. cit. p. 40[/ref].

Ma tale giudizio è legato a una lettura positivista.  Il duplice atteggiamento andreano verso il Mondo, luogo in parte estraneo ai cristiani impegnati in un percorso di rigenerazione spirituale, ma anche oggetto di un progetto di riforma orientato al progresso materiale, non limitò mai il suo impegno, che, unitamente a quello di personaggi come Comenio e Hartlib, contribuì alla nascita della Royal Society.

Il teologo di Herrenberg è un degno seguace di Innocenzo III quando scrive: «Oh questo nostro corpo! quanto è sporco, quanto è ruvido, quanto è putrido!»[ref]IVI, p. 192[/ref]. Ma questo atteggiamento coesiste con un più “moderno” invito alla ginnastica e allo sport per favorire l’armonico sviluppo corporeo dei giovani[ref]IVI, p. 149[/ref].

Quella della Christianopolis è una cultura cristiana, influenzata dalla mistica medioevale, ma è anche e non meno una «cultura scientifica che si fonda sulla matematica e si orienta verso la tecnologia e l’utilità»[ref]Yates, Illuminismo…, op. cit., p. 183[/ref].

Nel capitolo XI Andreae contrappone la Chimica alla Sofistica, sostenendo che la prima preferisce le cose alle parole[ref]Andreae, Christianopolis, op. cit., p. 104[/ref]. La Chimica che viene praticata nella città cristiana si occupa dello studio dei metalli e dei minerali in vista della loro utilizzazione pratica, ed è una branca della Fisica che studia la natura in genere, anch’essa in vista dell’utilità[ref]Ibidem. Andreae sottolinea infatti che «mentre altrove la falsa Chimica si appressa pian piano e s’impone nelle tenebre, questa è solita osservare le opere, recar giovamento con ogni sorta di indagini ed esercitarsi con vari tentativi. Per dirlo con poche parole: qui la Fisica è la pratica»[/ref].

Nel capitolo XlIV viene descritto il laboratorio dei chimici cristianopolitani, che è «equipaggiato con i più ingegnosi forni e con tutti gli strumenti necessari per comporre e scomporre le sostanze[…]. Qui vengono esaminate, purificate, accresciute, combinate le proprietà dei metalli, dei minerali e dei vegetali, per l’utilità del genere umano e a vantaggio della salute»[ref]IVI, p. 138[/ref].

All’interno della città cristiana ci sono altri laboratori dove vengono studiate le proprietà terapeutiche dei vegetali[ref]IVI, p. 139[/ref], l’anatomia del corpo umano[ref]IVI, p. 140[/ref], il cammino degli astri[ref]IVI, p. 143[/ref]. Andreae conosceva perfettamente le più recenti scoperte scientifiche. Per esempio conosceva e approvava il sistema copernicano, benché questo fosse considerato eretico da Lutero stesso, poiché in contrasto con le Sacre Scritture[ref]È nota l'”avvertenza” del luterano Osiander al De revolutionibus” di Copernico, che invitava a considerare la teoria copernicana come una mera ipotesi matematica.[/ref].

Nella “Christianopolis” ci sono diverse allusioni alla teoria copernicana, anche se presentate in modo criptico per non urtare la suscettibilità dei custodi della ortodossia luterana. Un passo del capitolo LX allude alla «densità dell’acqua, alla pressione dell’aria, all’elevazione della terra[ref]Dal centro dell’universo.[/ref], […] all’arresto del sole[ref]Che dunque non gira più attorno alla terra.[/ref], alla fine del mondo, tutte cose che per noi sono certe»[ref]IVI, p. 154[/ref]. Inoltre, nel capitolo XLIX, Andreae sottolinea l’immensa distanza del cielo dalla terra[ref]IVI, p. 143[/ref], cosa sostenuta anche da Copernico per giustificare l’assenza di parallasse stellare, cioè di un’ampiezza angolare tra le immaginarie linee da una stella alla terra in diversi momenti della sua orbita.

L’autore delle “Nozze” era al corrente anche delle recenti novità provenienti dall’Italia. Nel capitolo dedicato agli “strumenti matematici”; Andreae scrive:

«Non mi metterò qui ad enumerare gli strumenti, dato che sono quasi tutti compresi nella descrizione fatta dall’eminentissimo Ticho Brahe; ne sono stati aggiunti pochissimi altri, fra i quali il preziosissimo telescopio recentemente inventato»[ref]IVI, p. 144[/ref].

Poco oltre si schiera contro coloro che non apprezzano l’uso degli strumenti nelle indagini scientifiche e li condanna «dinanzi al tribunale delle scienze»[ref]Ibidem.[/ref]Nel capitolo successivo descrive la “sala di matematica”, dove:

«si potevano vedere un grafico del cielo stellato e una riproduzione della limpidissima schiera di tutti i corpi superiori […], le carte geografiche della terra; i diversi schizzi che rappresentano strumenti o macchine; e i modellini, le figure geometriche, gli strumenti delle arti meccaniche […]. Vi era la possibilità di scorgere accurate osservazioni delle passioni e (cosa più recente) delle macchie dei corpi luminosi»[ref]IVI, p. 145[/ref].

Galileo Galilei non poteva avere miglior discepolo, soprattutto per l’importanza data da Andreae all’uso di strumenti e modelli meccanici nelle indagini scientifiche.

L’autore rosacrociano sottolinea l’utilità pratica, oltre che speculativa, anche dell’aritmetica e della geometria[ref]IVI, pp. 155-156[/ref] e asserisce, come Bacone, che «l’intero usufrutto del mondo»[ref]IVI, p. 164[/ref] è stato concesso all’uomo per suo beneficio.

Dunque Andreae, malgrado il suo fideismo antimondano, aveva colto pienamente la potenza innovativa del nuovo messaggio scientifico e nelle sue opere e nel suo pensiero al “contemptus mundi” si accompagnava la volontà di conoscere, “sfruttare” e migliorare l’odiato regno di Satana.

Da buon amico di Comenio, Andreae comprese che un vero rinnovamento culturale, spirituale e politico, poteva essere perseguito soprattutto grazie a un nuovo paradigma pedagogico, caratterizzato dai laboratori scientifici attrezzati di strumenti e modelli meccanici e dall’uso delle immagini.

La città di Christianopolis, «oltre ad essere interamente ornata di pitture che rappresentano i movimenti dell’universo, ne fa tuttavia gran uso per istruire i giovani e per l’apprendimento delle cose da imparare»[ref]Andreae, “Christianopolis”, op.  cit., p, 142.[/ref].

Già nel 1613 Andreae organizzò a Tubinga dei corsi di matematica, architettura e meccanica facendo disegnare centodieci figure per illustrare le sue lezioni. Edighoffer ha sottolineato che «avec Comenius, avec Ratichius, aprés Campanella, il propose des méthodes qui conduisent vers la pédagogie moderne, jusqu’à celle des procédés audio-visuels»[ref]Edighoffer, op. cit., p. 457[/ref].

Nel 1639, il teologo fu incaricato di riformare il sistema scolastico del Württemberg e operò con grande efficacia, con l’istituzione, per la prima volta, nel 1648 della scuola dell’obbligo, e con la promozione dell’insegnamento delle materie scientifiche e tecniche, aprendo così la via all’Aufklärung[ref]Cfr. Edighoffer, op. cit., p. 452[/ref].

Concludendo, all’inizio del XVII secolo era operativa in Germania una Confraternita rosacrociana, in cui Andreae aveva un ruolo di rilievo insieme ai suoi amici del Circolo di Tubinga, tra i quali primeggiava Tobias Hess, il “padre del tempio della Rosacroce”.

I Rosacroce, millenaristi che sentivano di vivere in un’epoca di transizione, avevano un progetto di vasto respiro, che riguardava un nuovo assetto politico e sociale, basato sul concetto di uguaglianza, una rigenerazione spirituale, che metteva insieme i principi cristiani con quelli ermetici e alchemici, una rivoluzione culturale orientata al progresso scientifico e fondata su un nuovo paradigma pedagogico, una riforma religiosa tesa a riportare il cristianesimo sul solco evangelico. Prima il caos seguito alla pubblicazione dei manifesti, poi la sconfitta di Federico V nel 1620 e i disastri della guerra portarono il gruppo di Tubinga a riorganizzarsi tramite la “copertura” delle Società cristiane.

