Nihil sub sole novum
La novità «antidiluviana» di una pandemia mondiale
di Paolo Quintili
Il saggio di Alain Badiou che qui offriamo al pubblico, offre una serie di importanti riflessioni filosofiche che collocano l’evento emergenziale che stiamo vivendo in una dimensione al tempo stesso storica e critica. L’esperienza in corso dell’evento, nei diversi paesi dell’Occidente, in Europa in particolare, è stata affidata a tre «corpi» sociali che ne stanno gestendo l’emergenza: il corpo politico, il corpo medico e il corpo mediatico delle nostre società.
Ora, una parola che venga dal «corpo filosofico» è di grande utilità in quanto ci permette di coglierne la dimensione reale, al di là delle pur necessarie misure prese per arginare il pericolo epidemico. Anzitutto, la sua presunta «novità»: appare tale per la sola ragione che il flagello sta colpendo il pacifico e opulento Occidente capitalista, fino ad oggi al riparo (illusorio) da questi fenomeni. Niente di nuovo sotto il sole (Qoelet, I, 9), sono decenni oramai, che a partire dal virus Ebola, passando per numerosi altri agenti patogeni, influenzali e virali, diversi organismi viventi ostili, generati dall’azione (politico-economica) umana, han fatto strage fuori dell’Europa, e non nel solo Terzo Mondo. Ora si stanno diffondendo nel pianeta intero. Agenti patogeni originati dal mondo animale non-umano, passati e trasmessi all’uomo. La ragione di fondo del fenomeno è – non si può più ignorarlo, né nasconderlo – ecologica (vedi il saggio di Sonia Shah, Da dove vengono i coronavirus? Contro le pandemie, l’ecologia, in «Le Monde Diplomatique», n.3 anno XXVII, marzo 2020, pp. 1 e 21).
Per la prima volta nella storia, si sta
vivendo sulla propria pelle, in Europa, una realtà nuova che investe la
comunità mondiale intera, dopo che il genere di agente patogeno in questione ha
iniziato da gran tempo la sua avanzata per le rotte della mondializzazione. Ci
credevamo al sicuro, la reazione autoimmunitaria sembrava infrangibile e ora
testiamo manifestamente che le cose non stanno così. L’origine del fenomeno di
fragilizzazione del mondo (cui vanno aggiunte le altre «emergenze», climatica ed
energetica) è legata al concorso, come spiega bene Badiou, di determinazioni
naturali e determinazioni storico-economiche. Al di là delle diverse facce
risorgenti di una caccia all’untore di medievale memoria, camuffata sotto
apparenze diverse (il dilagare dell’irrazionale si fa inquietante), è il
modello di sviluppo capitalista iperliberista dell’ultimo trentennio
(almeno) ad aver prodotto un tale squilibrio nel rapporto tra le due
determinazioni. L’effetto risultante rende, è evidente, tale «modello» del tutto
insostenibile. Al di là dell’emergenza contingente, dunque, occorre riattivare
un’azione – non una semplice riflessione– critica nei riguardi del «modello»,
non più rinviabile.
Le chiare, semplici, «cartesiane»
considerazioni di Badiou aiutano a ripensare criticamente i fatti e orientare,
si spera, diversamente, la nostra azione collettiva.
Mai
questa filosofia critica è stata ed è, oggi, tanto necessaria. Il dibattito è
aperto.
Sulla situazione epidemica
di Alain Badiou
Ho sempre ritenuto che l’attuale situazione, segnata da un’epidemia virale, non aveva certo nulla d’eccezionale. Dalla pandemia (anch’essa virale) dell’HIV, passando per l’influenza aviaria, il virus Ebola, il virus SARS 1, per non parlare di diversi tipi d’influenze, persino del ritorno del morbillo o delle tubercolosi, che gli antibiotici non guariscono più, sappiamo ormai che il mercato mondiale, combinato con l’esistenza di vaste zone sotto-medicalizzate del pianeta e con l’insufficienza della disciplina mondiale nelle necessarie vaccinazioni, produce inevitabilmente delle epidemie serie e devastanti (nel caso dell’HIV, diversi milioni di morti). Messo da parte il fatto che la situazione dell’attuale pandemia colpisce, stavolta, l’abbastanza confortevole mondo detto occidentale – fatto in sé stesso privo di significato innovativo, e che chiama in causa sospette deplorazioni e asinerie rivoltanti sui social network – non avevo visto che, al di là delle ovvie misure protettive e del tempo che il virus impiegherà a scomparire in assenza di nuovi obiettivi, si debba andare su tutte le furie.
