Tag Archivio per: globalizzazione

Le religioni alla prova del dialogo. Note a Le religioni e le sfide del futuro. Per un’etica condivisa fondata sul dialogo

Per quanti operano, con ruoli diversi, all’interno della società e delle istituzioni, dunque anche all’interno dell’Università, il libro di Chiti rappresenta uno strumento di grande utilità per migliorare la comprensione di ciò che l’Autore chiama “il contributo che le religioni possono dare a un avanzamento della civiltà”. Può sembrare una frase retorica, che dice tutto e niente, ma non è così. A mio avviso, può invece diventare un monito dirompente se le religioni, a partire dai loro leader, decidono di lavorare per mettere in relazione il bene degli esseri umani con il bene del Creato.
Concordo, dunque, con Chiti sul ruolo “orientativo” delle religioni nella società globale e condivido la sua preoccupazione che la “logica della contrapposizione amico-nemico” possa prendere il sopravvento all’interno delle due sfere per antonomasia, quella della politica e quella del sacro, ma pure tra le “due sfere”, o tra i due “ordini” – per essere più affini al dettato costituzionale (art. 7, co. 1 Cost.) – quello dello Stato e delle confessioni religiose, ostacolando o finanche sbarrando la strada al dialogo, inteso (filosoficamente) come “crocevia che lascia scorrere le differenze, le fusioni di orizzonti” .
È chiaro che, per operare in un’ottica di solidarietà cooperativa verso il mondo c’è bisogno anche di “rafforzare i legami interreligiosi”, riconoscendo – come hanno scritto Papa Francesco e il Grande Imam di Al-Azhar nel Documento sulla Fratellanza umana del febbraio 2019 – che “il pluralismo è voluto da Dio”. Bene ha fatto, perciò, qualcuno a chiosare questa posizione bipartisan come “condanna alla radice di ogni visione fondamentalista” .
Chiti scrive che c’è bisogno di un “nuovo umanesimo” e individua, per esempio, nel fattore “ecologico” uno dei punti di svolta più importanti per risolvere i “problemi dell’Antropocene”, cioè “dell’epoca geologica attuale nella quale l’uomo è in grado di indirizzare e modificare tutti gli equilibri del pianeta terra” . Il Papa, dal canto suo, nella Laudato sì ha parlato chiaramente di “eccesso antropologico”, per cui l’uomo si costituisce come “dominatore assoluto”.
Un esempio di questo “antropocentrismo deviato” (Papa Francesco) è l’affermazione del presidente del Brasile Bolsonaro quando rivendica il diritto del governo brasiliano di distruggere la sua porzione di foresta amazzonica. A questa dichiarazione possiamo rispondere prendendo in prestito le parole del pontefice contenute nell’Esortazione Querida Amazonia del 12 febbraio 2020: “Alle operazioni economiche, nazionali e internazionali, che danneggiano l’Amazzonia e non rispettano il diritto dei popoli originari al territorio e alla sua demarcazione, all’autodeterminazione e al previo consenso, occorre dare il nome che a loro spetta: ingiustizia e crimine”.
Qui è come se Papa Francesco facesse propria la “prospettiva di un garantismo costituzionale” di portata sovrastatale (planetaria) , il cui nucleo risiede nella necessità/urgenza di rifondare una legalità (Papa Francesco direbbe una “relazione”) all’altezza delle emergenze globali.

