Il mio Congresso mondiale di Filosofia: riflessioni dopo l’articolo di Marcello Veneziani

di Ivana Zuccarello

Non è stata una passeggiata partecipare al XXV Congresso mondiale di Filosofia a Roma dal 1 all’8 agosto sia in termini di organizzazione, sia di impegno fisico, di concentrazione, di forza di volontà e dedizione richiesti.

Ha ragione Veneziani, – e con lui molti altri -, a denunciare i disagi dovuti alla canicola romana, ai cantieri aperti con ricadute significative sul sistema trasporti, all’immondizia non ritirata, e perché non citare un grande classico, la presenza molesta dei gabbiani (ne ho visti almeno un paio stazionare fieri sulle aiuole della Sapienza)?

Di certo, un Congresso mondiale organizzato a Roma ad agosto non sembrava affatto un’idea felice, eppure vorrei raccontarvi perché ne è valsa la pena.

Ogni giorno alla Sapienza, dalle ore 9.00 alle ore 19.00, per una settimana, abbiamo avuto la possibilità di assistere e partecipare a lezioni, simposi, tavole rotonde sui più svariati temi del dibattito contemporaneo, accademico e non.

Fin dalla registrazione sono rimasta colpita dalla copiosa presenza di cinesi, giapponesi, americani, africani, indiani, forse più numerosi rispetto agli europei (ma potrebbe semplicemente trattarsi di un bias cognitivo) che già da sola bastava a comunicare l’idea di una filosofia senza confini, e perché no, “senza frontiere”. Tuttavia, è probabile che poi i cinesi siano rimasti a fare scuola fra loro e che raramente abbiano davvero interagito con gli altri.

L’interazione multietnica nel suo senso più profondo forse è mancata, eludendo, fatta eccezione per le lezioni plenarie al rettorato, dove la traduzione simultanea aiutava a superare le barriere linguistiche, la vocazione globale annunciata dal tema congressuale. Soprattutto nelle aule più periferiche del campus, infatti, in cui ci si ritrovava a discutere di micro temi o di prassi filosofiche e didattiche, -sicché più che al congresso mondiale di filosofia sembrava di stare, a volte, partecipando a un corso di aggiornamento scolastico, – era raro imbattersi in esponenti più o meno illustri delle periferie del mondo.

Il punto di debolezza del congresso, però, stando all’articolo pubblicato il 3 agosto su La Verità (forse dovremmo chiederci se intesa come epistème o come alétheia prima di andare avanti), vale a dire l’evidente assenza di grandi nomi della filosofia mondiale, ritengo sia stato, invece, proprio la cifra di fruibilità e quindi di riuscita dell’evento. Studenti, insegnanti, professori universitari, e soprattutto giovani ricercatori, vero carburante del sistema e del dibattito accademico, hanno potuto trovare uno spazio, presentare i loro papers e discuterne pubblicamente, laddove tutti noi sappiamo quanto certi spazi siano, al contrario, normalmente già occupati.

E se ho molto apprezzato la lezione sull’I.A. del prof. Mario De Caro, ascoltare Paolo D’Angelo interrogarsi sul rapporto tra ambiente e paesaggio, e ancora gli interventi della filosofa algerina Malika Bendouda sul potere delle donne in un mondo sostenibile, di Kristie Dotson sul femminismo afroamericano, sono stata soprattutto felice di aver partecipato alla tavola rotonda sull’insegnare filosofia oggi coordinata da Marco Ferrari,  di aver discusso di politica ed educazione civica col prof. e collega Andrea Suggi, di aver conosciuto il collettivo del CRIF e la loro philosophy for children e, infine,  di aver ritrovato persone amiche al topic sulle pratiche filosofiche.

Chi ha criticato l’evento, infatti, ha trascurato, a mio avviso, il punto di forza, vale a dire la riuscita democratica del congresso: le voci di chi conta (poco o tanto in un momento di così alta popolarità della filosofia che importa!) mescolarsi in mezzo a tutte le altre, occhi che si guardano negli occhi aldilà delle cattedre, mani che si stringono fuori dalle aule, cartellini al collo senza titoli né gradi di onorificenza.

Forse senza, oltre, o attraverso i confini, ricordo che il tema scelto era “Philosophy across boundaries”, significa anche e innanzitutto questo: abbattere le gerarchie imperialistiche del pensiero e ritornare a discutere insieme facendo precedere l’ascolto alla parola.

Infine, se anche gli appuntamenti serali promossi e aperti alla cittadinanza sapevano più di estate romana che di cenacolo ad Heidelberg che male c’è? Portare la filosofia nelle strade, trasformarla in evento artistico, non è forse offrire un’alternativa al degradante spettacolo che sempre più spesso investe i luoghi storici delle nostre città profanati da kermesse di dubbio gusto?

Se qualcosa di sostanziale, invece, secondo me, è mancato e continua a mancare nel dibattito, filosofico ma non solo, quella è la dimensione puramente politica dello stesso: vale a dire un confronto autentico tra paradigmi ideologico-culturali che ridiscutano dell’idea stessa di confine e non solo delle modalità scelte per oltrepassarlo. “Per il vero filosofo, si sa, ogni terreno è patria” diceva Giordano Bruno, ma che cosa si voglia fare della “patria” sarebbe, forse, il caso di ricominciare a chiederselo e di interrogarsi sulla questione a partire dalla Scuola, vera frontiera dell’esercizio filosofico, terreno di militanza e diserzione, ricettacolo di norme e prassi non allineate, ma ancora e sempre prima bottega di formazione. Il resto, le biblioteche e gli studioli medievali andrebbero lasciati entro il limite di chi ancora crede cha la Filosofia si declini al singolare, vieppiù pensando che chi la insegna ai giovani debba limitarsi a raccontare la sua Storia.

Ivana Zuccarello

 

“CHI DORME NON PIGLIA PESCI”

Il rapporto CENSIS, che i media hanno diffuso, rende noti alcuni dati tristemente significativi sullo stato dell’“ambiente umano” italiano. Sì, “ambiente umano” e non “società”, perché l’interrogativo che emerge come conclusione dell’analisi Censis è: esiste ancora un tessuto umano definibile “società italiana”? Qualche considerazione.

In quel rapporto hanno avuto un notevole richiamo l’aggettivo “sonnambuli” e la caratterizzazione “incapacità di reazione”.

Poiché un rapporto testimonia ciò che è già in atto, la prima questione è chiedersi: come “siamo fatti” oggi? In altre parole, poiché i comportamenti umani sono il prodotto delle abitudini mentali, cioè del “funzionamento della testa” delle persone in genere, il punto è come sta “funzionando la testa” degli italiani e, in particolare, di quelle generazioni anagrafiche che oggi costituiscono l’immagine statisticamente esplicativa. Quando ho usato l’espressione “funzionamento della testa” ho detto con linguaggio popolare qualcosa di scientificamente molto serio, cui prestare attenzione. Negli anni ’70 comparve un libro, curato da due filosofi e comportamentisti statunitensi, Dennett e Hofstadter, che indicava nel titolo –L’Io della mente- la tesi fondamentale, racchiusa nella domanda secca se l’uomo “ha un cervello” o “è un cervello”. La risposta è la seconda: l’uomo è un cervello. 40 anni dopo, nel 2014, un neuroscienziato illustre, Lamberto Maffei, in un testo dal titolo accattivante, L’elogio della lentezza, spiegava come le aree cerebrali presiedano a tutte le funzioni del nostro essere umani. In particolare, per ciò che qui interessa, alcune presiedono alla funzione del riflettere e del pensare, cui si associa l’espressione linguistica, e altre a quelle dell’impatto sensoriale e della reazione emotivo-pulsionale. Tali funzioni vengono stimolate dall’incontro dell’uomo con il mondo esterno, che può “allenarle” in modo differente. Maffei sottolinea come il tipo di interazione mediatica oggi divenuta abituale, fondata sull’impatto sensoriale, ha dis-allenato le aree cerebrali della “stringa” riflessione-pensiero-linguaggio per rendere particolarmente brillante quella della reattività. Non è certamente un mistero per nessuno che ormai il primato incontrastato è appannaggio dello strumento mediatico in modalità reattiva, la quale è vincente, in qualsiasi settore nel quale l’obiettivo è la visibilità, il “successo” comunque.

La spiegazione di Maffei mette in luce un altro aspetto che si accompagna al primato incontrastato della reattività: la sostituzione del “tempo”, del quale ha bisogno la riflessione, e quindi il pensiero, con l’“a-temporalità” dell’immediatezza, che caratterizza la pura reazione. L’immediatezza dell’impatto prende il posto della capacità riflessiva della mente, costituita dalla stringa temporale passato-presente-futuro. Insomma, dal “pensiero” al “post-pensiero”.

Credo che vi siano qui alcuni elementi, idonei a fornire una spiegazione a due rilievi del Censis: uno stato di paura diffuso e capillare e una sorta di “sonnambulismo”, che interpreto come una specie di sonno della ragione. A questi due dati si aggiunge l’attenzione esclusiva per i diritti individuali, la quale sostituisce anche l’aspirazione primaria al lavoro. Può dirsi, allora, che l’origine è l’allenamento della “testa” a funzionare in modalità supinamente “reattiva” e immediata verso una rappresentazione costantemente “emergenziale” della realtà. Tale abitudine mentale ha dis-allenato la capacità riflessiva, necessaria per vivere consapevolmente l’attualità della nostra condizione esistenziale, drammaticamente segnata dalla difficoltà della situazione geopolitica e dalla frenetica innovazione tecnologico-finanziaria, che si è affermata e va svolgendosi. Insieme, lo stato di costante e mediatica emergenzialità ha fatto venir meno, per un verso, il senso della storia, disabituando a comprendere questo tempo, con le sue specificità, come una delle tante fasi della secolare vicenda umana, e, per un altro, ha fatto spegnere la vocazione al pro-getto, cioè al tempo futuro. Niente passato, niente futuro; non resta che vivere giorno per giorno.

Se la mente ragionasse, vedrebbe due grandi questioni del nostro tempo. La prima: l’affermarsi e rafforzarsi dagli ’90 in poi, e soprattutto nel nostro secolo, del capitalismo in chiave finanziaria, insieme al realizzarsi delle tecnologie digitali nei loro diversi aspetti, fino alla AI di oggi. Due fenomeni che hanno determinato la primazia di potentati tecnologico-finanziari. In termini più asciutti: si è affermato il primato e la potenza della pura moneta, subordinando la “politica economica” degli Stati alle agenzie di rating. Significativo è il titolo, con sottotitolo, di un recente libro (Laterza) di Mariana Mazzucato e Rosie Collington, che recita: Il grande imbroglio. Come le società di consulenza indeboliscono le imprese, infantilizzano i governi e distorcono l’economia.

Secondo. La potenza tecnologico-finanziaria richiede un modello di governo “effettivo” di tipo tecnocratico (quella “democratica” è una narrazione popolare) e meta-statuale. Un tale modello è controinteressato al formarsi di un “vero pensiero”, capace di mettere in forma un autentico modello identitario di società. La sua effettività, infatti, coincide con lo stabilizzarsi di un ambiente umano collettivamente obbediente, ma emotivamente disarticolato, perché orientato dalle paure emergenziali e distratto dall’inseguimento di istanze puramente individualistiche. Una osservazione particolare a proposito della scarsa attrazione per il lavoro: se un manager, il cui successo in termini finanziari comporta anche, spesso, eufemisticamente, “ristrutturazioni aziendali”, riceve per la sua attività, ormai divenuta algoritmicamente asettica, un emolumento abissalmente superiore allo stipendio del lavoratore superstite in fabbrica, ne segue che il lavorare, nel senso antico del termine, perde di valore esistenziale. Ciò che conta è la moneta necessaria per sbarcare il lunario e senza rinunciare alla distrazione del quotidiano, che viene prima. Questa impostazione è comune a quelle generazioni anagrafiche formatesi sotto l’egida di Internet, il quale contiene la soluzione di ogni problema prima ancora che si ponga: niente problemi insolubili e, quindi, niente curiosità, niente ricerca. niente immaginazione. Per questo il sonno è stabile; ma i “sogni…”? Ovviamente un tale quadro assume connotati diversi a seconda dei luoghi umani e professionali e dei contesti operativi. Vi è, tuttavia, un tratto che paradossalmente accomuna questo mondo attuale ed è ciò che il Censis sottolinea; una sorta di solipsismo individualistico, “sonnacchioso”, caratterizzato da una incapacità comune: quella di mettere in forma un tessuto relazionale e sociale dotato di una identità riconoscibile: visione del domani e capacità di costruzione.

                                                                                                                      Bruno Montanari

“Pensiero filosofico vivente”

Dal 22 al 24 ottobre, presso Villa Falconieri (Frascati) si terrà il primo convegno internazionale organizzato dal Collegio di studi filosofici “Pensiero filosofico vivente” in collaborazione con il “Centro studi e ricerche sulla natura, l’umano e l’unità del pensiero”.

Sabato mattina coordinerà i lavori Fabio Bentivoglio, con la prima relazione di Franco Ferrari (ore 9:00) sul rapporto tra il Timeo di Platone e la fisica moderna e la seconda (ore 11.10) dello stesso Bentivoglio, su Pensiero, tecnica, identità nell’epoca della globalizzazione.

I lavori del pomeriggio saranno invece coordinati da Paolo Quintili. La prima relazione (ore 15:00), di Franco Trabattoni, verterà su Poesia, filosofia, immaginazione e ragione in Giacomo Leopardi; la seconda, di Quintili, è intitolata “Un’Aufklärung senza dialettiche: scienze, umanesimo e emancipazione umana”.