Del resto, il vero nome dell’epidemia in corso dovrebbe indicare che essa dipende, in un certo senso, dal «niente di nuovo sotto il sole» contemporaneo. Questo vero nome è SARS 2, ossia «Severe Acute Respiratory Syndrom 2» denominazione che tiene inscritta, infatti, un’identificazione «in secondo tempo», dopo l’epidemia di SARS 1, che s’era manifestata nel mondo durante la primavera del 2003. Questa malattia era stata denominata, all’epoca, «la prima malattia sconosciuta del XXI secolo». È dunque chiaro che l’epidemia attuale non è in alcun modo il sorgere di qualcosa di radicalmente nuovo o d’inaudito. È la seconda del secolo, nel suo genere, ed è situabile nella sua filiazione. Al punto stesso che la sola critica seria rivolta oggi alle autorità, in materia predittiva, è di non aver sostenuto seriamente, dopo la SARS 1, la ricerca che avrebbe messo a disposizione del mondo medico dei veri mezzi d’azione efficace contro la SARS 2.
Non ho trovato dunque nient’altro da fare che
provare, come tutti, a sequestrarmi in casa mia, e nient’altro da dire se non
esortare tutti a fare altrettanto. Rispettare, su questo punto, una rigida
disciplina è tanto più necessario in quanto è un sostegno e una protezione
fondamentale per tutti coloro che sono più esposti: certo, tutto il personale
medico curante, che è direttamente sul fronte, e che deve poter contare su una
ferma disciplina, ivi comprese le persone infette; ma anche i più deboli, come
le persone anziane, in particolare quelle in EPAD (European Prevention of Alzheimer’s Dementia) o immunodepresse; e
inoltre tutti coloro che vanno al lavoro e corrono così il rischio di un
contagio. Questa disciplina per coloro che possono obbedire all’imperativo
«restate a casa!» deve anche trovare e proporre i mezzi affinché coloro che non
hanno affatto un «a casa» dove «restare», possano comunque trovare un rifugio
sicuro. Qui si può pensare a una requisizione generalizzata degli hotel.
Queste obbligazioni sono, è vero, sempre più imperiose, ma non comportano in sé, almeno a un primo esame, grandi sforzi di analisi o di costituzione di un pensiero nuovo.
Ma ecco che veramente leggo troppe cose, sento troppe cose, ivi compreso nella mia cerchia, che mi sconcertano, per il turbamento che manifestano e per il loro carattere del tutto inappropriato rispetto alla situazione, a dire il vero semplice, nella quale ci troviamo.
Queste dichiarazioni perentorie, questi appelli patetici, queste accuse enfatiche, sono di diverse specie, ma hanno tutte in comune un curioso disprezzo della temibile semplicità, e dell’assenza di novità, dell’attuale situazione epidemica. O sono inutilmente servili nei confronti dei poteri costituiti, i quali di fatto non fanno altro che ciò a cui sono costretti, per la natura del fenomeno. Oppure ci tirano fuori la retorica del Pianeta e la sua mistica, il che non ci fa avanzare di un passo. Oppure, ancora, scaricano tutto sulle spalle del povero Macron, che fa unicamente, e non peggio di un altro, il suo lavoro di capo di Stato in tempo di guerra o di epidemia. Oppure gridano all’evento fondatore di un’inaudita rivoluzione, che non si vede quale rapporto potrebbe intrattenere con lo sterminio di un virus, e per la quale, del resto, i nostri «rivoluzionari» non hanno il minimo mezzo nuovo. O ancora, sprofondano in un pessimismo da fine del mondo. O si vedono portati all’esasperazione al punto che il «me stesso innanzitutto», regola d’oro dell’ideologia contemporanea, in questa circostanza, non sia di alcun interesse, di alcun aiuto, e possa addirittura apparire come complice di una continuazione indefinita del male.
Si direbbe che la prova epidemica dissolva
dappertutto l’attività intrinseca della Ragione, e obblighi i soggetti a
ritornare ai tristi effetti – misticismo, affabulazioni, preghiere, profezie,
maledizioni ecc. – a cui il Medioevo era consueto addivenire quando la peste
devastava i territori.
