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Eurocentrismo e Transmodernità

di Enrique Dussel
traduzione di Antonino Infranca

Il testo di Dussel che presentiamo al lettore italiano è tratto dall’intervista “Critica desde America latina: filosofia, politica, modernidad”, rilasciata a Nicolas Del Valle Orellana e pubblicata nella rivista Pleyade, n*. 21, gennaio-giugno 2017.

Sostengo che la filosofia europea non è universale, perché è europea. Europa ha una centralità tale che si manifesta come il soggetto della modernità, ammesso anche dalle sue colonie come l’universale. Ma, in senso stretto, è la pretesa di universalità di una particolarità europea. Conseguentemente, si deve riportare questa universalità alla sua particolarità, si deve “provincializzare l’Europa”, come dicono quelli dell’India e dell’America latina. Pensare l’Europa come una particolarità, consentirebbe l’instaurazione di un dialogo orizzontale e non verticale come è stato fino adesso.
Siamo “periferici”, del Terzo Mondo, e qui la Filosofia della Liberazione pone una questione intorno al pensiero europeo, giapponese, russo, latinoamericano, africano, del mondo arabo, del sudest asiatico e finanche della Cina, che non è mai stata colonia, ma sì periferica. Pensiamo al mondo, non alla filosofia universale europea. Soltanto l’europeo è al centro di un mondo.
Qui sta il germe del pensiero decoloniale, che significa dire “smettiamo di essere colonia”. Decoloniale, anticoloniale, ma la colonialità assume un altro senso pensandosi globalmente. La Filosofia della Liberazione è la prima filosofia della storia mondiale che pone l’universalità della filosofia, senza un centro e una periferia, senza che neghi sé stessa e che accetti l’eurocentrismo come avviene dovunque: in India, in Cina, in Africa. Io mi muovo per il mondo e vedo l’accettazione di Hegel come pensatore universale. Nessun’altra cultura aveva uno Hegel nell’Età Moderna. I cinesi avevano grandi pensatori, ma smisero di avere grandi pensatori nei secoli XVI e XVII. Non c’è nessun pensatore cinese, né indù, né islamico che dica qualcosa al mondo; si sono colonizzati, si sono “provincializzati”.
La Modernità inizia nel 1492, ma nessuno dei cultural studies lo pensa, per loro la Modernità inizia con l’Illuminismo, ed è una questione principalmente anglosassone. Il passaggio dal coloniale al decoloniale viene dai Caraibi e non dalla parte continentale. Siccome i caraibici sono anglosassoni e con molta influenza francese, dopo la Seconda Guerra Mondiale lottano per la loro emancipazione, come mostra lo stesso Frantz Fanon in Martinica, e lo fanno cominciando a studiare il post-coloniale e affrontando il tema del razzismo a partire dal marxismo.
Ci sono argomenti molto forti che dimostrano che il capitalismo è parte costitutiva della Modernità, perché il suo sistema economico e i suoi fondamenti metafisici sono nel progetto stesso della Modernità, non nell’economia in sé. Si tratta dell’individualismo metafisico, della quantificazione della realtà, ovvero di tutto il progetto che comincia con Bacone, Descartes, Newton. Se io prima avevo argomenti secondari contro la Modernità, adesso le mie idee sono più forti: se continuasse, la Modernità annichilerebbe la vita sulla Terra. Il capitale manifesta l’impossibilità di superare il problema ecologico, perché la concorrenza esige di migliorare la tecnologia a breve termine, ottenendo meno valore dalla merce e distruggendo così le altre con un prezzo più basso di vendita. In questo senso, il problema ecologico non è un problema della tecnologia, è un problema di criterio e della concorrenza del capitale. Se non superiamo il capitalismo, non è che entreremo semplicemente in una tappa critica, no, sparirà la vita sulla Terra. L’argomento è molto forte: la vita o la morte.
Dobbiamo transitare a un nuovo tipo di civilizzazione transcapitalista, ma anche transmoderna, cioè si devono trasformare le relazioni con la natura, perché questa natura è parte della biosfera e, distruggendola, l’essere umano sparisce. L’aumento della temperatura sulla Terra, per esempio, è un argomento contro la Modernità e il capitalismo. E questo nessuno lo può negare. È la fine della vita umana. In questo momento sono convinto più che mai che il capitale e la Modernità siano due aspetti dello stesso fenomeno, senza dimenticare, certamente, che la Modernità è la totalità della cultura che dà i fondamenti al sistema economico capitalistico. Ed entrambi o terminano, o l’umanità non può entrare in un’epoca totalmente differente, basata su un altro tipo di relazioni politiche ed economiche, di genere ed etiche. Una relazione differente con la vita, perché o riusciamo a compiere questo passo, o sarà la sparizione dell’umanità, l’homo sapiens finirà in due secoli, perché la Terra non resisterà più.
Non sappiamo come sarà questa nuova civiltà, ma intuisco che somiglierà più a certi modelli dei popoli originari che alla Modernità, fondata su una riproduzione della vita più semplice, ecologica, con grandi invenzioni a livello elettronico e di altro genere, con un uomo come lo pensava Marx, più poetico, più spirituale, più creatore e meno interessato all’aumento quantitativo della realtà. Avremo meno mezzi di comunicazione e saranno più utili, spariranno molte cose non necessarie, saremo più asceti nell’uso del cibo e nello spazio delle case. Infine, un’altra civiltà e non so come sarà, ma la chiamo “transmoderna”, è un concetto negativo, ma non è il post-moderno – che era l’ultima tappa della Modernità –, sarà qualcosa di totalmente differente.
Il punto culminante della critica, che varia nella storia, è porsi nel luogo delle vittime del dominio di un sistema. Che l’operaio sia una vittima del capitalismo è un elemento che si deve considerare per dar conto che è lui a produrre plusvalore, è lui la vittima costitutiva del capitalismo. Ma non è la vittima finale. Oggi vediamo, infatti, moltitudini escluse dalla possibilità stessa di avere un lavoro, i “miserabili” che non hanno neanche un lavoro, sono loro le massime vittime, non più l’operaio. Ma in generale, le vittime del capitalismo sono le culture dominate e scopriamo oggi molte vittime, assumendo visioni critiche di sistemi particolari. Questo è un problema etico-politico che diventa teorico, ma la teoria è inserita in un’etica e non è una critica puramente teorica, bensì politica nel senso ampio del termine. A mio giudizio, la critica è sempre esistita, ma si deve scoprire di nuovo quali sono le vittime dell’epoca, per tornare a rinnovare il punto di appoggio critico al sistema dominante.
E per me, la politica è trarre principi astratti dall’etica per concretarli come principi normativi. Se non so che sono principi etici, non so quali sono i principi normativi, e la politica, in effetti, rimane in aria (il che succede in quasi tutte le politiche). Pongo un’etica che è il fondamento della normatività dell’economia, della politica, del problema di genere, di tutti i campi pratici. Grazie all’Etica della Liberazione, del 1998, ho sviluppato una chiara etica che adesso mi serve da fondamento per una politica a livello dei principi, a livello delle mediazioni istituzionali e mediante la prassi politica. È un’etica pensata che parte con Apel, al quale deve molto, ma che va molto al di là di lui, perché difende un principio materiale di fattibilità e soprattutto un principio critico che Apel non assume. In realtà, la parte centrale della mia Filosofia della Liberazione è etico-politica, ma include un’antropologia che fu la prima a cui ho lavorato: il pensiero ellenico e il pensiero semita. Nella Filosofia della Liberazione abitano vari subsistemi e voglio terminare di sviluppare l’estetica, che è differente ed esige altre categorie che non sono più dell’etica e che determinerà tutti i campi del pensiero umano.
Ho iniziato dalla mia tesi di laurea, pensando ciò che Aristotele chiama il principio teleologico. Il fine e il fine che determina i mezzi. Ogni azione ha un fine e il fine in politica è avere un progetto rivoluzionario come alternativa al presente. Se l’attuale è il capitalismo, c’è un progetto socialista ben definito che opera come alternativa. Walter Benjamin, tuttavia, comincia a porre in questione molte cose, passando dal campo celeste a quello terreno. Benjamin dice che non si può avere un progetto, perché il progetto si va facendo e la pretesa di sapere ciò che viene è un’illusione. Ciò che possiamo fare è stabilire i principi per mezzo dei quali scelgo le mediazioni che si presentano contraddittoriamente. Io la chiamo “la bussola”. Vado verso il nord, come è il nord?, non lo so e mai si sa. Un esempio è lo stesso capitalismo. Nel XVI secolo non si poteva dire: «Stiamo costruendo il capitalismo» come alternativa al feudalesimo, non si sapeva. Le masse borghesi delle città stavano lottando contro i signori feudali e questi cittadini lottavano contro i principi che accumulavano terre e che non le sfruttavano. Costruivano un mondo nuovo e certamente costruivano il capitalismo, ma non sapevano il nome, né avevano un progetto. La prima volta che avranno chiara certezza di ciò che stavano facendo sarà con La ricchezza delle nazioni di Adam Smith, dove si definisce relativamente ciò che è il capitalismo. Ma questo dopo tre secoli e con l’egemonia politica ed economica dell’Europa su buona parte del mondo. Non c’è un progetto come tale. La bussola non dice come è il nord. Allora, come arrivo al nord?, camminando, e in ciascun passo cercando quello che risponde al criterio selezionato.
Nell’attualità è possibile constatare l’esistenza di piccole cooperative che riflettono le esperienze del lavoro comune nel Sud globale. I popoli originari che hanno le loro comunità da migliaia di anni, che resistono, che sono molto ecologici, che non ricevono gli impatti negativi dell’economia capitalista, sono anche molto ripetitivi. Ci sono altre esperienze: per esempio, quarantamila persone nel Cono Sud, di fronte ad una indigenza assoluta, hanno creato le loro monete e hanno iniziato a produrre un sistema economico, dove si riceveva questo denaro stampato e sorgeva una piccola bolla capitalista. A mio modo di vedere, si tratta di costruire principi per sapere scegliere tra le esperienze che si stanno facendo male e quelle che sono sostenibili mediante una strategia che si andrà dispiegando lentamente in decenni, e anche secoli. Non è rapido. La rivoluzione che cambia tutto un sistema in un giorno è illusoria. Si cambiano alcune cose, ma, in fondo, le strutture continuano eguali. Nell’Unione Sovietica, senza andare troppo lontano, si fece la rivoluzione socialista con Lenin, ma la Modernità rimaneva in piedi. E ancora, il socialismo reale è moderno, tanto moderno come il capitalismo e anch’esso si deve superare, perché accetta il mito del progresso quantitativo che dice: «Abbiamo aumentato la produzione, questo anno è stato un successo». Molto bene, abbiamo maggiore produzione per maggiore consumo, e la popolazione vive con maggiore prosperità materiale, ma questo regime che ha significato per l’ecologia? Il socialismo reale è parte integrante della civiltà del XX secolo anti-ecologica, non aveva nessuna considerazione per l’ambiente, continuò ad essere razzista, continuò ad essere patriarcale. Fu una rivoluzione al livello della distribuzione del mercato con un importante intervento economico dello Stato, ma tutto il resto continuò eguale e un giorno crollò tutto perché non lo avevano considerato. Pertanto, una rivoluzione profonda esige tempo, profondità e scelta di criteri che ci portino a un altro sistema sociale.
In cosa consiste la “trans-modernità”? Consiste nell’avere attenzione per la natura, consiste nell’avere rispetto per l’eguaglianza della donna, significa combattere il razzismo, significa un’educazione differente dei bambini e delle bambine, infine, significa molte cose che dobbiamo compiere. Questo subito va a cambiare l’orientamento quantitativo. La nostra civiltà uccide la vita e non sa come fermarsi davanti alla morte. Ciò che si deve fare, dice Benjamin, è porre un freno, tutto ciò che permette di frenare creativamente è la strada. Pertanto, se eliminiamo l’auto e poniamo mezzi comuni di trasporto, è un progresso. Se riusciamo a fare in modo che il lavoratore stia più vicino al suo lavoro, è progresso. Questo dovrebbe essere pianificato per dipendere meno dal trasporto, dall’auto, dalla benzina, ecc. Una vita diversa. Mangiamo più e ci ammaliamo. Dobbiamo essere più austeri. L’alternativa è inimmaginabile, ma si deve avere, altrimenti andiamo verso la morte.
La questione della vita è dietro tutto ciò che abbiamo detto fino a qui. Ciò che è in gioco oggi non è il male, l’ingiustizia, neppure il sacrificio; è la morte dell’umanità, la sua sparizione. Si deve affermare la vita come primo principio etico, e tutto il mio lavoro sull’etica è dedicato a questo. Si deve affermarla con il consenso, renderla fattibile, così che si faccia e si critichi ciò che si fa. Su questa etica della vita, direi che la vita sarà al centro e non l’aumento del tasso di profitto come nel capitalismo contemporaneo. Questi trasforma tutto; cambia le relazioni umane, l’infrastruttura, l’arte, la storia; sono tante le trasformazioni, questo compito implica avere una grande capacità visionaria, come fece Tommaso Moro nell’Utopia.
È bene che l’indigeno coltivi la sua identità e progredisca a partire dalla sua esperienza. Ma ciò nonostante, un uomo urbano non potrà essere indigeno, questo è impossibile. L’uomo urbano deve recuperare una capacità che ha perduto, perché l’umanità è diventata urbana e tra trent’anni il novanta per cento della popolazione vivrà in città. L’argomento sarà ancora più complicato: come umanizzare una città concentrata? È molto difficile. Ma si deve immaginarlo possibile, perché, al contrario, ciò che ci resta come alternativa è la sparizione. Per questo il mio argomento contro la Modernità è diventato travolgente, perché spariremo. Siamo in una civiltà che produce morte senza darsene conto, e ciò che si deve fare, al contrario, è affermare la vita. Sarà proprio questa etica che permetterà che l’umanità continui, al contrario sparirà. L’essere umano non può dimenticare le sue condizioni di possibilità nella vita, e a partire da ciò è necessario che umanizzi la società, ma non per mezzo dell’aumento del tasso di profitto, che distrugge la vita, distrugge i mezzi che rendono possibile la riproduzione della vita. L’una o l’altra, non c’è una terza alternativa. Teoricamente, si può fare moltissimo, rendendo responsabile e consapevole l’umanità che le alternative sono tra la morte futura e l’organizzazione di un mondo diverso.

ESERCITARE IL PENSIERO “Per una storia del presente”

È ormai quasi un luogo comune: a traghettare le “società occidentali avanzate ”fuori dalla lunga crisi, che esse attraversano almeno dall’inizio del nuovo Millennio – crisi della rappresentanza democratica, crisi del lavoro e della produzione, crisi dei riferimenti simbolici e identitari – dovrà essere chi in questi anni va a scuola, o tutt’al più all’università.

La sfida di un socialismo democratico per il XXI secolo

Introduzione

Il dibattito sulla crisi della sinistra è in corso da anni, così come da anni sono sotto gli occhi di tutti le tendenze che certificano questo declino, basti analizzare a questo proposito gli andamenti elettorali della maggior parte dei partiti socialisti e socialdemocratici europei degli ultimi anni. Tuttavia, quando si entra nel vivo del confronto attorno alla diagnosi di questa crisi e alle terapie per uscirne, emergono ancora letture contrastanti e dissensi di fondo, che investono la questione stessa del senso di una sinistra oggi: quale deve essere la sua funzione nelle società contemporanee, quali le pratiche che devono caratterizzarla, quali i suoi soggetti di riferimento, i suoi programmi, le strategie per invertire la rotta di questa parabola di declino.