Domenica mattina, il dibattito sarà aperto dalla relazione di Silvano Tagliagambe, “La filosofia dialoga con la scienza” (ore 9:00), cui seguirà quella di Fausto Fraisopi, “La sfida complessa della razionalità futura: pensiero speculativo, scienza e umanesimo” (ore 11.10).

Nel pomeriggio, aprirà Paolo Zellini (ore 15:30): “La forza del numero e il circolo vizioso tra continuo e discreto”, cui seguirà la relazione di Alain Berthoz, “Les fondements de la créativité: multiplicité des espaces d’action et géométries du cerveau, vicariance et inhibition”.

Convegno a Venezia: sul confronto fra Gramscismo e Scuola di Francoforte

A Venezia nel pomeriggio di giovedì 19 maggio, nella giornata di venerdì 20 maggio e nella mattinata di sabato 21 maggio 2022, nella Sala Giovanni Morelli del Palazzo Malcanton Marcorà, si svolgerà il convegno internazionale Critica e prassi. Gramscismo e Scuola di Francoforte a confronto, organizzato dal Centro di Teoria critica e politica dell’Università Ca’ Foscari di Venezia.

I lavori saranno suddivisi in quattro sessioni, rispettivamente dedicate: all’analisi dei fascismi, alla ridefinizione del marxismo, alla fortuna delle due scuole, alle diverse interpretazioni e ai loro usi più recenti.

È la prima volta che alcuni tra i maggiori studiosi della materia si concentreranno su un dialogo storico e teorico fra la tradizione gramsciana e quella francofortese, ossia due delle correnti più feconde nell’ambito del pensiero filosofico-politico contemporaneo.

Appello di 34 intellettuali per un nuovo corso culturale

APPELLO DI 34 INTELLETTUALI PER UN NUOVO CORSO CULTURALE

 

La vicenda che ha visto Berlusconi candidato, fino a poco tempo fa unico, a prossimo Presidente della Repubblica in Italia fa temere che ragione e sensibilità siano sul punto di estinguersi. Guardando a quanto accade in queste settimane in Italia, vogliamo esprimere il nostro sdegno e sconforto di fronte all’insensatezza e alla stupidità che come un fiume in piena stanno dilagando tra coloro che governano il paese e tra molti cittadini di ogni credo e idea politica. Non è possibile che non si levi un coro di milioni di persone per fermare questa ennesima barbarie della ragione!

Ma non basta indignarsi. Occorre fare qualcosa. Innanzitutto dobbiamo far conoscere il nostro pensiero in merito a questa inconcepibile situazione. È certamente importante che gli individui e le comunità di uomini e donne esternino il loro senso di disgusto e di rifiuto nei confronti di una tale vergognosa prospettiva. Ma bisogna riflettere e agire al fine di indicare una nuova via, proporre un progetto politico, educativo e sociale radicalmente diverso.

C’è bisogno di un’azione simbolica che esprima la nostra protesta e il rifiuto di essere cittadini di un paese di cui una piccola ma potente casta politica candida, a suo massimo rappresentante istituzionale, il peggiore esempio a cui si possa pensare negli ultimi trenta anni di vita civile; un personaggio che rispecchia al massimo livello la corruzione, il degrado, la volgarità culturale, la barbarie linguistica, la falsità e la più grezza insulsaggine, insomma il declino irreversibile della cultura e della civiltà. È pure inaccettabile che i cosiddetti partiti della “sinistra”, di centro e di qualsiasi altra collocazione politica, ne abbiano discusso invece di rifiutarsi anche solo di considerare una candidatura scellerata, per proporre, invece, una figura di alta statura culturale e civile. Si vedano le «manovre» in corso per portare al Quirinale Mario Draghi, primo rappresentante della casta politico-finanziario-tecnocratica. La vera alternativa che ci sta di fronte non è tra Berlusconi o un suo clone e Draghi, ma tra la crisi e il degrado estremi di un sistema politico e di un modello di civiltà che sta portando al declino della cultura e alla dissoluzione dell’umano e un progetto alternativo per una rinascita reale e profonda della scuola e della vita sociale.

Oltre alle legittime obiezioni di natura giuridica e politica, ampiamente argomentate da insigni costituzionalisti, per comprendere la vicenda politica in atto, c’è da porsi una domanda preliminare, e cioè quale sia il contesto che ha reso possibile la sola “pensabilità” della candidatura di Berlusconi a Presidente della Repubblica. La risposta non è contingente, ma è di natura storica e filosofica. Dal punto di vista storico è noto come dagli anni ’90 la società sia stata riconfigurata integralmente in funzione di una logica aziendalistica e di mercato dal succedersi di governi di diverso colore politico (basti ricordare, in quegli anni, in Italia, le privatizzazioni selvagge che hanno violato l’articolo 41 della Costituzione), in sinergia con lo sviluppo di un apparato tecnologico che ormai prescrive linguaggi e modalità di comunicazione standardizzati e privi di articolazione argomentativa (vedi ad esempio i social inondati da avvilenti vignette circa le note passioni del nostro emerito personaggio, quasi si trattasse di ininfluenti questioni private su cui ironizzare!). Se fin dalla scuola primaria si insegna a coltivare il «successo personale» e la competitività come stella polare dell’esistenza, sempre in funzione della produzione e consumo di merci, con il denaro quale unico criterio di misurazione di tale successo, ebbene il nostro candidato ha tutti i requisiti in regola. Si dirà: è vero, ma ha commesso dei reati. Il punto, però ­– e qui dobbiamo attingere alla filosofia – è che tali reati non sono avvertiti collettivamente come atti che vìolano principi e virtù inderogabili (onestà, dignità, rispetto…), perché quei «reati» sono espressione di forme condivise di arbitrarismo (tutte le inclinazioni individuali sono legittime) e di superamento di limiti giustificati da un contesto di competitività estremo (un po’ di corruzione la si perdona a tutti…). Come non ricordare nel lontano 2013 il documento della banca d’affari americana Jp Morgan (una delle maggiori responsabili delle speculazioni che innescarono la crisi del 2008) in cui si affermava che le Costituzioni europee nate dopo la caduta delle dittature del Novecento erano ormai datate e rappresentavano un vero e proprio intralcio alla possibilità di varare politiche economiche di austerità adeguate ai tempi.

Quello che sta accadendo dunque in questi giorni in Italia in attinenza alla situazione culturale, sociale e politica, attorno all’elezione del nuovo Presidente della Repubblica, è perciò solo la punta di un iceberg che svela una situazione ben più drammatica e preoccupante, che si è incapaci di vedere o che non si vuole vedere: una cecità al contempo della ragione e della volontà. Mentre la scuola di ogni ordine e grado, la cultura in tutte le sue espressioni (dai musei e dalle accademie d’arte ai conservatori di musica e ai teatri), l’intera società sono in preda a un tale degrado materiale e ancor più morale che rischia di produrre una perdita irreparabile del nostro patrimonio antropologico e della nostra memoria storica, la casta politica che governa senza meriti né idee, e i media, ormai mutati a meri portavoce del potere, non trovano nient’altro di cui parlare e su cui scrivere che non sia la candidatura di Berlusconi a prossimo Presidente della Repubblica, o come spartire i finanziamenti speciali dell’UE tra i pochi monopoli del potere economico-finanziario-tecnocratico europeo e mondiale, di cui l’attuale presidente del Consiglio dei ministri Mario Draghi è il massimo esponente ed esecutore, detengono le redini del comando nel nostro paese e che impongono le loro decisioni a tutti i cittadini ignorando le regole di una democrazia realmente partecipativa.

Il progetto di Draghi – e dei monopoli finanziari e poteri forti che lo sostengono –, che contrariamente alle apparenze non è un pensatore-calcolatore e uomo di governo solitario e apolitico, esprime un modo e metodo di pensare, si potrebbe dire una ideologia-religione (cioè che aspira ad essere unica e a incarnare la verità), il cui contenuto e scopo è racchiuso in tre parole chiave: 1/modernizzazione (dove per questo termine s’intende prioritariamente meccanizzazione e digitalizzazione del lavoro e del pensiero); 2/ controllo tecnocratico della e dominio tecnico sulla vita delle persone e della politica, e 3/ normalizzazione della società attraverso l’eliminazione dei soggetti sociali (che ne costituiscono il nervo vitale capace di generare complessità e cambiamenti culturali) e del conflitto (inteso come spazio intersoggettivo che consente di esprimere e confrontare idee e proposte diverse) come forma di emancipazione da diseguaglianze sociali e da asservimenti umani. Il pericolo reale è dunque di veder realizzato, a medio o lungo termine, un modello economico-finanziario-tecnocratico di società e di cultura che mira all’annichilamento di certe conquiste democratiche (e persino costituzionali), come ad esempio l’esautoramento del ruolo del parlamento e di altre istanze significative del dibattito pubblico, e della soggettività sociale, che avrebbe come conseguenza (in parte già in atto) la demolizione delle nostre radici e tradizioni culturali popolari e liberali, e dunque del pensiero critico, prerogativa ed esercizio vitali di un’autentica democrazia, attraverso l’instaurazione di un dominio dei social (cioè della rete) e dei principali mezzi di comunicazione di massa (televisione e giornali).

Intanto, il distacco tra questa casta politico-finanziaria, sempre più arroccata sui suoi privilegi e sempre più incapace di esprimere un progetto di rinascita ideale e culturale per il nostro paese, e la società civile è manifesto e sta diventando abissale. Dobbiamo così prendere atto di una forma di naufragio dello spirito: giudizio frutto non di riflessioni astratte di intellettuali attardati, ma parto della tragica attualità dei nostri tempi.

Su una cosa vorremmo perciò insistere qui e cioè sul fatto che la surreale vicenda del Berlusconi candidato a futuro Presidente della Repubblica rappresenta l’epifenomeno di una più ampia crisi culturale e morale della nostra società. Limitiamoci a sottolinearne due aspetti, che forse presentano una qualche indiretta correlazione.

Il primo riguarda la dimensione politica del mondo in cui viviamo. È innegabile che oggi siamo agli antipodi di quanto scriveva Platone nella Repubblica (circa 2400 anni fa), e cioè che governare significa comprendere il bene collettivo e tradurlo in leggi e atti politici opportuni. «Oggi quelli che la pensano in questo modo o sono assai isolati e silenziosi o refrattari ad apparire nei media. Per loro, si potrebbe parafrasare il titolo (Appaio dunque sono) e dire – penso e quindi non appaio. La voce dei pensatori che non appaiono è assente nell’Agorà, in cui risuona invece incessantemente quella dei nuovi intellettuali, le cui opinioni su ciò che è buono e ciò che è cattivo alimentano un dibattito reiterativo che non può, e forse non vuole, incidere sulla realtà. Si tratta di opinioni per lo più prevedibili, ‘di destra’ o ‘di sinistra’ per semplificare, di volta in volta destinate a essere condivise da ben individuate parti della società, che in quelle volentieri si riconoscono e si rinforzano. Quello che manca è l’elaborazione di un progetto politico a tutto tondo, magari anche impopolare, rivolto in prima istanza ai governanti di cui gli intellettuali dovrebbero farsi mediatori con i cittadini in un lavoro che non esiterei a definire educativo» (Lamberto Maffei, «Il resistibile e triste trionfo dell’intellettuale apparente», l’Avvenire, 21 maggio 2021).

Il secondo riguarda la pandemia, che certamente ha messo alla prova ancora di più le precarie condizioni della scuola e della ricerca, dove si affaccia la continua digitalizzazione, concepita illusoriamente come progresso. E’ auspicabile che nella nostra cultura si seguano le indicazioni di letterati, come Leopardi e altri dopo di lui, e anche scienziati e filosofi che hanno tentato il dialogo tra le cosiddette due culture e hanno riflettuto su come realizzare una ricomposizione tra la cultura scientifica e quella umanistica, consci in realtà del fatto che la scienza e le lettere sono profondamente legate e rappresentano due approcci complementari, due momenti connessi dello stesso processo conoscitivo. Osserva ancora Lamberto Maffei: «Pur nell’ammirazione e desiderio di conoscenza delle nuove scoperte scientifiche io guardo con timorosa precauzione al fenomeno della pandemia tecnologica e ho una biologica naturale paura di trovarmi a vivere in una società di tecnici auto-robotizzati che hanno trovato l’algoritmo del nuovo bene collettivo basato su un’analisi accurata dei big data. Se il pensiero, il senso morale e per dir così l’anima, fossero rimpiazzati da meravigliosi, efficienti algoritmi capaci di migliorare il benessere dei cittadini, l’aggettivo umano potrebbe essere cancellato dal vocabolario e la biologia dovrebbe constatare una diminuzione di biodiversità».

Noi pensiamo perciò che occorra operare per un progetto educativo e culturale radicalmente nuovo che collochi la scuola e la conoscenza in cima alla scala dei valori e al cuore di un nuovo modello di società. Le nuove tecnologie digitali non possono essere l’obiettivo di un tale progetto, ma solamente uno fra i tanti strumenti che l’accompagnano entro certi limiti pedagogici ed etici; esso deve invece essere focalizzato sull’educazione, la conoscenza e la creatività, vere fonti di ogni possibile progresso scientifico e culturale di un paese. Qui risiede il fulcro di una visione nuova degli individui e della società: non degli esseri senza più qualità umane, privi di autonomia e di capacità di scegliere, quindi asserviti ad altri, più potenti e furbi, facili prede del falso miraggio del denaro e del successo, schiavi della propaganda dei media e della pubblicità del consumo, ma uomini e donne che, con i loro limiti e le loro contraddizioni che li arricchiscono facendoli più umani, aventi al contempo diritti e doveri verso sé stessi e verso gli altri, coltivano con onestà e lealtà, ascoltando e riflettendo, una passione per lo studio e il lavoro, una vocazione per il bene comune, per formarsi in quanto esseri umani consapevoli e liberi e per migliorare la società a cui appartengono.