Di conseguenza, mi sento in certa misura
costretto a raccogliere alcune idee semplici. Direi volentieri: cartesiane.
Per iniziare, conveniamo pure col definire il problema, peraltro così mal
definito e, dunque, così mal trattato.
Un’epidemia ha questo di complesso, che è,
sempre, un punto di articolazione tra le sue determinazioni naturali e le
determinazioni sociali. La sua analisi completa è trasversale: bisogna
afferrare i punti in cui le due determinazioni s’incrociano, e trarne le
conseguenze.
Ad esempio, il punto iniziale dell’attuale
epidemia si situa, con molta probabilità, nei mercati della provincia di Wuhan.
I mercati cinesi sono ancora oggi noti per la loro pericolosa sporcizia, e il
loro insopprimibile gusto della vendita all’aria aperta di ogni specie di
animali vivi ammucchiati l’uno sull’altro. Da ciò, il fatto che il virus s’è
trovato, in un certo momento presente, sotto una forma animale, essa stessa
ereditata dai pipistrelli, in un ambiente popolare molto denso e a un ridotto
tasso d’igiene.
La spinta naturale del virus da una specie a
un’altra transita allora verso la specie umana. Come esattamente? Non lo sappiamo
ancora, e solo delle procedure scientifiche ce lo insegneranno. Di passaggio,
stigmatizziamo qui tutti coloro che lanciano, sulle reti sociali di Internet,
delle favole tipicamente razziste fondate su immagini truccate, secondo le
quali tutto proviene dal fatto che i Cinesi mangiano i pipistrelli quasi crudi,
vivi…
Questa transizione locale tra specie animali,
fino all’uomo, costituisce il punto originario di tutta la faccenda. Soltanto
dopo ciò, opera un dato fondamentale del mondo contemporaneo: l’accesso del
capitalismo di Stato cinese a un rango imperiale, ovvero una sua presenza
intensa e universale sul mercato mondale. Da qui, le innumerevoli reti di
diffusione, prima, evidentemente, che il governo cinese fosse in grado di
confinare totalmente il punto d’origine – di fatto, un’intera provincia,
quaranta milioni di persone – cosa che il governo finirà per riuscire a fare
con successo, ma troppo tardi affinché all’epidemia venga impedito di partire
sulle rotte – con gli aerei, e con le navi – dell’esistenza mondiale.
Un dettaglio rivelatore di quella che chiamo la
doppia articolazione di un’epidemia: oggi, la SARS 2 è arginata a Wuhan, ma ci
sono numerosi casi a Shanghai dovuti per la gran parte a delle persone, cinesi
in generale, che ritornano dall’estero. La Cina è dunque un luogo in cui si
osserva il legame stretto, per una ragione arcaica, poi moderna, tra un
incrocio natura-società su dei mercati mal tenuti, di forma antica, causa
dell’apparizione dell’infezione, e una diffusione planetaria di questo punto
d’origine, trasmessa, questa, dal mercato mondiale capitalista e dai suoi
spostamenti tanto rapidi quanto incessanti.
Dopo di che, si entra nella fase in cui gli
Stati tentano, a livello locale, di arginare tale diffusione. Notiamo di passaggio
che questa determinazione resta fondamentalmente locale, anche quando
l’epidemia, essa, è trasversale. A dispetto dell’esistenza di alcune autorità
transnazionali, è chiaro che sono gli Stati borghesi locali a essere in
trincea.
Tocchiamo qui una contraddizione maggiore del
mondo contemporaneo: l’economia, ivi compreso il processo di produzione di
massa degli oggetti manifatturieri, dipende dal mercato globale. Si sa che la
semplice fabbricazione di un telefono cellulare mette in moto del lavoro e
delle risorse, comprese anche quelle minerarie, in almeno sette stati diversi. Ma
d’altro canto, i poteri politici restano essenzialmente nazionali. E la
rivalità degli imperialismi vecchi (Europa, USA) e nuovi (Cina, Giappone…)
impediscono ogni processo di formazione di uno Stato capitalista mondiale.
L’epidemia è anche un momento in cui questa contraddizione tra economia e
politica si fa patente. Anche i paesi europei non riescono ad adattare in tempo
le loro politiche di fronte al virus.