Sono tutte questioni molto complesse, che rinviano, in ultima istanza, alla questione della cultura politica della sinistra. È oggi tesi ampiamente condivisa quella secondo cui all’origine dell’attuale crisi della sinistra – e quindi, anche, della scarsa qualità dei suoi ceti politici e della sua perdita di radicamento tra i ceti popolari – ci sia lo smarrimento, dopo l’89, di una cultura politica critica di riferimento, capace di dare anima e identità alla sinistra, senso della sua missione storica e normativa, nonché credibilità e attrattività. Con cultura politica di riferimento intendo qui, in termini molto ampi, un orizzonte culturale e valoriale capace di orientare l’azione politica concreta, di indicarle senso e direzione, di discernere interessi e soggetti a cui riferirsi in via primaria, di leggere da un punto di vista determinato (per esempio, quello dei ceti subalterni) le trasformazioni sociali del proprio tempo, ma anche di qualificare lo stile dell’azione politica, di strutturare un campo politico e un’identificazione simbolica, di mobilitare impegno, passioni e immaginazione, di dare forma, articolazione politica e una rappresentazione capace di egemonia a bisogni, istanze, sentimenti di malessere e rabbia sociale.

Da dove ripartire, quindi, per ridefinire e rinnovare la cultura politica di una sinistra capace di futuro nel XXI secolo?

Non appena si solleva questa domanda, si affacciano dissensi di fondo, ma anche ambivalenze e opacità, che fanno comprendere come il lavoro da fare su queso tema, anche su un piano strettamente teorico, sia ancora molto grande. Se oggi sempre più voci concordano sul fatto che il primo passo di un rinnovamento delle cultura politica della sinistra deve essere quello di operare una soluzione di continuità nei confronti della cosiddetta Terza Via propagandata da Blair, Clinton e dalla maggior parte dei partiti socialdemocratici negli anni Novanta, il dibattito è oggi più che mai aperto sulle modalità concrete di questa cesura e discontinuità.

È una questione, questa, che è resa più complicata anche dal fatto che oggi il dibattito pubblico è dominato, a livello internazionale, da polarizzazioni insidiose, che sembrano mettere fuori gioco la stessa divisione tra destra e sinistra: si pensi a contrapposizioni come quelle tra élite e popolo, progressismo liberal vs populismo, cosmopolitismo vs. sovranismo, diritti civili vs. diritti sociali, politiche di accoglienza vs. politiche di sicurezza, multiculturalismo vs. nazionalismo, etc.

Si tratta per lo più, a mio avviso, di alternative ideologiche, alle quali è possibile non soccombere, tuttavia, solo se si dispone di un’attrezzatura culturale capace di spostare i termini del confronto, di individuare diversi terreni di contrapposizione e di conflitto, di formare nuovi blocchi sociali, e allo stesso tempo di integrare elementi di entrambe queste polarità in una diversa narrativa. Nel proseguio procederò nel modo seguente:

  1. Per dare un’idea più concreta di quello che intendo quando parlo di diverse opzioni in gioco nel dibattito teorico sul rinnovamenteo della cultura politica della sinistra, e della confusione che domina questo dibattito, proverò innanzitutto a isolare, senza nessuna pretesa di esaustività, quelle che a me sembrano quattro distinte opzioni che oggi aleggiano nel dibattito teorico – 1. una liberal, 2. una populista, 3. una costituzionalista, 4. una socialista;
  2. esporrò quindi come si dovrebbe procedere, a parer mio, per fare chiarezza in questo dibattito e per orientarsi criticamente nella scelta tra queste opzioni;
  3. svilupperò infine qualche considerazione su quella che definisco l’opzione socialista, ricostrendo alcune linee di riflessione sviluppate recentemente sul tema dal filosofo tedesco Axel Honneth.

 

 

I.

Il dibattito sul rinnovamento della cultura politica della sinistra: ambivalenze e problemi aperti

 

  1. Una prima posizione che vorrei isolare nel dibattito in corso è quella che, senza nessuna pretesa di precisione concettuale, definisco liberal. Con questa denominazione, vorrei riferirmi a quelle voci che, anche muovendo da una diagnosi critica della subalternità culturale della sinistra negli ultimi decenni nei confronti del paradigma neoliberista, considera tuttora fondamentale portare avanti il percorso di avvicinamento della sinistra europea alla cultura politica liberal e democratica americana. Una cultura politica, questa, che ha esercitato molta presa presso tanti ambienti intellettuali negli anni Novanta e negli anni Duemila, soprattutto nel segno della teoria normativa della giustizia di John Rawls. Secondo questa posizione, quindi, compito della sinistra sarebbe quello di approdare ad una cultura politica che declina il tema della giustizia sociale assumendo come proprio punto di referimento etico fondamentale l’autonomia individuale e il vocabolario universalista dei diritti, s’ispira ad un’attitudine ricostruttiva e conciliativa nei confronti dei fondamenti normativi e delle procedure deliberative degli ordinamenti liberal-democratici, e a partire da qui sviluppa poi una critica serrata nei confronti delle disuguaglianze prodotte dall’attuale fase della globalizzazione neoliberista, senza tuttavia mettere in questione il mercato capitalista in quanto tale. Senza scendere nei particolari, e rimanendo su questo piano molto generic, mi interessa qui mettere in evidenza un punto. Spesso, uno degli assunti che accompagnano questa linea teorica è che la sinistra è in crisi anche perché non ha ancora ultimato il proprio congedo da una certa tradizione “lavorista” di matrice socialdemocratica. Tradizione che avrebbe ormai perso la propria ragion d’essere, per i profondi mutamenti intervenuti in primis nel mondo del lavoro e del consumo, con i loro effetti di scomposizione di soggetti collettivi e di individualizzazione degli stili di vita e delle scelte etiche. Alla luce di queste tendenze, quindi, si tratterebbe di incentrare il discorso della sinistra sul vocabolario dei diritti individuali, puntando sul potenziale aggregativo delle lotte per i diritti – per esempio le lotte per i diritti dei consumatori contro le grandi corporations – e parallelamente di congedarsi non solo da ogni riferimento a soggetti collettivi o antagonisti, ma anche da ogni pretesa di costruzione di un discorso “contro-egemonico”, e questo sullo sfondo del riconoscimento del “fatto del pluralismo”.[1]

Un’opzione di questo tipo solleva però ovvie domande: può un’impostazione di questo tipo orientare un progetto politico capace di mobilitare passioni e immaginari, aggregare istanze e bisogni di soggetti e ceti svantaggiati, rompere l’egemonia culturale e politica del neoliberalismo, contrastare la sfida populista? E ancora: può esistere una sinistra che non sia di parte, che non faccia propria una lettura non conciliata ma conflittuale della società, che non aspiri a trascendere i confini delle società liberal-democratiche, che non eserciti una critica del capitalismo, che non ponga al proprio centro il tema del lavoro? E non è forse vero che oggi i ceti subalterni rimangono pur sempre coloro che patiscono in primo luogo l’attacco al mondo del lavoro?

 

  1. Anche a partire da queste domande, c’è chi oggi, a sinistra, ritiene che la crisi del proprio campo sia talmente grave, soprattuto per il distacco dei ceti politici della sinistra dai ceti sublaterni e popolari, che questa crisi può essere arginata solo se si abbraccia una forma di “populismo di sinistra”. La tesi è che la sinistra può riguadagnare consenso solo se riesce a intoriettare al proprio interno linguaggi e movenze populiste. Più concretamente, si tratterebbe di declinare i temi del popolo, della patria, della nazione, della leadership – i “significanti vuoti” di Laclau, capaci di costituire punti di riferimento simbolici per aggregare lotte e istanze diverse ed eterogenee – in modo sì opposto alla destra, ma altrettanto identificante e polarizzante, ossia chiarendo ogni volta un fronte di lotta nei confronti di un nemico: le élite corrotte, il mondo della finanza, la globalizzazione neoliberista, etc. È questa, come è noto, la linea di ricerca ispirata dagli scritti di Ernesto Laclau e di Chantal Mouffe, che ha assunto credibilità negli ultimi anni anche per via del successo elettorale di Podemos in Spagna, ma anche poi di France Insumnise in Francia, e per certi versi del Movimento Cinque Stelle, per alcuni ancora un soggetto politico che manifesta in potenza tutte le caratteristiche di un movimento populista di sinistra.[1] Ma anche i problemi posti da questa opzione sono evidenti. Come declinare in senso emancipativo o addirittura universalista categorie e riferimenti che sono oggi colonizzati dalla destra di tutto il mondo – come quelli appunto di identità nazionale (“America first”), di patria, di sovranità, di popolo? E un populismo di sinistra, in particolare nelle sue declinazioni “sovraniste”, non è esposto strutturalmente ad entrare in collisione con il vocabolario universalista dei diritti (si pensi alla questione dei migrant o dei diritti umani), nonchè con la vocazione internazionalista che dovrebbe costituire un requisito irrinunciabile della sinistra? E d’altra parte, concetti come quelli di popolo, interesse nazionale, Stato sovrano, non offuscano invece che illuminare le linee di divisione interne alle società nazionali, le strutture di classe che le attraversano, nonchè i terreni di lotta politici internazionali contro i poteri economici globali, come quello dell’Europa?

 

  1. Sullo sfondo di queste domande emergono i meriti di un’altra opzione che vorrei isolare e definire di proceduralismo costituzionale o anche di “patriottismo costituzionale”. Secondo questa posizione, interpretata da autori che muovono anche una critica alla teoria del populismo di Laclau e alla deformazione populista della democrazia,[1] la sinistra per (ri)trovare la propria bussola di orientamento non deve far altro che rifarsi all’insieme di indicazioni normative e programmatiche contenute negli articoli fondamentali della Costituzione italiana.[2] Articoli che, come è ben noto, muovono fra l’altro dal riconoscimento della centralità del lavoro come dimensione fondamentale di integrazione sociale, di emancipazione umana e di riconoscimento sociale. Senza minimamente ambire in questa sede ad entrare nel merito di questa posizione, vorrei semplicemente osservare che quest’ultima rappresenta indubbiamente un’indicazione del tutto condivisibile, soprattutto alla luce di quelli che, proprio a cospetto dei principi costituzionali, appaiono come dei veri e propri sbandamenti politici della sinistra recente: le politiche di Renzi sul lavoro, sulla scuola, il suo progetto di riforma istituzionale. Quello alla Costituzione è inoltre un richiamo che, dalla sua, ha anche ragioni di ordine simbolico, se si pensa al valore identificante che continua a rivestire per il campo della sinistra il richiamo alla Resistenza e alla Costituzione. Tuttavia, anche qui non mancano le domande: può bastare il richiamo alla Costituzione per riqualificare in termini innovativi la cultura politica della sinistra? A rigore, infatti, in un ordinamento liberal-democratico tutte le forze politiche dovrebbero riconoscersi nel dettato costituzionale, salvo poi declinare quel dettato in forme diverse, a partire ogni volta, appunto, dalla propria cultura politica di riferimento. In questo senso, normalmente – ma è anche vero che questa “normalità” in Italia è stata ampiamente deteriorata dagli anni di Berlusconi – è il modo in cui si interpreta quel dettato che fa la differenza. E a conferma di ciò basti richiamare il fatto che oggi, in Italia, il richiamo alla Costituzione costituisce uno dei collanti di identificazione più forti del Movimento Cinque Stelle, movimento che proprio appellandosi alla difesa della Costituzione ha vinto la battaglia contro la riforma costituzionale di Renzi e di Boschi. Si può argomentare, quindi, che c’è bisogno di riferimenti più identificanti e forse anche più divisivi affinché l’imprescindibile richiamo alla Costituzione possa davvero riqualificare il senso di una cultura politica di sinistra.
  2. È di fronte a questi dubbi che si staglia quella che denomino l’opzione socialista. Secondo questa opzione – che del resto non è necessariamente alternativa rispetto a quella costituzionalista – la sinistra può ritrovare oggi la propria identità soltanto rimettendo mano all’idea di socialismo, riarticolando questo riferimento però in un orizzonte democratico e liberale. Tuttavia, anche in questo caso non mancano i problem aperti e le opacità. È evidente che, senza una preliminare ridefinizione teorica e concettuale, anche il richiamo all’idea di socialismo rischia di essere troppo vago e generico, oltre che poco innovativo e mobilitante. Come è ampiamente noto, poi, la storia del socialismo è talmente varia e complessa, contraddittoria e irrisolta, che oggi come in passato molti possono richiamarsi a questa eredità intendendo con ciò cose anche molto diverse tra di loro. Per altro, proprio questa denominzionea sembra oggi, in particolare in Europa, definitivamente squalificata dalla parabola recente dei partiti socialisti e socialdemocratici. Il compito prioritario, in questo caso, sarebbe quindi quello di chiarire cosa può significare oggi l’idea di socialismo democratico e in che modo questa idea possa effettivamente guidare il lavoro di ricostruzione culturale e politica della sinistra, per rispondere alle sfide del nostro tempo.

La mia idea è che quest’ultima opzione – quella socialista – rimane quella più promettente, e cercherò di fornire ulteriori elementi per giustificare questa tesi.

Tuttavia, la tesi più generale che vorrei sostenere è che un modo per superare ambivalenze e opacità nel dibattito in corso sul rinnovamento della cultura politica della sinistra sia quello di situare storicamente questo dibattito, di parametrarlo alle sfide contemporanee.

Ciò vuol dire, in primo luogo, ricostruire attentamente le ragioni che sono state alla base del progressivo assorbimento di pezzi consistenti della sinistra nell’orizzonte del neoliberalismo, individuando in questo sbandamento culturale la matrice prima di tutti i problemi e le impasses attuali.

In secondo luogo, si tratta di prendere consapevolezza del fatto che stiamo vivendo un tempo in cui l’egemonia neoliberale sta entrando in crisi, ma il più delle volte grazie all’avanzata di un populismo autoritario di destra e della sua cultura di rivolta contro la globalizzazione, l’immigrazione e i diritti umani, e che, quindi, oggi la prima sfida della sinistra è quella di rispondere in termini emancipativi e democratici ai bisogni di sicurezza e di protezione sociale dei ceti subalterni a cui sta rispondendo, in termini regressivi, il populismo di destra.

Si tratta quindi, in terzo luogo, di comprendere come a questa sfida si può rispondere solo articolando quella che il saggista inglese Richard Mason ha definito una «nuova narrazione post-liberista», capace di convogliare rabbia e malessere sociale nel quadro di un ampio progetto di trasformazione democratica della società. Una trasformazione che può trovare il proprio punto prospettico ideale nella ridefinizione di un’idea di socialismo democratico.

A questo proposito va osservato che la riscoperta di un’opzione socialista può compiersi oggi anche alla luce della consapevolezza che il momento storico che stiamo vivendo presenta dei caratteri di maggiore dinamicità rispetto anche ad un recente passato. Se è vero che la “sfida populista” è oggi l’espressione di una crisi del consenso attorno alla globalizzazione neoliberista che aveva coagulato al centro, negli ultimi decenni, tutti i principali partiti tradizionali – di destra e di sinistra – proprio questa crisi può aprire, insieme a scenari molto foschi di regressione democratica e civile, anche uno spazio per nuove possibilità che fino a qualche anno fa non erano immaginabili.

Se oggi trionfa elettoralmente in giro per il mondo l’internazionale del populismo autoritario di destra, le porte possono apirsi anche, potenzialmente, per la vittoria di una sinistra post-liberista d’ispirazione socialista, come quella rappresentata da Corbyin in Inghilterra e Sanders negli Stati Uniti. Come è noto, Bernie Sanders non ha vinto le primarie del partito democratico per poco, ma se avesse vinto le resistenze lobbystiche e clientelari del Partito Democratico e fosse riuscito a candidarsi per le elezioni presidenziali, probabilmente avrebbe vinto contro Trump. E a quest’ora, invece di parlare del governo più a destra della storia americana, ci troveremmo di fronte al governo più a sinistra della recente storia americana.