La guerra ostacolerà gran parte del progetto rosacrociano. Tuttavia, la rete di contatti di Andreae, arricchita da personaggi quali Hartlib e Comenio, porterà a favorire, di fatto, almeno il rinnovamento culturale, trovando terreno fertile in Inghilterra. Hartlib e Comenio condivisero l’ideale di un collegio universale per l’avanzamento del sapere e la gran parte dei membri dello Hartlib circle confluirono nella nascente Royal society.

Non è un caso se proprio in Inghilterra, un secolo dopo la pubblicazione dei manifesti rosacrociani, l’eredità dei Rosacroce sarà in parte raccolta dalla moderna massoneria, dove trovarono dimora sia gli elementi esoterici sia le istanze di rinnovamento generale che si espressero nell’Illuminismo.

Nichilismo e insorgenza nell’analisi hegeliana del divenire

di
Rosario Gianino

Il testo che segue è il risultato di una lettura della Scienza della Logica di Hegel, ed in particolare delle analisi dedicate alla categoria del “divenire”, che si trovano nel libro, sezione e capitolo, primi dell’opera[ref]Scienza della logica, G.W.F.Hegel, trad. Moni, rev. Cesa, Laterza, Bari 1988, tomo primo, pp. 71-102.[/ref].

1.

Per cominciare richiamiamo l’attenzione del lettore di queste pagine sul doppio statuto che la negatività insita nella categoria del divenire viene ad assumere nella teoresi del nostro autore.  Questa lettura individua due negazioni attive nel divenire. Nel divenire abbiamo il nulla. Questa è la prima negazione. Ma abbiamo anche l’annullamento del nulla. Questa è la seconda negazione. La lettura cerca di mostrare come questa doppia scansione all’interno del testo del filosofo di Stoccarda permette di ordinare la direzione ed il senso del processo dimostrativo messo in opera nella trattazione del divenire.

2.

Nel divenire hegeliano abbiamo una negazione immediata: l’essere che insorge nega il nulla; l’essere che sparisce si nega. Così inteso, il divenire, in cui l’essere insorge “dal” nulla e sparisce “nel” nulla, si costituisce in forza di una negazione immediata dell’essere: il nulla da cui l’essere insorge e lo stesso nulla in cui l’essere sparisce. L’analisi del divenire hegeliano però non finisce qui. La negazione immediata dell’essere è contraddittoria. Essa implica l’unità contraddittoria di essere e nulla: implica che essere e nulla siano lo stesso. Implica quindi che questo rapporto tra essere e nulla, non sia un rapporto possibile e che ad iniziare e a finire siano l’essere ed il nulla insieme. Nel divenire, come insorgenza dell’essere dal nulla e sparizione dell’essere nel nulla, è lo stesso essere che è nulla che insorge per sparire. Dunque la negazione immediata dell’essere, si determina essa stessa come nulla che nega se stesso contraddittoriamente. Il divenire costituendosi attraverso la negazione immediata, allo stesso modo attraverso questa negazione immediata si determina come nulla, in forza della sua contraddizione annichilente. Se il divenire che insorge e sparisce si autosopprime, la sua determinazione, la sua destinazione, è quella di lasciar dischiudere l’esserci, il qualcosa che non è altro. Nel divenire c’è qualcosa che diviene. Ed il qualcosa che diviene, insorgendo e sparendo, non si annichila ma si altera. Provenienza e destinazione del divenire non sono più il nulla del moto insorgente e dissolvente, ma il qualcosa ed il qualcos’altro della mutazione.

A quale condizione si può fare del nulla, dell’indeterminato, un qualcosa, un determinato ? Non immediatamente per la relazione tra essere e nulla come si costituisce nel divenire nel senso del flusso (Fluss) fluente del movimento. Tanto è visibile la fluidità del movimento, quanto la contraddizione è invisibile. Solo a condizione che la relazione immediata del divenire possa venir rapportata a se stessa, possa rapportarsi a se stessa, si rivela la contraddizione dell’immediatezza. Allora la negazione immediata si rovescia in negazione determinata. E nella sua autorelazione la fluidità del movimento diventa il mutamento di qualcosa. Il Nulla è nulla, quindi sparisce esso stesso, solo se può esser riferito a se stesso da qualcosa d’altro che non è nulla ma che tuttavia vi si include (il qualcosa che diviene) includendolo (il divenire di qualcosa).

2.

Si è visto come la categoria del divenire contenga un rapporto differenziale immediato e indeterminato, quello che astrattamente viene fissato dalla contraddizione tra essere e nulla.

Se tale relazione è contraddittoria, allora impedisce lo stesso rapporto e la stessa differenza, la stessa relazione tra i due termini. Così la relazione differenziale tra essere e nulla, assume il carattere negativo della contraddizione (Widerspruch). Tuttavia per Hegel la stessa impossibilità contraddittoria di una relazione tra essere e niente, se pensata in rapporto a se stessa, cancella l’astratta fissazione dell’essere e del nulla come opposti e diversi. Quindi la contraddizione tra essere e nulla, nel suo risultato nullificante, come appare solo ad un divenire capace di autorelazione, in Hegel, non ostacola e rende impossibile il divenire, quanto piuttosto consente che accada qualcosa come un “transito/passaggio/oltrepassamento” (Übergang), un “movimento”(Bewegung).

Nel divenire, insorgenza e sparizione rendono possibile come un “attraversamento” del nulla, l’apertura di un “valico” verso il qualcosa e l’altro. La differenza, ad un tempo astratta, immediata e indeterminata, di essere e nulla, che risulta contraddittoria e quindi irresolubile e incomprensibile[ref]dieser Widerspruch, den man selbst setzt und dessen Auflösung unmöglich macht, heißt das Unbegreifliche. Per il testo tedesco: Wissenschaft der Logik, Erster Teil, G.W.F. Hegel (EBook #6729), The Project Gutenberg, Posting Date: November 9, 2012, Release Date: October, 2004 First Posted: January 20, 2003; Epub con immagini scaricabile qui: http://www.gutenberg.org/ebooks/6834 , p.156-167.[/ref], è da Hegel pensata, proprio nel rispetto delle regole logiche (logische Regeln),  nell’unità antinomica del risolversi reciproco dei termini contraddittori, unità in cui i diversi precipitano nello “stesso” (selbst) e vanno pensati in quel punto della loro coincidenza in cui la loro differenza indifferenziandosi,  si annulla e sparisce[ref]ein Punkt enthalten, worin Seyn und Nichts zusammentreffen, und ihre Unterschiedenheit verschwindet. Ibidem p. 117-118.[/ref]. La contraddizione distrugge i termini contraddittori, e distruggendo i termini annulla l’impossibilità stessa del loro rapportarsi reciproco. In forza della stessa contraddizione astratta l’immediato si determina come indeterminato e indifferenziato. Così l’immediatezza trova nell’astrazione il modo di rapportarsi alla propria indeterminatezza.

3.

In rapporto a tale duplicità del negativo contraddittorio, da una parte indifferenziante e indeterminante, dall’altro determinato e determinante, il divenire mostra il suo doppio volto, da un lato mutamento metamorfico e dall’altro moto insurrezionale. Nella consapevolezza della natura del divenire, lo stare in relazione al cambiamento, al volto progressivo del divenire, non può prescindere dallo stare in rapporto al lavoro catastrofico della distruzione. Questo sarebbe il doppio statuto che la negatività insita nella categoria del divenire viene ad assumere nella teoresi hegeliana. Hegel sempre sottolinea il momento essenziale, per la logica e il sapere, della contraddizione come negazione determinata, e quindi relativa ai termini che nullifica. Eppure la contraddizione è e rimane, basicamente, negazione immediata e astratta.

4.

Prima di svolgere ulteriormente la macchina della negazione nel suo doppio statuto di annientamento e autodeterminazione, all’interno della categoria del divenire, si vuole indicare il campo concettuale vasto e trasversale che una lettura delle nozioni di “immediatezza” e “astrazione” può far emergere in relazione ad una complessiva interpretazione della filosofia hegeliana.

5.

“Astratto”. Come dire il separato, l’isolato, l’estratto da un contesto e posto nella sua unilateralità in qualche modo prodotta e tenuta ferma, fissata nel risultato di un processo. Dunque “astratto” è termine di una elaborazione che è stata resa possibile da un movimento di separazione, di astrazione. L’astratto collocato nel suo contesto di astrazione, non sarebbe più tale, mentre laddove quel contesto sia stato dimenticato, sia precipitato nell’oblio, allora l’astratto manterrebbe di diritto questa sua denominazione che lo significa come separato dal processo stesso di separazione, che pure ha agito da forza propulsiva e insorgente per produrlo. L’astratto, l’intero mondo delle categorie intellettuali che nella logica egheliana vengono esaminate, si presenta come tale a motivo di una sorta di assenza di memoria, di un’incapacità di ricordare, che affetta la consapevolezza intellettuale, riducendone la dimensione cognitiva, che non saprebbe ricondurre le categorie al processo della loro insorgenza nel divenire.