Di fronte a questa sfida – parafrasando il Francesco della Laudato sì – “il divino e l’umano” non possono restare indifferenti e sono chiamati a riconnettersi in un universale non-omologante. La fraternità di Papa Francesco è l’opposto della globalizzazione vuota, è “costruzione” all’interno della quale la tensione non è dogmatica (“tecnocratica”) bensì “relazionale”, cioè “permeabile alla comunicazione” . “Non rinunciamo [dunque] a farci domande sui fini e sul senso di ogni cosa” (Laudato sì, n. 113). E poi: “Non c’è ecologia senza un’adeguata antropologia”. (Laudato sì, n. 113).
Si tratta perciò di un “movimento” – di una prospettiva di rifondazione della legalità globale – per nulla scontato (il sovranismo politico e quello mercatistico mal digeriscono i limiti e i vincoli costituzionali), che si nutre di scelte responsabili. il Documento di Abu Dhabi del 2019 (cit.) – che Chiti definisce di “portata storica” – si apre proprio con un chiaro impegno alla “responsabilità religiosa e morale”, senza la quale non sarà possibile “diffondere la cultura della tolleranza, della convivenza e della pace”, né “intervenire (…) per fermare lo spargimento di sangue innocente”, la “fine” delle “guerre” (…), “il degrado ambientale e [il] declino culturale e morale che il mondo attualmente vive”. E si tratta di un “movimento” che incontra fattori di resistenza ampi e diversificati sia all’interno del “giardino di Cesare” (citavo prima il sovranismo politico e quello mercatistico) che all’interno del “giardino di Dio” .
Su questo dilemma Chiti imbastisce la trama del suo libro analizzando con dovizia tutta una serie di questioni ad alto tasso di complessità e di interazione tra loro: il valore della laicità, il rapporto tra scienza e fede, il ruolo delle religioni come “istituzioni” e la loro azione all’interno dello spazio pubblico, il “peso” della religione e delle religioni nelle scelte individuali, le sfide della globalizzazione, l’azione missionaria delle chiese, i processi di rinnovamento all’interno delle comunità di fede (dall’interpretazione dei testi sacri alle ortoprassi nei contesti di immigrazione), il ruolo dei giovani e delle donne, la governance dei rapporti tra istituzioni pubbliche e organizzazioni religiose, la geopolitica del fattore religioso e il protagonismo dei leader, il dialogo interreligioso.
Quest’ultimo aspetto, in particolare, richiede un grande sforzo di servizio “in comune” tra soggetti religiosi (persone, leader e organizzazioni) e attori politico-istituzionali, lato sensu. Se, dal punto di vista delle religioni, “il dialogo interreligioso richiede di mettersi al servizio del dialogo di Dio con l’umanità” , dal punto di vista della politica (e del diritto) “la democrazia non può mai farsi i fatti suoi, perché i fatti sono suoi, se li consideriamo come elementi di crescita della coscienza e della consapevolezza del cittadino” . Per cui, parlare oggi di laicità, come “prefisso della libertà” , non significa limitarsi a ribadire astrattamente la “distinzione tra ordini distinti” (Corte cost. n. 334/1996) ma qualcosa di più, specie oggi che il panorama culturale e religioso si presenta molto più frastagliato e discontinuo rispetto al passato .

Si tratta, concretamente, di concepire una koinè democratica , le cui categorie di fondo (eguaglianza, libertà, pluralismo, solidarietà, laicità, etc.) devono essere sottoposte ad un lavoro di aggiornamento per essere più rispondenti alle nuove domande di cittadinanza interculturale . E questo lavoro di aggiornamento, inevitabilmente interdisciplinare, passa attraverso la conoscenza, il dialogo, l’inclusione, l’interazione, unica via (a mio avviso) per “garantire i diritti e i doveri di tutti verso tutti” . Dal modo come verrà concepito e organizzato questo sforzo capiremo quanta volontà c’è di “tenere insieme” l’umanità, come direbbe Papa Francesco .
È perciò fuori discussione che, all’interno del paradigma costituzionale – nel quale colloco la riflessione di Chiti – si imponga la necessità (se non addirittura l’urgenza) di conferire massima effettività ad una teoria integrata dei valori (perciò “interculturale”), dove tutto quanto risulta funzionale alla costruzione di una “proposta comune sui diritti” trovi massimo sostegno e diffusione, sia da parte degli apparati politici (in senso multilivello), chiamati a lavorare per accrescere il valore della cooperazione (art. 11 Cost.), sia da parte delle religioni, inquadrate innanzitutto come formazioni sociali, per essere meglio vincolate al “patto repubblicano” e, dunque, impegnate anch’esse a rimuovere gli ostacoli (nella società e nelle comunità spirituali) che impediscono il “pieno sviluppo della persona umana” (art. 3, co. 2 Cost. e l’art. 4, co. 2 Cost. dove si parla, non a caso di “progresso spirituale della società”).
Una teoria integrata (“interculturale”) dei valori costituzionali ha buone ragioni per costituire lo sfondo anche per una teoria del dialogo interreligioso, perché ciò che caratterizza la prima è la “ricerca delle comunanze, di ciò che ci rende umani”, [che] tradotto in linguaggio costituzionale [significa] l’idea[valore] del principio personalista” , declinato anche in ragione di ciò che “un individuo avvert[e] verso una realtà più grande di lui, nella quale (…) si identifica” .
Per non essere, dunque, di sola facciata, il dialogo interreligioso (come prodotto raffinato del dialogo interculturale) richiede la disponibilità (non scontata) a compiere un lavoro di ripulitura incrementale dei linguaggi specialistici (politico, giuridico, teologico, etc.). Significa avere “fiducia nella portata veritativa delle diverse tradizioni spirituali, contro il fanatismo integralista di chi ritiene che la verità sia tutta e solo la propria dottrina” e che “rischia [sottolinea Chiti] di confinare le religioni in rappresentazioni mitologiche”.
Mi pare, allora, che la versione di Chiti sul significato del dialogo interreligioso (e non solo) sia abbastanza adesiva a quanto da me appena detto, specie quando scrive che: “la collaborazione tra le religioni deve andare oltre il reciproco rispetto e mettere al bando forme di coercizione, di arroganza, la pretesa di imporre (…) un esclusivo punto di vista”. E che per dare concreta attuazione a questo intento occorre “integrare tutti in una nuova cittadinanza, che faccia delle differenze di fede e cultura una ragione di sviluppo e progresso, non di divisione”, erigendo la laicità a “valore cardine della democrazia”.