II. Genealogia di una crisi: esaurimento delle energie utopiche e subalternità al neoliberalismo.  II.1 L’89 e il ’68: gli appuntamenti mancati della sinistra  

Il primo punto di un ragionamento attorno alla ricostruzione della cultura politica della sinistra deve concernere, quindi, una diagnosi dello sbandamento culturale che ha caratterizzato la parabola dei partiti socialisti e socialdemocratici per lo meno negli ultimi due decenni. È possibile affermare che questo disorientamento culturale affonda le proprie origini in due date spartiacque, cariche di valore simbolico: l’ ’89 e il ’68.   In primo luogo, dall’’89 in poi, ovvero la data che ha sancito sul piano simbolico oltre che politico il fallimento dell’esperienza storica comunista, la sinistra ha colpevolmente dedotto l’impossibilità di un’altra società possibile: ha abbandonato di fatto ogni progetto di trasformazione politica radicale della società e ha smesso di alimentarsi a qualsiasi sostrato di «energie utopiche». Come scriveva qualche anno fa il compianto politologo tedesco Ekkerhardt Krippendorf, l’impeto morale da cui la sinistra trae le sue origini e che ha motivato i suoi rappresentanti e i suoi sostenitori è stata sempre la critica dell’oppressione e dell’ingiustizia, dello sfruttamento e dei privilegi, della divisione della società in poveri e ricchi, in servi e signori. «Essere di sinistra significava e significa interessarsi e prendersi cura dei deboli, degli svantaggiati, dei meno privilegiati, e denunciare pubblicamente e condannare ogni genere di pregiudizio sociale diretto o indiretto, sottile o manifesto».[5] Ma come ha messo in evienza recentemente Axel Honneth in L’idea di socialismo, tutti i movimenti di lotta della sinistra, e in primis quelli contro le condizioni sociali determinate dal capitalismo, sono sempre stati animati da utopie, ossia sostenuti dalle immagini di come la società futura un giorno sarebbe dovuta essere organizzata – «basti pensare al luddismo, alle cooperative di Robert Owen, ai consigli di fabbrica o agli ideali comunisti di una società senza classi».[6] In altre parole, le “energie utopiche” della sinistra – per riprendere la denominazione di Ernst Bloch, che ne metteva in luce la filiazione da istanze religiose – sono state sempre alimentate dalle immagini di una migliore vita comune, le quali hanno sempre stimolato e animato i soggetti di sinistra, immunizzandoli dalla rassegnazione nei confronti di massive condizioni di ingiustizia, e fornendo alla loro indignazione un orientamento normativo e un senso della direzione storica. Con la fine del comunismo è stato abbandonato, invece, il compito, vitale per la sinistra, di alimentare un’immagine credibile di una realtà al di là delle società capitalistiche, e ciò ha creato la situazione paradossale nella quale ci troviamo: ossia quella in cui l’accrescimento esponenziale delle ingiustizie e il senso di malessere sociale, generati dai processi della globalizzazione neolibersita, suscitano sì indignazione popolare, che si esprime anche in forme marcate e visibili, ma questa indignazione rimane priva di direzione, è ripiegata su se stessa oppure è dirottata verso obiettivi regressivi e reazionari dalle forze populiste di destra. Dopo l’89, quindi, è mancata alla sinistra una rielaborazione critica della propria storia, capace di mettere a fuoco le tare della propria cultura politica di provenienza ma anche i valori, le pratiche, i potenziali critici dal passato che non andavano dispersi, ma ripensati e riattualizzati.

Ma le ragioni della crisi della sinistra, mi preme sottolineare, possono essere ricondotte, in secondo luogo, anche ad un’altra data simbolica: ossia il ‘68. Molti ceti politici della sinistra, a causa di deficit radicati nella propria cultura politica di provenienza, non hanno saputo valorizzare le istanze di trasformazione democratica della società, che sono provenute, dal ’68 in poi, dai movimenti sociali. Movimenti, questi, che non hanno mai mirato soltanto ad ottenere una redistribuzione più equa di risorse e opportunità, ma anche a lottare per il riconoscimento di nuove identità, a trasformare gli immaginari culturali dominanti e a mutare le forme stesse della vita ordinaria: ad edificare modi di produrre, di consumare, di abitare, di intessere relazioni di intimità, di organizzare la vita sociale, alternativi rispetto ai modelli di vita individualistici e competitivi imposti, o anche solo indotti e incoraggiati, dalle società del consumo a capitalismo avanzato. Quelle dei movimenti sociali sono state sempre lotte per un radicale ampliamento delle forme e delle pratiche della democrazia, a partire dall’emergenza di 1. nuove soggettività politiche conflittuali (operaismo, femminismo, lotte anti-razziste e post-coloniali), 2. di nuovi orientamenti culturali (ambientalismo, pacificismo, movimenti contro le istituzioni disciplinari del manicomio, delle carceri, etc.) e 3. di nuove pratiche sociali (intreccio tra politica ed etica, pubblico e personale, globale e locale, etc.). Una certa sinistra politica – in Italia: ampi settori del PCI – si è mostrata ermeticamente chiusa rispetto alla cultura politica espressa dai nuovi movimenti sociali e questo ha avuto un doppio effetto negativo: da una parte le strutture di partito hanno perso un legame con le forze più vive e più innovative della società, nonché con i sensori delle trasformazioni sociali in corso – per esempio le trasformazioni che investivano il mondo del lavoro fordista; d’altra parte, gli stessi movimenti, non trovando sponde politiche e istituzionali, sono spesso caduti vittime di dinamiche di autoreferenzialità, di sclerotizzazione, di estremizzazione, etc., oppure sono stati integrati dallo stesso capitalismo neoliberale, e dalla sua capacità di assorbire al proprio interno, ma snaturandone il senso, le istanze di emancipazione individuale emerse negli stessi movimenti (su questo si veda l’analisi di Boltanski e Chiappello sul Nuovo spirito del capitalismo e le analisi di Nancy Fraser sul progressisimo neoliberale sulle quali tornerò subito).

Se da una parte, quindi, la sinistra politica dopo l’89 non è stata in grado di ricostituire un nesso critico con la propria storia e la propria tradizione, dall’altra non è riuscita nemmeno a integrare al proprio interno la carica utopica di trasformazione politica, sociale, culturale, esistenziale, emersa nei movimenti sociali dal ’68 in poi, fino al movimento per la giustizia globale di Seattle 1999 e di Genova 2001 e ai movimenti per una nuova cittadinanza democratica degli Indignados e di Occupy degli ultimi anni.

La furia iconoclasta nei confronti della propria storia, l’ansia di accreditamento nei confronti dei poteri stabiliti, una lettura superficialmente ottimistica dei processi della globalizzazione economica, sono stati alla base, invece, di quel vero e proprio sbandamento culturale che dagli anni Novanta in poi si è espresso in una sostanziale accettazione del paradigma neoliberale.

II.B Gli inganni della Terza Via. L’analisi di Paul Mason sul disfacimento della cultura politica delle working class inglese

L’economista inglese Paul Mason ha ricordato come al congresso laburista del 2005, Tony Blair ammoniva che discutere della globalizzazione non aveva senso: «il mondo cambia in un modo che è del tutto indifferente alla tradizione. Non perdona la fragilità. Non rispetta le antiche reputazioni. Non ha usi e costumi. È colmo di opportunità, ma solo per coloro che sono pronti ad adattarsi, lenti a lamentarsi, aperti, desiderosi e capaci di cambiare».[7]

Si trattava, come oggi appare evidente, non solo di una lettura superficialmente ottimistica della globalizzazione economica, nutrita inoltre da una chimerica volontà di governare dall’alto e in modo tecnocratico i suoi processi – laddove invece era l’economia globalizzata che stave assorbendo la politica – ma anche di un’inversione completa degli schemi categoriali della sinistra. In questa lettura non c’era più posto per un’analisi della divisione in classi della società, non si assumeva più come compito prioritario quello di farsi portavoce dei bisogni e delle istanze dei ceti subalterni e delle loro domande di giustizia. Al contrario, si adottava una narrativa di fatto interna al paradigma neoliberale, laddove il tema dell’emancipazione perdeva ogni dimensione collettiva, ugualitaria e anti-gerachica, si conferiva assoluta centralità al mercato e alla competizione, e la responsabilità dei successi e dei fallimenti, nel cogliere le opportunità dischiuse dai processi di globalizzazione, veniva spostata sull’autoresponsabilità etica degli individui. Proprio questa narrativa ha inferto un colpo durissimo ai tradizionali ceti sociali di riferimento della sinistra e alla percezione della loro identità e del loro valore morale, preparando il terreno a quel vero e proprio esodo di larghi strati popolari dalla sinistra politica, che si è consumato negli ultimi cicli elettorali. Sempre Paul Mason ha ricostruito nel suo saggio raccolto nell’antologia di scritti La grande regressione (2017), in modo particolarmente efficace, con riferimento all’Inghilterra, il modo in cui, proprio il vuoto di sinistra venutosi a determinare in seguito alla svolta neocentrista del New Labour, ha messo in moto una parabola nella quale la cultura politica solidaristica, internazionalista e di resistenza al capitale, che era propria della classe operaia inglese, alla fine si è trasformata in una cultura di rivolta contro la globalizzazione, l’immigrazione e i diritti umani. Ossia in quella cultura politica fomentata dai partiti della destra populista, che hanno vinto la battaglia della Brexit, sfondando elettoralmente nelle aree rurali e nelle province de-industrializzate dell’Inghilterra.

Mason invita a puntare l’attenzione in particolare su un punto: il neoliberalismo ha operato tutta una serie di trasformazioni strutturali, con l’obiettivo di atomizzare la classe lavoratrice, neutralizzare l’efficacia dei sindacati, bloccare il ciclo di lotte sociali e di conquiste democratiche degli anni Sessanta e Settanta, reagire all’esaurimento del ciclo di accumulazione capitalistica dei cosiddetti «trent’anni gloriosi» creando nuove opportunità di valorizzazione del capitale. Tuttavia, «è solo comprendendo gli effetti narrativi di questi cambiamenti, insieme ai loro effetti economici diretti, che possiamo spiegare il collasso ideologico del centrismo iniziato nel 2016»[8] e l’ascesa del populismo autoritario di destra tra la stessa working class inglese.

Mason ricorda come, dal punto di vista della working class inglese, le principali trasformazioni strutturali prodotte dal neoliberalismo sono state: 1. la delocalizzazione delle industrie produttive; 2. la ristrutturazione delle società per azioni in values chains di aziende più piccolo; 3. il taglio delle tasse per snellire l’apparato statale; 4. la privatizzazione dei servizi pubblici; 5. la finanziarizzazione della vita quotidiana. Tutte queste trasformazioni sono state accompagnate, però, sempre da una nuova narrazione imposta sulla vita di milione di persone, «che alla fine ha deterioriato le basi della cultura politica solidale della classe operaia, e ha obbligato a comportarsi come se la logica del mercato fosse più importante della logica del luogo o dell’identità di classe».

  1. La delocalizzazione, finalizzata a ridurre il costo degli stipendi, ha avuto l’effetto narrativo di annullare lo spazio: di segnalare ad un’intera classe che il luogo – la fonte principale dell’identità – non aveva valore.
  2. La ristrutturazione delle aziende finalizzata a subordinare ogni aspetto della vita aziendale ai dettami dei mercati finanziari, ha avuto come messaggio implicito che l’azienda non avrebbe più rispettato alcun obbligo sociale informale, come mantenere un circolo ricreativo all’interno dell’azienda.
  3. Il taglio della tassazione progressiva, insieme alla nascita delle bolle speculative e alla nascita dei paradisi fiscali, aumentando le diseguaglianze e sopprimendo la mobilità sociale, ha comunicato alla classe lavoratrice che il patto sociale del dopoguerra era finito.
  4. La privatizzazione, aumentando l’ammontare di capitali investibili e offrendo nuove possibilità ai profitti, ha comunicato l’idea della fine dell’idea di una dimensione economica pubblica, ossia che lo stato non avrebbe più aiutato e avrebbe reso i servizi pubblici più costosi.
  5. La finanziarizzazione dell’economia e del consumo, esaltando il predatore finanziario come nuovo eroe proletario e squalificando i manager locali che volevano conservare i rituali di cooperazione sociale, ha avuto l’effetto narrativo di trasformare la cultura popolare in un’ideologia filocapitalista che celebrava l’ignoranza e l’egoismo.

Quando poi la narrativa del neoliberalismo cominciava a fallire, a causa dell’infrangersi della promessa di mobilità sociale e dello scoppio della bolla delle Dot.com, il Labour Party ha fatto intendere che non avrebbe opposto alcuna resistenza al cambiamento e nemmeno avrebbe protetto le vecchie forme di coesione sociale. Al contrario, il partito di Blair ha continuato a far propria una politica basata sulle privatizzazioni, la finanziarizzazione dell’economia e l’aumento indiscriminate del credito privato, continuando a veicolare una narrativa fondata sull’idea di autopromozione individuale. Tutto ciò spiega perché, quando il neoliberalismo è stato messo in questione, questo non è avvenuto nella direzione della sinistra, che ormai era stata screditata ad opera dello stesso New Labour, ma in quella indicata da un populismo autoritario. Un populismo che oggi sta riuscendo a canalizzare il senso di frustrazione, di disorientamento, di abbandono dei ceti subalterni, con parole d’ordine ispirate al razzsimo, al conservatorismo sociale e alla demagogia.

 

III. Superare l’alternativa tra neoliberismo progressista (e populismo reazionario. L’analisi di Nancy Fraser e la speranza socialista di nome Bernie Sanders

Le analisi di Mason convergono in buona parte con quelle che la teorica femminista statunitense Nancy Fraser ha dedicato recentemente alle tendenze politiche in corso negli Stati Uniti.[9]

Per Fraser, l’elezione di Trump rappresenta uno dei tanti sconvolgimenti politici che segnalano il crollo del consenso attorno alla globalizzazione neoliberista che aveva coagulato al centro, negli ultimi decenni, tutti i principali partiti tradizionali. Tuttavia, se l’elezione di Trump va interpretata come un «no alla combinazione letale di austerità, libero mercato, debito predatorio e lavoro precario sottopagato, dell’attuale capitalismo finanziario», è anche vero che gli elettori di Trump hanno detto il loro no, più determinatamente, al «neoliberismo progressista»: ossia all’«alleanza tra le correnti mainstream dei nuovi movimenti sociali (il femminismo, l’antirazzismo, il multiculturalismo e i diritti Lgbtq) e i settori simbolici di alto livello del capitalismo cognitivo soprattutto della finanziarizzazione», che aveva costituito il cuore del ciclo del Partito Democratico, da Bill Clinton a Barack Obama. Fraser invita dunque a spostare l’attenzione sul’inglobamento delle istanze di trasformazione e di emancipazione dei movimenti sociali all’interno della narrativa, egemonica negli anni Novanta, del «neoliberismo progressista». Inconsapevolmente, le correnti meanstream dei nuovi movimenti sociali hanno prestato il loro carisma ai settori in ascesa del capitalismo cognitivo e finanziario, e «i principi della diversità e dell’autonomia hanno mascherato politiche che hanno devastato il settore finanziario e i mezzi di sussitenza della classe media».[10]

Con «neoliberismo progressista» va inteso, quindi, quell’orientamento ideologico che si è sviluppato negli Stati Uniti a partire dall’elezione di Bill Clinton nel 1992, il principale architetto dei Nuovi Democratici, il progetto gemello rispetto a quello del New Labour di Tony Blair. Al posto della alleanza del New Deal di Roosvelt tra lavoratori sindacalizzati del settore manifatturierio, gli afroamericani e la classe media cittadina, Clinton ha forgiato una nuova alleanza tra imprenditori, periferie, nuovi movimenti sociali, giovani, «tutti pronti ad abbracciare le credenziali progressiste sposando la diversità, il multiculturalismo, i diritti delle donne, mentre allo stesso tempo sul piano di politica economica questa stessa politica procedeva, in accordo con le èlite finanziare ed economiche, alla deregolamentazione del settore finanziario, alla deindustrializzazione, all’indebolimento dei sindacati, al calo dei salari reali, all’aumento della precarietà». [11] Il tratto “ideologico” del neoliberismo progressista nasce proprio da qui: i discorsi sulla diversità, sulla valorizzazione delle donne, sulla battaglia contro la discriminazione, identificando il progresso con la meritocrazia e non con l’uguaglianza, hanno alla fine associato l’emancipazione all’ascesa di donne, minoranze e gay di talento nella gerarchia aziendale basata sul modello del vincitore, invece che all’abolizione di quest’ultima. Le visioni liberal-individualistiche del progresso hanno sostituito le concezioni dell’emancipazione più espansive, antigerarchiche, ugualitarie, anticapitaliste e sensibili ai rapporti di classe, fiorite negli anni sessanta e settanta. E questo ha fatto sì che le battaglie dei nuovi movimenti sociali siano alla fine state integrate ideologicamente all’interno dello stesso neoliberalismo.