5.

Aver coscienza dell’astrazione, (Abstraktion), si può solo dove sia altrettanto forte la memoria (Erinnerung). Che rapporto intrattengono la Scienza e la Logica con l’astrazione? Astrarre è una risorsa del soggetto, come lo sono sia la Scienza sia la Logica. Il soggetto, al di là di una sua decodifica meramente antropologica o psicologica, costituisce la sfera del proprio sulla base del potere che irradiando da un centro mantiene attiva la sfera di appropriazione, in equilibrio vantaggiosamente asimmetrico o unilaterale con l’esteriorità, con l’ alterità, e più radicalmente con la propria distruzione. Ora l’astrazione è un potere che esercita una vera attività, secondo il dettato hegeliano: il potere (Können) dell’astrazione sarebbe inteso come “attività del niente”[ref]das Thun des Nichts. Ibidem p. 149.[/ref],  come “l’unilaterale attività del negativo”[ref]das einseitige Thun des Negativen. Ibidem p. 149.[/ref].  Tale potere viene specificato da Hegel come capacità di ridurre all’indifferente (gleichgültig), che qualcosa sia o non sia, che l’essere o il nulla stessi sparisca (verschwindet) o sorga, (entsteht). Abbiamo dunque, in questa asserzione hegeliana, l’attestazione di quell’impostazione secondo cui astrarre e cioè rimaner indifferenti all’essere o al non essere, e quindi potere e sapere agire in modo da annullare l’essere e dare un essere al niente, sarebbero prerogative del costituirsi di un centro di potenza, o ancora prerogative e tratti dell’attiva soggettiva autocostituente. Agire per negare l’essere e per negate lo stesso nulla dell’essere, sarebbero condizione di possibilità di una capacità (Vermögen) autopoietica. Il soggetto, cioè ogni centro di potere e di attività assoggettanti, dominanti e unilaterali, si affermerebbe in base a processi di astrazione  progressiva dal contesto dinamico del suo divenire, in cui sconterebbe il nulla immediato del proprio essere insorgente e finito. Proprio agendo negativamente non solo sull’essere ma anche e soprattutto sul nulla dell’essere, il soggetto si edificherebbe come centro di riferimento di ulteriori relazioni e dinamiche possibili. Le categorie logiche astratte, in quanto risultato del processo di elaborazione esperienziale autocentrata e autoriferita, sarebbero le forme del agire soggettivante, insieme documento e strumento di autoaffermazione, quindi di lavoro. Ogni ordinamento formale logico astratto, sia esso finito, empirico o speculativamente assoluto, avrebbe a che fare con l’esercizio di un agire  negativo autoreferenziale, di un agire negante che nega l’immediata nullità del proprio essere. Dunque questo lavoro di soggettivizzazione si caratterizzerebbe nel suo fondamento come capacità riflessiva di rapportarsi negativamente alla negazione immediata che si è, in modo che grazie a questo agire riflessivo ci si possa insediare in quel punto d’indifferenza in cui il nulla si rovescia in positiva affermazione di qualcos’altro. Questa impostazione hegeliana è stata sottolineata ripetutamente dagli interpreti. Ciò che qui si vorrebbe intravedere e si cercherebbe di ribadire è che in tale autorapporto soggettivante, la negazione determinata e relazionale si rapporta sempre ad una negazione più basica e immediata, ad una cancellazione. Essere soggetti è poter astrarre, ossia agire il negativo, rapportarsi alla propria cancellazione, negandola. Esser soggetto di sé stessi: negare il proprio nulla.

6.

L’ “immediato”, come l’astratto, è l’isolato. Esso è l’irrelato, ciò che ancora non è preso in un rapporto determinante e unilaterale, e quindi non è collegato, connesso, dipendente o condizionato, complementare ad altro. L’immediato è ciò che ancora non funge da medio, che quindi non media, ed in cui non si media, che non elabora e non lavora, ed in cui non si elabora e non si lavora, che non documenta in alcun modo una capacità ed un potere soggettivanti. L’Immediato, lasciato in tale abbandono o anche pensato e oltrepassato in tale bando, è la pura indifferenza dell’essere dal nulla, il radicale annichilimento dell’essere nel nulla, l’equivalenza dell’insorgere e dello sparire nell’essere senza provenienza e senza destino.

7.

L’astratto domina l’immediato determinandolo. Si eccepisce in esso, vi si include escludendolo, si appropria, facendosi espropriare da esso. Lo pensa come contraddizione nuda e viva ma già risolta ed oltrepassata, lo presuppone come negazione che deve essere negata, negazione da destinare al suo nulla proprio e determinato. L’astrazione deve presupporre l’immediato come  quel negativo in cui il suo agire negante è incluso e circoscritto, pur eccependosi ed escludendosene. L’immediato è catturato dall’astratto e quindi usato, messo al lavoro,  rivolto a proprio unilaterale vantaggio. L’astratto è appunto il risultato di un processo e di una dinamica autoaffermativa e autorelazionale, di un lavoro, che presuppone il nulla radicale del proprio essere come qualcosa da negare proprio riconoscendovisi. Così la potenza dell’astrazione è potenza del ricordo che mentre vince l’oblio consegna all’oblio. L’immediatezza di ciò che fu, permutata in astratto ricordo, nega quel nulla a cui consegna l’esser stato di ciò che è trascorso, e che altera in qualcosa d’altro, di positivo in quanto attivamente posto e elaborato. Il ricordo è il mettersi in rapporto ad una cancellazione mediante qualcosa d’altro che il nulla immemorabile.

8.

Nell’analisi della categoria del divenire Hegel presuppone nell’astratto (l’essere ed il non essere) in forza della stessa potenza negativa di cui è espressione (l’essere non è il non essere e il non essere non è l’essere) che conduce sino alla contraddizione (l’essere è il non essere sono lo stesso), un certo fondo basico  primordinale, anzi primordiale (il nulla di essere e non essere nel divenire).

Nella categoria astratta e contraddittoria del divenire, Hegel allora cattura quell’immediatezza violenta dell’accadere, senza cui non vi sarebbe alcuna possibilità di agire poi in modo negativo. L’astrazione che permette di afferrare la struttura contraddittoria dell’immediatezza (giacché è solo per gli astratti essere e nulla che si dà nel divenire la loro unità contraddittoria), presuppone l’immediatezza di un divenire, senza provenienza e senza destinazione, che nega radicalmente l’essere, (giacché è solo perché il nulla è, irreparabilmente, nulla, nulla dell’essere e del niente, che qualcosa d’altro può costituirsi).

Tentando di ricapitolare quanto esplorato sino ad ora, si vorrebbe ribadire come nell’analisi del divenire Hegel decida di rinvenire, tramite l’astratto ricordo della struttura originariamente contraddittoria dell’immediatezza, il presupposto dell’esercizio di ogni appropriazione e dominio temporale, storico o logico.

9.   

Astratto e immediato non sono solo lemmi coordinati. Sono l’uno condizione dell’altro.