Anno zero dell’era “dopo-Virus”?

di Lamberto Pignotti 

 

Peccato non aver potuto registrare una telefonata che ci siamo fatti, Bruno Montanari e io, dai rispettivi coatti domicili, a proposito di coronavirus, oggi e domani, se tutto dopo rimarrà come prima, insomma del futuro che ci aspetta. 

Sul finire del secolo scorso c’era una rivista,”Futuribili”, che ci dava con sicurezza le proiezioni e previsioni del tempo che avrebbe fatto. Tutte o quasi sballate. “Il corriere della sera” in quei tempi dava titoli a caratteri di scatola, tipo “Il 2000 sarà della petrolchimica”, cosa smentita di lì a poco dai fatti, alla stregua di Verne che si immaginava di arrivare sulla Luna sparando un proiettile da un gigantesco cannone. 

Io non credo che tutto sarà come prima, ma non credo neanche che tutto non sarà come prima. Gli ecologi auspicano peraltro che dopo, per acquisita consapevolezza, ci sarà meno inquinamento; io per ora mi limito a godere dell’aria buona che nel centro di Roma respiro come quella che respiravo un tempo a Vallombrosa. 

Gli anti-consumisti auspicano quel tanto di decrescita intelligente che la quarantena imposta dal virus ha suggerito: sfoltire guardaroba caotici, ridurre viaggi intasati e crociere affollate, rarefare prenotazioni di pasti dieteticamente pantagruelici… E quindi: quattro salti in padella casalinghi, e casalinghi quattro salti in casa anziché in palestra, e casalinghe acconciature anziché griffati coiffeurs… Beh, staremo – si spera – a vedere.

Da vedere ci sarà assai presumibilmente il passaggio, in qualche settore, dal planetario al locale, dal globalismo al glocalismo, insomma. La grande editoria internazionale che ci comunica ogni giorno la stessa notizia ben confezionata – Mc Luhan lo aveva detto per i giornali, Propp per le favole più o meno romanzate – verrà non soppiantata ma più verosimilmente affiancata dalla gazzetta di quartiere che sappia dire ai lettori cosa succede all’angolo di casa, e dall’opera di autori che sappiano interagire con i lettori, tramite linguaggi non omogeneizzati ma innovativi e sollecitanti. 

Ancora oggi, e da troppo tempo ormai, le fabbriche editoriali e la grande stampa –  i media pensionabili trainati da una decrepita politica – non fanno altro che affastellare storytelling e best-sellers e top-ten che sono venuti a noia financo a coloro che sono obbligati a commentarli per malcelato vassallaggio o per feriale compenso della pagnotta. La noia, l’insofferenza, l’Indigestione del già sentito dire e del già visto, darà modo di sentirne e di vederne delle belle… Occorre un linguaggio diverso, una grammatica da ri-creare, e intanto si sta affacciando un “Lessico resistente” come delinea con efficacia fin dal titolo, Antonio Cecere in  un libro (Edizioni Kappabit, 2019) in cui mi ha generosamente coinvolto.