Essi stessi preda di questa contraddizione, gli
Stati nazionali tentano di far fronte alla situazione epidemica, rispettando,
per quanto è possibile, i meccanismi del Capitale, benché la natura del rischio
li obblighi a modificare lo stile e gli atti del potere.
Si sa da gran tempo che in caso di guerra tra
paesi, lo Stato deve imporre, non soltanto, certo, alle masse popolari, ma ai
borghesi stessi, delle costrizioni considerevoli, e questo per salvare il
capitalismo locale. Alcune industrie sono quasi nazionalizzate, a profitto di
una produzione di armamenti intensiva, ma che sul momento non produce alcun
plusvalore monetizzabile. Una gran quantità di borghesi sono mobilitati come
ufficiali e esposti alla morte. Gli scienziati cercano, notte e giorno,
d’inventare nuove armi. Gran numero di intellettuali e di artisti sono chiamati
ad alimentare la propaganda nazionale ecc.
Dinanzi a un’epidemia, questa specie di riflesso
statale è inevitabile. Ecco perché, contrariamente a quanto si dice, le
dichiarazioni di Macron o di Edouard Philippe riguardanti lo Stato, ridiventato
improvvisamente «Provvidenza», una spesa pubblica di sostegno alle persone che
hanno perso il lavoro, o ai lavoratori autonomi a cui si chiude il negozio, che
impegna cento e duecento miliardi di denaro pubblico, lo stesso annuncio di
«nazionalizzazioni»: tutto questo non ha nulla di sbalorditivo o di
paradossale. E ne consegue che la metafora di Macron, «siamo in guerra», è
corretta. Guerra o epidemia, lo Stato è costretto – oltrepassando talvolta il
corso normale della sua natura di classe – di mettere all’opera delle pratiche
insieme più autoritarie e a destinazione più globale, per evitare una
catastrofe strategica.
È una conseguenza del tutto logica della
situazione, il cui scopo è di arginare l’epidemia – di vincere la guerra, per
riprendere la metafora di Macron – con la maggiore sicurezza possibile,
restando purtuttavia dentro l’ordine sociale stabilito. Non è per nulla una
commedia, è una necessità imposta dalla diffusione di un processo mortale che
sta all’incrocio tra la natura (da ciò il ruolo eminente degli scienziati, in
questa faccenda) e l’ordine sociale (da cui l’intervento autoritario, e non può
essere altrimenti, dello Stato).
Che in questo sforzo appaiano grandi carenze è
inevitabile. Come nel caso della mancanza di maschere di protezione, o
l’impreparazione riguardo l’estensione del confinamento ospedaliero. Ma chi può
dunque vantarsi di avere «previsto» questo genere di cose? Per certi aspetti,
lo Stato non aveva previsto la situazione attuale, è del tutto vero. Si può anche
dire che indebolendo, da decenni, l’apparato del servizio sanitario nazionale,
e in verità tutti i settori dello Stato che erano al servizio dell’interesse
generale, lo Stato borghese aveva agito piuttosto come se niente di simile a
una pandemia devastatrice potesse mai colpire il nostro Paese. Su questo lo
Stato è assai colpevole, non soltanto nella sua forma-Macron, ma anche in
quella di tutti coloro che l’hanno preceduto da oramai almeno trent’anni.
Tuttavia, è qui comunque corretto dire che
nessun’altro aveva previsto, anzi neanche immaginato, lo sviluppo in Francia di
una pandemia di questo tipo, salvo forse qualche specialista isolato. Molti
pensavano probabilmente che questo genere di storia era buona per l’Africa
profonda o per la Cina totalitaria, ma non per la democratica Europa. E non
sono certamente gli esponenti dell’estrema sinistra (gauchistes) – o i Gilet Gialli, o persino i sindacalisti – ad avere
ora un diritto particolare a sentenziare su questo punto e a continuare a
dargli addosso a Macron, da sempre il loro bersaglio di derisione. Non hanno,
neanche loro, avuto assolutamente contezza di qualcosa di simile. Tutt’al
contrario: mentre l’epidemia era già in corso in Cina, hanno moltiplicato, fino
a tempi assai recenti, i raggruppamenti incontrollati e le chiassose manifestazioni;
il che dovrebbe proibire a costoro, oggi, quali che siano i soggetti, di
pavoneggiarsi di fronte ai ritardi, mostrati dal potere, nel prendere le misure
esatte di ciò che stava accadendo. In realtà, nessuna forza politica, in
Francia, ha realmente preso queste misure prima dello Stato macroniano.