Se il potere dell’astrazione si misura nella capacità di insediarsi nel punto indifferente, (gleichgültig) tra essere e nulla, allora l’immediato è quel “transito” (Übergang) reciproco del nulla nell’essere (insorgenza) e dell’essere nel nulla (sparizione), in cui si presuppone accadere quella potenza dell’indifferenza. E’ l’indifferenza di tale “transito” ad essere condizione del potere dell’astrazione, e quindi persino apertura di un processo di avanzamento, e progresso. Il poter lasciare il nulla al suo nulla per qualcos’altro. Ora il transito nella sua dimensione strutturale originaria d’insorgenza e sparizione, è da Hegel inteso come violenza d’eruzione e d’irruzione. Il transito è tale in quanto in esso accade qualcosa che erompe (bricht hervor)[ref]Ibidem p.147[/ref] l’immediato ovvero l’immediato è tale in quanto sbarramento sempre rotto, spezzato, frantumato, spaccato, per una “fuoriuscita”[ref]L’ Ausgang kantiano di Che cosa è l’Illuminismo, ma anche la ripartenza dall’Esserci, del capitolo secondo della Logica di Hegel.[/ref]. E’ perché si da un’eruzione che spezza un velo sbarrato, che l’immediato si fa mezzo, strumento di mediazione. Per pensare l’ irr/eru-zione dobbiamo ritornare ancora ai due possibili sensi della negazione cui abbiamo già più volte fatto riferimento sopra. Da una parte c’è la negazione determinata, la negazione sempre relativa e specifica di un certo qualcosa, che prende la forma della contrapposizione e quindi del riferimento o della relazione[ref]Form der Entgegensetzung, zugleich der Beziehung. Ibidem p. 116.[/ref]. Essa separa e distingue, tiene insieme i differenti relati, tenendoli a distanza di sicurezza e garantendoli l’uno dall’altro. E come Hegel non si stanca di ripetere la Scienza e la Logica devono costantemente affinare lo sguardo rammemorante per saper cucire e connettere i pezzi dell’essente, ritrovandovi il filo del logos mediatore che li tiene insieme determinandoli reciprocamente nella loro distinzione, a preservarli dall’annullamento. Ma ciò presuppone proprio il più radicale e tragico confliggere annichilente ! Il mezzo della mediazione è proprio il nulla che si annienta ! E’ nel nulla che l’essere di questo e quello e il loro stesso niente, già da sempre e inizialmente, precipitano e spariscono, ed è sempre nello stesso nulla che insorge ed erompe, irrompe, un methodos , il varco di un passaggio. Nella via del nulla, senza provenienza e senza destinazione, sono disposti quel qualcosa che c’era, quel qualcosa da cui si proviene insieme a quell’altro qualcosa che è appena arrivato ed a cui si è destinati come al risultato del processo.  Ecco che appunto quel non essere relativo che consente il lavoro del discernimento sapiente dell’essente non sarebbe esso stesso aperto e manifesto se non fosse riconosciuto quel niente irrelativo della sparizione nella più radicale latenza, quel niente dell’insorgenza dall’occultamento radicale, quel nulla della dissoluzione, dell’annientamento o del più duro svuotamento. Per questo Hegel sottolinea che proprio a proposito della negazione non si deve dimenticare (non deve di essa darsi oblio, e quindi deve di essa proprio darsi rammemorazione) che vi è la negazione astratta e immediata[ref]die abstrakte, unmittelbare Negation. Ibidem p. 116.[/ref] : l’irrelativa “denegazione” (die beziehungslose Verneinung), espressa dal mero “non” isolato[ref]durch das bloße: Nicht ausdrücken. Ibidem p. 116.[/ref], il puro nulla in cui l’essere sparisce e da cui l’essere insorge, in cui irrompe e da cui erompe. Il nulla che sta tra un essente e l’altro e che sta dentro l’essere stesso, a romperne la compatta chiusura; quel nulla che segna la struttura aperta dell’essere stesso, la sua esposizione all’annientamento, la sua esposizione all’insorgenza e alla più radicale latenza. Questo “non” è posto e determinato come esito nullificante della contraddizione dall’astrazione ed insieme catturato come immediatezza iniziale del divenire: la contraddizione che dissolve l’astratto irrelato intellettualistico è infatti cifra di quel nulla in cui si spaziano i pezzi dell’immediato esposto al movimento del divenire.

10.

Hegel ha sempre e ripetutamente considerato la negazione determinata superiore alla negazione immediata. Hegel dice che fuori dal divenire del qualcosa in qualcos’altro, essere e nulla sono significati astratti[ref]abstrakt Bedeutung. Ibidem p.164.[/ref]. Il nulla (das Nichts), come è contenuto nel concetto del divenire, dovrebbe essere inteso piuttosto come il non-essente, (das Nichtseyn). Ossia sarebbe il non-essere altro contrapposto (Entgegengesetzt) e relativo dell’essere-qualcosa (Etwas), nella cui alterità è ancora contenuto e conservato il riferimento all’essere[ref]Beziehung auf das Seyn. Ibidem p.116[/ref]. Nella categoria del divenire il senso dell’essere dell’essente non precipiterebbe e sparirebbe nel nulla ma si trasformerebbe in qualche altro essente. Proprio per la sua capacità di contenere nell’astrazione l’immediatezza ricontestualizzandola e rielaborandola nel suo senso d’essere relativo all’essente, il divenire eracliteo è considerato da Hegel un concetto superiore[ref]den höheren totalen Begriff. Ibidem p.116.[/ref] rispetto all’astrazione indeterminata dell’essere parmenideo e del nulla orientale. E tuttavia quella stessa capacità superiore di mediazione concettuale che la categoria del divenire secondo Hegel esibisce non sarebbe possibile se non fosse stata fissata astrattamente quella nullificazione del senso dell’essere differente dal niente che costituisce la determinazione dell’immediatezza. Il divenire stesso nel seguito delle deduzioni categoriali viene come messo al lavoro nel processo che assoggetta l’immediatezza al dominio evolutivo o progressivo dell’essente. Ecco così che nel divenire viene pensata la produzione stessa dell’altro[ref]Hervorbringen eines Anderen. Ibidem p.119.[/ref], la generazione[ref]die Erzeugung. Ibidem p.140.[/ref], la nascita[ref]Geburt. Ibidem p.117.[/ref]. Questa concettualizzazione del divenire come produzione-generazione prelude alla possibile istituzione di un rapporto di fondazione, di causazione, comunque di ragione. Con tale interpretazione si istituisce la continuità graduale e determinata del filo logico di un metodo, come percorso, e di un discorso, come narrazione e dimostrazione tra gli essenti e da un essente all’altro. Risulta così pensabile un rapporto determinabile tra essenti reciprocamente negativi e determinati,  come sono Padre e Figlio, Causa ed effetto, Condizione e Condizionato. Se questo è l’impianto logico che deve mettere al lavoro il divenire, non bisogna dimenticare (anche se è proprio questo ciò che il ricordo non può rammemorare !) che esso cattura un basico <<passare oltre>> immediato, insorgente e dirompente: il divenire è lo stesso <<passare>>, Übergehen ist dasselbe als Werden[ref]Ibidem p. 135.[/ref].

11.

In Hegel il pensiero astratto del divenire cattura un’immediatezza primordiale. Così l’astrazione della contraddizione fa segno all’evento dello sparire[ref]Verschwinden. Ibidem p.114.[/ref], del dileguare, o del distruggersi[ref]zerstören sich. Ibidem p.160.[/ref]; l’evento della fine[ref]Vergehens. Ibidem p. 117[/ref] , della morte[ref]Tod. Ibidem p. 117[/ref]. Il nulla che rende possibile il divenire lascia che nella determinazione negativa si produca differenza come relazione e fondazione. Questo è il lato logicamente costruttivo e mediatore della negazione insita nel divenire. Si tratta qui di quel divenire che è metamorfosi, che rimanda dal qualcosa al qualcos’altro, che segnala sempre una provenienza ed una destinazione. Ma questo divenire come progresso ed avanzamento, processo e discorso, è reso possibile solo perché presuppone un divenire che è passaggio immemorabile, sparizione e distruzione, dissoluzione della differenza, indifferenziazione contraddittoria tra essere e non essere. Il mutamento, (Veränderung ) presuppone il moto (Bewegung). Il divenire stesso è presupposto come evento appropriabile, nell’agire unilaterale del nulla, che negandolo lascia spazio a qualcos’altro. Lo stesso qualcosa apre all’altro, solo sparendo nel nulla, passando via e lasciandosi passare oltre, lasciando aperto un transito. Così in Hegel il divenuto, o il risultato ha il carattere del non-essente (Nichtseyende) come altro essente, o altrimenti essente, essente determinato, ideale (Ideelle), sul presupposto, sul fondamento, di un esser soppresso, rimosso, rilevato (Aufgehobenes), che occorre pensare nella sua radicalità nichilistica di essere sparito (das Verschwundenseyn). Così il divenire egheliano non potrebbe produrre il divenuto senza l’azione unilaterale del nulla che fa sparire l’essere dell’essente sparito. Se l’immediato non precipitasse costantemente nel nulla, se l’essere non sparisse cancellato negli essenti diversi, non vi sarebbe apertura all’insorgenza.

Il fondamento basico (Grundlage), il campo fondamentale, del potere di astrazione, quindi ciò a cui ci si deve rapportare nell’astrazione e ciò che l’astrazione stessa è e produce nel suo rapportarsi, è quel moto in cui accade il far spazio per l’essente, come agire unilaterale del nulla. 