Intanto il contesto è quello tratteggiato in questa sede da Bruno Montanari nel suo scritto a proposito di “Virus: una riflessione sconsolata”.

Sconsolato è il quadro che ne viene fuori, un “panorama preoccupante” che è divulgato dai media e da una classe politica all’interno di un pensiero costruito attraverso una sorta di riduttivo gioco delle parti “per la gente” in cui l’informazione e la comunicazione risultano confezionate come dozzinali prodotti da supermercato.

Anche il coronavirus va fatto entrare in questo collaudato gioco. Gradatamente, per successivi maieutici spostamenti contestuali: c’era la crisi petrolifera? Noi si doveva parcheggiare l’auto la domenica. C’è l’inquinamento? Noi si deve andare a piedi per un giorno. C’è il coronavirus? E noi si sta a casa! “Insomma”, scrive Montanari, “ancora abitudine mentale alla superficialità e semplice immediatezza delle soluzioni. 

Siamo alla Replica Differente. Autoreferenziale, omologante e intenzionato a perpetuarsi gattopardescamente è il modello di sviluppo tratteggiato nel “panorama preoccupante” da Montanari. 

Che dunque tutto appaia nuovo, ma che di fatto tutto resti come prima? “Nihil sub sole novum”, titola qui il suo intervento Paolo Quintili. Il coronavirus entra prepotentemente in scena a turbare lo squilibrato stato in luogo di quel “modello di sviluppo capitalista iperliberista dell’ultimo trentennio” che ha prodotto proprio quello squilibrio nel rapporto fra le articolazioni che muovono cause naturali e strutture sociali.

Preso atto dell’emergenza virale, Quintili invita a “riattivare un’azione – non una semplice riflessione – critica nei riguardi del modello non più rinviabile. 

Tale invito prende slancio dal saggio di Alain Badiou incentrato “Sulla situazione epidemica”. Dove lo scarto di partenza appare subito fatto col piede sbagliato”. Ho sempre ritenuto che l’attuale situazione, segnata da un’epidemia virale, non aveva certo nulla di eccezionale”, esordisce l’autore; e più avanti, quando il soggetto evocato dal saggio è indubbiamente il “coronavirus”, conosciuto anche come COVID 19, o più esplicitamente denominato SARS 2: “Il vero nome dell’epidemia in corso dovrebbe indicare che esso dipende, in un certo senso, dal ‘niente di nuovo sotto il sole’ contemporaneo. Questo vero nome è SARS 2, ossia ‘Severe Acute Respiratory  Syndrom 2’, nome assegnato appunto all’attuale epidemia perché succeduta a quella del 2003, allora etichettata come 

SARS 1”. Tranquilli, insomma, anzi siccome proverbialmente sappiamo che non c’è due senza tre, chissà che sbadigli di noia faremo all’apparire del prossimo incomodo…

Nihil sub sole novum!, ma sì, per riprendere con piglio emblematico l’avvertito titolo dell’articolo di Quintili: vogliamo dimenticarci delle letterarie pesti di Boccaccio e Manzoni, non vogliamo dare uno sguardo retrodatato alla “spagnola”,  alla “asiatica”, al morbillo, alla tubercolosi, alla poliomielite, all’HIV, alla SARS 1?

Ma qualcosa di nuovo invece sta succedendo, quando si passa dalla astrazione numerica alla situazione individuale. Gli elenchi e i bollettini sorvolano, danno i numeri, anzi mentono, come per antifrasi mentiva il titolo del romanzo di Erich Maria Remarque  “Niente di nuovo sul fronte occidentale”. Elenchi e bollettini bellici o sanitari che siano sorvolano a proposito del caduto sul campo di battaglia o del defunto in corsia di ospedale.

Non lo dico per sentito dire, ma perché lo sento proprio io, hic et nunc, che le pestilenze di cui sopra si andava evocando ed enumerando –  da quelle mitiche e storiche e letterarie alla SARS 1 – o erano lontane nel tempo o erano distanti nello spazio. Però si dà proprio il caso che la SARS 2, o coronavirus, o Covid 19, lo sento io, qui e ora. Altro che pandemia abbastanza confortevole per il mondo occidentale,”fatto in se stesso privo di significato innovativo”. Qui, come altri, sto vivendo un’avventura da diluvio universale, da day after, mai vissuta prima dall’umanità.