 

Questa lettera vuole essere un appello alle coscienze dei cittadini italiani, di qualsiasi opinione politica e ceto sociale, che credono nel ruolo faro della scuola, della scienza delle lettere e delle arti, ma ci auguriamo possa fungere anche da volano per una rinascita di una certa umanità e della cultura del Paese.

C’è urgente bisogno di indicare una prospettiva a migliaia di giovani, di immaginare un orizzonte diverso per chi verrà dopo di noi. Se la ragione e la riflessione sono necessarie per uno studio ed esame critico dei fenomeni e delle situazioni reali, l’immaginazione e la volontà lo sono per costruire un futuro diverso.

 

 

 

PRIMI FIRMATARI

 

Sergio ALBEVERIO (Accademia Nazionale dei Lincei/ Università di Bonn)

Eleonora ALFANO (Università di Roma «Tor Vergata»/Paris 1-Sorbonne)

Novella BELLUCCI (Università di Roma «La Sapienza»)

Claudio BARTOCCI (Università di Genova)

Fabio BENTIVOGLIO (Liceo U. Dini, Pisa)

Luciano BOI (EHESS/Collège International de Philosophie, Paris)

Florian BOLLOT (Pianista e compositore, Paris)

Alberto BRIGHENTI (Politecnico Torino/CEA Paris)

Ugo BRUZZO (Trieste, SISSA)

Marco CAMPANA (Artista, Ravenna)

Enrico CASTELLI GATTINARA (Università di Roma «La Sapienza»)

Antonio CECERE (Università di Roma «Tor Vergata»)

Antonio CORATTI (Università di Roma «Tor Vergata»)

Umberto CURI (Università di Padova)

Roberto FINELLI (Università Roma Tre)

Saverio FORESTIERO (Università di Roma «Tor Vergata»)

Françoise GRAZIANI (Università di Corte)

Ezio LACONI (Università di Cagliari)

Thierry LEHNER (CNRS e ENS, Parigi)

Carlos LOBO (Archives Husserl, Paris)

Giuseppe LONGO (ENS, Paris)

Chiara MAGNI (Università di Roma «Tor Vergata»)

Lamberto MAFFEI (Scuola Normale Superiore e Accademia Nazionale dei Lincei)

Maria Laura MONGILI (Università di Cagliari)

Silvia MORANTE (Università di Roma «Tor Vergata»)

Laura PAULIZZI (Università di Roma «Tor Vergata»)

Gaspare POLIZZI (Università di Pisa)

Paolo QUINTILI (Roma «Tor Vergata»/Collège International de Philosophie, Paris)

Carlo Alberto REDI (Accademia Naz. dei Lincei/Comitato Etica Fondazione Veronesi)

Giancarlo ROSSI (Roma «Tor Vergata»/INFN)

Silvia ROMEO (Artista, Siena/Paris)

Luca VARGIU (Università di Cagliari)

Giuseppe VITIELLO (Università di Salerno /INFN)

Luigi ZUCCARO (Milano, Fondazione Progetto Arca)

 

La libertà, la morte, lo Stato. Filosofie e ideologie della questione pandemica

di Emiliano Alessandroni

1. Libertà 2. Società 3. La meditatio mortis
4. Cospirazionismo e complottismo 5. Il quadro internazionale

1. Libertà

Pochi esempi sembrano così eloquenti, per quanto concerne le influenze esercitate dall’ideologia sulla semantica, di ciò che nella storia del linguaggio è accaduto alla parola “libertà”, oggi al centro di un acceso dibattito filosofico e politico sul valore delle misure anti-pandemiche. Questa parola è stata infatti evocata, nel corso della storia, all’interno delle circostanze più svariate e di rivendicazioni fra loro persino contrapposte. “Libertà!” gridavano, ad esempio, gli schiavi neri in rivolta a Santo Domingo e negli Stati Uniti del Sud. Ma “libertà!” gridavano anche i proprietari di schiavi che negli Usa agognavano la secessione dal Nord per continuare a perpetrare la schiavitù su base razziale e chiedevano che lo Stato, il governo centrale, non si intromettesse nei propri affari commerciali.
Nell’ambito della modernità occidentale, in particolar modo, vediamo spesso incontrarsi e non molto meno spesso scontrarsi, almeno tre idee generali di libertà.
1. Una prima idea collega tre orientamenti di pensiero differenti: tradizione anarchica, liberale e socialdarwinista. La parola “libertà” assume, all’interno di essi, configurazioni fra loro eterogenee, riconducibili tuttavia a una sorgente comune: la sorgente dell’arbitrio, della spontaneità, del laissez faire, dell’assenza di vincoli, del fare ciò che si vuole. Come acerrimi nemici di questa libertà vengono allora percepiti lo Stato in quanto tale, la norma, le regolamentazioni politiche nazionali; tutti bersagli polemici, non a caso, di autori fra loro pur così distanti come Michael Bakunin, Friedrich von Hayek ed Herbert Spencer. La regolamentazione della vita pubblica da parte dell’apparato giuridico costituisce di per sé un attacco alla libertà, una distorsione dell’ordine naturale e spontaneo delle cose. Ma questa celebrazione del naturale e dello spontaneo, all’interno di un mondo in cui i rapporti di forza sul piano ideologico, politico ed economico risultano squilibrati, non può che tramutarsi in una legittimazione del privilegio e dell’oppressione. Tale visione della libertà, d’altro canto, risulta meramente formalistica: a essa sembra non competere alcun contenuto specifico o il contenuto specifico che di volta in volta questa presunta forma vuota assume viene presentato come irrilevante. Così alla “libertà” può essere associato ogni contenuto di volontà: chi vuole il Green Pass, chi non lo vuole, chi vuole curare i malati negli ospedali con i riti magici, chi vuole che non lo faccia, chi vuole uccidere i cinesi, chi vuole sparare ai gommoni, libertà potrebbe essere a questo punto tutto…e quindi nulla. Nulla, soprattutto, in grado di trasformare e riequilibrare in senso più inclusivo e universalistico i rapporti sociali vigenti.
Come che sia, aggrappati a questa visione formalistica della libertà, la tradizione anarchica, quella liberale e quella socialdarwinista, talvolta in maniera ibrida, rivivono in Italia nelle rivendicazioni di Giorgio Agamben, dei Wu Ming, di Diego Fusaro, di Massimo Cacciari, di Carlo Lottieri, di Nicola Porro, di Vittorio Sgarbi, di Giuseppe Cruciani, di Matteo Salvini, di Giorgia Meloni, di Roberto Fiore, dei manifestanti di Trieste, di Enrico Montesano e di molti altri; tutti, sia pur nella loro diversità, impegnati a denunciare nell’introduzione del Green Pass una deriva autoritaria del paese e un feroce attacco alla libertà.
2. Una visione non meno formalistica di quella appena osservata affligge tuttavia, a ben vedere, anche quel concetto di libertà che incontriamo nella tradizione contrattualistica (in Rousseau ad esempio) e che per certi versi ha finito poi per penetrare all’interno della concezione liberaldemocratica (grazie soprattutto alle spinte di un movimento operaio e socialista che ha premuto per cancellare dal suffragio e dai diritti politici quelle clausole di esclusione e quelle restrizioni censitarie che il protoliberalismo non soltanto difendeva ma apertamente teorizzava): “la libertà di ognuno”, è diventato ormai slogan comune, “finisce dove comincia quella degli altri”.
Si tratta ancora una volta, dicevamo, di una concezione che riduce la libertà a una vuota forma: a essa sembra non competere infatti nessun contenuto specifico, nessuna volontà razionale, ma soltanto la volontà del singolo nel suo arbitrio particolare. Il carattere contraddittorio di questa concezione emerge dal fatto che ognuno, ogni singolarità, reclama per sé stessa una libertà che spesso si rivela inconciliabile con quella altrui. Non è un caso che a questo principio (“la tua libertà finisce dove comincia la mia”) si sono richiamati sia coloro che legittimavano le misure anti-pandemiche, sia coloro che le respingevano. Ognuno dei due fronti chiedeva all’altro di rinunciare alla sua rivendicazione affinché la propria libertà e il proprio diritto venissero rispettati e garantiti. Questo concetto di libertà, però, non ci permette di capire da quale parte stesse la ragione.
3. A fare luce sul problema e a sciogliere l’impasse, può intervenire allora la tradizione hegelomarxista, per la quale la libertà non è né l’arbitrio (ovvero il “fare ciò che si vuole”) né la mediazione degli arbitri (ossia la mediazione dei diversi “fare ciò che si vuole”). Per essa la libertà è un contenuto che si intona con la razionalità del mondo e l’interesse universale. Libero può definirsi allora quell’individuo che viene posto nelle condizioni di desiderare per sé ciò il cui conseguimento costituisce al tempo stesso un’acquisizione universale. E non è tutto: non è infatti sufficiente la convergenza fra il desiderio particolare e l’interesse universale, è necessario che tale convergenza si riempia di coscienza, di sapere, che i singoli uomini diventino cioè consci della coincidenza di contenuto fra il loro desiderio soggettivo e il bene del genere umano.
Nella filosofia del diritto Hegel conferisce ampia legittimazione al “diritto di proprietà”. Tuttavia, nella situazione in cui un povero sul punto di morire di fame commette un furto (e dunque una violazione del diritto di proprietà) al fine di garantirsi la sopravvivenza, sopraggiunge in quel caso il Notrecht, il “diritto del bisogno estremo”.
Accade allora che il “diritto di proprietà” entra in conflitto con il “diritto del bisogno estremo”, e di fronte a questa collisione il primo dei due finisce, secondo il filosofo tedesco, in secondo piano.
Perché? – potremmo domandarci. Perché, ad esempio, Hegel non afferma il contrario, come fanno i classici del pensiero liberale, e cioè non sostiene che il cosiddetto “diritto del bisogno estremo” resta in ogni caso subordinato al “diritto di proprietà”?
La spiegazione è ben presto data. Perché la violazione del “diritto di proprietà” costituisce sì una violazione della persona (del proprietario in questo caso), ma una violazione parziale, limitata cioè a quella data cosa (o sfera) di cui il proprietario viene privato. Di contro, la violazione del “diritto del bisogno estremo”, diventa invece una violazione della persona ben maggiore della violazione del “diritto di proprietà”; diventa infatti una violazione totale. E se per Hegel la schiavitù è espressione di un “delitto assoluto”, per ciò che implica un potere assoluto di vita o di morte da parte del proprietario di schiavi nei confronti del proprio schiavo, allora il “diritto alla vita” costituisce un “diritto assoluto” che va anteposto a ogni altro diritto. Tutto fuorché suscettibile di avvicinarsi a uno Stato etico risulta allora quello Stato, secondo il filosofo tedesco, che relega in secondo piano la difesa della libertà di esistenza e il diritto alla vita.
Rimane a questo punto aperto il quesito su chi, nel corso della presente pandemia, una tale libertà di esistenza e un tale diritto alla vita li abbia maggiormente difesi, su chi vale a dire si sia impegnato a garantire la libertà più universale, tenendo in debito conto proprio quel monito di Hegel secondo cui, «quando si parla di libertà, bisogna fare sempre attenzione che [in luogo di interessi universali] non siano in realtà interessi privati quelli di cui si sta parlando» [ref] Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Weltgeschichte, trad. it., Lezioni sulla filosofia della storia, a cura di Giovanni Bonacina e Livio Sichirollo, Laterza, Bari 2003, p. 350.[/ref].