12.

Il risultato che qui come tesi si vorrebbe enunciare sarebbe dunque formulabile nella seguente asserzione: la macchina della negazione della negazione, dell’autoderminazione del negativo, è la potenza di un autorapporto che metta in relazione il cancellabile con la propria cancellazione definitiva e radicale.

Senza presupporre l’annientamento, la distruzione, cioè senza che si pensi dell’essere nulla, radicalmente niente di ciò che diviene, non si pensa l’esserci. Il passaggio nullificante, l’annientamento immediato, sta poi alla “base” del lavoro logico di relazione e riferimento mediatore che produce tutte le altre categorie intellettuali successive a quella dell’esserci. Questo annientamento autocontraddittorio di essere e nulla nel divenire è indicato da Hegel come “la prima verità fondamentale”[ref]erste Wahrheit ein für allemal zu Grunde liegt. Ibidem p.119[/ref] . Solo in rapporto all’autonegazione contraddittoria nel divenire dell’essere e del nulla si guadagna “l’Elemento in cui sono pensabili tutte le conseguenti determinazioni della logica”[ref]das Element von allem Folgenden…alle ferneren logischen Bestimmungen. Ibidem p.119[/ref]. Questo autoannullarsi della contraddizione è la verità immediata che si trova sempre innanzi a noi[ref]die allenthalben vor uns ist. Ibidem p. 120[/ref], e che ha persino una dimensione di manifestazione ed evidenza empiriche, quella del <<passare>> empirico che s’intende di per sé[ref]das empirische Übergehen versteht sich ohnehin von selbst. Ibidem p.145[/ref]. Nel “movimento” si vede, appare, si rivela come la contraddizione si risolva. Il risolversi della contraddizione è lo stesso venire a manifestazione del qualcos’altro.

La categoria del divenire è la prima delle forme categoriali e intellettuali in cui questo annientamento viene pensato, e nell’essere pensato viene catturato e afferrato come risorsa per il cambiamento possibile. Quindi il divenire non è il terzo tra essere e nulla, la medesimezza di essere e nulla, come se fosse la loro sintesi coordinante. E il terzo come la loro contraddizione distruttiva.

13.

La rammemorazione della negazione radicale dell’essere sparito, annientato, è per Hegel aprente. Anzi è l’aperto; caratteristica del nichilismo logico di Hegel sarebbe proprio questa intepretazione dell’annichilimento, della kenosis teologica e della catarsis tragica, come apertura dell’essere all’essente e per l’essente. Nell’annullarsi del nulla, l’essere si apre all’avvento dell’essente, alla sua irruzione  e insorgenza “nuova”, alla sua rivelazione piena, alla sua manifestazione compiuta. La rammemorazione dell’annientamento sarebbe aprente e aperta perché nulla più ostacolerebbe o chiuderebbe, sbarrerebbe. l’insorgenza dell’essente, neppure il nulla del suo stesso esser sparito come essere, il nulla della radicale latenza dell’essere. L’essere ora determinato tragicamente è per qualcosa d’altro.

Nell’esser sparito della sua sparizione è l’impotenza suprema del nulla, la sua ineffettualità, perché la sparizione sparisce essa stessa, la liquidazione si liquida[ref]das Verschwinden des Werdens, oder Verschwinden des Verschwindens selbst. Ibidem p. 160[/ref]. La sfrenata inquietudine negativa del divenire che si affatica nella propria mobilità a liquidare l’immediato, la sua forza immediatamente annientante, finisce mentre lavora, risolve mentre si muove, sparisce essa stessa, sprofondando nella pace, consumandosi nella quiete, nel silenzio, in un oblio[ref]Das Werden ist eine haltungslose Unruhe, die in ein ruhiges Resultat zusammensinkt. Ibidem p.160[/ref], immemorabile.

Che sia accaduto il divenire, che sia stato il nulla dell’essere e l’essere del nulla, ciò è l’immemorabile, che ancora è solo per il ricordo di qualcosa d’altro e di qualcun altro.

Il lavoro umano, il dominio e il potere di qualsiasi soggetto che ci sia come Esserci, Dasein (questo è termine hegeliano prima di essere heideggeriano), che faccia i conti col proprio mutamento possibile, con la mutabilità del proprio esistere, sta in rapporto memoriale e immemoriale, e quindi storico, ontologico ed esistenziale, con la struttura duplice del proprio divenire, così come la definisce Hegel. Ossia con il duplice volto del divenire come annientamento del senso dell’essere, fluidificazione impotente a cancellare quell’essente qui e ora che ricorda ma anche incapace nella trasformazione del ricordo a restituire al senso dell’essere immediato ciò che degli essenti è morto e finito, definitivamente sparito.

L’analisi hegeliana sonda la difficile e avvitata determinazione di tale rapporto memoriale e immemoriale col divenire, pensando insieme con l’annientamento dell’essere la sua insorgenza. Così nella macchina metafisica di Hegel l’annichilimento radicale del senso dell’essere, la cesura iniziale dal suo evento, l’irrevocabilità della cancellazione dell’essere, rimane complementare, logicamente vincolata e presupponente, rispetto ad una altrettanto radicale e decisa insorgenza storico-esistenziale. Il “nuovo” è tale proprio perché non potendo riscattare dalla radicale latenza ciò che è sparito, e dovendo confermare quel destino di fine e di morte che spetta ad ogni immediatezza, si appropria di una provenienza e di una destinazione storiche.

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Pubblicato in collaborazione con Critica Impura

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A proposito di Comunismo ermeneutico di Vattimo e Zabala

In Comunismo ermeneutico Vattimo e Zabala muovono un appassionato attacco alla “politica delle descrizioni”, il cui campione contemporaneo è John Searle. Tale “politica delle descrizioni” sarebbe inguaribilmente metafisica e strutturalmente legata ai progetti di dominio. Ma è vero che al positivismo di buona parte della filosofia contemporanea si può solo contrapporre la posizione ermeneutica? Non soffre quest’ultima, per come è articolata da Vattimo e Zabala, di una profonda riduzione del significato e dello spettro di incidenza della scienza?

Hegel: un monologo

di
Sonia Caporossi

 

A Mario Reale

Il vero è l’intero. Ma l’intero è soltanto l’essenza
che si completa mediante il suo sviluppo.
Dell’Assoluto si deve dire che esso è essenzialmente Risultato,
che solo alla fine è ciò che è in verità;
e proprio in ciò consiste la sua natura, nell’essere effettualità,
soggetto a divenir – se – stesso.
G. W. F. Hegel

Chi ai giorni nostri voglia combattere la menzogna
e l’ignoranza e scrivere la verità, deve superare almeno cinque difficoltà.
Deve avere il coraggio di scrivere la verità,
benché essa ovunque venga soffocata;
l’accortezza di riconoscerla, benché ovunque venga travisata;
l’arte di renderla maneggevole come un’arma;
l’avvedutezza di saper scegliere coloro nelle cui mani essa diventa efficace;
l’astuzia di divulgarla fra questi ultimi …
B. Brecht