Non mi era successo finora di fare un “Viaggio intorno alla mia camera” come De Mestre, né guardare sotto casa una piazza metafisica di De Chirico, né di scrutare dala finestra il “Deserto dei tartari” di Buzzati. Dove i tartari sono sì invisibili, ma anche tangibili, e tutto il mio corpo è indifeso e penetrabile a loro piacimento.

L’eccezionalità della situazione virale mi da modo, forse per antitesi, di trovare nelle espressioni di Badiou, quella carica spigolosamente sollecitante che spinge a raffigurarmi nella scena di uno che si appresta a correre un rischio con quella rete di protezione che è la fatalità.

Mi succedeva quando davo un esame: “male male sarò bocciato”, pensavo; mi succede quando prendo un aereo: “male male muoio” … Tutti modi per esorcizzare un’evenienza negativa. Badiou è lì a dirci che la fine del mondo, l’aborrita pandemia, tutto sommato è cosa di ordinaria follia comportamentale. 

Magari ci sarà da fare qualche adattamento, un ritocco: ci sarà da passare dal corporeo al virtuale e dal tangibile al digitale, ci sarà da ripensare, magari per diradarli, a quei vecchi sudaticci prosastici baci e abbracci, per  ripristinare, olograficamente, per streaming, in double life, via skype…, le più antiche poetiche evocazioni stilnoviste. Noli me tangere e vade retro… Del resto le amatissime Beatrice, Laura e Fiammetta non risulta che siano state sfiorate dai rispettivi spasimanti. Quando nel 2016 ho pubblicato da “Empiria”  la mia “New vita nova”, non ho fatto che evidenziare a dismisura la virtualità della “Vita nova” di Dante.

Il progressivo passaggio dal corporeo al virtuale, dal tangibile al digitale, dal globale al locale, non potrà non incrinare, per le contraddizioni che presenta, quel modello di sviluppo capitalista di cui parlano Montanari e Quintili. E qui entra in gioco con violenza il coronavirus e tornano anche particolarmente incisive le rilevazioni di Badiou a proposito degli “Stati nazionali che tentano di far fronte alla situazione epidemica, rispettando, per quanto è possibile, i meccanismi del capitale, benché la natura del rischio li obblighi a modificare lo stile e gli atti del potere”. Quegli Stati dovranno  “imporre, non soltanto, certo alle masse popolari, ma ai borghesi stessi, delle costrizioni considerevoli, e questo per salvare il capitalismo locale”.

Questa appare implicitamente come una sorta di chiamata alle armi di intellettuali e artisti con la quale Badiou incita a non rispondere ai vari SOS lanciati dal modello capitalista, globale o locale che sia. Una incitazione parallela si proietta anche  nel finale dello scritto di Montanari: “Occorre tornare a ‘ragionare’ emancipandosi dalla abitudine a seguire in modo acritico quel mondo dei rumori verbali che il mondo dei media, nel loro insieme, diffonde ad un ritmo frenetico e incontrollato”.

Ne risultano nel complesso parole non più genericamente astratte, ma  fattualmente partecipi di una modalità critica in corso, di una articolazione agevole di pensiero, di una filosofia movimentata e protesa a  porre una rinnovata scorrevole segnaletica nel labirinto di quella “Comunicazione nella società ipercomplessa” (questo è il titolo del bel libro di Piero Dominici, pubblicato da Franco Angeli nel 2011, al quale  rimando) in cui dall’era “avanti-Virus” siamo condizionati, intrappolati e oppressi.

I lavori in corso avvisano che sono chiusi al traffico l’antico vicolo del Dernier Cri, la sconquassata scorciatoia del Revival e la dissestata bretella del Neo-post-modernismo. Evitando la rotatoria dell’ennesima Replica Differente, se riusciamo a scavalcare il prossimo dosso, aguzzando lo sguardo forse si potrà cominciare a scorgere in questo anno Zero, la nuova era, quella del “dopo-Virus”.