2. Società

Abbiamo posto libertà e diritto al centro di queste considerazioni, ma affinché questi due valori universali e inestricabili siano garantiti, è necessario che sia garantita anche l’esistenza della società. Nello stato di natura, infatti, non esiste il diritto: a regolare i conflitti che sorgono fra gli esseri viventi è essenzialmente la forza. Ma l’uomo costituisce un essere vivente che, oltre alla natura biologica, vanta anche una “seconda natura”, a cui spetta il compito di distinguerlo da tutti gli altri esseri viventi. Sicché la più intima specificità dell’uomo è la specificità sociale: la società è ciò che rende ogni essere umano essenzialmente ciò che è, l’anima che lascia impresso il proprio sigillo nei contenuti di tutta la sua vita. Qualunque essere umano che voglia rivendicare un diritto o una libertà è dunque costretto intimamente a riconoscere il valore della società (che è altra cosa dal conferire legittimazione a qualunque società specifica). E che cos’è la società se non una regolamentazione, attraverso un complesso di norme, della vita collettiva?
Ma un complesso di norme, va tenuto conto, limita e indirizza le volontà, traccia i confini e imprime direzione alla galassia dei differenti “far ciò che si vuole”. È soltanto attraverso questa gamma di limitazioni e stimoli normativi che la libertà e il diritto possono trovare realizzazione. Infatti, non potrebbero esistere diritti se non esistessero anche doveri e divieti. Naturalmente, ammettere l’imprescindibilità di doveri e di divieti per l’esistenza di diritti, non significa legittimare ogni dovere e ogni divieto specifici, così come, d’altro canto, ammettere l’imprescindibilità dei diritti non equivale a legittimare ogni diritto determinato (il diritto di proprietà sull’essere umano, ad esempio, il diritto di proprietà sullo schiavo, è stato per fortuna, a suon di lotte e rivolte servili, giuridicamente e culturalmente delegittimato). Resta tuttavia che l’esistenza di doveri e di divieti costituisce la condizione necessaria per l’esistenza stessa dei diritti. Quando vengono rifiutate le vaccinazioni, allora, declamando l’inaccettabilità del fatto che lo Stato imponga un obbligo all’individuo, quando viene rifiutato il Pass vaccinale o di buona salute per accedere agli edifici a uso pubblico con l’argomentazione che l’imposizione di divieti da parte dello Stato costituisce una lesione della libertà individuale, si stanno inconsapevolmente delegittimando i requisiti minimi, le condizioni fondamentali nelle quali soltanto l’individuo può disporre di diritti e beneficiare della libertà.
Lo stesso dicasi per il concetto di “biopolitica”: lungi dal costituire il luogo della manipolazione, della sottrazione dei corpi dal terreno della libera propensione naturale, essa costituisce piuttosto l’essenza di quella “seconda natura” (di cui in modo diverso hanno parlato sia Hegel che Leopardi) senza la quale l’uomo non sarebbe uomo. Certo, come nei casi appena osservati, la legittimazione della biopolitica non implica la legittimazione di tutte le sue varianti: è giusto e sacrosanto denunciare e combattere quelle biopolitiche che ostacolano i processi di emancipazione sociale e soffocano le spinte propulsive verso l’acquisizione di diritti. Ma è altresì fondamentale non perdere di vista la dialettica che si sviluppa fra le diverse tipologie di biopolitica, i conflitti che si determinano fra una biopolitica emancipatrice e una biopolitica de-emancipatrice, fra biopolitiche progressive e biopolitiche regressive, non perdere di vista il fatto che la biopolitica in quanto tale resta in ogni caso il terreno su cui soltanto la libertà può darsi, il terreno che esprime la più specifica essenza umana, la conseguenza inevitabile dell’essere essenzialmente l’uomo, come evidenziava Aristotele, uno zoon politikon.
Un punto va dunque tenuto fermo: non sono mai esistiti, né mai esisteranno, libertà e diritti senza biopolitica. Nel Quaderno 22, Antonio Gramsci ci ha lasciato riflessioni importanti sul potenziale di libertà (e con ciò si intende qui anche libertà del corpo), contenuto nella biopolitica. E benché non abbia utilizzato esplicitamente questo termine ha indubbiamente alluso al fatto che tutta la liberazione del corpo conseguita dall’essere umano nel corso della sua storia, la liberazione di una molteplicità di movimenti muscolari dalla gabbia naturale nella quale erano inizialmente ingessati, è stata un processo educativo ed è stata essenzialmente una questione di biopolitica.
Del tutto privi di senso storico si dimostrano invece gli accostamenti fra il Pass vaccinale o di buona salute e le misure di despecificazione naturalistica o etnico/razziale in vigore nella Germania nazista. Accostamenti che hanno giustamente suscitato l’indignazione della senatrice Liliana Segre, che, internata da bambina nel campo di concentramento di Malchow, poi fortunatamente liberato dall’Armata Rossa, ha vissuto in prima persona tutto l’orrore delle leggi razziali.
D’altro canto, se proprio un accostamento con la Germania nazista e la despecificazione naturalistica vogliamo tracciarlo, questo più che riguardare l’obbligo vaccinale o il Green Pass in sé, chiama piuttosto in causa proprio il rifiuto delle misure antipandemiche. Quando si partisse almeno, come nella maggior parte dei casi, dal presupposto che il virus sia reale, come sono stati reali i morti[ref] Certo, alcuni sostengono che il numero di morti sia stato gonfiato e che siano stati rubricati come “morte per Covid-19” dei decessi avvenuti in realtà per altre cause. Costoro tuttavia dimenticano sempre di tenere conto delle “morti indirette per Covid-19”, che non vengono registrate come “morti per Covid-19”: durante il picco di contagi infatti, gli ospedali erano costipati di malati e le terapie intensive così piene da scoppiare. Quella situazione ha impedito le cure ospedaliere a molte altre persone che soffrivano di altri disturbi e che sono decedute per impossibilità di ottenere le cure adeguate. La causa indiretta del loro decesso è stata il Covid-19, eppure non essendo stata questa la causa diretta, non sono state registrate come “morti da Covid-19”.  [/ref], e non una semplice montatura massmediatica di dimensioni planetarie, quando si ammettesse in qualche modo la letalità del Covid-19, quale significato potrà assumere il rifiuto delle misure di contenimento se non una sorta di una più o meno conscia adesione alle concezioni socialdarwiniste ed eugenetiche? È questo invito al “convivere con la morte”, a non avere paura della morte, ad accettare la selezione naturale del più adatto, a considerare come pacifico e ineluttabile l’eliminazione delle figure umane geneticamente più fragili, che mostra oggi punti di contatto con quel terreno discorsivo da cui l’ideologia nazista ha potuto spiccare il salto.

3. La meditatio mortis

La diffusione della pandemia e le sue tragiche conseguenze hanno anche alimentato una riflessione sul tema della paura e della morte: «La nuda vita – e la paura di perderla – non è qualcosa che unisce gli uomini, ma li acceca e separa»[ref]G. Agamben, Chiarimenti, Quodlibet 17-03-2020, https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-chiarimenti.[/ref] , aveva scritto Giorgio Agamben, tanto che «sulla paura di perdere la vita si può fondare solo una tirannia»[ref]G. Agamben, Riflessioni sulla peste, Quodlibet 27-03-2020, https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-riflessioni-sulla-peste. [/ref]. E su “La Verità”, già Marcello Veneziani: «Il potere regge sulla paura, lo diceva Hobbes e in modi diversi Machiavelli. E lo dicevano gli antichi prima di loro. E la paura è sempre, alla fine, paura di morire»[ref]M. Veneziani, Il pericolo di una dittatura sanitaria, La Verità, 15/03/ 2020.[/ref]. Ecco allora che una società che adotta le misure antipandemiche, come lockdown e coprifuoco, si rivela «una società vigliacca che ha paura anche della propria ombra e rinuncia a vivere pur di salvare la vita», una società suscettibile di distruggere le nostre civiltà millenarie, quelle nostre «civiltà tradizionali» che tendenzialmente non rifuggono, ma «addomesticano il dolore, la morte, la vecchiaia, la solitudine» rendendole «familiari» e inserendole «in un ordine naturale e soprannaturale del mondo, in un rito e in una visione religiosa». La nostra società al contrario, che va sempre più “cinesizzandosi” e “comunistizzandosi”, disgraziatamente «allevia, rinvia, nasconde ed espelle il dolore, la morte, la vecchiaia e la solitudine, grazie alla tecnologia, alla medicina, al benessere, alle distrazioni»[ref]M. Veneziani, Fuga in massa dal dolore, Panorama n.9, 2021.[/ref].
Dietro le spalle di Veneziani agisce evidentemente il pensiero di un filosofo a lui molto caro: in una conferenza tenuta nel 1914 sul tema “La filosofia della guerra”, Giovanni Gentile, di lì a poco ministro dell’istruzione del prossimo governo fascista, celebra il primo conflitto mondiale come un’imperdibile occasione per l’anima umana di purificarsi attraverso il dolore.
Ma la sua posizione non è isolata: è in questo contesto che il tema della meditatio mortis conosce la sua massima espansione. In una lettera alla madre, Max Weber esprime il proprio rammarico per non potere vivere personalmente l’esperienza del fronte: «essere all’altezza dell’orrore della guerra…questo è autentico esser uomini», affermava. La moglie Marianne decanta a sua volta «i tratti dei soldati in congedo…vigilanza interiore, severa responsabilità e le esperienze vissute nella vicinanza alla morte»[ref]Cfr. Losurdo, p. 11.[/ref] . E secondo Husserl, nel 1917, ancora in pieno conflitto bellico, «la situazione critica e la morte sono oggi gli educatori…La morte si è di nuovo conquistato il suo sacro diritto originario». D’altro canto, nel 1915, Sigmund Freud si esprimeva in questi termini:

La vita si impoverisce, perde d’interesse se non è lecito rischiare quella che, nel suo gioco, è la massima posta, e cioè la vita stessa…La tendenza a escludere la morte dal libro maestro della vita ci ha così imposto molte altre rinunce ed esclusioni. Pure il motto anseatico diceva: Navigare necesse, vivere non necesse. Navigare è necessario, vivere non è indispensabile!

È la guerra per Freud che ha ridestato la vita dal suo pavido sonnambulismo: «la guerra doveva spazzar via questo modo convenzionale di considerare la morte…E la vita è nuovamente divenuta interessante, e ha ritrovato tutto il suo contenuto»[ref] Ivi, p. 13.[/ref]. Analoga anche la posizione di Wittgenstein che, arruolatosi volontario al fronte, parla della vicinanza alla morte come ciò che potrà infondergli la luce della vita. Spesso nel celebrare la guerra, l’esperienza della morte e il coraggio di fronte ad essa come nutrimenti fondamentali dello spirito, i filosofi tedeschi indicavano negli Stati Uniti, nella Francia e nell’Inghilterra (ovvero nei paesi in conflitto con la Germania), i luoghi infernali in cui avevano trionfato il gretto materialismo, il naturalismo, l’attaccamento alla nuda vita, di contro ovviamente alla propria nazione che, impavida di fronte alla morte, consacrava il valore dell’anima e della spiritualità. Si tratta chiaramente di un’interpretazione ideologica del conflitto mondiale. Ma un’interpretazione che aveva finito con l’attecchire anche presso i propri nemici. Una medesima lettura manichea la ritroviamo infatti, ad esempio, anche nelle parole dell’allora Primo Ministro francese Clemenceau. Diametralmente opposto risulta tuttavia il giudizio, che deride il culto della morte ravvisato presso i tedeschi:

È proprio degli uomini amare la vita. I tedeschi non hanno questo impulso…Al contrario, sono colmi di una morbosa e satanica nostalgia per la morte. Come amano la morte, questi uomini! Frementi come in stato d’ebrezza e con un sorriso estatico, guardano ad essa come a una sorta di divinità…Anche la guerra è per loro un patto con la morte.

Anche se, dobbiamo precisare, un filosofo come Wittgenstein rivedrà le proprie posizioni e, prima ancora della fine del conflitto, si renderà conto che la guerra, anziché un momento di maturazione spirituale attraverso la meditatio mortis, costituisce a ben vedere «la completa vittoria del materialismo e il tramonto di ogni sensibilità per il bene e il male», i temi del dolore, della vita biologico/materiale, della morte, della sicurezza, della paura ecc., costituiscono i pilastri centrali, i fulcri semantici, della Kriegsideologie[ref] Su tutto il dibattito relativo alla meditatio mortis, cfr. D. Losurdo, La comunità, la morte, l’Occidente. Heidegger e l’ideologia della guerra, Bollati Boringhieri, 2001, pp. 3-23.[/ref].
Essi troveranno un riscontro anche in pensatori come Ernst Jünger e Karl Jaspers. Quest’ultimo in particolar modo, affermando che il rischio della vita e la vicinanza alla morte sono preferibili all’asservimento, celebrava il duello (pratica al tempo ancora vigente), come strumento di regolamentazione dei conti fra gli individui e come momento in cui l’uomo, mettendosi in gioco, poteva acquisire la piena autocoscienza. Ancora nel 1932 scriveva: «La vita autentica è diretta alla morte, la vita più povera è diretta all’angoscia di fronte alla morte»[ref]Cfr. Ivi, p. 27.[/ref]. È nel solco di queste argomentazioni che compongono la variegata costellazione della Kriegsideologie, che Heidegger matura le sue convinzioni sull’angoscia, la paura e l’Essere-per-la-morte, fondamento ontologico quest’ultimo dell’Esistenza autentica. Non è un caso che egli indica proprio nella prima guerra mondiale, l’evento che ha messo in discussione l’Esistenza inautentica, la vita banausica e borghese del “Si” impersonale, dell’uomo massificato e privo del coraggio necessario per attraversare l’angoscia di fronte alla morte, dell’uomo filisteo e mediocre che vuole evadere dalla zona pericolosa dell’esistenza. E questi temi ritornano in Heidegger, con una serie infinita di connessioni, nel corso della seconda guerra mondiale. Ed è proprio ad Heidegger che Agamben si richiama esplicitamente nel condannare la paura come un costrutto sociale, come il tratto distintivo di quella vita inautentica che contraddistingue la modernità:

La paura è la dimensione in cui cade l’umanità quando si trova consegnata, come avviene nella modernità, a una cosalità senza scampo. L’essere spaventoso, la «cosa» che nei film del terrore assale e minaccia gli uomini, non è in questo senso che una incarnazione di questa inaggirabile cosalità.

 

Di qui anche la sensazione di impotenza che definisce la paura. Chi prova paura cerca di proteggersi in ogni modo e con ogni possibile accorgimento dalla cosa che lo minaccia – ad esempio indossando una mascherina o chiudendosi in casa –, ma questo non lo rassicura in alcun modo, anzi rende ancora più evidente e costante la sua impotenza a far fronte alla «cosa». Si può definire, in questo senso, la paura come l’inverso della volontà di potenza: il carattere essenziale della paura è una volontà di impotenza, il voler-essere-impotente di fronte alla cosa che fa paura[ref]G. Agamben, Che cos’è la paura?, Quodlibet 20-07-2020, https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-che-cos-u2019-a-paura. [/ref].

È tuttavia curioso che nel condannare la paura, e nello specifico la paura della morte, come prigione della vita, Agamben rivolga la sua condanna unicamente alla paura del virus e mai a quella del vaccino. Perché, potremmo domandarci, la paura del vaccino dovrebbe essere meno “volontà di impotenza” della paura del Covid-19? Perché tanto livore contro chi, a suo avviso, diffonde la paura della pandemia ma non una parola spesa su quelle piattaforme di orientamento reazionario come “Byoblu”, “Informare per Resistere” e “Imola Oggi” che, già sostenitrici delle strampalate teorie sul Piano Kalergi, alimentano il complottismo storico e, a colpi di notizie false o distorte, creano e diffondono ad arte il terrore per le terapie di immunizzazione? Dove finisce l’invito di Agamben a superare la paura, a recuperare l’heideggeriano coraggio di fronte alla morte, quando si tratta di vaccinazioni?
Più che ad Heidegger, in realtà, e ai discorsi dei vari esponenti della Kriegsideologie, ci sembra qui più opportuno riesumare questa considerazione di Rosenzweig che incontriamo ne La stella della redenzione:

La filosofia che davanti [all’uomo] esalta la morte come propria prediletta e come la nobile occasione per sottrarsi alle angustie della vita, sembra soltanto prendersi gioco di lui. L’uomo sente fin troppo bene di essere condannato alla morte, ma non al suicidio[ref]Cfr. Losurdo, cit., p. 180.[/ref].