Così come Mason, anche Fraser sottolinea come tutto questo è stato reso possibile dalla mancanza di una sinistra autentica: ossia dall’assenza di una narrazione di ampia portata che articolasse le rivendicazioni legittime di chi ora sostiene Trump «con una critica radicale alla finanziarizzazione e con una visione emancipativa antigerarchica, antirazzista e antisessista».

Fraser conclude la sua analisi, tuttavia, con una nota di speranza. Per la teorica statunitense, la campagna politica di Bernie Sanders per le primarie ha mostrato come oggi è possibile riannodare i legami tra i movimenti dei lavoratori e i nuovi movimenti sociali, prefigurando un nuovo blocco sociale, capace di far saltare il senso comune neoliberista dominante, nel segno però della democratizzazione della società. Sanders ha condotto una campagna tanto «contro una economia truccata che da trent’anni ridistribuisce la ricchezza e i profitti tra le fasce più alte della popolazione, quanto contro un sistema politico truccato che ha sostenuto e protetto questo tipo di economia», e quindi contro democratici e repubblicani che hanno cospirato per bloccare qualsiasi progetto di riforma strutturale. Sventolando la bandiera del socialismo democratico –in un contesto in cui questo richiamo suona come un gesto di rottura e radicalità – Sanders è riuscito a portare questa battaglia contro le èlite, tuttavia, senza cedere al populismo, nella sua accezione più negativa. Al contrario, è riuscito a convogliare, in una grande insurrezione politica, sentimenti che erano rimasti sepolti dai tempi di Occupy Wall Street e a mostrare che «l’unico amuleto contro il fascismo è oggi un progetto di sinistra che mobiliti la rabbia e il dolore dei diseredati in favore di una profonda ristrutturazione sociale e di una rivoluzione politica democratica».[12] In altre parole, Sanders ha mostrato la strada per sottrarsi non solo all’alternativa tra neoliberismo progressista (Hilary Clinton) e populismo autoritario (Trump), ma anche alla catena di polarizzzazioni che discendono da questa prima alternativa, e che oggi stanno dominando e inquinando il dibattito pubblico: come quelle cosmopolitismo vs. sovranismo, multiculturalismo vs. nazionalismo, diritti civili vs. diritti sociali, politiche di accoglienza vs. politiche di sicurezza, etc. Per non farsi ingabbiare in queste polarizzazioni, la sinistra deve oggi dare vita ad una nuova alleanza tra l’emancipazione e la protezione sociale. «Emancipazone non significa diversificare la gerachia aziendale, ma abolirla. E prosperità non significa la crescita del valore delle azioni, ma quella dei prerequisiti materiali di una vita buona per tutti».[13]

Fraser conclude, quindi, osservando come, fino a poco tempo fa, questo progetto non poteva nemmeno essere auspicato, tanto era soffocante ed egemone il senso comune neoliberista. Ma oggi, grazie alla crisi di questo consenso, e grazie a Sanders, così come a Corbyn, Syriza e Podemos, con tutte le loro imperfezioni, è possibile riuscire di nuovo a immaginare un ventaglio più ampio di possibilità politiche, che si sottraggono all’alternativa tra un progressismo liberal, negli ultimi anni subalterno a interessi e orientamenti del capitalismo neoliberale, e il populismo di destra.

Tutto questo può avvenire oggi sullo sfondo di un ripensamento e di una riformulazione di un’idea di socialismo democratico.

Ma cosa si deve intendere per socialismo democratico nel XXI secolo?

 

III.

Un socialismo democratico per il XXI secolo. La linea di ricerca di Axel Honneth.

Molti spunti per impostare una riflessione sull’idea di socialismo per il future, li ha offerti recentemente il filosofo tedesco Axel Honneth nel suo libro L’idea di socialismo. Mi interessa qui richiamare soltanto alcuni passaggi di questa riflessione, che considero molto importanti nel quadro del discorso attorno alla cultura politica della sinistra che è l’oggetto di questo intervento.

La diagnosi da cui muove Honneth, nel suo tentativo di riformulare l’idea di socialismo, non è molto diversa da quella degli autori finora richiamati. Anche per lui, la crisi della sinistra va ricondotta all’abbandono di ogniorientamento etico-politico forte, di un punto prospettico di un’idea di società alternativa, verso cui far convergere le lotte e l’indignazione. Riabilitare l’idea di socialismo deve servire, dunque, in primis, a riguadagnare questo senso della direzione normativa, senza la quale ogni politica e prima ancora ogni indignazione per lo stato di cose esistenti, sono incapaci di aggregare energie critiche in grado di intaccare i processi sociali ed economici che generano ingiustizie e malessere sociale. Per recuperare questo orizzonte etico-politico è necessario riscoprire l’idea di socialismo. Ma questa riscoperta non può avvenire fino a quando non si mettono a fuoco le tare teoriche interne a questa tradizione. La linea di ragionamento di Honneth sul socialismo si scandisce quindi in due parti. In primo luogo, Honneth si sofferma «sulle ragioni interne oppure esterne che hanno condotto al punto in cui le idee del socialismo sembrano aver perso irrevocabilmente il potenziale propulsivo d’un tempo». In secondo luogo, alla luce dell’analisi di queste ragioni, pone «la questione di quali siano le modifiche concettuali da apportare alle idee socialiste perché esse possano riacquistare la forza perduta». Questo doppio lavoro è preceduto dal tentativo di isolare il cuore normativo, la scintilla ideale ed etica, presente nella storia del socialismo, che si tratta a suo parere di riscoprire e di rilanciare nel presente.             Mi sembra questo un punto meritevole di considerazione: per Honneth il socialismo non può essere ridotto ad una teoria normativa della giustizia, come quella per esempio di Rawls. Il socialismo è sempre stato un programma politico di trasformazione della società, radicato in concrete prassi sociali che dovevano incarnare nel presente l’idea di società solidale verso cui orientare le lotte. Le richieste del socialismo non possono essere intese come un appello alla sfera del dovere, ma come l’espressione di un qualcosa a cui in qualche modo già si aspira.«Il socialismo mira a far divenire consapevoli delle tendenze storiche portatrici di quelle promesse che non sono state mantenute dall’ordine sociale esistente, e il cui adempimento richiederebbe una trasformazione delle istituzioni in gioco».[14] Per Honneth, la differenza rispetto al liberalismo filosofico e politico di Rawls non concerne però soltanto questa impostazione di fondo, ma anche il punto di riferimento etico: mentre per il liberalismo il punto di riferimento etico è l’autonomia individuale e la grammatica dei diritti che la rende possibile, per il socialismo il punto di riferimento etico è la libertà sociale, ovvero quello che potrebbe essere definite anche il principio di cooperazione solidale.             Nella lettura di Honneth, la scintilla normativa del socialismo non è l’uguaglianza nè la giustizia sociale, ma un’idea di libertà: ossia appunto l’idea di libertà sociale. È «l’idea che bisogna pensare la libertà individuale non come un bene di cui si può disporre in modo meramente soggettivo, bensì come un bene che può essere realizzato solo intersoggettivamente».[15] È l’idea che ciascun io, nella sua singolarità, è tanto più libero quanto più, nella realizzazione dei suoi scopi e nella soddisfazione dei suoi bisogni, corrisponde agli scopi dei suoi partner e per questa via si apre al loro riconoscimento sociale. Detto ancora diversamente: è l’idea di un noi fatto di persone che si sostengono reciprocamente nella realizzazione dei loro scopi individuali, anche se rimangono le une alle altre estranee.             Se si torna alle origini del socialismo, per Honneth, ci si può rendere conto che il movente ispiratore dei primi socialisti, delle loro prime esperienze cooperativiste e mutualiste, era proprio quello di mostrare come è possibile instaurare un sistema economico non come sfera dell’egoismo privato, come nel capitalismo concorrenziale, ma come un ambito di realizzazione della libertà sociale. E per Honneth, un modo per riattualizzare oggi questa intuizione di fondo – quella appunto della libertà sociale o del principio-solidarietà – è quella di rileggerla alla maniera in cui il pragmatismo americano ha interpretato il principio di associazione o di cooperazione. La libertà sociale, scrive Honneth, «è la rimozione delle barriere che si contrappongono a quella libera comunicazione tra i membri della società, il cui obiettivo è di individuare soluzioni intelligenti per i problemi in gioco». Alla luce dell’idea di socialismo «si devono considerare quali ipotesi sperimentali valide e feconde dei modelli istituzionali tutte quelle proposte che in qualche modo si impegnano a realizzare l’obiettivo normativo di emancipare dalla costrizione, dal paternalismo e dalla dipendenza tutti coloro che operano nell’ambito economico» – ma anche più complessivamente in ogni sfera sociale – «fino al punto da metterli nella condizione di interpretare il loro rispettivo ruolo nei termini di un contributo volontario al compito, da realizzare sempre con reciprocità, di soddisfare in modo equilibrato i bisogni di tutti i membri della società».[16] Si tratta dunque dell’ «utopia concreta» di una società fondata su istituzioni e pratiche che favoriscono a tutti i livelli (famiglia, vicinato, associazioni, mercato, politica) processi di associazione e di cooperazione tra i soggetti nella risoluzione di problemi comuni. Processi di cooperazione concepiti, secondo l’ideale di democrazia sociale del pragmatismo americano di Dewey, come lo strumento più adatto per includere tutte le voci della sfera pubblica, e quindi per ampliare i livelli di intelligenza sociale nelle prassi di decisione; ma intesi anche come forme di autorealizzazione individuale tramite riconoscimento intersoggettivo.

Per rendere questa utopia sempre di più un’utopia concreta, tuttavia, bisogna sganciare l’idea originaria del socialismo dalle tare teoriche che hanno contribuito a farle perdere attrattività e forza di mobilitazione. Honneth individua tre problemi di fondo nel vecchio socialismo.

1) la mancata connessione della libertà sociale con i diritti di libertà liberali, per lo più rigettati in toto nella tradizione del socialismo;

2) un legame di tipo trascendentale della teoria socialista al proletariato, in quanto soggetto collettivo ritenuto in possesso di una coscienza permanentemente rivoluzionaria;

3) infine una fede nel futuro che spingeva a ritenere che il passaggio al socialismo si sarebbe compiuto con necessità storica, in modo conforme a leggi oggettive.

1) Rispetto al primo punto, il socialismo di Honneth vuole essere un socialismo liberale, ossia capace di assimilare la lezione del liberalismo, quindi di accogliere al proprio interno il riconoscimento del pluralismo e delle libertà fondamentali di ogni essere umano, come valori irrinunciabili e criteri di giudizio critico di ogni società. D’altra parte, il socialismo deve preservare anche una sua irriducibilità rispetto all’orizzonte del liberalismo, a partire da una diversa idea di libertà, che preserva un elemento critico irriducibile nei confronti del capitalismo.             Rispetto alla questione economica, il compito più importante per rilanciare la tradizione socialista, consisterebbe quindi nel revocare l’equiparazione ipotizzata da Marx tra economia di mercato e capitalismo, e ricavare in tal modo lo spazio necessario per riprogettare delle forme alternative di utilizzo del mercato. Forme cooperative, mutualistiche, associative di utilizzo del mercato, la cui sperimentazione deve andare di pari passo con una lotta a tutto campo per una legislazione volta a sottoporre i poteri economici e finanziari globali ad un controllo democratico. D’altra parte, un socialismo rinnovato deve muovere anche dall’assunto che esistono altre sfere sociali, oltre quella dell’economia di mercato, dotate di una logica propria, irriducibile a quella economica, e che anche tali sfere possano essere esaminate dal punto di vista della realizzazione della libertà sociale: oltre alla sfera del mercato, c’è una sfera dei rapporti d’intimità – amicizia e amore – e una sfera della formazione democratica della volontà. Anche in queste altre sfere avvengono lotte per il riconoscimento volte ad ampliare gli spazi di esercizio della libertà sociale. E In quest’ottica, quindi, non va vista alcuna tensione tra diritti civili e diritti sociali: entrambi devono essere pensati come condizioni affinché possano essere rimossi quegli ostacoli che limitano i processi di libera cooperazione sociale nelle diverse sfere della società.

2) Rispetto alla seconda tara teorica del vecchio socialismo, Honneth sottolinea come quest’ultimo non può più perdere la consapevolezza che non c’è nessun automatismo nella nascita di una coscienza “rivoluzionaria”. Nessuna classe possiede il monopolio della coscienza socialista, e non esiste alcun nesso diretto e oggettivo tra determinazione sociale e orientamento politico. Se certamente è innegabile che coloro che non traggono vantaggi dalla situazione esistente sono più disposti ad intraprendere azioni di trasformazione e riforme progressive, senza una mediazione politica e culturale questa insoddisfazione può prendere la strada di una rabbia sorda e priva di futuro, oppure essere manipolata demagogicamente. Da qui il compito irriducibile della politica, nel formare, mediare e articolare i bisogni. Compiti che fanno segno verso una lotta per l’egemonia culturale. Un tema questo a dire il vero non trattato direttamente da Honneth – che non cita quasi mai Gramsci – ma che tuttavia non si fa fatica ad inserire nel suo quadro teorico, sebbene nel suo quadro teorico questo tema assume un senso diverso dal modo in cui il concetto di egemonia è stato elaborato dalla linea populista di Laclau e Mouffe.

3) Infine riguardo al terzo punto, l’abbandono di qualsiasi fede in un progresso storico necessario e conforme a leggi deve andare di pari passo, per Honneth, con l’assunzione di uno sperimentalismo storico, come auspicato per esempio, di nuovo, dal pragmatista americano John Dewey. Questo richiamo obbliga a fare propria un’impostazione riformista, che si volge cioè ad interrogare ogni situazione storicamente data riguardo le opportunità, in essa contenute, di trasformazione verso il meglio, ossia di ampliamento delle libertà sociali. Ci si può avvicinare solo lentamente – attraverso passaggi che rappresentano l’esito di una ricerca di tipo sperimentale – all’abbattimento di quelle limitazioni della nostra libertà sociale che ci impediscono di pervenire alla realizzazione di un’altra società.