Dalla lotta di classe alla class action: una sinistra per il 21° secolo

Il declino della sinistra non ha bisogno di illustrazioni, il suo rilancio sì. La letteratura sul primo è immensa, le idee per il secondo scarseggiano. Quindi conviene accennare qualcosa sul declino e concentrare l’attenzione sul rilancio. Sul declino mi limito a citare un fattore sociale, oggettivo ed uno soggettivo, legato agli errori della sinistra democratica.  Il fattore oggettivo è la frammentazione della base sociale della sinistra nel tardo 20° secolo. Innovazione tecnologica, delocalizzazione, migrazioni hanno dissolto le solidarietà “di classe” che un tempo formavano la base sociale della sinistra. Il fattore soggettivo è aver creduto – da parte della sinistra riformista dei Clinton e dei Blair – alla narrazione neoliberal, riconducibile a Reagan e Thatcher, del trickle down e aver pensato che finanziarizzazione dell’economia e mercati globali disancorati da ogni territorio potessero essere addomesticati in ultima analisi a vantaggio anche dei più svantaggiati. Invece i costi di quella favola – privatizzazioni, deregulation, precarietà del posto di lavoro, flessibilità, tagli ai servizi, licenziamenti, aumento esponenziale della diseguaglianza – hanno colpito l’elettorato della sinistra facendone il popolo di “forgotten men” che ha votato per i populisti sovranisti. La domanda di protezione dagli esiti della globalizzazione e finanziarizzazione dell’economia si è dunque rivolta all’offerta populista, centrata sulla favola del riguadagnare la sovranità economica dentro la cornice dello stato-nazione.

Possiamo aggiungere mille dettagli a questa analisi, ma non sposteremmo le linee di fondo. La sinistra di oggi è come una sinistra europea che negli anni sessanta avesse continuato a puntare sulla redistribuzione della terra ai contadini. Urge una riflessione nuova, e questo è il sasso che voglio gettare nello stagno del declino. Il rilancio deve far tesoro della diagnosi e trarne due insegnamenti: cambiare scala e cambiare soggetto. Cambiare scala: l’ultima volta che la sinistra ha imposto un vero cambiamento socioeconomico al capitalismo che aveva condotto alla catastrofe del 1929 fu con il New Deal di Roosevelt. Ma dopo il 2008 la scala è irrimediabilmente cambiata: il problema di Roosevelt si originava a Wall Street e si risolveva a Washington. Nessuna soluzione all’assetto del capitalismo finanziario e al nuovo “potere assoluto” dei mercati finanziari globali, disancorati dai contesti nazionali, può avere come teatro esclusivo e sufficiente un parlamento nazionale. La natura “assoluta” del potere esercitato da tali mercati (con al loro interno criptoattori come le agenzie di rating o attori pseudoeconomici come i fondi sovrani) non consiste, come nel caso dell’antico potere assoluto dei re, nell’operare al di sopra della legge – i mercati sono regolati dalle leggi –, ma nel potere quasi sempre ottenere le leggi desiderate da parte di parlamenti dove le maggioranze si dissolvono se il paese retrocede nell’economia globale. Come i monarchi assoluti potevano convocare o dissolvere i parlamenti, ed accoglierne o respingerne la legislazione, così i mercati finanziari hanno oggi il potere di togliere legittimità alle legislazioni democratiche negando quella “prosperità” su cui si gioca la competizione elettorale. Sette governi democratici sono caduti in Europa per la pressione dei mercati dopo la crisi del 2008: in Portogallo (2009), Spagna (2011), Grecia, Irlanda, Islanda (2009), Italia (2011), Lettonia (2011).

Inoltre, mentre nelle elezioni del 1932 e del 1936 Roosevelt disponeva di un blocco sociale pronto a votare le sue riforme, questo blocco è oggi una nostalgia del passato e va ricostruito interamente, in un quadro segnato dalla frammentazione sociale del mondo del lavoro. Ma non si può ricostruirlo, e ricostruire una nuova sinistra che lo rappresenti, se si ripropongono le categorie che ci hanno portato fin qui. Occorre liberarsi di almeno due dogmi del passato: a) la diffidenza verso il diritto e b) la sottovalutazione del consumo.