È in questi termini che Rosenzweig si fa beffe della Kriegsideologie, di tutta la filosofia che inneggiava all’eroismo, al sacrificio, che esortava a sfidare la morte. Si può allora affermare oggi, sulla scorta di queste considerazioni, come la sostanziale sollecitazione a non temere la perdita della vita, a respingere le misure antipandemiche, a non avere paura del virus (che, si tenga presente, ha già ucciso allo stato attuale oltre 5 milioni di persone – sono le cifre di un olocausto) mentre si alimenta invece la paura nei confronti del vaccino (qui il “coraggio di fronte alla morte” non viene più evocato, nonostante il vaccino costituisca lo strumento finora più adeguato, fra quelli a disposizione, per evitare un’impennata dei decessi e altri tipi di restrizioni), sia, con le parole di Rosenzweig, più che “la nobile occasione per sottrarsi alle angustie della vita”, ovvero alle angustie della “nuda vita”, una vera e propria “condanna al suicidio”.

4. Cospirazionismo e complottismo

L’assenza, o quantomeno la carenza, in Occidente, di una sinistra sociale e autenticamente internazionalista, in grado di stimolare processi di emancipazione e indirizzare la rabbia dei ceti subalterni verso rivendicazioni di carattere universalistico, anziché verso particolarismi, corporativismi e arroccamenti identitari, ha fatto registrare, sul piano del dibattito, una complessiva scarsità di quegli strumenti analitici legati alla sua tradizione culturale. In luogo del materialismo storico e della dialettica, propensi a vagliare le connessioni esistenti fra interessi e pratiche discorsive, ma anche ad analizzare i rapporti di forza economici e politici su scala planetaria, nonché i diversi conflitti di potere, si è affermata allora una tendenza deteriore e più accessibile a quell’“analfabetismo di ritorno” già denunciato a suo tempo da Tullio De Mauro (e che comporta naturalmente anche un preoccupante analfabetismo politico): il complottismo storico. Tutto viene semplificato e ogni fenomeno reale ricondotto alla volontà di pochi soggetti (talvolta nominati, altre volte indicati generalmente come “poteri forti”) che tesserebbero la tela degli avvenimenti con un’impeccabile precisione, con una meticolosità degna di un dio. L’analisi del quadro politico, lo studio della storia, l’esame delle linee tendenziali dei vari conflitti, vengono gettati nella pattumiera, nulla serve più a niente. L’intero quadro politico/sociale è divenuto magicamente semplice e ognuno può capirlo con facilità: tutto ciò che è, è così perché alcune persone, per perseguire i propri interessi, vogliono che sia così. Qualcuno arriva a teorizzare che l’intera storia del genere umano altro non sarebbe che il disegno della volontà di pochi soggetti che si tramandano il mondo di generazione in generazione, giocando con le nostre vite, come fossimo marionette di cui soltanto loro, di padre in figlio, controllano i fili. Certo, è il trionfo della semplificazione, ma non solo. Sul piano filosofico è la morte della dialettica e l’apoteosi del soggettivismo: nessuna dialettica delle volontà e nessuna dialettica del potere. Proprio come la biopolitica così anche la volontà e il potere vengono pensati come fossero sostanze uniformi e privati della loro dinamica interna: i conflitti tra le biopolitiche, i conflitti tra le volontà e i conflitti tra i poteri (ancorché fra loro non equipollenti), scompaiano come per incanto trasformando dunque “biopolitica”, “volontà” e “potere” in entità astratte. Ma questa morte della dialettica e questa apoteosi del soggettivismo significano sul piano più prettamente politico la rivalsa della tradizione controrivoluzionaria. È in essa che incontriamo la facile sostituzione del “materialismo storico” con il “complottismo storico” come criterio con cui fornire le spiegazioni degli avvenimenti. Così ad esempio, rimuovendo le “contraddizioni oggettive” fra lo sviluppo dello spirito e le istituzioni politiche (Hegel) e quelle fra lo sviluppo delle forze produttive e i rapporti sociali di produzione (Marx), la Rivoluzione Francese viene spiegata dagli ideologi della Restaurazione come il complotto di un pugno di agitatori, dalla natura malvagia, folle e malata. Una simile dinamica si ripresenta con lo scoppio della Rivoluzione d’Ottobre. Nel mondo liberale comincia a essere agitato lo spettro del “complotto ebraico/bolscevico”: i tipografi della corona inglese stampano “I Protocolli dei Savi di Sion” (poi rilanciati da Hitler per presentare le proprie persecuzioni antisemite come una legittima difesa di fronte a un’incombente e terribile minaccia) e Winston Churchill parla apertamente di una «cospirazione mondiale per il rovesciamento della civiltà». La cultura reazionaria denuncia il grave pericolo in cui si trovavano le tradizioni, le identità nazionali, le peculiarità territoriali a causa dell’ascesa di comunisti ed ebrei sulla scena storica. Sì, le culture millenarie delle nazioni erano ormai sul punto di soccombere per colpa della «repubblica internazionale» voluta dai bolscevichi e dall’ebraismo apolide. L’ebreo viene denunciato come freischwebend, privo di radici e di storia, incarnazione di uno spirito mercantile e utilitarista («un parassita e un autentico mercante» lo definisce Carl Schmitt) e incline a entusiasmarsi per parole torbide come «internazionale». Dunque ebrei e comunisti, facce di una stessa medaglia, costituiscono gli artefici di un enorme complotto: un complotto di dimensioni planetarie che, come denunciava ancora Carl Schmitt, va da «Rothschild» a «Karl Marx»[ref]Su ciò cfr. Losurdo, cit. pp. 93-111[/ref]. Il nazismo si presentava allora come un eroico atto di resistenza, come una difesa della libertà minacciata da questa gigantesca cospirazione. Così come un atto di libertà si presentano quelle teorie che denunciano in un fantomatico “Piano Kalergi”, un complotto per sostituire l’etnia europea con le popolazioni provenienti dall’Africa o dall’Asia, nella presunta idea che l’annientamento delle identità nazionali e locali, ma anche l’intorbidamento della razza bianca attraverso il meticciato, sia per i gruppi economici transnazionali la via migliore per garantirsi il proprio incontrastato dominio. Ancora una volta lo stesso concetto di “economia” (o di “gruppi economici”) viene privato di una sua dialettica interna e reso uniforme in una semplificazione senza precedenti che riconduce nuovamente a una manciata di volontà soggettive una serie infinita di avvenimenti. Come nel caso delle persecuzioni naziste, anche in questo caso colpire i flussi migratori viene presentato come un atto di resistenza contro la volontà delle elite, contro la loro cospirazione: contrastare le politiche di integrazione e accoglienza diventa, vale a dire, secondo le tesi del “complottismo storico”, un atto di libertà.
Quanto si allontanano da queste narrazioni tipiche della tradizione reazionaria, le odierne visioni che riconducono tutti gli avvenimenti della pandemia da Covid-19 alla volontà soggettiva, nella sostanza al complotto, di pochi “gruppi economici” transnazionali, ovvero di poche “case farmaceutiche”? Quanto si discosta dalle narrazioni tipiche della tradizione reazionaria chi ha parlato della pandemia come di una vera e propria «invenzione» (dunque nuovamente come di un complotto) per opera dei «media», delle «autorità» e dei «governi» (ancora una volta, nel processo di semplificazione della logica populista queste tre istanze vengono uniformate e private di dialettica interna) finalizzata a varare «provvedimenti d’eccezione» e «limitazioni della libertà»[ref]G. Agamben, L’invenzione di un’epidemia, Quodlibet, 26-02-2020, https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-l-invenzione-di-un-epidemia. [/ref]? Quanto si discosta da quelle narrazioni chi ha dipinto l’«emergenza sanitaria» come «il laboratorio in cui si preparano», in maniera soggettiva e volontaristica, «i nuovi assetti politici e sociali che attendono l’umanità»[ref]G. Agamben, Distanziamento sociale, Quodlibet, 06-04-2020, https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-distanziamento-sociale. [/ref]? A ben vedere, a uno sguardo più attento, il complottismo di Agamben si riconnette alla tradizione reazionaria non soltanto sul piano metodologico, ma anche su quello dei contenuti: esso rivela infatti tutti i tratti del suprematismo occidentale (un mito particolarmente caro ai teorici della “white supremacy” – come Lothrop Stoddard, che indicava nei “neri” e “nei gialli” la “minaccia del sotto-uomo” in procinto di avanzare contro la civiltà bianca – a Oswald Spengler e agli stessi ideologi del Terzo Reich): «È possibile, infatti», a suo avviso, «che noi stiamo oggi assistendo a un conflitto fra il capitalismo occidentale, che conviveva con lo stato di diritto e le democrazie borghesi e il nuovo capitalismo comunista, dal quale quest’ultimo sembra uscire vittorioso», un conflitto in sostanza fra un capitalismo civile, quello bianco e occidentale, e un capitalismo barbaro, di matrice comunista, quello giallo e orientale: è infatti questo «il significato storico del ruolo di guida che sta assumendo la Cina non solo nell’economia in senso stretto, ma anche, come l’uso politico della pandemia ha mostrato eloquentemente, come paradigma di governo degli uomini»[ref]G. Agamben, Capitalismo comunista, Quodlibet, 15-12-2020, https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-capitalismo-comunista.  [/ref]. Insomma, mancano ormai soltanto “I protocolli dei savi di Mao Zedong”: le misure antipandemiche rappresenterebbero ad avviso di Agamben un processo di “cinesizzazione” del mondo. L’erosione del suprematismo occidentale e dell’unipolarismo americano, la riduzione del potere globale degli Usa, che possiedono ancora circa 800 basi militari sparse per il mondo, vengono viste da Agamben come una minaccia. La resistenza contro le misure antipandemiche costituirebbe allora anche un atto di resistenza contro il “yellow peril”, contro il processo di “comunistizzazione” e “cinesizzazione” del pianeta. Insomma, dopo la teoria del “complotto ebraico/bolscevico” cara alla tradizione reazionaria del primo Novecento, Agamben si propone di combattere oggi le misure di contenimento della pandemia diffondendo la teoria del “complotto sino/comunista”. Non è un caso che la medesima minaccia da lui percepita venga denunciata anche da un intellettuale di orientamento apertamente reazionario come Marcello Veneziani, il quale paventa, dal canto suo, l’instaurarsi nel nostro paese di un «comunismo sanitario», pronto a ridistribuire «i redditi, livellando ogni attività», ma soprattutto a ridefinire il «capitalismo dentro una gabbia statuale, come accade già nel modello maocapitalista cinese». Sarebbe, ad avviso dell’intellettuale noto anche per le sue difese della figura di Mussolini, un vero e proprio incubo: «la crescita del modello asiatico, l’egemonia della Cina comunista, la caduta di leadership degli Stati Uniti»[ref]M. Veneziani, Dopo la pandemia, Mondo nuovo, maggio 2020.[/ref]. La “minaccia del sotto-uomo”, insomma, il “yellow peril” e il “complotto sino/comunista”, con la loro messa in discussione del suprematismo occidentale, stanno tentando di iniettare, attraverso le misure antipandemiche, la loro barbarie nelle vene del mondo bianco e civilizzato, e così facendo preparano il decadimento dei nostri superiori costumi sociali, preparano, vale a dire, ciò che Spengler aveva già a suo tempo definito “il tramonto dell’Occidente”.