Giorgio Fazio

 

[1] Esemplificativo di questa linea di riflessione è l’intervento di A. Ferrara: Dalla lotta di classe alla class action, in: http://www.fondazionebasso.it/2015/publications/pensare-la-politica-dalla-lotta-di-classe-alla-class-action-una-sinistra-per-il-21-secolo-di-alessandro-ferrara/

[2] Per un esempio di questa linea di ragionamento cfr. C. Formenti, La variante populista. Lotta di classe nel neoliberismo, Derive e Approdi, Roma 2016.

[3] Cfr. per esempio N. Urbinati, Democrazia sfigurata. Il popolo fra opinione e verità, Feltrinelli, Milano 2017.

[4] Cfr. su questo anche l’ampia produzione di Luigi Ferrajoli, per es. L. Ferrajoli, Iura paria. I fondamenti della democrazia costituzionale, Editoriale Scientifica, Roma 2015.

 

[5] E. Krippendorff, Critica della politica estera, Fazi Editore, Roma 2004, p.215.

[6] A. Honneth, L’idea di socialismo, Feltrinelli, Milano 2016, p. 3.

[7] Citato in P. Mason, Superare la paura della libertà, in: La grande regressione, a cura di H. Geiselberger, Feltrinelli, Milano 2017, p. 122.

[8] Ivi, p. 119.

[9] Cfr. N. Fraser, Il neoliberismo progressista contro il populismo reazionario: una scelta di Hobson, in: La grande regressione, cit., pp. 61-71.

[10] Ivi, p. 64.

[11] Ivi, p. 63.

[12] Ivi, p. 66.

[13] Ivi, p. 69.

[14] A. Honneth, L’idea di socialismo, Feltrinelli, Milano 2016, p. 136.

[15] Cfr. anche Socialismo come libertà. Axel Honneth in conversazione con Giorgio Fazio, in MicroMega, 1, 2017.

[16] Ivi, p. 124.

Il fondamento etico

(Pubblicato per “Mondoperaio”)

Da un estratto del diario di Lev Tolstoj, recante la data 31 luglio 1905, si ricava la pungente considerazione secondo cui «il socialismo è un’applicazione parziale del cristianesimo, inesatta perché incompleta». La rappresentazione del progetto socialista come “scisma” o eresia nell’ampio solco della tradizione cristiana è una pista non poco battuta, ma la citazione tolstojana, specie se considerata in riferimento al tempo e al contesto che le dà origine, segnala una chiave importante, nonché attuale, per accedere alla relazione, non facile, tra filosofia e socialismo. Non esiste un’idea di cambiamento sociale che non abbia provato a esplicitare la propria – talvolta completamente implicita – struttura categoriale. L’ideologia politica non è solo il risultato di un’analisi dei rapporti sociali, generato da ponderate letture storiche ed economiche. La teoria politica che accompagna l’azione riposa su una visione dell’uomo, della natura e del senso dell’essere, più o meno emersa. L’ideale socialista, più d’ogni altra visione/azione nel teatro politico mondiale, ha cercato e cerca, in maniera tormentata, un quadro sistematico (sia esso materialistico o provvidenzialistico) in grado di irrobustire le ragioni dell’azione politica. Ma come la citazione tolstojana bene evidenzia, nella storia del socialismo il problema fondazionale, su cui tornerò in seguito, si intreccia in modo non sempre coerente con la ricerca di un orizzonte etico-sociale, ereditato in parte dalla tradizione culturale cristiana. Alcune idee fondanti del socialismo, come l’abolizione o attenuazione dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, l’emancipazione dalle sue servitù storiche e naturali, tradottasi nell’idea di trasferire su un piano antropologicamente più dignitoso le classi subalterne, stabiliscono un contatto importante con l’etica cristiana. Vi si può riconoscere il profondo valore egalitario, tradotto in una costante attenzione agli ultimi, ma integrato con un elemento evolutivo del tutto estraneo al messaggio evangelico, perché connesso direttamente alla percezione sociale dell’industrializzazione e dei suoi effetti, e una relativa storicizzazione della relazione tra le classi. Senza indugiare oltre nella comparazione, occorre sgombrare il campo dall’equivoco di una lettura pseudo-religiosa del socialismo. Non si tratta di incastonare la tradizione progressista nella struttura concettuale, simbolica e storica della religione cristiana. Dio non c’entra. L’obiettivo è invece quello di lasciar emergere il peso della dimensione assiologica nella stessa nozione di socialismo, onde valorizzarne la forza e la prospettiva di “eudemonismo sociale”.
Guardiamo all’oggi. Mentre nella discussione teorico-politica interna alla sinistra contemporanea si fanno spazio le insinuanti ambiguità della filosofia biopolitica, i movimenti sociali colgono appieno il portato di un’istanza che non è più comprensibile sul terreno dell’aspirazione scientificamente fondata a uno stato di diritto sociale, perché foriero di una potente riscossa etica condotta in nome di una maggiore giustizia, intesa in senso forte. Si osservino due fenomeni italiani e una tendenza internazionale: non è possibile occultare un dato storico, e cioè che la prima e nuova grande manifestazione delle donne, esprimente un’istanza emancipatrice dal tratto sociale ed economico insieme, si sia sollevata nell’ultimo anno e mezzo sulla spinta di un’esigenza di riconquista morale di un giusto riequilibrio delle relazioni di genere. Analogamente, i movimenti dei lavoratori di tutte le sigle sindacali, proprio in queste settimane, chiamano a raccolta i propri iscritti rivendicando non un protagonismo annunciato da una scienza della maturazione di epoche produttive e dei sistemi di governo, bensì – in prima battuta – evocando il valore dell’equità, declinato evidentemente in senso etico, perché semanticamente ancorato a richiami espliciti al “buon esempio”, alla condanna dei privilegi, al rispetto della dignità umana. Ma allargando l’orizzonte al quadro sovranazionale, la reazione popolare alla più grande crisi finanziaria del dopoguerra ricorre all’eloquente parola d’ordine dell’indignazione, senza dubbio carica di una valenza morale. La sensazione è che i movimenti progressisti e portatori di istanze emancipatrici abbiano intuito prima e meglio di marxisti e post-marxisti il legame esistente, ma necessitante di ulteriori iniezioni di forza, tra socialismo ed etica sociale. Questo legame, per la verità, è già sufficientemente stretto nella filosofia di Marx, forse anche più di quanto lo stesso autore del Capitale fosse consapevole. Nonostante gli sforzi di Marx nel sottolineare la linearità comportamentale del capitalista che paga la forza-lavoro come una qualsiasi altra merce, estraendo un surplus di valore e cioè escludendo un’implicazione moralistica nel concetto di sfruttamento, si capisce bene – e Benedetto Croce aveva evidenziato questo problema – che il processo di generazione di plusvalore è l’effettivo rovesciamento della terza formula dell’etica kantiana. L’imperativo categorico (specificatamente nella forma del divieto di considerare l’umanità come mezzo), come Hermann Cohen aveva intuito e segnalato, è la vera fondazione teorica del socialismo.
Ora, i riferimenti al cristianesimo o al kantismo possono valere solo a titolo persuasivo, onde identificare l’importanza della questione etica nella storia del socialismo, ma sono del tutto insufficienti in una delineazione possibile di quella che potremmo chiamare “gerarchia dei valori”, propria di quella tradizione politica. Per quanto stridente possa apparire l’operazione, provo a enunciare l’idea secondo cui il socialismo debba portare con sé, in modo implicito, un’etica liberale. La posizione di apertura morale che tratteggia la prospettiva liberale in particolar modo sui temi eticamente sensibili, impropriamente detta “laicità”, costituisce di fatto un’opzione assiologica, che colloca il valore della libertà individuale, e in generale il valore di “personalità” in una posizione riguardevole nella propria gerarchia. Ma si tratta di un valore che è comprensibile soltanto alla luce di un universalismo di tipo cristiano, che rompe definitivamente la lunga tradizione dello schiavismo del mondo antico, definendo l’eguale dignità di ogni singola persona. L’egualitarismo è in realtà un’idea fondativa rispetto all’ideale liberale. Il socialismo, in qualche modo, ricostruisce il nesso tra libertà personale e parità sociale. Secondo il motto di Bernstein, «non esiste idea liberale che non appartenga anche al patrimonio ideale del socialismo», che è anzi un liberalismo più radicale e coerente rispetto alla tradizione liberale borghese. Il socialismo chiede alla democrazia di essere più democratica, e auspica un liberalismo che diventi autenticamente liberale. Al di là delle singole spigolature storiche dei movimenti, dei partiti e dalle esperienze di governo di ispirazione socialista, il filo rosso dell’istanza emancipatrice sta tutto nel tendenziale riallineamento di eguaglianza politica ed economica, superando le divisioni sociali e produttive che impediscono tale processo. Il fatto che i socialisti si siano storicamente differenziati dai partiti liberali dipende dall’assimilazione assiologica di un modello politico su un piano etico. Il liberalismo costruisce storicamente la sua teoria dell’equilibrio dei poteri e delle garanzie individuali, mentre il socialismo radicalizza tali istanze trascinandole nell’orizzonte del dovere morale (per cui lo stato deve perdere più o meno gradualmente forza oppressiva e occasioni di “abuso”), e al tempo stesso disegna all’orizzonte della propria etica sociale un ideale di umanità dove ciascuno si riappropria della dignità umana. Va da sé che questo slittamento dal pragmatismo politico all’ideale etico-sociale significa, e così è stato nella storia del movimento operaio, il sacrificio della piena libertà economica individuale, considerata elemento generatore di sudditanza e sfruttamento. Pertanto, il socialismo si costituisce nell’adesione a un’etica al tempo stesso formale e sostanziale (dove cioè la dignità umana è criterio formale dell’imperativo categorico ma a anche valore di riferimento della programmazione e dell’azione), innervata – per la fondamentale eredità del marxismo – dalla critica dell’economia politica, ragion per cui, ben lo si intende, a differenza del pensiero liberale classico, il socialismo non può trovare alcuna seria compatibilità con il sistema di produzione capitalistico.
Tuttavia la relazione tra filosofia e socialismo, nella sua complessità, non si può risolvere nella sola rivisitazione della sfera assiologica, che accomuna o distingue il socialismo di ieri da quello di domani. La questione si rende intrigante quando richiede la problematizzazione vera e propria dei concetti chiave di quella prospettiva valoriale. A cominciare dall’identificazione dei protagonisti di questa storia: l’uomo e la dignità umana. Nei Manoscritti del 1844 Marx interpretava il comunismo come movimento orientato alla restituzione all’uomo di una sua “umana essenza”, concetto che vale in senso lato per il socialismo d’ogni tempo, come chiave d’interpretazione dell’istanza di emancipazione sociale. Ma per avere un umanismo occorre una teoria dell’uomo, che Marx inclinava a organizzare in senso materialista, e che tuttavia non è l’unico senso possibile. Ciò significa che alla potenza assiologica dell’etica cristiana e kantiana vengono ancorate una concezione metafisica del rapporto natura-uomo e una filosofia della storia che presentano, nell’arco di due secoli di idee socialiste, numerose varianti, tutte apparentate nella comune necessità di una definizione solida del proprio sguardo. Il che non è un male, anzi, si tratta di un’esigenza che va assecondata. La stessa questione dei valori necessiterebbe di una teoria generale dell’azione e della realizzazione più ampia e complessa, e sicuramente non riduzionista. La recente discussione tra neo-realisti e teorici del pensiero debole, in cui matura una vicendevole accusa di incompatibilità filosofica con le istanze storiche della sinistra politica, indica in qualche modo l’esigenza, nel processo di auto-comprensione identitaria dell’istanza progressista, di chiarire le proprie categorie ontologiche ed ermeneutiche. Ma ciò di cui l’umanesimo socialista ha bisogno non è un’inossidabile impalcatura categoriale in grado di descrivere puntualmente e definitivamente il mondo reale, né di un pensiero gioiosamente aleatorio e autoreferenziale, bensì un di sistema aperto (un interessante percorso, in questa direzione, è stato tracciato da Gyorgy Lukács nel suo recupero di un importante pensatore tedesco, oggi semisconosciuto, come Nicolai Hartmann, e della sua ontologia critica). Soltanto per questa via il socialismo potrà sciogliere il nodo strutturale che irrigidisce la fluidità concettuale della relazione tra opzione etico-politica e sistema categoriale di riferimento. Mi spiego: il socialismo presuppone una filosofia della storia, in cui si renda possibile la spiegazione del succedersi di avvenimenti, epoche, sistemi politici o produttivi, in base a una legalità metafisica (sia essa di natura dialettica o deterministica). Ma una qualsivoglia teoria della storia diventa – di fatto – teoria della necessità storica, dunque escludente la possibilità stessa dell’azione libera individuale, dell’iniziativa soggettiva (e poco importa qui se si preferisca un riferimento al soggetto personale o collettivo). Eppure, non solo non posso fare a meno di pensarmi come essere libero, ma costruisco l’ideale dell’azione politica orientandolo principalmente ai valori di libertà e personalità. L’orizzonte della storia collettiva impedisce di vedere la capacità teleologica del soggetto all’interno del proprio nesso sociale (anche il partito, per essere soggetto storico, deve poter agire delle decisioni, e non essere agito da forze storiche incontrollate), sebbene ne residui il sentimento etico che pretende di dar voce all’istanza della responsabilità, dunque della libertà. Allora il socialismo come idea politica in sé portatrice di una posizione assiologica chiara, deve forzare questo reciproco scarto tra teoria e prassi, e svolgere in un sistema aperto una chiarificazione categoriale dell’essere reale e assiologico, per poi scommettere – ché diversamente non è possibile neanche prender sul serio la propria stessa esistenza – sulla libertà dell’essere personale, e dunque su un processo di liberazione sociale dallo sfruttamento, come termini di una reciproca implicazione.

Carlo Scognamiglio

J. Kristeva, Simone de Beauvoir. La rivoluzione del femminile, Donzelli 2018.

Julia Kristeva

Simone de Beauvoir La rivoluzione del femminile. 

Donzelli, Roma 2018, pp. 140, € 16,15.

 

 

 

 

Continua a produrre pensiero la scrittrice francese di origine bulgara, Julia Kristeva. Un pensiero solido, autorevole, anticonvenzionale. Laddove il dibattito sul femminismo, nel diritto e nella cultura, sembra oggi sradicato dalla carne delle sue lotte reali nella storia del continente, ecco la Kristeva regalare una riflessione di brevi pennellate e saggi veloci, confluiti in Italia, per i tipi di Donzelli (Roma, 2018), in “Simone de Beauvoir. La rivoluzione del femminile”. Il rischio metodologico della cultura accademica – e di quella militante – in materia di femminismo è esattamente quello di confinarne genesi e sviluppo nella riflessione nord-americana e anglosassone, come se i codici di quel femminismo critico fossero gli unici oggi servibili nel ricomprendere e abbattere il patriarcato. Nulla di più falso, ci porta a dire l’agile volume della Kristeva: il femminismo ha una storia politica e di lotta piena, vera, reale, battagliera, non eterea o alchemica o algida; le sue radici non sono appannaggio dei Paesi del liberalismo anglofono. Il mondo è ricco di riflessione declinata al femminile, di pari o talvolta maggiore qualità e intensità: intestare alla sola critica liberal la radice del femminismo è errore metodologico, giuridico e politologico, non solo ideologico.