Oh secol superbo e un po’ tocco! Me ne hanno davvero dette di cotte e di crude per togliermi di torno. Io! Io non sarei fedele al mio programma dialettico? Io sfocerei in una sorta di sapere assoluto che comprometterebbe la mia stessa teoria del divenire? Io oserei fornire una definizione esaustiva, data una volta per tutte, del reale, dell’ideale, di che cos’è la filosofia?
All’Università, colleghi, amici e nemici hanno avuto un bel daffare ad accanirsi contro di me. Il compagno Jürgen, nella sua Etica del Discorso, se la prende con me e mica poco: dice che io sarei un assolutista, come Immanuel, mentre avrei per tutta la vita ferocemente criticato di quest’ultimo proprio l’assolutismo, e che questo mi serviva a giustificare lo Stato Autoritario del futuro baffetto acquarellista matto e lo Stato prussiano del mio tempo storico, assolutizzato anch’esso. Secondo Hans Georg, il Grande Veglio della filosofia occidentale, io sarei un filosofo (e già questo, oggigiorno, è dire tanto!) di un’esperienza che, in divenire, poi giunge alla fine nella sua interezza e autenticità. Per lui l’esperienza deve rimanere sempre aperta. Invece io, udite udite!, andrei oltre l’esperienza nel suo culmine, cioè vi sostituirei una forma di sapere non più esperienziale, bensì un quid che è divenuto un criterio per essa, un assunto definitorio e definitivo, astratto e astraente che le farebbe raggiungere la propria finitezza assoluta. Paul Ricoeur, polemizzando in Tempo e Racconto col mio Volkgeist, sostiene che non c’è un unico spirito, che lui evidentemente pensa io abbia definito come un’entità superiore ed immutabile, bensì ci sono vari svolgimenti (di esso? Marameo!); e siccome, per me, la storia non è una serie di contingenze, di casi, bensì è sottoposta alla ragione che la organizza su basi razionali, la mia visione sarebbe ottocentesca ed ottimistica, poiché non c’è per lui unità ma differenza soltanto. Io secondo voi che cosa dovrei rispondere? Differenza rispetto a che? Di nuovo marameo, ma chi vuoi prendere in giro? Il definiens prende forma solo a partire dal definiendum. Ma questo richiama quello, all’infinito, in una circolarità ermeneutica fondante. E allora? Da qualche parte, o cominciamento, bisognerà pur partire, altrimenti sarebbe come non avere detto nulla. Essere, nulla, differenza, divenire…
A me sembra che in molti filosofi della vostra sordida contemporaneità postmoderna, afflitta dalla soverchieria tumorale di un astio concettuale più o meno faceto, ci sia un diffuso timore antisacrale, che si appoggia ai puntelli della critica feroce contro l’autorità della ragione. Se la ragione è sovrana il singolo allora ha sempre torto. E siccome dopo di me il singolo è rimasto solo come un cane (mica per colpa mia, ma perché così alla fine è andato il mondo!); siccome voialtri disperati parete vivere orfani del senso delle cose, solitari nella folla, in una sorta di rinnovata età postalessandrina, in cui la polis ha rinnovato la fotografia sul proprio certificato di morte facendovi sentire dispersi sulla superficie nuda della crosta terrestre come formiche in colonna, o peggio, come vermi adamitici senza la foglia di fico a coprire le pudenda celenterate, che si contorcono nel caos della perdita di senso; allora il singolo, – tutto – sensi – senza – senso, ha il timore di essere sopraffatto da una ragione che pretende possa essere esclusivamente concepita come sovrana, come il logos imposto e prevaricante del Leviatano di Hobbes. Siccome non c’è una sola verità (e quando mai avrei detto il contrario!), allora non c’è verità da nessuna parte. Il che, sinceramente, come sillogismo, mi sembra quantomeno fallace.
Il camerata Martin, a sua volta, dice che la mia filosofia sarebbe un’ontologia, mentre invece la sua è meglio identificabile dalla categoria di ontocronia, cioè una filosofia del tempo, non dell’eterno, come a dire del finito, non dell’infinito. Ma se il linguaggio è la casa dell’essere i cui custodi sono i poeti e i filosofi, bisogna ancora capire chi è qui il poeta e chi il pensatore. Il problema, in effetti, è nel linguaggio: è un problema di linguaggio. Quando Jürgen discute la mia frase più famosa: “ciò che è reale è razionale, ciò che è razionale è reale”, afferma una cosa superficialmente condivisibile da un punto di vista logico: cioè che sembra proprio una formula che giudica in anticipo, un a priori definitorio, un postulato indimostrabile, un tì estìn metafisico, un assunto assoluto. Ma questa è l’essenza stessa del linguaggio! La sua natura tautologica, la sua radicale ritrosia ad indicare altro da sé! Con queste stesse armi ti batti e ti dibatti anche te, caro Martin, tu che affermi con la stessa identica struttura di linguaggio tautologico e ridondante: “la mia filosofia è un’ontocronia”. Il linguaggio è fatto così, questo abbiamo, con questo dobbiamo lavorare.
Attenzione ai pataccari, quando inventano a tavolino un neologismo categoriale ad hoc per fare gli originali. Ma siete proprio bravi, ragazzi. Proprio bravi. E quegli altri, poi, razza di cialtroni privi di pensiero, che nel dire “Hegel è apriorista metafisico perché dice che x è y” dove, badate bene, x e y non sono neologismi categoriali alla moda creati su misura ma forme pure mentali condivise e comunicabili, non fanno altro che svolgere una forma logica proposizionale che è la seguente: “x è y, quindi x è y”. Ancora mi fischiano gli orecchi per l’eco, la ridondanza, la fuliggine sonora nel terzo occhio. Vogliamo giocare alle matrioske? Reale (x¹) = razionale (y¹) > Hegel (x²) = aprioristico (y²) > Voi (x³) = imbecilli (y³). E via discorrendo, mi fermo per pietas virgiliana alla terza dimensione concepibile.
Mi hanno accusato così di apriorismo, oh caro, ameno Schelling! Di panlogismo, per cui ogni dimensione si riconduce in me alla ragione; di presenzialismo, per cui la totalità del reale alla fine è tutta presente in me. Cioè, diamine, voglio dire, non in me – me, perché non sono Gesù Cristo, ma nell’in me dello spirito, nell’in me del me di tutti. Uhm. Come si vede, è un problema di linguaggio. Ma insomma, hanno cercato di massacrarmi nelle più sottili maniere del discorso, utilizzando il loro linguaggio comune nel tentativo di decostruire la validità del mio. E tuttavia non sono mai riusciti a seppellirmi nella cappa annichilente del silenzio. Né mai riusciranno a togliermi di torno. Ed ora, cari miei, vi sto per spiegare perché.
Io per primo ho tolto di mezzo la metafisica, io per primo!… e non il könisberghese boccoluto. Vi sembra un’affermazione strana e bislacca? Dicono qualcosa di diverso i vostri manuali scolastici di storia della filosofia? Immagino sinceramente di sì. Come Platone ha ucciso il padre Parmenide nella contrapposizione dell’uno e del molteplice, così io ho ucciso lo zio Immanuel nella totalità in svolgimento dell’esperienza storica. Sono stato io a criticare lo spirito di profondità, dicendo che non c’è un punto di vista più profondo rispetto alla realtà. Ma quale noumeno scisso, separato e inconoscibile! Lo zietto cavilloso, per il fatto stesso di mantenere un noumeno in piena salute concettuale, perché se pure non lo si può conoscere, tuttavia lo si può anche solo pensare, non fa che chiudere la porta principale alla metafisica tenendo aperta quella del retro! Non è così che si risolvono i massimi sistemi del mondo, ma solo quelli di Dio. La razionalità, invece, è presente nel fenomeno stesso. La filosofia non è altro che memoria: non è a priori, arriva sempre per ultima nella gara di corsa al sacco dell’intelletto, arriva sempre per ultima nella partita a scacchi della mente. La filosofia non giudica, non stabilisce, non enuncia: essa serve soltanto a comprendere, ad agire in base alla genialità pratica. E non ci sono, né mai io ho preteso di dettare, dei precetti per l’agire: i posteri diranno, legittimamente e con ragione, se abbiamo agito, nel qui ed ora, bene o male. C’è il rischio anzi di non poter padroneggiare le conseguenze delle nostre azioni quotidiane, perché la filosofia si limita a comprendere, è tutta rivolta in direzione della cum – praehensio fattiva del mondo circostante. Solo questo può, solo questo fa, forma di vita del pensiero quotidiana, non speciale.