5. Il quadro internazionale

Se siamo d’accordo nel pensare la libertà non già come una vuota forma ma come un contenuto dal valore universale, non possiamo allora fare a meno di riscontrare come nel corso della pandemia da Covid-19, fra i vecchi sistemi a conduzione capitalistica (vedi in primo luogo Stati Uniti ed Europa) e gli esperimenti sociali a orientamento socialista (vedi Cuba, Cina e Vietnam) – per quanto questo possa sembrare un paradosso agli occhi di quel suprematismo occidentale che identifica “Occidente” e “democrazia” ed è abituato a concepire la “libertà” unicamente come “libertà dell’Occidente” e mai come “libertà dall’Occidente” – siano stati i secondi ad avere difeso ben più dei primi il valore dell’universalismo e la causa della libertà. Nei primi infatti la libertà del potere economico (la libertà particolaristica) ha inficiato la libertà di esistenza e il diritto alla vita (la libertà universalistica), ben più che nei secondi.
Questo può essere constatato non soltanto dal punto di vista delle scienze matematiche (confrontando cioè il numero dei decessi fra gli uni e gli altri, ovvero l’impegno e la capacità con cui rispettivamente hanno difeso il diritto alla vita all’interno del proprio dominio), ma anche dal punto di vista dello spirito generale e dei comportamenti via via assunti su scala planetaria. Fin dal primo momento la Repubblica Popolare Cinese ha esortato tutti i paesi del mondo a mettere da parte gli asti politici, a cooperare, a coordinarsi tutti insieme nella lotta contro il Covid-19: «L’epidemia ci mostra chiaramente che il virus non conosce confini nazionali, non distingue tra Nord, Sud, Est o Ovest. Nessun Paese può affrontarlo da solo, soltanto unendo le forze è possibile vincere questa sfida»[ref]M.G. Napolitano, Ambasciatore cinese: “Gli aiuti? Siamo amici, vogliamo salvare vite”, Adnkronos, 05-04-2020.[/ref], ha affermato ad esempio l’ambasciatore cinese in Italia. Così ben presto alle parole sono seguiti i fatti: soltanto alla nostra penisola la Repubblica Popolare ha inviato «31 tonnellate di materiali, tra cui equipaggi per macchinari respiratori, tute, mascherine….alcune medicine anti virus insieme a sangue e plasma»[ref]Coronavirus, l’aiuto cinese all’Italia: “Materiale, esperti e i risultati del lavoro di migliaia di medici”, La Stampa, 13-03-2020.[/ref]. Nelle Marche, in provincia di Ancona, la Cina ha realizzato un ospedale da campo con 50 medici, 80 infermieri e 30 tecnici tutti provenienti da Wuhan, pronti a rischiare la vita, in un momento in cui di vaccini non v’era neppure l’ombra, pur di portare il proprio bagaglio di esperienze e aiutare l’Italia a prendersi cura dei malati di Covid[ref]Un ospedale e medici cinesi a Ancona, ANSA, 25-03-2020.[/ref]. Numerose task force sanitarie sono state d’altro canto inviate da Pechino nel nostro paese per sostenerci in un momento di grande difficoltà[ref]Coronavirus, la Cina invia in Italia il terzo team di medici, RaiNews, 25-03-2020.[/ref]. La prima di queste (mentre il governo italiano mostrava tutta la propria debolezza nei confronti di Confidustria e del potere economico, permettendo alle fabbriche e ai centri di produzione di rimanere aperti nonostante gli scioperi e le proteste operaie[ref]Emergenza coronavirus, la rabbia nelle fabbriche aperte. Scioperi spontanei: “Non siamo carne da macello”, La Repubblica, 12-03-2020.[/ref]), ha mostrato forte preoccupazione per il lassismo mostrato dalla nostra dirigenza politica di fronte a una simile emergenza: «Dovete fare di più per contrastare la diffusione dell’epidemia. In Lombardia le misure prese non sono abbastanza rigide: bisogna fermare le attività economiche e la mobilità», ha affermato la Croce rossa cinese in Italia; «per strada ci sono ancora troppe persone», hanno ammonito a Roma un docente cinese di medicina polmonare e il vicedirettore dell’Istituto Nazionale delle malattie parassitarie; purtroppo «non vi sono altre misure», ha affermato in maniera perentoria Qiu Yunqing (infettivologo cinese al vertice della delegazione dei tredici esperti che ha visitato gli ospedali del nord Italia), è necessario un «distanziamento sociale “rigido” con tutte le serrande abbassate: fabbriche, uffici, negozi. Tutto chiuso»[ref]Coronavirus, l’infettivologo cinese: “Per fermare il contagio bisogna chiudere tutto. Servono più tutele per i vostri medici”, Il Fatto Quotidiano, 30-03-2020.[/ref].
Sarebbe sciocco e malizioso, una sorta di atteggiamento da “Yellow Peril” o da “Protocolli dei savi di Mao Zedong”, ritenere che dietro questi suggerimenti vi fosse un perfido desiderio cinese di attentare alla libertà della popolazione italiana anziché una chiara volontà di difenderla.
Anche il Vietnam, dal canto suo, non ha fatto mancare il proprio spirito collaborativo e solidaristico, spedendo a Malpensa un carico di oltre tre tonnellate di materiale ospedaliero[ref]COVID-19: Arrivato carico di aiuti sanitari dal Vietnam, Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, 17-04-2020 https://www.esteri.it/mae/it/sala_stampa/archivionotizie/approfondimenti/covid-19-arrivato-scarico-di-aiuti-sanitari-dal-vietnam.html.[/ref]. E persino la piccola Cuba ha inviato i propri medici e infermieri esperti in malattie infettive, poi candidati al Nobel per la Pace, con l’obbiettivo di portare il proprio contributo[ref]Coronavirus, Cuba in soccorso dell’Italia: 52 medici e infermieri in arrivo a Crema, La Repubblica, 21-03-2020; Coronavirus: Cuba invia seconda brigata medica in Italia, Sicurezza Internazionale 14-04-2020; L. Landoni, Coronavirus, i medici cubani al lavoro in Lombardia candidati al Nobel per la Pace, La Repubblica, 28-09-2020.[/ref].
Nessuno di questi paesi si è sognato anche soltanto lontanamente di sferrare un attacco economico, a colpi di embarghi e sanzioni, contro un qualunque Stato occidentale o orientale.
Come si è comportato invece, da questo punto di vista, il mondo capitalistico? Nel marzo 2021 l’Italia, insieme a Gran Bretagna, Francia e Olanda, esprime a Vienna, presso il Consiglio dei diritti umani dell’Onu, il proprio voto contrario a una risoluzione di condanna degli embarghi unilaterali[ref]Polemiche per la decisione dell’Italia di votare “no” all’Onu alla condanna delle sanzioni Usa su Cuba, La Repubblica, 30-03-2021.[/ref].
Gli Stati Uniti, da parte loro, dopo oltre 60 anni di blocco commerciale e di vere e proprie attività terroristiche contro Cuba[ref]Cfr. S. Lamrani (a cura di), Il terrorismo degli Stati Uniti contro Cuba. Il caso dei Cinque: una storia inquietante censurata dai media, Sperling & Kupfer, Segrate 2006.[/ref], intensificano sotto l’amministrazione Trump la guerra economica ai danni dell’isola, varando ben 243 misure coercitive, poi confermate e incrementate dal Presidente Biden[ref]Cuba, Biden conferma le misure di Trump, Adnkronos, 16-07-2021; Usa, Biden: “Le nuove sanzioni a Cuba sono solo all’inizio”, Tgcom24, 23-07-2021.[/ref]nonostante la già espressa condanna dell’Onu[ref]D. Battistessa, Embargo Cuba, Onu: “Il blocco economico Usa vìola i diritti umani”, Osservatorio Diritti, 16-07-2021.[/ref]. Il 4 giugno 2020, Steve Bannon, uomo dell’estrema destra americana ed ex-capo stratega della Casa Bianca, fonda a New York, assieme a Guo Wengui, miliardario e dissidente cinese già accusato di corruzione, il “New Federal State of China”, organizzazione che si propone in modo esplicito l’obbiettivo di rovesciare il PCC e il governo di Pechino. Il Presidente Trump, dal canto suo, vara sanzioni contro la Cina[ref]Trump firma le sanzioni alla Cina per Hong Kong, ANSA, 14-07-2020.[/ref], anche queste, come quelle contro Cuba, incrementate e inasprite dall’amministrazione Biden[ref]Biden estende bando Trump su società cinesi, 59 aziende nella black list, Il Sole 24 Ore, 03-06-202; I Bremmer, Perché Biden mostra i muscoli con la Cina (più di Trump), Corriere della Sera, 08-07-2021.[/ref]. Questa continuità in politica estera fra i due presidenti americani si è manifestata anche nel modo in cui entrambi hanno alimentato, senza alcuna prova concreta e in assoluto spregio alle dimostrazioni dei più autorevoli studi scientifici[ref]Cfr. Kristian G. Andersen, Andrew Rambaut, W. Ian Lipkin, Edward C. Holmes & Robert F. Garry, The proximal origin of SARS-CoV-2, Nature Medicine, n. 26, 2020 https://www.nature.com/articles/s41591-020-0820-9; L’Oms, ‘il virus è di origine naturale’, ANSA, 01-05-2020; L’Oms: “I dati portano all’ipotesi di un’origine  animale del virus”, ANSA 10-02-2021.[/ref], le tesi complottiste sull’origine artificiale del Covid-19[ref]G. Belardelli, Biden e Facebook riabilitano la teoria dell’origine artificiale del Covid, HuffPost, 27-05-2021. A confutare la strampalata tesi sul virus uscito da un laboratorio di Wuhan è anche un dato di cui qualunque epidemiologo dovrebbe essere a conoscenza: l’epicentro di un contagio virale non coincide necessariamente con il luogo in cui il virus ha avuto origine, che invece potrebbe essere plurimo, come sembrano suggerire anche gli studi sulla presenza del Covid già in Italia nel settembre del 2019: cfr. Covid in Italia già da settembre 2019, lo dice uno studio dell’Istituto dei tumori di Milano, ANSA, 15-11-2020 e altri che hanno rilevato già la presenza di malati di Covid negli Usa a dicembre e in Francia nel novembre 2019: ‘Covid era già negli Usa a dicembre 2019’: lo studio federale su un milione di volontari, Il Fatto Quotidiano, 15-06-2021; Coronavirus, “in Francia primi casi già a novembre”, Adnkronos, 07-05-2020.[/ref].
Nel frattempo la Repubblica Popolare Cinese, non soltanto ha difeso l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) dagli attacchi dell’amministrazione Trump, che aveva già preparato l’uscita degli Usa e l’interruzione dei finanziamenti, ma anche dai recenti conflitti che, in merito alla gestione delle vaccinazioni, sono sorti fra questa e il blocco degli Stati capitalistici occidentali. A tal proposito va ricordato che la Cina ha sostenuto assiduamente, insieme a Cuba e al Vietnam, la proposta avanzata da India e Sudafrica al WTO, di sospendere i brevetti sui vaccini così da consentire al Terzo Mondo quelle coperture di massa che altrimenti questo, data la sua condizione di penuria economica, non sarebbe riuscito a garantirsi. La vita però sembra ancora una volta, per gli Stati/nazione a conduzione capitalistica, non valere tanto quanto i profitti delle grandi aziende farmaceutiche a cui essi hanno destinato i propri fondi pubblici per lo sviluppo dei vaccini: così con il voto contrario di Stati Uniti, Gran Bretagna e Paesi dell’Unione Europea, la proposta di India e Sudafrica viene respinta. “Senza pagamenti nessuna vaccinazione”: nonostante alcune dichiarazioni estemporanee del Presidente Biden, che soltanto verbalmente ha mostrato ripensamenti, questa è rimasta la decisione immutata dell’Occidente capitalistico. Ed è su questo punto che è sorto un nuovo scontro con l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Quest’ultima ha infatti ritenuto che per combattere in maniera più adeguata la diffusione del Covid-19 ed evitare un proliferare di varianti che renderanno via via meno efficaci gli stessi vaccini finora sviluppati, sia più importante garantire a tutto il pianeta almeno la copertura di una prima dose che a pochi paesi quella della terza. Accettata da tutto il mondo economicamente arretrato e dagli Stati a orientamento socialista, questa raccomandazione dell’Oms è stata invece bruscamente respinta dagli Stati occidentali a conduzione capitalistica, per i quali sembra più importante garantire la terza dose agli Übermenschen del blocco euroatlantico, che la prima agli Untermenschen degli Stati sottosviluppati[ref]Cfr. G. Cadalanu, Schiaffo dei Paesi ricchi all’Oms: “Prima la terza dose a noi, poi si vedrà”, La Repubblica 06-08-2021.[/ref]. La Repubblica Popolare Cinese, invece, oltre ad aver sostenuto assiduamente la richiesta di India e Sudafrica relativa alla sospensione dei brevetti sui vaccini, oltre ad avere già da sola vaccinato più di un quinto della popolazione mondiale[ref]Vaccini: Cina, somministrate oltre 1,5 miliardi di dosi, ANSA, 23-07-2021.[/ref] e limitato i contagi attraverso controlli sanitari rigorosi e l’introduzione del passaporto vaccinale[ref]R. Ippoliti, La Cina lancia il passaporto vaccinale, è il primo paese al mondo, La Stampa, 09-03-2021. Anche Cuba, dopo avere avviato nell’isola le vaccinazioni di massa per i bambini dai due anni in su e consentito il ritorno a scuola soltanto previa vaccinazione, ha aperto le frontiere unicamente per quei turisti che presentano un certificato di vaccinazione internazionale anti-Covid-19 o un certificato RT-PCR negativo rilasciato nel paese di origine entro le 72 ore di viaggio precedenti all’arrivo. Allo stato attuale a Cuba si sta pensando anche di introdurre un passaporto vaccinale per i cubani, sul modello Green Pass, sia per permettere il movimento all’estero dei propri cittadini, sia per consentirne l’accesso in sicurezza agli edifici pubblici. Cfr. Susana Antón Rodriguez, Pasaporte digital COVID-19 cubano, Granma (órgano oficial del comité central del pardido comunista de cuba), 26-05-2021.[/ref], oltre ad avere già offerto il proprio contributo in termini di medici, vaccini e materiale ospedaliero ai paesi in difficoltà, dopo avere già offerto 110 milioni di dosi al programma Covax (un’operazione lanciata dalle Nazioni Unite per facilitare l’acquisizione di vaccini ai paesi più poveri), si è impegnata a donare ben 2 miliardi di fiale al resto del mondo entro la fine del 2021 e 100 milioni di dollari al programma succitato. La Cina, ha affermato il Presidente Xi Jinping, «continuerà a fare tutto il possibile per aiutare i Paesi in via di sviluppo a fare fronte alla pandemia» e seguiterà a impegnarsi per «rafforzare la cooperazione internazionale sui vaccini e favorirne la distribuzione»[ref]Vaccini: Xi, Cina darà 2 miliardi di dosi entro fine 2021, ANSA 05-08-2021.[/ref]. Certo, fra i paesi che fanno capo al blocco euroatlantico va annoverato anche il caso di Israele, che ha avuto un numero relativamente basso di decessi e che ha garantito il “diritto alla vita” alla propria popolazione attraverso una vaccinazione di massa tempestiva. Ma un tale diritto, questo Stato, ha saputo pensarlo in termini realmente universali? Dopo aver ricevuto una pioggia di critiche per aver fatto mancare il sostegno alle popolazioni dei territori occupati, Israele ha stretto un accordo con l’Autorità nazionale palestinese (Anp) per la fornitura di 1,2 milioni di dosi Pfizer. Quest’ultima, però, è stata ben presto costretta a cancellare l’accordo e a restituire le dosi, non appena si è accorta che Israele le aveva fatto pervenire carichi di fiale con una data di scadenza imminente. Insomma, mentre il governo di Tel Aviv aveva già effettuato sulla propria popolazione il 60% delle vaccinazioni, i palestinesi, con gli ospedali già saturi di malati, restavano ancora sotto l’1%[ref]R. Bongiorni, Medio Oriente: israeliani vaccinati al 60%, palestinesi sotto l’1%, Il Sole 24 Ore, 03-04-2021; La denuncia contro Israele: vaccini solo ai coloni, esclusi palestinesi, Huffpost, 03-01-2021.[/ref], e si trovavano di fronte alla tragica possibilità di scegliere fra il morire (direttamente o indirettamente) di Covid-19 o inocularsi nelle vene dei farmaci scaduti[ref]Palestinesi annullano accordo su vaccini con Israele. Annuncio da Ramallah: la data di scadenza è troppo ravvicinata, ANSA, 18-06-2021.[/ref]. Ancora una volta è stata la Repubblica Popolare Cinese a giungere in soccorso, garantendo al popolo palestinese 200.000 dosi di vaccini e un milione di dollari in contanti da spendere in aiuti sanitari[ref]La Cina promette vaccini e un milione di dollari ai palestinesi, Sicurezza Internazionale, 22-05-2021.[/ref].
Al termine di questo quadro, possiamo giungere a una conclusione: fra, 1) i paesi capitalistici guidati da governi liberalconservatori o apertamente controrivoluzionari (vedi gli Usa di Trump e il Brasile di Bolsonaro); 2) quel mondo dei No-Vax, No-Mask, No-Pass e No-lockdown che, pur nelle proprie differenze interne, ne ha in qualche modo legittimato le scelte; 3) i paesi capitalistici guidati da governi liberaldemocratici (anch’essi troppo subalterni ai grandi poteri economici e incapaci di pensare la libertà sostanziale e il diritto alla vita in termini autenticamente universali) e 4) i paesi a orientamento socialista guidati da partiti comunisti (Cuba, Cina e Vietnam in primo luogo), sono questi ultimi che, pur con le loro contraddizioni, hanno manifestato una maggiore propensione universalistica, un maggiore spirito cooperativo e una più profonda inclinazione a difendere la libertà su scala planetaria. Sono d’altro canto gli stessi soggetti politici che hanno mostrato come quest’ultimo termine, “libertà”, non possa essere svincolato da un contenuto di valore universale, da quelle “lotte di classe” e quelle “lotte per il riconoscimento” (di marxiana ed hegeliana memoria), che proprio di un universalismo sempre più concreto vogliono essere il veicolo. Dovremmo ricordarcene tutte le volte che in un discorso sentiremo impiegata la parola “libertà” come un significante vuoto, come un vessillo retorico con cui adornare e adombrare il perseguimento di meri interessi particolari.