La Kristeva racconta il volto attuale e palpitante del femminismo: quello che si affanna a togliere retaggi superati nella cultura black, quello che in Cina e in Russia difende la causa delle donne dovendo cimentarsi in una lotta contropotere sia sui diritti civili che su quelli politici e sociali, quello che nell’Islam è diviso tra sconfessare la fede e l’esigenza di ricondurla al Corano e di liberarla da clericalismi patriarcali. Julia Kristeva sceglie il solo canale possibile: tornare con argomenti nuovi a Simone de Beauvoir (1908-1986), alla sua opera tutta, e alla sua biografia. La narratrice e filosofa francese, del resto, è testimone di decenni dell’impegno nel sociale che, con malamente deprecata e in realtà felice frenesia, mescolavano il teatro e il saggio, il romanzo e l’accademia, l’esibita testimonianza di vita e la riflessione collettiva e antigerarchica. È probabile che questa versatilità tematica e questa indiscutibile varietà di contenuti e di stili rendano difficile l’approdo a una sistemica filosofica organica e fortemente unitaria. La Kristeva, però, non si scoraggia e il suo iter ermeneutico, abbeverandosi a una visione fortemente antiautoritaria della psicologia, cerca costantemente di riannodare i fili, di cucire i punti, di squadernare tutte le possibili, intrinseche, connessioni. Il risultato deve essere considerato molto positivamente, perché garantisce a un volumetto antologico pur molto breve di non disperdere mai una traccia comune, un anelito ricostruttivo apprezzabile, anche sotto il profilo esegetico.

 

Certo, il ruolo privilegiato, nella trattazione, se lo aggiudicano facilmente, per il ciclo dei romanzi “I mandarini”, per l’autobiografia “Le memorie d’una ragazza perbene” e “La cerimonia degli addii”, per la saggistica culta “Il secondo sesso”: tale è stata la fortuna delle opere ricordate che prescinderne sarebbe stato impossibile per qualunque serio lavoro monografico sull’Autrice parigina. L’utilità dell’indagine comparatistica sul classico è in fondo pure quella di non tradire mai una tassonomia minima dell’approccio all’autore, ritornando alle fonti senza pretese di eccessiva semplificazione, anzi arricchendo quei profili che troppe volte si danno per acquisiti. Eppure, la Kristeva, anche a percorrere i binari già tracciati, smobilita l’aneddotica con cui la fine della storia e la sua retorica avevano cercato di seppellire l’esistenzialismo, declassandolo a progenitore piagnone del Maggio francese. Il rapporto con Sartre, ad esempio, è ricondotto alla sua franchezza, senza la coltre posticcia del pettegolezzo: ci sono i tradimenti reciproci, certo, c’è la reciproca influenza-ingerenza nella percezione pubblica del personaggio, ma c’è pure e finalmente l’inesausta entropia di una ricerca comune che segna almeno tre decenni della cultura francese (e occidentale tutta). Sarebbe interessante concepire un lavoro monografico su Sartre che abbia le medesime caratteristiche dell’agevole raccolta che la Kristeva dedica alla riscoperta della sua compagna: un’accessibile opera di rivitalizzazione di nodi tematici. Dopo gli anni della grande fortuna editoriale e del grande consenso esegetico, la discussione collettiva di impegno ha forse riposto con eccessiva fugacità il contributo sartriano, deponendone lo strumentario e bollandolo con la sufficienza che ormai si riserva a quegli anni di intenso vissuto generazionale e di spesso dissacrante posa intellettuale. Spogliato dagli orpelli delle letture convenzionali, anche Sartre avrebbe molto da (tornare a) dire, persino sulle relazioni uomo-donna, che sostanzialmente non possono dirsi costituire capo autonomo della sua proposta politico-interpretativa.

Simone de Beauvoir è per la Kristeva, d’altra parte, l’eroina di un pensiero genuinamente anticonvenzionale: non cade nelle sirene del comunismo totalitarista; anzi, mette a verbale l’inadeguatezza dei tanti parrucconi che vogliono fare del marxismo-leninismo modello di intervento socioculturale sic et simpliciter. Non cede nemmeno alle semplificazioni del coniugio liberal-borghese, la cui libertà non sfugge invero al retaggio del conformismo sociale: il matrimonio dell’opera e della dottrina di Rousseau è tutto fuorché scevro, ad avviso della Kristeva, dall’invadenza di una visione politica e politicamente onnicomprensiva dell’agire sociale. Questi due passaggi avrebbero verosimilmente meritato ulteriore approfondimento; in fondo, la carica contropotere e contro-egemonica del modello socialista aveva seguito perché si poneva come unica alternativa storicamente vittoriosa alla razionalizzazione della legalità capitalistica. E, con pari sincerità, va pur ammesso come il modello rousseauiano non intendesse dotarsi di profili autoritari persino nelle relazioni intersoggettive: in ciò, se mai scivolava, probabilmente finiva perché ancora non era stata depotenziata analiticamente la carica di restrittività che in varie forme poteva rimanere impressa persino nelle istituzioni giuridiche post-illuministiche. Le necessarie spigolature qui proposte non tolgono ovviamente meriti all’opera in commento…

Conviene soprattutto agli uomini rileggere la Kristeva e Simone de Beauvoir: l’insistenza a descriverne il sesso nella sua infantile parvenza di “altro dito”, forse inconsapevole rimando freudiano alla seduzione ordinatrice di quel dito, smantella con pari efficacia ogni illusione sulla pretesa razionalistica del patriarcato. Quest’ultimo non è gestione e ragione della cosa pubblica, contrapposta alla presunta umoralità femminile. È indice alzato, è pretesa attribuzione e avocazione di competenze, che ha strappato lo stemma della deliberazione alla donna. Il femminismo, come tutti i movimenti libertari che hanno saputo tracciare una visione complessiva delle relazioni sociali, ha concorso, insieme agli altri, a reindirizzare quello stemma: dalle mani dell’assolutismo e del convenzionalismo (mani, in fondo, speculari) a quelle della jacquerie, della sua costruzione politica di rivolta.

                                                                                                                                                                                                               Domenico Bilotti

Dalla cattedrale ai non-luoghi. Soggettività globali

La libertà moderna aumenta di pari passo con la creazione di nuove forme di soggettività e queste ultime tendono, sempre più e sempre meglio, a svincolarsi dalle identità “segnate” tradizionali che non permettevano – era questa la logica “cattedralistica” premoderna – di fuoriuscire dallo spazio entro la quale esse risultavano da sempre inscritte. Nel passaggio fra il moderno e l’attuale, il processo dromologico si è radicalizzato e si è dovuto confrontare con l’emergere quasi inavvertito di una nuova entità che è diventata progressivamente sempre più autonoma rispetto all’azione dagli uomini.

Laicità, Europa, Mezzogiorno, Socialismo. A partire dall’attualità di Francesco De Martino

Quando lo storico Jacques Le Goff doveva datare il “suo” Medioevo, era sempre interdetto e approssimativo sul Sud Italia: alcune delle strutture giuridico-economiche del feudo avevano allignato nel Meridione fino al XVIII secolo; il confessionismo vissuto come pratica culturale, insieme a una visione rusticamente proprietaria del latifondo, sopravviverà fino a parte del XX. Le epoche storiche non si concludono per tutti allo stesso modo e non tutte le forme di secolarizzazione maturano, evidentemente, allo stesso modo.

Nell’Italia repubblicana, allora, quasi che si dovesse scontare il peso di un’organizzazione del potere invadente e spesso socialmente poco legittimata, fare una politica riformatrice e laica al Sud Italia apparve per lungo tempo complicato. Lo è probabilmente persino adesso, ma i problemi si sono evoluti: alle volte incancreniti, alle altre alleviati. La cultura meridionale, poi, ha sempre prediletto la discussione, il confronto, la ricerca teorica perseguita come ideale; il pragmatismo venato di accenti teologici calvinisti e protestanti non è mai stato maggioritario. Ne sia prova la grande stagione dell’Illuminismo italiano: intellettuali, che erano sudditi di corone diverse e che attività diverse svolgevano nella vita di ogni giorno, si univano intorno a una nuova e comune tavola di principi; sol che a Milano essa si nutriva di pragmatismo, di interlocuzione diretta coi poteri e con la mobilitazione immediata delle ricchezze, mentre a Napoli il sistema dell’autorità e dell’intermediazione era così complesso e stratificato da non consentire posizionamenti sempre altrettanto netti.

Il politico socialista Francesco De Martino (1907-2002), oltre a essere stato grande giurista e storico del diritto, ben conosceva queste tematiche perché alla modernizzazione del Sud Italia dedicò molto della sua attività politica. Lo fece ottenendo incarichi di primo piano nel partito nazionale, smentendo perciò, tra i primissimi, quel luogo comune che voleva il Sud preda di truppe cammellate dei partiti romani. De Martino fu segretario del Partito Socialista tre volte e in tre momenti di eccezionale gravità storica. Tra il 1963 e il 1966, quando giungeva a maturazione e in breve a senescenza l’esperienza del “centrosinistra”, da intendersi come stagione espansiva dei diritti sociali, non come coalizione odierna della politica. Tra il 1969 e il 1970, quando la strategia della tensione avvampava e la dialettica interna della Sinistra riformista sembrava esasperata ed esasperante. Tra il 1972 e il 1976, quando l’agenda legislativa si intestò il riformismo, le libertà civili e i primi lineamenti del garantismo processuale che, superati a fatica gli anni di piombo, porterà solo nel 1988 al nuovo Codice della Procedura Penale, ma già nel 1975 a una Legge Penitenziaria organica. Sta di fatto che De Martino raccoglie il suo primo segretariato da Nenni, il “padre” riconosciuto del socialismo autonomista repubblicano, e conclude il suo ultimo cedendone le insegne a Craxi, che nel Partito Socialista rappresenterà apogeo e discesa, unità e frammentazione, forza di governo e crisi della governance.

Occuparsi oggi di De Martino significa riconoscere che la battaglia per la libertà di coscienza all’interno dei partiti e a favore della democraticità della loro struttura non è finita. Il mandato imperativo usato come strumento per arginare i voltagabbana sarebbe una costrizione troppo forte per chi come De Martino aveva sempre ritenuto la democrazia interna a un partito o a un movimento espressiva della qualità della vita democratica di un Paese. Colpisce, inoltre, che tante battaglie di un tempo, che De Martino combatteva sin dal suo collegio di Chiaia-Posillipo proiettandosi fino alle vette ideali del dibattito europeo, abbiano così tanti specifici contrappunti nell’attualità delle ultime ore.

Cultore del confronto tra la sinistra italiana, divisa ed eterogenea, e quella francese, tradizionalmente più organica, al punto, quest’ultima, da non avere ancora assorbito la ascesa di un discutibile figliol prodigo come Emmanuel Macron; favorevole al voto secondo coscienza nella legislazione sui diritti civili: ieri si leggeva “aborto”, “divorzio”, “riforma del diritto di famiglia”; oggi “unioni civili”, “fine vita”, “procreazione assistita”. Favorevole a una legislazione attuativa del disposto costituzionale su partiti e sindacati, ancor non pervenuta (abbiamo maliziosa certezza che il ritardo di questa auto-riforma sia a base della frantumazione, della de-sindacalizzazione e della precarizzazione del lavoro, oltre che causa dell’insorgenza di una brutta, sbrigativa, demagogica, antipolitica). E De Martino fu pure favorevole all’unità programmatica tra i cattolici del dissenso – il vasto movimento ecclesiale che voleva una Chiesa nel secolo con la libertà ribadita e difesa dal Concilio Vaticano II, non con gli stilemi del temporalismo – e la sinistra socialista. Non sorprende se oggi tante rivendicazioni a mezzo stampa del Papa, per quanto a volte poco utili nella loro genericità o non molto attente alla libertà del confronto secolare di canalizzarsi nella propria autonomia, finiscano per diventare surrogato di un’azione rivendicativa della Sinistra, che sul fronte sociale appare indebolita, meno seguita e autorevole, meno assertiva e presente.

De Martino, socialista e libertario, visse l’ampio travaglio di tutta la sinistra che non sempre condivise la vocazione governativa del PSI e quella centralistica del PCI, dal Partito d’Azione fino alla vicinanza ai Democratici di Sinistra, tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila, quando i partiti di sinistra erano maggioranza di governo negli Stati membri della UE e in poco meno di un quinquennio dissiparono il loro consenso, il loro credito e soprattutto la loro capacità di lettura del reale.

De Martino divenne senatore a vita nel 1991, nominato da un Presidente della Repubblica, Cossiga, che era stato per decenni agli antipodi del grande romanista italiano: non garantista, non ostile al temporalismo, non pacifista. La nomina fu ovviamente giustificata per gli altissimi meriti di De Martino nel campo civile, letterario e scientifico. Le maggiori opere di De Martino guidano ancora oggi gli studi romanistici tutti, non solo giuridici; si soffermano sulla “costituzione” e sulla economia romana. La storia economica è il contesto sostanziale entro cui si muovono le relazioni tra i privati. Costituzione altro non è, ci suggerisce Calamandrei, che storia della configurazione giuridica delle istituzioni di un popolo. Patrimonio laico di ogni tempo e in ogni tempo da dover rinnovare.

La politica tra progettualità e mera contingenza

La politica serve ancora all società?
L’idea di “sociale” è strettamente legata ad una dimensione antropologica, risalente nei secoli, che ha dato luogo all’altra idea risalente, che è quella di “politica”. Entrambe queste idee si sono tradotte in concetti individuanti entità umane riconoscibili in quanto omogenee (quali che siano i tratti in cui rilevi l’omogeneità). Tale processo identitario, che riguarda sia il sociale che la dimensione politica, è caratterizzato dalla emergenza del confine come dato materiale, che diviene anche simbolo ideale, di separazione tra un “di qua” e un “di là”, e quindi di inclusione e separazione – esclusione.

F. Postorino, Croce e l’ansia di un’altra città, Mimesis 2017.

 

Francesco Postorino

Croce e l’ansia di un’altra città 

Mimesis, Milano 2017, pp. 212, € 17.