Tanti nella sinistra democratica considerano il diritto, la sfera legale in genere, come il luogo di radicamento di un processo e di un atteggiamento di “giuridificazione” della politica che ne depotenzia la portata aggregativa e trasformatrice.[1] E’ un atteggiamento dogmatico su cui riflettere, perché il diritto e la sfera legale in genere presentano il vantaggio, cruciale nel nostro contesto, di non presupporre soggetti collettivi, narrazioni condivise e capacità di mobilitazione nel modo in cui queste cose sono presupposte da una politica progressista. Il diritto presuppone alcune di queste cose quando lo pensiamo come prodotto legislativo di parlamenti composti da forze in competizione elettorale, ma non quando il diritto è applicato o quando opera in contesti di common law. Anche in contesti di civil-law però ormai si dà la possibilità di class-action a difesa di interessi lesi. E per partecipare e poi beneficiare di una class-action, che può essere inserita come azione legale in una strategia politica, basta una firma. Il secondo dogma della sinistra è la denigrazione del consumo a fronte della produzione di beni e servizi. Qui intendo consumo come qualcosa di ben distinto dal “consumismo” come fenomeno culturale con aspetti mimetici. Le borse di Gucci le consumano in pochi e pesano fino a un certo punto sugli assetti sociali. Ma invece, mentre partecipiamo alla produzione in una varietà proibitivamente diversa di modalità, che è difficile poi riannodare a una soggettività politica unitaria, consumatori, non consumisti, lo siamo tutti. Subiamo tutti l’esperienza “alienante” (in un nuovo senso) del rappresentare “atomi a perdere” che si scontrano con forze economiche soverchianti – non Gucci e Prada, ma grandi gruppi economici, istituti bancari e finanziari, compagnie assicurative, sanità privata, gestori di telecomunicazioni, utilities che distribuiscono energia e acqua, compagnie di trasporto, reti distributive, gruppi editoriali, colossi del web – le quali ci impongono regole su cui abbiamo zero influenza.

La protezione del consumatore è costituzionalizzata nell’UE. L’art. 38 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea,[2] ora inclusa nel Trattato di Lisbona, prevede “un livello elevato di protezione dei consumatori”. Ora, mentre la legislazione antitrust rappresenta un’applicazione del principio di eguaglianza nella sfera delle relazioni fra grandi protagonisti del mercato, scopo dell’Art. 38 è colmare il fossato che separa l’influenza esercitata dai grandi players e il singolo consumatore atomizzato, senza ricadere nell’utopia regressiva dell’abolizione del mercato. Nulla impedisce a una sinistra rifondata di iniettare un forte contenuto ideale nella protezione del consumatore attraverso class-action, e dal concepire la class-action, specie ove accompagnata dall’istituto “punitive damages”, come implementazione, in una società complessa e socialmente frammentata, di un forte principio di eguaglianza, tale da imporre al mercato di rendere meno irrealistica la sua premessa fondante di un eguale status dei contraenti. Niente, se non una tradizione dogmatica che privilegia la contrapposizione di classe a un capitalismo manifatturiero, fordista, che non esiste più, impedisce a una sinistra nuova di fare della class-action uno strumento flessibile al servizio dell’eguaglianza. Niente, se non un pregiudizio antico contro il consumo, impedisce a una sinistra nuova di concepire e presentare questa universale relazione socio-economica come il terreno di confronto ove – proprio come nella epopea passata del lavoro salariato e dello sfruttamento – è direttamente in gioco quel principio di eguaglianza che figura in cima ai valori costituzionali. L’“eguaglianza dei cittadini” deve acquisire un nuovo significato, oltre l’ inammissibilità, davanti alla legge, di distinzioni “di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”: deve diventare vera eguaglianza di opportunità nel mercato.

Prendiamo ad esempio le agenzie di rating. Standard & Poor, Fitch, Moody’s, vendono sul mercato la loro capacità di valutare in modo affidabile le chances di successo di istituzioni, banche, governi, e prodotti finanziari. Spesso però influenzano la realtà che pretendono di osservare. Nell’aprile 2011 Standard & Poor ha abbassato il rating degli Stati Uniti — una decisione non incontestabile, visto che le altre agenzie non l’hanno condivisa. Inoltre nel 2012 ha qualificato come “spazzatura” gli “Eurobonds” prima che esistessero – il che è difficile considerare una osservazione. Un esempio di class-action contro comportamenti simili, guidata da un governo locale, viene dall’Australia. Una battaglia legale di 8 anni ha visto vincere il comune di Swan (Western Australia) contro Standard & Poor in merito alla condotta fuorviante collegata ai suoi ratings prima e durante il fallimento di Lehman Brothers. La class-action ha coinvolto 92 partecipanti, guidati dal Comune di Swan nel New South Wales, fra cui investitori, consigli locali, chiese e associazioni di beneficenza e non profit.[3] La democrazia è il contrario dell’impunità. E la ricomposizione di una cittadinanza democratica può partire dal chiedere conto del loro comportamento a questi ed altri attori, come i fondi sovrani e le potenze economiche prima citate, attraverso class-actions sponsorizzate direttamente dai governi, invece che da associazioni del consumatore, e dall’ottenere un sanzionamento di tali comportamenti, come è accaduto con Volkswagen nel Dieselgate.