Amore, sì. Ma che tipo di amore? Le molte forme di amore che influenzano la nostra vita.

di Susi Ferrarello

traduzione di Leonardo Geri

“Oh tu Eros, scioglitore di membra!” – come direbbe Esiodo nella sua Teogonia (120-2).

Una dichiarazione di amore, specie se reciproca, ha il potere di farti sentire le gambe sciogliersi mentre una scarica di endorfine inonda il tuo corpo di pura felicità.

E tuttavia, può accadere che questo amore si mischi con degli scomodi sentimenti e cattivi atteggiamenti, come possono essere:

il non rispettare gli spazi controllando il telefono, dire delle piccole bugie innocenti, dare occasionali giudizi sminuenti qua e là, fare occasionale gaslighting, etc. La lista potrebbe andare avanti all’infinito.

Il punto è: perché una persona innamorata dovrebbe comportarsi in un modo così poco amorevole? L’amore dovrebbe essere sempre buono per definizione e tuttavia non è così. Anche se qualcuno è profondamente innamorato, potrebbe agire in maniera tale da farci del male. I giudizi sminuenti possono esser fatti per aiutarci – ci dicono, le bugie innocenti sono solo un’omissione, oppure il telefono è stato controllato perché… beh, non so come salvare questo.

Sembra che il modo in cui chiunque esprima l’amore sia complesso tanto quanto la personalità di ognuno, e questa complessità fa nascere diverse forme di amore. Ci vuole fortuna e impegno per scoprire cosa ti piace e cosa non puoi affatto digerire; cosa è doloroso e cosa ti mette di buon umore.

Spesso, chiedo ai miei clienti – che tipo di combinazione di amore vuoi ricevere nella tua vita, e sai quando dire no?

 

Quante forme di amore?

Mentre in inglese c’è una parola principale per esprimere varie combinazioni di sentimenti, nella Grecia antica si contavano almeno 10 diverse divinità dell’amore a cui pregare quando la vita sentimentale di qualcuno stava andando in frantumi.

Questa varietà sta lì per aiutarci a riflettere su che tipo di amore vogliamo attrarre su di noi.

Ecco la lista:

Il dio del sesso (Eros), il dio della passione (Photos), il dio dell’intenso desiderio erotico (Imero), il dio dell’amore reciproco (Anteros), il dio del matrimonio (Hymenaios), il dio delle parole dolci sussurrate alle orecchie (Hedylogos) – il mio preferito! Il dio dell’affetto e dei rapporti sessuali (Philotes), la personificazione della seduzione e della persuasione (Peito), Afrodite la dea della bellezza e della lussuria.

Utilizziamo quest’ultima per vedere quanto folle può diventare un amore generato dalla lussuria e della bellezza. Nella Teogonia, Esiodo ci narra che Afrodite nacque gravida di Eros, Photos e Imero (176ff). Così, un amore il cui componente principale sia la bellezza e la lussuria porta con sé la triade di lussuria, passione e intenso desiderio erotico.

Senza neanche dirlo, queste componenti divine non sono gli ingredienti per la dieta più bilanciata in termini di amore. Infatti, erano soliti commettere cose orribili alle persone.

Afrodite, apparentemente, fu una pessima, pessima suocera. Era talmente gelosa di suo figlio, Eros (o Cupido in latino), che lanciò una maledizione sulla sua amante, Psyche. Anche se solo umana, Psyche era considerata essere più bella di una dea, inclusa sua suocera. Così, Afrodite la separò da suo figlio. Mancandole disperatamente, Eros la ricercò nell’oltretomba e la riportò all’eterna vita con lui, rendendola la dea dell’anima. Da allora, essere innamorati significa trovare la tua stessa anima anche se è nascosta nei posti più spaventosi a cui tu possa immaginare.

Un’altra storia vede la stupenda Afrodite rincorrere un uomo piuttosto ascetico, Ippolito. Quando Ippolito non ricambiò il suo amore, la cosa per lei più razionale fu far sì che Fedra, sua suocera, si innamorasse di lui. Successivamente, Afrodite lascerà Fedra morire per via della sua passione inappagata.

Ragionevolmente, Fedra, vittima di questo amore, parla di eros come qualcosa che addolora, ferisce, ed eventualmente uccide (vv. 392-393.395; v. 349; vv. 419-420). Ippolito fu, dopotutto, solo una persona molto prudente. Non voleva avere nulla a che vedere con l’amore. Non voleva divenire un adulto e avere una vita sessuale. Voleva solo prendersi cura della sua vita spirituale e tuttavia nella furia che circondò la vita di Fedra egli fu accusato di averla violentata e di averla indotta a suicidarsi.

In un’altra storia infelice, questa dea della bellezza e della lussuria, Afrodite, si innamora di un umano, Anchise. Il povero mortale sapeva che nessun uomo poteva sopravvivere alla bellezza di una dea, ma sapeva anche che nessun umano poteva resistere a quella bellezza. Così, dopo aver dormito con lei, egli sopravvisse ma perse per sempre la sua abilità di camminare. Se si vuole vedere il bicchiere mezzo pieno, Enea, il semidio eroe di Troia e futuro fondatore di Roma, fu la prole generata da quella costosa unione.

 

Pensa a che tipo di amore vorresti attirare nella tua vita.

 

Perché sto scrivendo tutto ciò? Ritorniamo alla mia domanda precedente: che tipo di combinazione di amore vuoi ospitare nella tua vita, e sai quando dire basta?

Quando sento che i clienti sono abbattuti dalle loro esperienze in amore, li invito a riflettere su che tipo di amore vogliono attirare nelle loro vite. Talvolta comprendo che non hanno nemmeno mai pensato alla possibilità di varie forme di amore. Pensano al tipo di persona che vogliono attrarre ma non a che tipo di forma di amore essi desiderino per loro stessi.

Vogliono passione? Bellezza? Lussuria? Questo amore è fatto di discorsi persuasivi e parole lussuriose sussurrate come Hedylogos? Oppure è fatto di solidi propositi e fatti confortanti come Anteros? È la splendida Afrodite il componente principale di una vita sentimentale?

Nel libro Fedone, Socrate osserva che il desiderio (Imero) crea una gabbia in cui il prigioniero è “il principale esecutore del suo incatenamento”. Talvolta l’Amore, quello animato da un forte desiderio, può essere sentito come una gabbia che abbiamo costruito per noi stessi. Altre volte, se aggiungiamo un po’ di Armonia (la dea dell’armonia) a Imero (desiderio ardente), possiamo ottenere esattamente ciò di cui abbiamo bisogno.

Così, invito i miei clienti a pensare a tutti questi dei e dee come a un pantheon di ingredienti che possono esser usati coscientemente nelle loro vite. Potrebbe accadere che troppo Imero (desiderio lussuoso) sia distruttivo per una buona vita ma se correttamente mischiato con Hedylogos (il dio delle dolci parole sussurrate alle orecchie) e Anteros (il dio dell’amore reciproco) potrebbe farti felice.

Amore o proiezioni?

di Susi Ferrarello

(California State University – East Bay)

traduzione di Miriam Borgia

 

Quando l’amore è dare ciò che non possiedi a qualcuno che non lo vuole

“Ti amo”, diciamo, e “mi sento amato da te”. Anche se commoventi, queste frasi risultano anche piuttosto enigmatiche. La loro elusività diventa ancora più evidente quando si sente questa stessa parola sognante – amore – usata in contesti molto più umili: “mmm…amo quel gelato!”; “amo fare esercizio ogni giorno.” Oppure, in scenari più frustranti e paradossali: “mi ha detto che mi amava, eppure mi ha lasciata”; “la amo, ma non sono innamorato di lei”.

Ma allora come dovremmo prendere l’amore? Cosa significa quando qualcuno esprime amore per noi o per qualsiasi altra cosa nella vita? Come dovremmo risolvere la “x” in questa equazione? Indica una funzione, un limite, un significato?

L’amore è un limite

Lacan userebbe la nozione di limite per descrivere l’amore. “L’amore è dare ciò che non possiedi”, dice. Ci innamoriamo delle persone che completano i nostri difetti. La vita del nostro partner rappresenta per noi un esempio per lavorare sulle nostre parti incompiute, per superare i nostri difetti, e alla fine completarci. Dichiarare il nostro amore per qualcuno ci rende vulnerabili perché nel dire “ti amo” io dico ciò che non sono ancora e ciò che ancora mi manca per diventarlo: io cerco di dare ai miei partner proprio quello che non ho. Nel percepire i miei limiti, l’amore diventa una finzione in cui cerco di impressionare la persona da cui voglio imparare impersonando qualcuno che non sono. Per questo, credo, è molto tipico dei testi delle canzoni e delle poesie attribuire una certa qualità salvifica all’amore. Nel cercare di soddisfare le aspettative che penso che i miei partner abbiano su di me, mi salveranno. Diventerò una persona migliore. L’amore è mosso da questo forte desiderio per il miglioramento, per la trasformazione, per il raggiungimento di quel senso di salubrità che spesso sembra sfuggirci. Nell’amore, io regalo ciò che non possiedo perché mi illudo che nel fare ciò alla fine io possa superare i miei limiti e diventare completo. È qui che risiede la grande contraddizione dell’amore:

  1. Nel tentativo di diventarlo ci frantumiamo in tanti pezzi (tanti quante sono le persone per cui proviamo dei sentimenti)
  2. Nel cercare di avvicinarci ai nostri cari non cogliamo la loro vera natura

Quando amare significa perdere la persona che amiamo

Nella finzione dell’amore, infatti, spesso ignoriamo noi stessi e la responsabilità che abbiamo per il nostro stesso benessere, e chiudiamo un occhio sulla vera natura del nostro/i nostro/i partner e sui loro reali bisogni. Semmai, ci allontaniamo di più da noi stessi e dai nostri partner. In una complessa dinamica di sacrificio, ci allontaniamo dai nostri veri desideri per compiacere i nostri partner, i quali infine diventano il segno delle nostre proiezioni. Per questo motivo, continua così la celebre frase di Lacan: “amare è dare qualcosa che non si ha a chi non lo vuole”. Nel mio lavoro di consulente filosofico sento spesso che i clienti si sentono rifiutati dai loro partner. Quello che mi colpisce è che spesso non si rendono conto che sono loro che stanno rifiutando i loro partner. Quando mi trovo davanti a questi casi e percepisco il loro livello di frustrazione crescere rapidamente, chiedo loro: “Potete, per favore, dirmi chi è il vostro partner? Puoi, per favore, descrivermi che tipo di essere umano è il tuo partner nel mondo?” Spesso coloro che soffrono di più sono anche i più a corto di una risposta: non possono vedere i loro partner perché sono troppo dediti nel dare loro qualcosa che non hanno mai chiesto, ovvero una versione convincente di se stessi che li farebbe sentire meno incompleti e vulnerabili.