Da parte di questo Stato, la situazione è quella
in cui lo Stato borghese deve, esplicitamente, pubblicamente, far prevalere
degli interessi in qualche modo più generali di quelli della sola borghesia,
pur preservando strategicamente, nell’avvenire, il primato degli interessi di
classe, di cui tale Stato rappresenta la forma generale. O, in altre parole, la
congiuntura obbliga lo Stato a non poter gestire la situazione se non
integrando gli interessi di classe, di cui esso è il fondamento di potere, in
interessi più generali, e ciò in ragione dell’esistenza interna di un «nemico»
esso stesso più generale, che può essere, in tempi di guerra, l’invasore
straniero, ed è, nella situazione presente, il virus SARS 2.
Questo genere di situazione (guerra mondiale, o
epidemia mondiale) è particolarmente «neutro» sul piano politico. Le guerre del
passato non hanno provocato rivoluzioni se non in due casi, per così dire
eccentrici nei riguardi di quelle che erano le potenze imperiali: la Russia e
la Cina. Nel caso russo, fu perché il potere zarista era, sotto tutti i
rispetti, e da lungo tempo, ritardatario, compreso in quanto potere che si
potesse adattare alla nascita di un vero e proprio capitalismo in quell’immenso
paese. E, per altro verso, esisteva, con i bolscevichi, un’avanguardia politica
moderna, fortemente strutturata da dirigenti notevoli. Nel caso cinese, la
guerra rivoluzionaria interna ha preceduto la guerra mondiale, e il Partito
comunista era, già nel 1940, alla testa di un esercito popolare che aveva fatto
le sue prove. In compenso, per nessuna delle potenze occidentali la guerra ha
provocato una rivoluzione vittoriosa. Anche nel paese vinto nel 1918, la
Germania, l’insurrezione spartachista è stata rapidamente schiacciata.
La lezione da trarre da tutto questo è chiara:
l’epidemia in corso non avrà, in quanto tale, alcuna conseguenza politica
notevole in un paese come la Francia. Anche a supporre che la nostra borghesia
pensi, alla vista dell’aumento dei brontolii informi e degli slogan
inconsistenti ma diffusi, che è venuto il momento di sbarazzarsi di Macron, ciò
non rappresenterà assolutamente alcun cambiamento notevole. I candidati
«politicamente corretti» sono già dietro le quinte, come lo sono anche i
sostenitori delle forme più ammuffite di un «nazionalismo» altrettanto obsoleto,
quanto ripugnante.
Quanto a noi, che desideriamo un cambiamento
reale dei dati politici in questo paese, bisogna approfittare dell’interludio
epidemico e persino del confinamento – del tutto necessario – per lavorare a
delle nuove figure della politica, al progetto di luoghi politici nuovi, e al
progresso transnazionale di una terza tappa del comunismo, dopo quella,
brillante, della sua invenzione e quella, interessante ma finalmente sconfitta,
della sua sperimentazione statale.
Bisognerà anche passare per una critica serrata
di ogni idea secondo la quale dei fenomeni come un’epidemia aprono, per se stessi, a qualsiasi cosa di
politicamente innovativo. Oltre alla trasmissione generale dei dati scientifici
sull’epidemia, conserveranno una certa forza politica solo delle affermazioni e
convinzioni nuove riguardanti gli ospedali e la salute pubblica, le scuole e
l’educazione egualitaria, l’accoglienza degli anziani e altre questioni di
questo genere. Sono le sole che potranno essere eventualmente articolate con un
bilancio delle pericolose debolezze messe in luce dalla situazione attuale.
Di passaggio, si mostrerà coraggiosamente,
pubblicamente, che le presunte «reti sociali» mostrano, una volta di più, che
sono anzitutto – oltre il fatto che ingrassano i maggiori miliardari del
momento – un luogo di propagazione della paralisi mentale più sfacciata, di rumori
incontrollati, della scoperta di «novità» antidiluviane, quando non è il caso
dell’oscurantismo fascistizzante.
Non accordiamo credito, anche e soprattutto
confinati come siamo, se non alle verità controllabili dalla scienza e alle
prospettive fondate di una nuova politica, delle sue esperienze locali come dei
suoi scopi strategici.
[Trad. it. di Paolo Quintili]