 

 

 

 

 

Il presente volume Croce e l’ansia di un’altra città, di Francesco Postorino, risponde al tentativo di ricostruire il pensiero politico crociano, in considerazione dell’«incoerenza» che ne caratterizza le diverse fasi dello sviluppo. Tale punto di vista è comprensibile soltanto a condizione che si rinunci ad una visione unitaria dello stesso, a vantaggio di una lettura maggiormente onnicomprensiva del suo pensiero. A partire dall’attenta ricostruzione delle fonti e della struttura del pensiero politico crociano compiuta da Postorino, diviene possibile ricostruire il terreno storico e politico su cui si è innestato un ampio dibattito teso a ridiscutere i presupposti e le contraddizioni interne al pensiero liberal italiano. L’autore precisa come il Croce maturo, impegnato nella lotta contro il Fascismo, non possa essere in alcun modo confuso con il filosofo Croce alle prime armi, ma nemmeno con il Croce che, alla fine dell’Ottocento, introdotto da Antonio Labriola al Marxismo ne ricercava pregi e difetti. Egli non elaborò immediatamente la sua visione religiosa della libertà sin dalle prime fasi della propria riflessione, anzi Postorino addirittura ci ricorda come Croce, nell’opera Riduzione della filosofia del diritto a filosofia dell’economia, si definisse addirittura un anti-storicista. Un’importante svolta nel pensiero crociano si ebbe nel 1930, e nella fondamentale opera La storia come pensiero e azione (1938) in cui è possibile rintracciare la famosa affermazione: la vita e la realtà è la storia e nient’altro che storia. Tale momento segna il definitivo passaggio a una compiuta affermazione dello “storicismo assoluto”. Nella prima parte del volume, Postorino ci offre un ampio sguardo preliminare sul pensiero politico crociano, e in particolar modo sulla sua concezione religiosa della libertà che, come osserveremo in seguito, costituisce un importante assunto ai fini della comprensione della struttura dialettica del suo pensiero. L’autore sottolinea come tutti i differenti momenti che animano il meccanismo dialettico di Croce debbano essere intesi entro un orizzonte aprioristico, poiché essi scaturiscono da un atto di fede che costituisce l’inizio assoluto del suo dispositivo dialettico, il momento religioso. Tutto ciò si gioca lungo il filo sottile che separa la religione dalla filosofia. All’inizio v’è appunto un sentimento religioso, così come Croce lo definisce: «una libertà senz’altra determinazione», che deve essere necessariamente superato dalla filosofia: «la prospettiva religiosa è uno stadio da sconfiggere in nome della filosofia reale». Ed è questo punto che segna l’inestricabile contraddizione tutta interna alla dialettica crociana, tra il suo Sollen (atto di fede) e la libertà come determinazione, che rappresenta in quanto tale il progredire dello spirito della storia (p. 26). Se nelle intenzioni di Croce v’era il tentativo di leggere l’intera realtà, così come la storia, come una storia di libertà, ricomprendendo in sé tutti gli estremismi (marxismo, fascismo, giacobinismo etc.) in quanto considerati elementi imprescindibili alla determinazione di quella stessa libertà, non si può tuttavia non denotare un punto di rottura all’interno di questa visione. Ogni tentativo compiuto dal filosofo napoletano di eliminare qualunque impulso trascendentale, ogni residuo metafisico, pone in essere la propria incompiutezza. Cosicché, l’atto di fede (Sollen) non viene a essere eliminato dalla sua filosofia neoidealistica, rendendo in tal modo impossibile il passaggio a una più perfetta determinazione dello spirito della libertà. Ciò che permane, in quanto momento religioso, è un sentire privo di ogni altra determinazione. Una libertà senz’altra determinazione, scrive Postorino, trionfa in partenza e svilisce ogni altro genere di coinvolgimento religioso. La storia crociana, secondo l’autore, finisce dunque per determinare sempre il medesimo esito: il trionfo della libertà. L’autore chiarisce che nonostante Croce, attraverso il suo circolo dei distinti, abbia trasformato l’iniziale immanentismo in chiave gnoseologica, deve fare pur sempre i conti con un’ulteriore determinazione aprioristica; ciò poiché le componenti negative non hanno alcuna cittadinanza all’interno del suo sistema sintetico degli opposti. Nella dialettica crociana, così come per il sentimento religioso, il brutto viene ad essere immediatamente vinto e superato; in questo senso, si può dire che non vi sia alcuno spazio per l’informe, per il male, per le opere anti-spirituali della storia. V’è un’unica storia, la quale non può che fare riferimento ai quattro elementi categoriali: il bello, il vero, l’utile e il bene. Anche se il filosofo sembra riconoscere il negativo, il cattivo, all’interno della sua dialettica degli opposti, in realtà Postorino spiega, il vincitore è già deciso in partenza: è la tesi, l’essere, quindi il valore positivo della storia. Dall’analisi di Postorino emerge dunque uno scoglio aprioristico incapace di afferrare l’accadimento imprevedibile della storia. L’eccessiva aurea metafisica del pensiero crociano ci restituisce un sistema di pensiero ingessato, interamente ripiegato su sè stesso. Esso oscilla tra un momento religioso, che ripropone l’accadimento storico nel suo reale compiersi, e un altro filosofico che, nel fare i conti con il procedimento logico del sistema dei distinti, rinnega gli eventi imprevedibili della storia mediante la realizzazione di opere sempre belle, vere, utili e morali (p. 36). È importante mostrare anche la critica, riportata dall’autore nel presente volume, di Croce verso la prospettiva positivistica della storia, la quale è rea di relegare l’estetica, la poesia e il sentimento al di fuori del tracciato della storia; ma soprattutto, egli rivela quanto la storia non aneli all’assoluta generalità e astrattezza tipica dell’oggettività delle scienze fisiche. La storia non è un racconto di eventi generici e astratti, ma sempre di questo evento o di quella persona. In tal senso, Croce avverte l’esigenza di separare l’empiria dal valore speculativo, cioè di rivendicare la filosofia contro gli abusi del metodo classificatorio degli empiristi; se la prima s’indentifica con il concetto puro e le quattro dimensioni fondamentali dello spirito, invece il concetto delle scienze naturali è un finto concetto, e in quanto tale inadatto a sincretizzarsi con il particolare della storia; sulla base della presente distinzione è qui definito lo “pseudoconcetto”, proprio delle risultanze positiviste. Ossia un concetto inteso come un involucro astratto, vuoto e inutile. (p.50). Il concetto puro crociano, in parte mutuato dal pensiero hegeliano è, per certi versi, immobile nella sua dimensione ideale ma, nel medesimo tempo, in grado di divenire concreto e storico, pertanto mutevole: «la sfera categoriale è un universale che si rinnova grazie alle infinite realizzazioni delle opere storiche inscritte nel suo scenario». Il concetto deve, quindi, determinarsi come un universale che deve intrecciarsi in termini sintetici con la dimensione particolaristica della storia, affinché possa distinguersi dal guscio vuoto dello pseudoconcetto. La seconda parte del volume illustra la complessa concezione crociana della democrazia, nella fattispecie lo scontro sul piano religioso tra due fedi opposte: la fede della libertà e la fede della democrazia. La specifica adesione del filosofo alla democrazia diviene comprensibile a partire da due assunti: da una parte, il rifiuto ideologico nei confronti di una certa eredità democratica illuministica e dall’altra il tentativo di introdurre una separazione della “libertà da” dalla “libertà di”. L’autore ci aiuta a comprendere la prospettiva crociana: se il liberalismo classico promuoveva “un’eguaglianza legale” , riconosciuta all’interno di un determinato ordinamento giuridico, la quale garantiva pari dignità legale a tutti, al contrario Croce si arresta dinanzi a un’idea della comune umanità. La sua idea di democrazia viene a definirsi a partire da una coscienza della comune umanità che si sposa ad una fede di tipo liberale; tale idea non coincide con prospettive cosmopolite dal vago accento kantiano, bensì si determina a partire da una rivalorizzazione del valore umano (p. 70). Il filosofo si oppone a un certo tipo di democrazia livellatrice di chiara derivazione illuministica, che finisce per sottrarre alla libertà il suo primato per collocarla accanto ad altri principi ritenuti di pari importanza: la famosa triade liberté, egalitè, fraternitè. Postorino chiarisce come Croce non rifiuti l’ideale democratico, chiaramente a patto che questo sia incorniciato all’interno di una struttura di carattere liberale. Dell’individuo, inteso come un soggetto finito e pensato all’interno di un popolo concepito come somma algebrica entro cui smarrisce la propria soggettività, la concezione religiosa della democrazia presenta un’idea di personalità estremamente determinata e eguale alle altre, sulla base di ciò che Croce definisce un’idea minima di umanità. Ciò che Croce abborrisce è certamente il livellamento indifferenziato degli individui, dunque l’impossibilità di considerarli individualmente all’interno della forza collettiva complessiva. Per tale motivo, la libertà si rivela assolutamente incompatibile con l’ideale di democrazia: «nel silenziare i bisogni della qualità e allargare le illusioni del volgo mediante un’onda livellatrice diretta a colpire il cuore della libertà». Egli introduce una fondamentale distinzione tra la “democrazia degli ingenui” e il “liberalismo degli adulti”, tale passaggio storico si rinviene nel travaglio morale di ogni uomo, il quale prima crede di poter aggiustare il mondo (Sollen), per poi proporsi finalmente di comprenderlo e di indirizzarlo (liberalismo). In tal misura, è possibile giungere a una coscienza etica soltanto coll’irrompere della realtà e dell’universale concreto che non ammette alcun scarto differenziale tra il Sollen e lo Sein (di chiaro stampo illuminista). Il passaggio dall’ingenuità a quello del compimento del pensiero individuale segna la vittoria hegeliana di un ”reale razionalizzato”, dunque di un Sein di chi sostiene che il legno storto di derivazione kantiana non può essere raddrizzato e che il mondo va migliorato attraverso le opere di libertà. (p. 74).

Successivamente l’autore analizza la natura dello pseudoconcetto in relazione all’ideale democratico, così come è rappresentata del pensiero di Croce. L’eguaglianza non è nulla più che una finzione: l’eguaglianza serve, non è. Essa non deve essere nulla più che un finto scenario di sostegno alle opere dello spirito, quindi essa non possiede alcun valore e ne costituisce alcuna filosofia. Ciò che Postorino intende far comprendere è che, se in ambito religioso l’eguaglianza era assolutamente respinta, al contrario, in sede filosofica diviene il riscontro sintetico dell’ ”io voglio”, dell’accettazione del reale così com’è e dell’affermazione delle opere dello spirito, giacché solo in questa dimensione astratta tale concetto diviene fondamentale. La democrazia è, pertanto, tutt’uno con lo pseudoconcetto; e, in questa misura, essa contribuisce indirettamente alla legge della storia. La libertà nella sua concretezza (sintetica) non potrebbe in alcun modo sorgere sul terreno dello pseudoconcetto, tuttavia essa è sempre “auto-teleologica”, ossia ritrova il suo fine nella sua stessa libertà. Persino l’eguaglianza è soltanto un’utile astrazione e una finta molla al raggiungimento di ideali eudamonistici, tra i quali troviamo in primo luogo la democrazia (p. 77).

La democrazia, in tal senso, non è, cioè “è” soltanto in quanto produce degli effetti, tuttavia non è reale. La realtà, secondo Croce se si tiene fede al suo circolo dei distinti, è caratterizzata da quattro libertà spirituali nelle quali non v’è alcuno spazio per la finzione concettuale (lo pseudoconcetto); laddove l’opera del politico si realizza nel trovare un punto di congiungimento tra l’ideale e la realtà. In definitiva, quando Croce definisce la democrazia, non pensa affatto alla giustizia pura e né tenta di farla rientrare nel suo circolo dei distinti, ma fa riferimento alla scienza e al nodo problematico dello pseudoconcetto. Il pensatore napoletano non esclude tout court la giustizia ma intende, in altro modo, separarla dall’ideale egualitario. A dispetto dell’istanza fortemente egualitaria diffusasi nell’Ottocento, nel tentativo di istituire condizioni eguali di natura economica ed eliminare qualsiasi genere di gerarchia sociale, Croce invita a considerare il rapporto tra giustizia e egualitarismo alla luce dello pseudoconcetto. Egli crede che la giustizia non dovrebbe in alcun modo ridursi ad un’esigenza di eguaglianza materiale, perché vorrebbe dire sottoporre la realtà a uno schematismo di tipo matematico, nondimeno avrebbe l’effetto di distruggere l’individualità e la vita. La giustizia, in quanto espressione del reale, deve pertanto essere separata dall’egualità appartenente ad uno schema aritmetico e finto. Ma Croce non si limita a separare la giustizia dall’eguaglianza, bensì opera tale discernimento anche tra questa e la democrazia: essere giusti non vuol dire essere democratici. La democrazia egualitaria è definita all’interno di una prospettiva utopica, della quale gli azionisti hanno abbracciato deliberatamente la finzione. Essa, nella sua finzione, è relegata alla dimensione dello pseudoconcetto nel connotare la sua estraneità a ciò che appartiene alla vita, a ciò che è vitale. Se l’eguaglianza appartiene all’ufficio scientifico degli pseudoconcetti, al contrario la giustizia può coincidere con la categoria dell’Etica, alla libertà nella sua determinazione morale, cioè l’essere moralmente giusti vuol dire riferire un “Sì incondizionato” al progressivo “farsi” dello spirito nella storia. Da un punto di vista meramente politico, Croce non palesa alcuna ostilità nei confronti della democrazia, ma solo nei confronti di coloro che la praticano per professione. Mentre il liberalismo è un ideale morale meramente regolativo, la democrazia finisce per divenire un ideale pratico e una realtà empirica (p. 81); ed è questo che egli rimprovera alla sinistra e agli azionisti, nonché il tentativo di equiparare la libertà a una nozione di giustizia illuministica. Resta il nodo centrale della questione che riguarda la proposizione di una “democrazia liberale”, cioè il tentativo di stabilire i modi e procedure ipoteticamente utili al coniugarsi di liberalismo e democrazia.

Francesco Postorino rileva come il liberalismo di Croce sia portatore di alcune anomalie, soprattutto sul versante politico, in confronto ai risultati teorici del liberalismo classico e della tradizione liberale italiana, seppur nelle sue molteplici configurazioni. Ciò partendo dall’analisi che vede in Croce soltanto un critico del pensiero illuminista, tesi che viene smentita successivamente dimostrando quanto Croce, pur condannando l’ideologia illuminista, ne approvasse comunque i risultati storici (p. 84). Il filosofo italiano è in accordo con una certa declinazione del sapere illuministico, tuttavia ritiene che non si possa fare a meno dell’attività logica (un chiaro riferimento alla dialettica di matrice hegeliana): non è tuttavia sufficiente purificare la ragione in nome del Sollen. Occorre storicizzarla. Ciò costituisce un evidente affermazione del valore che il filosofo napoletano assegna alla ragione, a patto che sia collocata all’interno della storia; in virtù di essa lo storicismo viene a rappresentare il perfezionamento di quella stessa ragione illuministica tanto da porsi come la sua affermazione più autentica. Del resto, le parole di ammirazione che Croce dedica all’illuminismo della Repubblica partenopea e ai suoi creatori, che definisce creatori eroici di una prima coscienza civile e patriottica in Italia, dimostra quanto egli sia in parte debitore di una certa tradizione illuministica. La sua profonda adesione alla “libertà della storia” mette in risalto, su un altro versante, la tensione crociana tra lo spirito illuministico giovanile e quello romantico, nel quale è possibile collocare il pensiero liberale di Croce. Osservando le variegate posizioni sorte in seno alla filosofia azionista, si può notare come esse non siano strettamente identificabili con il cosiddetto pensiero liberal, soprattutto se si fa riferimento alla cultura del liberalsocialismo o del socialismo liberale. Il filosofo napoletano si oppone in particolar modo alla sintesi dottrinale tra liberalismo e socialismo inaugurata da Guido Calogero, che viene denunciata come un inutile tentativo progressista di aggiustare il mondo; in questo incontro tra liberalismo e socialismo, Croce oppone un netto rifiuto ad una politica egualitaria, che egli assimila all’interno di uno schema giusnaturalistico e illuministico, persino riconducendo le formazioni democratiche a questi stessi fondamenti. (p. 87). D’altra parte, Croce si muove nel tentativo di operare una netta distinzione tra la sua concezione liberale e quella egualitaria, ma anche da un liberalismo ritenuto più tecnico, in cui si rintraccia un impianto razionalistico e settecentesco orientato a coniugare i propri elementi empirici con un’ipotetica formazione democratica. Va sottolineato anche come Croce cerchi di evitare a tutti i costi una possibile identificazione tra il suo sistema politico-storicistico e quello hegeliano; l’autore evidenzia, a tal proposito, la mancata compatibilità dello stato etico e divino hegeliano con lo stato “attività” di Croce. Postorino ci spiega come molti critici abbiano mosso al pensiero liberale crociano l’accusa di essere poco utile, e quindi di essere un sistema chiuso, così costituito come un insieme di astrazioni e metafisiche che nulla hanno a che vedere con la lotta per le libertà personali e politiche. Alla luce del confronto tra lo storicismo assoluto di Croce e i maggiori interpreti del partito d’azione, è necessario procedere con cautela nel riunire sotto una medesima voce tutti i protagonisti dell’azionismo, ad esempio tra l’area azionista di sinistra guidata da Emilio Lussu e l’ala amendoliana di Ugo La Malfa e Ferruccio Parri, laddove la prima auspicava a creare un terzo partito socialista e l’altra ne prendeva rigorosamente le distanze (p. 90) Oltretutto, Croce nutriva una certa simpatia per il socialismo liberale di Carlo Rosselli, dal momento che ne osservava un certo grado di concretezza e storicità che lo riconduceva, per l’appunto, all’interno di una nuova formazione liberale, mentre d’altra parte sembrava opporsi al liberalsocialismo di Calogero e Capitini. Ciò che il volume in oggetto vuole dimostrare è quanto sia indebita l’assoluta assimilazione della democrazia ad un quadro di riferimento giusnaturalistico: la figura intellettuale di Piero Gobetti ne fornisce una buona giustificazione. Dal momento che, così come Postorino scrive, il giovane Gobetti respingeva qualsiasi affermazione giusnaturalistica per aderire ad una logica del conflitto, che egli sembrava aver pienamente attinto dalla formulazione politica marxiana, al fine della riaffermazione di un ideale della libertà avente carattere morale. Egli non soltanto prendeva le distanze dal liberalismo classico, ma intendeva salvaguardare il proprio ideale etico di libertà, ricorrendo ad uno spirito storicista che sembra allusivamente richiamarsi a quello crociano. Gobetti riconosceva nella classe proletaria un nuovo soggetto storico liberale, dato che la classe borghese aveva ormai perduto la propria vitalità. Il giovane torinese sostiene, dunque, che la vera natura del liberalismo debba essere ricercata in un azione volta al riscatto morale, ossia in un impulso conflittuale volto alla liberazione della classe partigiana. Entrambi, sia Gobetti che Croce, ripudiano qualunque ideale egualitario, tuttavia Gobetti non divinizza la storia, non accetta la realtà storica cosi com’è, questa deve altresì necessariamente esplicitarsi mediante il conflitto (p. 93) . L’autore del volume sottolinea la dura polemica innescata da Croce in direzione del Partito d’Azione, reo di celare ambizioni socialistiche attraverso procedimenti rivoluzionari. Il loro disegno liberal-progressista è, secondo Croce, destinato a fallire nel suo obiettivo riformista a causa della sua incapacità di conciliarsi con il programma socialista. Ciò nonostante, la critica mossa da Croce all’intero partito azionista appare essere priva di fondamento, sebbene la sua concezione religiosa del liberalismo e il suo disegno immanentista siano molto distanti dal liberalsocialismo promosso dagli azionisti (p. 101).