In questa contraddizione, l’amore diventa una gabbia in cui i partner si sentono invisibili l’uno all’altro e incapaci di essere se stessi. A questo punto non può aver luogo alcun apprezzamento reciproco genuino. In questa gabbia di dolore, come direbbe il platonico Socrate, il prigioniero è «il principale complice della sua schiavitù». Questa è la gabbia della nostra psiche. In ogni sua parte, ci scontriamo con la vergogna dei nostri stessi limiti e bisogni. Qui incontriamo il tipo di amore paradossale che ho riassunto sopra nella frase: “La amo, ma non sono innamorato di lei”.

Come possiamo rompere la gabbia dell’invisibilità?

Come lasciare questa gabbia? Invece di rigirarti nella stessa gabbia e sentirti incapace di essere te stesso e di connetterti veramente con i tuoi cari, il passo successivo sarebbe capire quale parte incompiuta di te sta parlando e cosa sta cercando. Dal momento che io stesso sono quello con cui trascorrerò la maggior parte della mia vita, vale la pena iniziare a creare un legame compassionevole con me stesso e assumermi la responsabilità dello spazio che posso creare dentro di me per il mio miglioramento. Io chiamo questo primissimo legame philia, una parola greca che indica un legame compassionevole primordiale e intimo instaurato, in primo luogo, con noi stessi. Quella è la porta per accedere alla realtà e dissipare i fumi di quelle proiezioni così intricate.

La frustrazione in amore è insopportabile perché ci parla dei nostri limiti. Qualunque cosa ci irriti nei nostri partner, non dice nulla riguardo loro ma parla piuttosto di noi stessi. Per tornare ai miei clienti, quando le domande che pongo fanno suonare la campana dei loro limiti, allora la domanda essenziale diventa: perché ho deciso di sposarla? Perché non sono capace di amare questa persona o, ancora di più, me stesso? Alcuni traguardi importanti in una relazione – avere figli, costruire una casa insieme, condividere il tempo insieme – potrebbero trasformarsi in un inferno in terra se non abbiamo trovato un modo per far fronte al nostro senso di limite e di vulnerabilità e al fascio di proiezioni che ne scaturisce. Anche espressioni apparentemente innocue come “amo quel gelato” possono diventare una fonte infinita di miseria se usiamo quel gelato come un modo per riempire il vuoto in noi.

L’amore, quello sano, parte da una connessione intima che possiamo stabilire con la nostra realtà e, attraverso di essa, con la realtà delle persone che amiamo.

Sesso – uno scherzo della natura

di Susi Ferrarello

(California State University – East Bay)

traduzione di Miriam Borgia

tratto dal blog psychologytogay.com

 

“Sesso” – una parola che si trova ovunque e può indicare qualunque cosa.

Pochi giorni fa mi trovavo un bar e ho sentito un ragazzo dire al suo amico “Hmmm…il tuo caffè è proprio sexy”.

Un caffé, sul serio?

Da italiana, rimango sempre colpita dall’uso esteso di questo termine. Ricordo ancora la sensazione di panico che ho provato quando un mio collega l’ha utilizzata durante un mio intervento ad una conferenza: descriveva il mio articolo come “sexy”. Cosa? Ho pensato, arrossendo e sorridendo nervosamente.

Ora lo capisco. Questa parola è oggi sinonimo di tutto ciò che è piccante, intrigante, vitale, dinamico.

 

L’etimologia

Ma se ripercorriamo le sue origini, questa parola così “sexy” è nata in un polveroso ufficio burocratico. “Sex”, dal latino sexus, deriva dal verbo secare, cioè “dividere o tagliare”, ed è correlato a “sezione”, ovvero a ciò che è diviso. Il latino utilizzava questa parola per indicare la qualità dell’essere maschio o femmina per suddividere la popolazione e censirla.

Tuttavia, l’uso contemporaneo di questa parola è piuttosto recente. D. H. Lawrence, nel 1929, fu il primo ad averla utilizzata in tal senso.

1000 modi per dire “ti voglio!”

Quindi, quali sono le parole che i Greci e i Romani utilizzavano per riferirsi all’amore sessuale?

Di certo, i Greci, più che i Romani, non erano a corto di parole quando si trattava di dire “ti amo” o, in questo caso, “ti desidero.”

Il verbo agape indicava un amore spirituale e incondizionato; stergoto indicava l’affetto; phileo, invece, un tipo di amore mentale relativo piuttosto all’amicizia; erao, infine, per l’amore intimo – quel tipo di amore accompagnato dal desiderio passionale.

È così affascinante! Nel mondo greco Eros indica la natura, è quel potere naturale che si impone sull’esistenza umana e ci richiama verso ciò di cui il nostro corpo necessita per stare in armonia con la natura, o meglio per essere un tutt’uno con la Natura.

Un esempio calzante: il satiro

Il satiro, metà umano e metà animale – stando alle descrizioni di Aristofane – era dotato di un’energia sessuale illimitata che cercava di soddisfare in qualunque modo e con “partners”, per così dire, animati e inanimati. Se ti capita di aggirarti in un museo sbadigliando e provato dal dolore alla schiena, osserva meglio i dipinti: sono come una doccia fredda.

Quei vasi erano le riviste per adulti dell’antichità. Piacevano così tanto ai Greci che su uno di questi vasi, custodito a Palermo (V, 651), si può notare un gruppo di satiri che si accoppiano con anfore e persino i vasi stessi. Il filologo Lissarague spiega questa scelta piuttosto discutibile sostenendo che l’anfora del vino era l’accessorio necessario del kōmos (un rituale per bevuta) e del simposio. Vino e sesso sono ciò che rende felice un satiro! Così il famoso detto “Afrodite kai Dionysos met’allelon eisi”, “Afrodite e Dioniso sono insieme”.

Certo, i satiri amavano anche le donne; quest’ultime, però, non ricambiavano affatto (il che spiega le anfore.) Come scriveva MacNally, il rapporto tra satiri e menadi (le seguaci di Dioniso, che erano, per definizione, un po’ eccentriche) iniziò amichevolmente tra il 550 e il 500 a.C., e poi, come molti rapporti amichevoli, “mutò” tra il 500 e il 470, diventando palesemente ostile dopo il 470. Le menadi, secondo Plutarco (Virtuous Women 12.249 sgg.), erano inviolabili – soprattutto, immagino, se si trattava di un branco di mezze capre che si avvicinavano a loro.

Ebbene, nonostante ciò, i satiri non si scoraggiavano: amavano anche gli uomini, naturalmente, e in questo caso avevano più successo. A differenza del resto della società greca, la differenza di età non li preoccupava affatto. Non importava se il ragazzo, l’amato, era più giovane (in effetti, di regola, lo preferivano così). C’è una tazza a Berlino (1964.4) – un’altra “rivista per adulti” – che mostra un gruppo di cinque satiri in piena frenesia erotica.

A loro difesa, i satiri non erano soli in questo desiderio travolgente. C’erano esseri umani che ne condividevano quella fame, e i più noti erano filosofi e poeti: entrambi disprezzavano Eros ma al contempo lo trovavano irresistibile. Nel suo Saggio erotico Pausania chiamava questa raffinata classe di gentiluomini “mostri di appetito”.

Socrate e il sesso

In particolare, la cricca di Socrate e dei suoi seguaci ha avuto molto da dire sull’argomento. Senofonte, il secondo più famoso discepolo di Socrate, racconta una conversazione che il filosofo ebbe con lui su un ragazzo particolarmente sexy. Socrate era irritato con lui perché stava usando la sua bellezza per sfruttare le persone, e per di più il giovane Critobolo, il suo discepolo preferito. Il ragazzo gli aveva infatti rubato un bacio e Socrate ne rimase così “filosoficamente” arrabbiato che lo invitò calorosamente a lasciare la città per un anno. Il suo bacio, borbottò Socrate, era velenoso come il morso di un ragno e ordinò a Senofonte di evitarlo ad ogni costo.

Socrate, d’accordo con Platone e Aristotele, considerava il piacere erotico divertente e necessario, ma occorreva maneggiarlo con cura. Il sesso puro è per le bestie, o per le mezze-bestie – i satiri –. I satiri sono stati inventati proprio per mostrare alla gente quanto fosse strambo un uomo completamente convertito alla natura. La passione bestiale – come scrisse Aristotele, il pensatore super equilibrato che si innamorò perdutamente del virile re Alessandro Magno (Plutarco, Le vite parallele) – è “serva e brutale”.

Il sesso, qualcosa di insidioso

Saffo – poetessa meravigliosa – definiva l’eros una “cosa insidiosa”. Conosceva benissimo l’amore erotico. In Afrodite immortale dalla mente scintillante scriveva:

“Se corre ora, seguirà più tardi, / Se rifiuta i regali, li darà. / Se non ama ora, lo farà presto Amore contro la sua volontà. ”

“Amore contro la sua volontà”. Mi sembra chiaro: ami qualcuno? Aspetta. Nessuno può resistere alla passione di essere amato. L’amore è più forte di qualsiasi cosa. Alcuni secoli dopo in Inferno, V, 103, Dante scriverà “Amor ch’ha nullo amato, amar perdona” aggiungendo, tre righe dopo, “Amor condusse noi ad una morte certa” (v. 106). “L’amore è natura e la natura è morte. Questa è l’equazione. Non puoi resistere alla tua natura, ma in qualche modo devi trovare un modo per farlo.”

La metafora dei due cavalli contenuta nel Fedro di Platone è una sorta di manuale d’istruzione per riuscire in questo tentativo. Per Platone, la nostra vita è sempre guidata da due cavalli, il bianco e nero, corrispondenti alla nostra passione e la nostra ragione. Non possiamo guidare solo uno dei due cavalli, o la nostra traiettoria sarebbe zoppicante. Il nostro compito è trovare il giusto equilibrio, o come diceva Aristotele, “il giusto mezzo”.

“Il desiderio raddoppiato è amore; l’amore raddoppiato è follia”

Come disse Prodico (un sofista del V secolo): “Il desiderio raddoppiato è amore; l’amore raddoppiato è follia”.

L’amore tra animali era ancora considerato “cool”, e l’amore per i vasi era ancora accettabile, ma quando si tratta di donne, attenzione!  Folle, distruttivo, pericoloso. “Il disastro memorabile”, scriveva Esiodo.

Sai qual è stata la punizione degli déi per gli uomini dopo che Prometeo ha dato loro il dono del fuoco, rubato agli immortali? La creazione della donna e dei suoi desideri! Sto ancora ridendo. Penso che questo possa darci un’idea di quanto i Greci fossero terrorizzati dalle donne!

Secondo Esiodo, dopo che Prometeo rubò il fuoco agli déi, Zeus diede inizio alla sua terribile vendetta: la creazione della donna a “somiglianza di una fanciulla timida”. Altri tre déi presero parte al complotto: Atena le insegnò l’arte domestica del ricamo e della tessitura (che noia); Afrodite le diede la persuasione e il potere di suscitare “desiderio crudele e cure divoratrici” (ora inizia a diventare interessante!); alla fine, Hermes, il dio del furto e dell’inganno, le ha dato una “mente da puttana e un carattere ingannevole… bugie e parole astute”.

L’incubo era confezionato. Questa bella creatura spaventosa, questa “trappola pura”, Pandora, fu pensata come l’antenata della “razza delle donne”, la “piaga degli uomini che mangiano il pane” (Esiodo, op. 105-120). Pandora, il prototipo delle donne, è la Natura pura, indomabile e attraente. Esiodo scrive che la sua bellezza sessuale (che ricorda il paradiso perduto) ritorna ogni primavera e che le sue passioni (distruttive come le forze inumane della natura) richiedono la “tecnologia” (sì, questa è la parola che usa!) del matrimonio per controllarla.

Insieme a Pandora c’era Helene, simbolo dell’essenziale ambiguità della donna e della bellezza sessuale divinamente incarnata nella sua protettrice Afrodite, e altrettanto distruttiva quanto la sua. Byron la chiama “l’Eva greca”, la causa della “caduta” della Grecia maschile. Homer la definisce per ben due volte “faccia da stronza”, aggiungendo anche l’onorevole aggettivo di “complotto malvagio”. Come mai? Il suo appetito sessuale non poteva essere facilmente soddisfatto e controllato dagli uomini. A volte succede…

La sua sorellastra, Klytaimestra, era un altro personaggio interessante. Incarnava – come scrive Eschilo (Oresteia) – “l’incessante scempio della passione femminile scatenata che attacca dall’interno degli ordini della famiglia e dello stato”. Era “il leone allevato come un animale domestico in casa… amante dei bambini e gioia per i vecchi”, quando era ancora giovane, ma poi contaminava la casa con il sangue, un “sacerdote della distruzione”, non appena la sua natura selvaggia affiorava.

Ti risparmierò il numero di volte che Homer la chiama “faccia da puttana”. Questa donna, guidata dalla forza più potente della femmina, un’energia sessuale amplificata da un senso di ingiustizia e disonore, ha ucciso la sua rivale Cassandra e il suo sposo Agamenone con un “cuore umano”, scrive Eschilo. Ed è persino più terribile di altre donne perché è una donna-maschio, la combinazione della “mente guidata dalla volontà dell’uomo” e della “passione sessuale della donna” che colludono per portare distruzione e morte.

Forse “la tecnologia del matrimonio” non ha funzionato così bene nel suo caso.

Tuttavia, l’elenco degli esempi spietati del potere erotico femminile è lungo. Mi fermo qui per scoraggiare ulteriori sentimenti misogini.

La parola “sesso” ha percorso una lunga strada, dall’ufficio polveroso dei burocrati assonnati fino al sangue che scorre nelle nostre vene umane.