E poi, cerchiamo di capirci, aprite bene i padiglioni auricolari. Io dico che l’Assoluto è il risultato. Dunque, a rigore, non ho mai detto che esso sia il Principio. L’Assoluto non viene prima, ma si manifesta alla fine del processo dialettico, il quale peraltro neanche ha una fine, perché appena giungo al termine, mi rivolgo nel circolo virtuoso che cortocircuita termine e cominciamento, al di fuori di qualsiasi dualismo sterile di condizione e condizionato. È per questo che bisognerebbe rispiegare ai miei posteri pensatori la distinzione fra vero ed esatto. Il vero è ciò che ha senso, è una realtà significativa, razionale. Ma questo mica significa che tutto vada bene, con un senso delle mie parole che qualcuno pare avermi messo in bocca. L’ottimismo ottocentesco che mi hanno imputato è parziale e frutto di una profonda incomprensione di fondo. infatti è esattamente il contrario! Il senso, il quid dotato di razionalità, deve essere reale, ovvero, fuor di metafora ontologica, si deve manifestare; e pur tuttavia realtà non è immediatamente esistenza, nel senso di tutto ciò che esiste, bensì la realtà è senso, è ciò che contribuisce alla mia presa di coscienza, non mia – mia, ma mia tua sua nostra vostra loro… insomma, alla presa di coscienza dell’uomo in quanto tale, come essere libero, libero, libero, anzi di più: come essere liberato.
Perché sono venute fuori queste criticuzze da quattro soldi? Analizziamo bene la questione. Per Hans Georg l’uomo come essere finito si trova di fronte ad una realtà più grande di lui che gli sfugge. Il vegliardo trapassato sostiene la possibilità di un dialogo tra il singolo e la storia, ma si può solo interpretare la realtà, ovvero la storia stessa, senza pretendere di possederla nella sua assolutezza. Secondo Paul, per cui “l’uomo è la gioia del sì nella tristezza del finito” (molto poetico, nevvero?), io non farei altro che identificare nel finito il principio attraverso cui spiegare la realtà. Ma non è questa una bella e buona proiezione psicanalitica? E prima ancora viene Søren il malinconico, Søren l’adolescente, Søren l’angosciato. Brivido terrore raccapriccio, s’ode l’urlo di Munch avanzare alla velocità del suono dall’orizzonte alla mia fronte. Il singolo, dice il danese dal bel ciuffo, ha le sue esigenze. E chi dice il contrario, non foss’altro che l’esigenza di farsi ogni mattina il bidet. Il singolo è per definizione incompiuto, è creatura rispetto all’essere verso cui tende. Il senso di questo essere in genere sfugge, ma questo suo essere sfuggente è proprio, va da sé, del Cristianesimo. Non aveva tutti i torti Schelling quando affermava che il Cristianesimo ha annientato il sentimento della Natura. E, per Martin, si può soltanto ascoltare l’essere, che è come dire: l’essere si manifesta ma nello stesso tempo si nasconde e noi non possiamo comprenderlo ma solo ascoltarlo. Di quale sorta di grammofono stonato abbiamo dunque bisogno? Il finito è l’uomo pratico, non l’uomo della teoria, quello dei greci a cui, secondo Hans Georg, io vorrei tornare. Nello zietto Immanuel abbiamo, in effetti, l’uomo essenzialmente pratico; secondo invece quella che è la vulgata sulla mia nozione di razionalità, l’uomo è teorico, contemplativo: è nel contemplare che la razionalità si manifesta. Però il finito, così, non è più principio di spiegazione (mi seguite?), bensì deve essere spiegato. Ma io non ho detto altro che bisogna concepire l’uomo all’interno della ragione, non al suo esterno. Il principio secondo me è il senso nella sua verità di far senso: è la Divina Commedia che spiega Dante, non il contrario! Ecco, questo sono io!
Tutti i filosofi boccoluti, imparruccati, ma anche quelli crapapelati, nonché quelli incimiciati ed eventualmente spidocchiati del mondo, per non parlare di quelli belli belli, profumati di dopobarba al musk e di Proraso in puro stilema di Occam, intelligenti tonsori che si industriano col rasoio a farmi barba e capello; e metto in mezzo pure il sifilitico spostato coi mustacchi un po’ da bear, che si affaticava col martello demolitore contro di me, ripudiando la “tirannide della ragione sugli uomini” (come se la ragione ci facesse schiavi e non invece uomini liberi!)… tutti coloro, insomma, pensatori o poeti, che si sono cimentati nel contrasto con me, si sono posti, a me pare, dal punto di vista del finito, cioè dell’uomo, come principio. Invece io ho come principio il senso, ovvero non l’uomo in quanto tale, ma ciò che l’uomo fa! Per me l’uomo è la serie delle sue azioni, l’uomo è in grado di esprimere, anzi, di più: l’uomo è questo stesso desiderio d’espressione, un animal desiderans, un’aspirazione struggente nel momento stesso in cui viene soddisfatta, tanto da divenire incessante, tanto da mettere in perpetuo moto l’azione del circolo; e allora il punto è andare ad indagare le modalità fenomenologiche di queste sue forme d’espressione, la sua creatività, il suo lascito di senso al mondo. Volete una veloce carrellata riassuntiva? Ci metto poco.
L’Illuminista era l’uomo dell’utile, della società che ricercava la felicità. Poi siamo arrivati noi, i Romantici, gli Stürmer entusiastici e poetanti in senso etimologico, e gli abbiamo contrapposto l’uomo che produce, l’uomo che opera, l’uomo che si dà da fare nell’officina del mondo, che forgia il senso delle cose, del circostante contestuale, di se stesso. È l’opera stessa lo scopo dell’uomo, è l’opera stessa ad accrescere il senso, ad alimentare bellamente, esteticamente, il suo desiderio. È per questo che noi romantici abbiamo dismesso l’abito ormai stretto dell’utilitarismo. L’interesse totale non è più rivolto al singolo, non è più rivolto ai pochi: deve essere indirizzato alla produzione di senso. L’uomo, per me, è essere – nel – mondo, come direbbe Martin, ma anche essere – del – mondo, come direi io. Nel momento esatto in cui io mi realizzo nel mondo, mi trovo in un contesto dotato di senso e ciò che faccio è sensato. Ma qualcuno potrebbe a questo punto chiedermi che cosa è il senso, quale che sia, e che cos’è il non senso, quale che sia. E qui bisogna che mi seguiate con un’ancora maggiore attenzione…
Il senso è la presa di coscienza sempre più lucida della libertà dell’uomo nel suo significare storico. Il senso consiste nella sua stessa produzione! E questa produzione coincide con la consapevolezza, progressivamente sempre più grande, della mia essenza di uomo libero, immerso fluidamente nel processo del divenire storico. Perché non c’è produzione senza desiderio. Ma desiderio di che cosa? Ebbene, di libertà.
Nel mondo orientale uno solo era libero. Nel mondo grecoromano solo alcuni erano liberi. Nel cristianesimo della modernità, ormai liberi siamo tutti, e la cultura moderna è permeata di cristianesimo, finalmente sa l’essenza dell’uomo e sa che quest’essenza è la libertà. Dopo secoli e secoli di atroci fatiche, di scontri, di guerre interiori, di abbagli, di peccati, di sconcezze, di atrocità, di ritrosie, di false speranze, di disillusioni; dopo secoli e secoli di magma metafisico, di sonno della ragione, di monstra culturali, di inadempienze, di fallocrazie, di religioni dell’ignoranza; dopo tutto questo oscuro travaglio, col forcipe indelicato e doloroso dell’autocoscienza riflessa e della Rivoluzione, abbiamo tirato fuori la consapevolezza di essere animali desideranti la libertà, la libertà di tutti che non si annulla nel niente. In Africa, bontà loro, mentre io scrivo la Fenomenologia dello Spirito tutto questo ancora non lo sanno, o se nel vostro tempo relativo già lo masticano, questo loro sapere è riflesso, è derivato, essendo la loro emancipazione, se pure in parti localizzate ci sia, discesa da idee eurocentriche: eurocentriche come me.
Eh sì, già intravedo un’obiezione: se la realtà non mi è estranea, direte voi, allora tutto il mazzo che s’è fatto lo zietto? Dobbiamo tout court tornare alla metafisica ed al sonno dogmatico? Ovviamente no, miei cari, no. Potrei sembrare un pastore che guida le pecorelle smarrite nel noumeno verso i pascoli verde posticcio della metafisica prekantiana, ma io non vi penetro dogmaticamente con nessuna suola di scarpa. Prima di giungere al sapere assoluto, io! Sono io che faccio i conti con l’esperire storico. Mentre il boccoluto nella Critica della Ragion Pura si ferma sulla soglia dell’oggetto metafisico, io, e lo ripeto, affermo invece che l’uomo può penetrare la realtà nella sua profondità, proprio perché non c’è un punto di vista più profondo rispetto alla realtà. E può farlo perché lo desidera, perché il suo desiderio inarrestabile fa tutt’uno con la propria volontà.