La terza e ultima parte del volume è volta ad approfondire il pensiero politico di alcuni dei maggiori esponenti intellettuali dell’azionismo. Chiaramente non li affronteremo tutti, ma piuttosto ci confronteremo in particolar modo con due concezioni, da una parte il pensiero liberal-socialista di Guido Calogero e dall’altra il pensiero liberalista di Noberto Bobbio. Nella sua opera, La conclusione della filosofia del conoscere (1938), Calogero lascia immediatamente trasparire la sua volontà di prendere le distanze dal pensiero crociano, in virtù della sua radicale riproposizione dell’attualismo di Gentile, motivo per cui l’autore lo inscrive interamente nell’orizzonte dell’idealismo italiano. Egli pone al centro del suo pensiero «ciò che per il filosofo laico costituisce la suprema necessità»: l’io, giacché non v’è alcuna realtà che sia al di fuori di esso che si possa definire nella sua specificità ontologica. L’io, secondo tale misura, sfugge a qualunque identificazione o processo dialettico. Esso si costituisce di due momenti, uno determinato in base al quale possiamo dire che una cosa sia come sia e che non sia un’altra cosa e un altro indeterminato che corrisponde a un’alterità, a ciò che non si riconosce nel tutto, «in quanto ha un limite oltre il quale c’è altro», e tutto ciò è reso possibile attraverso il pensiero che li riconosce. La libertà dell’io calogeriana non è affatto dissimile dalla struttura circolare dello spirito di Croce, a eccezione del fatto che per Calogero la libertà non costituisce un valore assoluto. In altri termini, la libertà calogeriana si estrinseca nell’incontro con la morale; v’è infatti un perenne dualismo che attraversa il concetto di libertà, tra una liberta in sé che funge soltanto da presupposto per la realizzazione di un’altra libertà ideale. La base dialettica di tale sistema morale vede l’io in quanto soggetto morale. L’io, in quanto soggetto morale, non si rinchiude nella sua dimensione egoistica bensì è proprio il desiderio di proiettarsi verso l’altro che gli permette di strutturare la base del proprio io. Affinché un’azione possa definirsi morale, è necessario che vi si presenti un richiamo all’altro. Tuttavia, tale dialettica non si limita ad uno scambio tra l’Io e il Tu, piuttosto l’Io deve educare il Tu all’importanza del Lui (p. 110). L’importanza del lui è data esattamente dal suo costituirsi come espressione di un’alterità, nonché dalla necessità del Tu, dalla configurazione determinata, a confronto con un Lui totalmente indeterminato e che attende di essere riconosciuto eticamente. Calogero, spiega Postorino, rimprovera a Croce l’indefinitezza della sua azione morale, pur simpatizzando con la sua visione storicista. La morale universale calogeriana vive in uno stato di sospensione, tra il conosciuto e lo sconosciuto, ossia in quello spazio tra il tu e quel lui che deve diventare tu (p. 111). Mentre l’infinito di Croce si divinizza e si esplica nel provvidenzialismo della storia, quello di Calogero resta sospeso nei ritmi particolaristici dell’umanità. Calogero intende recuperare dal pensiero dialettico crociano soltanto lo strumento materiale e operativo, traducendolo in altro modo, sotto una prospettiva etica. Il pensiero calogeriano, inserendosi all’interno del proprio orizzonte storico-culturale, risponde alla minaccia fascista mediante i principi del rispetto e della fratellanza. Tutto il suo sistema morale si fonda sul dialogo, concepito come la volontà di intendere l’altro, che costituisce alla maniera kantiana l’a-priori trascendentale di qualunque atto reciproco di comunicazione tra l’Io e il Tu; tale volontà d’intendere è, pertanto, un principio etico che si nutre della mia volontà: «la volontà d’intendere è una verità assoluta che neppure il diretto interlocutore potrebbe smentire». A partire da questo punto si dipana la critica calogeriana allo storicismo assoluto crociano, o ancor più specificamente, la critica che egli indirizza al logos storicista di Croce, ovvero alla possibilità che lo storicismo possa impadronirsi anche dell’aspetto etico, del momento decisivo dell’ascolto. Inversamente, il logos calogeriano deve sempre esplicarsi all’interno di una pratica dialogica, data dalla capacità comune d’intendimento dell’altro. Infine, effettuando un parallelo tra Croce e Calogero, si può dire che secondo quest’ultimo persino la comprensione della storia si può tradurre soltanto nel desiderio di comprendere gli altri. Tale struttura morale deve essere collocata dentro la cornice politica del liberalsocialismo, in riferimento alla capacità morale di intendere il “tu” calogeriano nello spazio democratico del linguaggio, esso costituisce lo scopo morale a cui ogni azione politica dovrebbe mirare. È proprio il riferimento morale al “lui”, quindi all’altro, totalmente ignorato dal liberalismo di Croce, a definire l’intero orizzonte storico-politico di Calogero: «il liberalismo è sempre dell’altro, mai di se stesso, e si deve tradurre nella giusta libertà che bisogna attribuire, con i mezzi politici opportuni all’altro.» (p. 118). L’azione politica progressista calogeriana è improntata decisamente su politiche egualitarie in favore dei bisognosi (ad esempio provvedimenti legislativi intenti a distribuire in modo più equo il reddito sociale). Se per Croce tali politiche, in considerazione del proprio contenuto economico, devono essere necessariamente sancite dalle leggi provvidenzialistiche della storia, al contrario per Calogero esse costituiscono nient’altro che un atto di riconoscimento nei riguardi del “tu”. Postorino sostiene che il realismo politico calogeriano non debba essere confuso con l’immanentismo crociano. Calogero afferma, infatti, che un partito non possa riduttivamente rifarsi a un principio pragmatico in quanto tale limitato alla contingenza dei fatti, ma che piuttosto debba ricavarsi una “terza via” di composizione dell’eterna assenza di convergenza di libertà e giustizia.                                                                                                            Osserviamo poi come, tra le file degli azionisti, Noberto Bobbio rivesta una funzione centrale, poiché egli ha il merito di aver operato un vero e proprio capovolgimento della dialettica storica crociana, sostituendo alle opere “buone” della storia il ruolo centrale della persona, in quanto centro assoluto di valori.

Pur avendo compiuto i suoi primi studi sul terreno della fenomenologia husserliana, Bobbio abbraccia presto il filone culturale del personnalisme, che lo condurrà in direzione di una concezione liberal-democratica dagli ampi accenti sociali. Egli mostrò immediatamente la sua ritrosia nei confronti del filone esistenzialista, pur giungendo, tuttavia, ad accettare un distinguo tra un esistenzialismo passivo ed un altro positivo. E quest’ultimo vuol far riferimento a una corrente filosofica nata in Italia, il cui iniziatore è Nicola Abbagnano, la quale è sì alla ricerca del limite umano esistenziale, ossia della finitudine dell’uomo, ma senza precipitare nelle tele del nulla e del nichilismo. In una prospettiva più generale, l’esistenzialismo scompagina lo storicismo assoluto crociano, mettendo al centro l’uomo, ovvero un soggetto determinato (con il suo nome e cognome e la sua fisicità), che costituirebbe il vero punto di partenza ai fini della comprensione del reale (p. 147). Ciò nonostante, Bobbio teme quella deriva “decadentistica” dell’esistenzialismo, quella di un uomo che ormai con sguardo disincantato ha annunciato la morte di dio, che ripiegato su stesso non intende più interloquire con le sofferenze dell’altro. Quindi l’uomo esistenzialista è, per Bobbio, un uomo che ha smarrito ogni ragione sociale. Ora non v’è più il “tu” calogeriano, ma un uomo nichilista, posto in difesa di sè stesso e immerso nel proprio nulla. Diversamente, l’uomo dei personalisti è chiaro, empatico e vicino al tema della solidarietà sociale, dunque pensare la persona vuol dire porre l’accento sulla questione della giustizia sociale. Sebbene Bobbio sia propugnatore di ideali neo-illuministici, egli sostiene comunque che non si possa completamente voltare le spalle all’esperienza storicista ottocentesca: il suo è, però, uno storicismo relativo, cioè liberato dalla gabbia metafisica di Croce. La persona, secondo Bobbio, deve infatti muoversi in una sfera di tensione tra il concreto e l’astratto, allorché l’astratto è quel di più, quella peculiare eccedenza custodita in ogni individuo innalzato a valore. Il neo-illuminismo di Bobbio è sorretto dalla storia, ma tuttavia senza ridursi a un’accettazione dei meri fatti della storia. Persino Croce si oppone alle teorie nichiliste, ma ciò che accomuna neoidealismo crociano ed esistenzialismo, è la medesima svalutazione dell’individuo; da una parte v’è un individuo esistenzialistico totalmente proiettato verso il nulla, dall’altra un individuo totalmente assimilato, e ridotto in pezzi, in una realtà-spirito che trova il proprio compimento nelle singole e perfette opere immanenti della storia. Ciò che emerge dall’impegno personalistico di Bobbio è l’affermarsi del Sollen, del fascino speculativo del dover essere, secondo cui la persona deve essere il centro assoluto dei valori (p. 150): «una filosofia dei valori (Sollen) che scavalca le ragioni, pur apprezzate, della storia effettuale (sein)».

È necessario notare il fondamentale passaggio di Bobbio dall’idea di una filosofia prescrittiva a un approccio di tipo metodologico, che lo avvicina all’impegno avalutativo della scienza. Ciò sembrerebbe contrapporre l’atteggiamento speculativo che caratterizza la scuola neoidealista e il metodo analitico bobbiano, nel quale sembra prevalere la componente empirica; in realtà, Bobbio non intende in alcun modo estirpare la radice del suo Sollen in nome dell’osservazione empirica e della sperimentazione positivista. La sua eterna tensione tra l’ideale e il reale dimostra quanto il suo Sollen sia inestirpabile. Egli sostiene sia necessario «essere un po’ utopisti e un po’ realisti», ossia quanto sia necessario adottare un approccio di tipo scientifico nel metodo, per poi riflettere con un approccio tendenzialmente ontologico, giacché non è possibile eliminare la tendenza naturale a crescere insita nel destino di ogni persona. In tal modo Bobbio, pur non essendo per definizione un naturaliste, giustifica sul piano storico la prospettiva del diritto naturale come uno degli elementi fondativi della costruzione di uno Stato liberale moderno. Così, se da una parte egli accoglie parzialmente il giusnaturalismo, da un’altra parte aderisce alle prospettive classiche del positivismo (l’istituto della certezza del diritto, il principio della legalità etc).

In conclusione, volendo fornire un quadro sinottico parziale del saggio, si può evidenziare come l’analisi elaborata da Postorino porti alla luce la posizione fondamentale rivestita dalla legge del Sollen, che Croce tenta inutilmente di assorbire, e di superare, all’interno del suo storicismo assoluto; poiché è proprio la dimensione trascendentale, il momento religioso, a condizionare l’operato politico del suo Partito Liberale. Nell’immanentismo crociano è presente il tentativo di oscurare qualunque prospettiva trascendentale; e mi riferisco alla critica che egli muove all’azionismo e alla sua tensione continua verso il reale che nasce dal rifiuto di un storicismo assoluto considerato privo di sostanza pratica. Il messaggio azionista nasce, infatti, dal riscontro effettuale con la realtà e con l’esperienza. Il tu devi (Sollen) calogeriano e bobbiano, e degli altri azionisti, nasce e si erge nell’agone della lotta politica e culturale contro le molteplici manifestazioni del male, dunque contro il Fascismo e il razzismo. Mentre la libertà religiosa di Croce rifugge la funzione livellatrice dell’uguaglianza, d’altro canto gli azionisti inseguono l’ideale di una libertà autentica interamente rivolta all’altro, al “tu” calogeriano, nel sentiero dialogico di un’infinita comprensione (p. 203). Sebbene gli azionisti si muovano all’interno di prospettive appartenenti alla tradizione esistenzialistica, essi non riabilitano l’immagine dell’ “uomo decadente” che, disancorato dall’impalcatura divina che ne reggeva l’esistenza e posto in una condizione di gettatezza al di fuori di ogni orizzonte di senso, va incontro fatalmente al proprio nulla. Ma sulla scorta di un esistenzialismo di segno diverso, viene posta in primo piano la persona come centro assoluto di valori. Ciò che viene a determinarsi è una visione politica, filosofica e culturale posta al confine tra lo storicismo assoluto e il pensiero nichilista, ad intrecciare l’onnicorrelativo rapporto tra socialismo e liberalismo. Infine, se il pensiero crociano nel segnare la parabola idealistica del suo liberalismo ha finito per confinare il problema sociale nell’alveare dello pseudoconcetto, gli azionisti invece si muovono nel tentativo di risvegliare la coscienza italiana dal proprio torpore, e come dal titolo del volume, da “l’ansia di un’altra città”.

                                                                                       Luigi Somma