Da un’ottica di sinistra tradizionale, azioni come queste sembrano interne a una logica “giuridificante” in ultima analisi interna al neoliberalismo, ma l’onere della prova va piuttosto invertito. Tocca a chi difende un approccio più tradizionale, “socialdemocratico” o “old-labor”, mostrare come nelle condizioni attuali di iperpluralismo, flessibilizzazione del lavoro, frammentazione delle clasi sociali, e mancanza di una visione complessiva contro-egemonica – fortunatamente assente in un orizzonte postmetafisico – si possa più efficacemente contrastare il capitalismo finanziarizzato con manifestazioni, petizioni, scioperi e occupazioni. Fino quel momento, ritengo sensato affermare che la domanda polanyiana di “protezione” non vada né lasciata nelle mani delle forze populiste, né affidata solo a misure riformatrici approvate sull’onda di classici movimenti di protesta, ma possa anche affidarsi al successo di processi di class-action condotti sullo sfondo del costituzionalismo globale dei diritti umani e della giurisprudenza delle corti internazionali.     La sinistra non può ritrovare la sua vocazione e il suo radicamento se non reinterpreta il principio di eguaglianza anche in chiave economica come alternativa tanto all’acquiescenza al neoliberalismo che l’ha condotta al suo declino attuale quanto alla illusoria promessa populista di protezione attraverso la chiusura sovranista.

In estrema sintesi: le classi di lavoratori passano, ma i consumatori restano. La vecchia lotta di classe era sottesa da un forte principio egualitario – lo sfruttamento significava prendere, da parte dell’imprenditore, di più di quel che si dava al lavoratore. Non si vede perché lo stesso principio egualitario – secondo cui consumatore e produttore devono rapportarsi veramente da eguali sul mercato delle merci e dei servizi – non possa aggregare quei pubblici di consumatori che la collocazione lavorativa dividerebbe. Il che ovviamente non significa che, ove possibile, non si debbano perseguire in forma più tradizionalmente legislativa politiche volte ad assicurare la separazione rigida fra banche di risparmio e banche di investimento, ad acquisire la proprietà di istituti bancari in sofferenza, a rendere obbligatorie forme di tassazione degli investimenti finanziari e forme di assicurazione obbligatoria collegate ai medesimi, oltre che all’implementazione dei diritti sociali. Significa solo che il futuro della sinistra va sganciato da un collegamento di classe e da un troppo rigido orientamento alla centralità della legislazione, che la espone alla penalizzazione elettorale derivante dalla frammentazione sociale delle classi lavoratrici.

Alessandro Ferrara

[1]W.Scheuerman, “Recent Frankfurt Critical Theory: Down on Law?”, Constellations, 2016, forthcoming. See also his “Recognition, Redistribution, and Participatory Parity: Where’s the Law?”, this volume, pp. xx-xx.

[2] See the Official Journal of the European Union at

http://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/?uri=CELEX:12012P/TXT

[3] See http://www.abc.net.au/news/2016-02-20/councils-hail-‘david-and-goliath’-legal-win-to-recoup-gfc-losses/7186012, accessed 6 July, 2016.

Dalla cattedrale ai non-luoghi. Soggettività globali

La libertà moderna aumenta di pari passo con la creazione di nuove forme di soggettività e queste ultime tendono, sempre più e sempre meglio, a svincolarsi dalle identità “segnate” tradizionali che non permettevano – era questa la logica “cattedralistica” premoderna – di fuoriuscire dallo spazio entro la quale esse risultavano da sempre inscritte. Nel passaggio fra il moderno e l’attuale, il processo dromologico si è radicalizzato e si è dovuto confrontare con l’emergere quasi inavvertito di una nuova entità che è diventata progressivamente sempre più autonoma rispetto all’azione dagli uomini.