Anche quando parlo di Spirito, signori, occorre mettersi d’accordo sul suo significato. Il termine, lo ammetto da fervente luterano, è preso di peso dalla teologia. Ma io intendo con esso il risultato di una cultura. Lo Spirito in questo senso nasce in Grecia, dove il cittadino della polis si sente a casa sua nel suo microcosmo culturale, nei suoi valori, nelle sue espressioni fenomenologiche. Nel passaggio dal mondo romano, a quello medievale, a quello moderno, lo Spirito progressivamente si è modificato, e quello del mio tempo è uno spirito estraniato, i cui valori sono rinviati nel Rinascimento e nel Barocco all’aldilà. Quando sono arrivati gli Illuministi d’oltralpe, la fede è stata messa nel cantuccio a ripensare se stessa, e tutto è rientrato crassamente nella sfera dell’utile: però chi è che pone l’utile? Sono io, eh sì, insomma, il solito io tu egli noi voi essi. Il concetto moderno di libertà nasce con Rousseau, con Rousseau si ottiene l’emergenza dell’urgenza, la manifestazione tangibile della forza di volontà anche detta Rivoluzione francese, che però è stata un disastro, un insuccesso, una sconfitta, uno sfacelo: per mancanza di mezzi intellettivi fondanti, per carenza connaturata di strumenti culturali, nonostante fosse basata sull’idea della volontà generale, del contratto sociale, in contrasto con la pura ed egoistica volontà del singolo; nonostante fosse fondata su un desiderio, non foss’altro che un desiderio smodato. Ed infatti, nella Francia di quell’epoca, in cui De Sade prendeva appunti per Le Centoventi Giornate di Sodoma da ospite prigioniero nella sua celletta alla Bastiglia, il singolo non può esprimersi, lo stato lo elimina nel Terrore, ed egli, il singolo, per difendersi dal mal di testa terminale della ghigliottina, deve liberarsi da un peso, deve curarsi chimicamente, deve prendere la Bastiglia. Ma il singolo stesso percepisce il governo come qualcosa di non generale, bensì particolare: come un singolo esso stesso. Onde l’alternarsi di fazioni e forme di governo orientative, girondini, giacobini, Robespierre, Marat, sanculotti e via discorrendo, ora non sto qui a far l’elenco dell’alternarsi juventino del terror nero e del terror bianco. Basti riflettere sul fatto inopinabile che non ci fosse ancora, per i rivoluzionari, in quel lì e in quell’allora, la cultura di fondo per conciliare molteplicità e singolo. Tuttavia, se c’è un esito positivo a tutta quella baraonda di spargimenti di sangue e sperma sacrificale segnati a giorni alterni sul calendario più ridicolo e buffo che sia mai stato creato, è questa: con la Rivoluzione dei gallinacci in lotta nel pollaio l’uomo si è reso conto di esser capace di universalità. Dopo il riassetto napoleonico, mentre la Francia continua a fare coccodè come poi succederà per quasi tutto il Novecento, quando i suoi pensatori marxisti e sessantottini non comprenderanno minimamente il senso dell’evento storico secondo me, lo zietto boccoluto invece lo capisce, oh se lo capisce! Comincia così ad affermare, dalla sua celletta monacale di Könisberg, che l’imperativo, l’azione morale, è un fatto della ragione. Jacobi solo dopo teorizzerà la filosofia dello spirito coscienzioso, che sa quello che fa, nel pieno senso dell’emancipazione di cui io sono il più lucido teorico del mondo, senza falsa modestia.
Questa è la storia della manifestazione in divenire dello spirito dell’uomo. La cultura, le culture, sono il risultato di questo corso storico, degli eventi e del loro intimo significato. E si badi bene, tali eventi hanno contribuito a questo disvelamento dello Spirito a se stesso, essendo tutti gli altri in momento di contrasto, o contraddizione, o metamorfemi schiavizzati ed insieme padroni dell’immane forza del negativo.
Io, a dirla tutta, ho anche esaminato le varie religioni. Fra di esse, soltanto il cristianesimo è la presa di coscienza occidentale in senso culturale del divenire storico. Ma la religione, in sé e per sé, è intuizione ancora rappresentativa, non ancora lucida, della realtà. È la realtà in forma mitica, è la realtà dispiegata nelle storie analizzate da Propp, e proprio avendo affermato questo, non si capisce come mai il mustacchiato sifilitico si sia dovuto sentire investito del, quello sì, sacrale dovere di filosofare col martello distruggendone il fondamento. Non serve un Anticristo che sia convinto di sé, che ci crede, se Cristo stesso è solo una favola, se Cristo stesso non crede a se stesso, se Cristo stesso è il momento del negativo antitetico rispetto alla tesi del Padre che attende la superiore sintesi dello Spirito; se Cristo stesso, insomma, si è negato. E se la gente ci crede? Affari loro. Non si impone come pars destruens una genealogia della morale che si spaccia per negativa ed antipropositiva, tanto più propositiva e sostitutiva quanto più eteroescludente, contro l’ascesi della modernità: se tale ascesi s’è manifestata, ci sarà stato un motivo, e bisogna solo aspettare che essa trapassi. Come infatti nella vostra epoca attuale mi sembra che sia, e certo non per grazia o virtù di quel pazzoide che abbracciava un cavallo. Quando don Chisciotte scende da cavallo torna savio, quando Nietzsche abbraccia un cavallo afferma la sua pazzia. Genealogia della morale è di due anni prima rispetto all’accaduto; Ecce Homo, l’Anticristo, Il Crepuscolo degli Dei dell’anno prima. Opere di poesia, non di filosofia, per le quali vale il vecchio adagio di Poe: “la scienza non ci ha ancora insegnato se la follia è o non è il sublime dell’intelligenza”. Il rischio è che l’irrazionalismo poetico di Mister Mustard si trasformi nella tirannide dell’irrazionale, altro che della ragione! Il rischio è l’avvento dittatoriale del Baffetto e del Baffone. Il rischio è la tirannide senza colore politico, in cui le opposte fazioni che ancora oggi dividono il mondo vengono a coincidere nell’unico esito della mostruosità. Ma allora, se anche la religione ha avuto una sua funzione che si deve riconoscere come mitica, aurorale, a metà fra la funzione estetica dell’arte e quella della scienza, da dove nasce il sapere, come si passa allo stadio successivo?
Il sapere sorge nel mondo postrivoluzionario, e ciò, detto per inciso, è il motivo per cui tutte le rivoluzioni del mondo non sono mai un approdo al sapere o ai saperi, bensì punti di transito e scambio, di import export di coscienza e suggestioni, di trapasso emozionale e sociale, di puro fieri, di forza desiderante e generativa, di immane forza del negativo. È nel mondo romantico che io finalmente mi sento capace di sapere assoluto. Nessuna volontà di potenza è qui necessaria: la potenza c’è già! Tuttavia, e qui sta il bello, il punto per cui nessuno ancora ha pienamente compreso ciò che ho inteso per tutta la vita dire, il fondamento ultimo del mio modo di pensare: questo sapere non è inerrante, non è un assunto metafisico dell’episteme platonica, non è il migliore dei passati e degli svolgimenti storici possibili. Avrebbe potuto svolgersi, manifestarsi, realizzarsi diversamente da com’è andata, diversamente da come si è arrivati a tutto questo. Ed in quel caso, la filosofia non ne sarebbe rimasta sconvolta; l’avrebbe indagato lo stesso a posteriori, con l’utensile da intaglio del ricordo. Il sapere può sbagliare, e allora? Io voglio solo dire che la ragione compie legittimamente le sue azioni, quali che siano. Ma non si tratta mica di un bieco determinismo. Significa piuttosto una cosa ben precisa. Che io sono in grado di filosofare così, voglio dire, con la memoria! Con la memoria la filosofia si volge indietro verso gli avvenimenti della storia, con la memoria li commemora, li cum – memora, ci rimane invischiata, ci sta in mezzo, se ne permea e ci si sviluppa dal loro interno. Con la memoria e solo con essa i pensatori possono scoprire il senso, possono indagarlo non aprioristicamente, come se fosse un batterio sul vetrino sterile di un microscopio, ma possono guardarlo dall’interno dell’esperienza nel pieno razionale del suo svolgersi reale. Ora la metafisica è davvero morta, e questa problematicità moderna, o anche solo il pensare di potermici approcciare, di poterla avvicinare, indagare, penetrare, mi dà il sorriso, la carica, la forza, la sagacia, un nuovo e inesauribile desiderio di conoscere, di amare, di trasformarmi, di vivere.
Non ci sono più misteri, solo problemi. L’essere è fra noi: io sono ormai capace di verità.

 

L’articolo è già stato pubblicato in: Desiderio e desideri. Con Hegel, non solo con Hegel. Quaderni di Dialettica e Filosofia, n.2, Novembre-Dicembre 2014/ I
www.dialetticaefilosofia.it ISSN 1974-417X [on line]
http://www.dialetticaefilosofia.it/public/quaderni/302_desiderio.pdf