Pensare la politica nel tempo del disordine

  1. Il potere nel disordine

Sembrerebbe oggi che una nozione tanto vaga, quanto totalizzante, di sicurezza sia in grado di prendere il sopravvento su altre categorie politiche, determinando una riconfigurazione dello Stato di diritto e tendendo così più al suo tradimento che alla sua protezione. La prevenzione dei delitti si ridurrebbe a una sorta di obiettivo apparente, dietro il quale si celerebbe la volontà di stabilire uno Stato di sicurezza fondato su controlli e limitazioni sempre più generalizzati e invasivi.

L’impressione è di trovarsi in una condizione che supera la tipologia del potere nello Stato moderno magistralmente delineata da Michel Foucault. Supera sicuramente il potere sovrano che, in nome della sicurezza del sovrano stesso, dispone della vita e della morte: «il diritto di far morire o di lasciar vivere». Ma supera anche il potere disciplinare, affermatosi a partire dal XVII secolo in particolare, non più fondato esclusivamente sulla gestione della morte bensì, come sostiene Foucault, sulla perpetuazione, e quindi sul controllo, della vita: «Si potrebbe dire che al vecchio diritto di far morire o di lasciar vivere si è sostituito un potere di far vivere o di respingere nella morte».

Il potere disciplinare pare, a prima vista, più affine al paradigma della società del controllo e quindi allo Stato di sicurezza che sembra profilarsi di questi tempi attraverso il mantenimento dell’emergenza. La disciplina dei corpi, la loro amministrazione, la misurata inscrizione, anche attraverso forme di coercizione, dei comportamenti dei singoli entro canovacci prestabiliti e quindi controllabili, tipici appunto della società disciplinare a cui si riferisce Foucault, sembrerebbero coerenti con ciò a cui assistiamo oggi.

Per non parlare della docilità degli uomini a cui sembrano mirare anche i meccanismi di potere contemporanei. Abbiamo, infatti, l’impressione che anche il sistema di potere capitalistico-finanziario contemporaneo, come il regime proto-liberale del settecento, sia diretto, più che a bloccare, negare o eliminare forze e popolazioni, a incentivarne la crescita disciplinata, a potenziarle e moltiplicarle per poterle ordinare e quindi sfruttare. Abbiamo l’impressione che i luoghi del bio-potere moderno (scuole, collegi, caserme, carceri, ospedali, manicomi) si traducano oggi in forme diverse ma di sostanza analoga (centri di accoglienza, zone rosse, basi militari ma anche centri commerciali, centri benessere, villaggi turistici, gli spazi virtuali della rete).

Ma, a ben vedere, si tratta soltanto di impressioni. In realtà, la biopolitica della popolazione descritta da Foucault si fonda sull’obiettivo di normalizzare la vita della popolazione stessa in modo da esercitare su di essa un potere generale. Natalità e mortalità, salute e divertimenti sono scrupolosamente regolati per normalizzare e quindi disciplinare e ordinare una società. Il diritto, inteso come norma che normalizza più che come legge che impone, svolge proprio una funzione regolativa e correttiva in base alla lettura di Foucault. Non si tratta infatti di brandire la spada, minacciando la morte attraverso il comando della legge, quanto di distribuire ciò che fa parte del vivente per rendere normalmente docili e funzionali gli individui

Ebbene, la tendenza contemporanea segue invece una direzione opposta alla normalizzazione dei contesti sociali. Prende atto del disordine e sul mantenimento di esso costruisce gli spazi di potere. La gestione e il controllo dell’emergenza, che presuppongono la persistenza dell’emergenza stessa, rappresentano le condizioni tanto per l’acquisizione quanto per l’esercizio del potere. Affermare ciò, naturalmente, non equivale a ridimensionare la pericolosità di minacce evidenti come quelle terroristiche né, tanto meno, a sostenere una delle tante tesi complottistiche che sorgono quotidianamente. Equivale, invece, a prendere atto dell’intreccio fra la reale portata destrutturante dei pericoli contemporanei e il percorso di trasformazione culturale che sta interessando l’Occidente, sempre più pronto a mettere in discussione i fondamenti della sua civiltà giuridica.

  1. La regola della violenza

Come leggere il potere politico che sembra incarnarsi oggi, ai più alti livelli, nella capacità di mantenere il caos? Come interpretare uno stato di cose in cui l’obiettivo apparente, di fronte a minacce ormai costanti come è soprattutto quella terroristica, è rendere l’emergenza una situazione permanente per costruire le condizioni stesse del potere?

Siamo, in realtà, di fronte alla continua manifestazione di poteri di fatto alimentati da un disordine che non si vuole ordinare. Perché nell’ordine il potere di fatto incontra il limite del diritto, delle procedure di legittimità democratica, delle libertà inviolabili. Nell’ordine il potere di fatto è, in misura variabile, inibito. Nella celebre concezione di Carl Schmitt, lo stato di eccezione conduce alla sospensione temporanea dell’ordinamento giuridico per proteggerlo e, successivamente, riattivarlo. Una tale dinamica, però, non funziona più di fronte alla trasformazione dell’eccezione in regola. Il meccanismo si inceppa. Proprio questo effetto aveva, in qualche modo, già intuito Walter Benjamin allorché, “ispirato” dalla trasformazione dell’ordinamento di Weimar in regime nazista, scrive: «La tradizione degli oppressi ci insegna che “lo stato di emergenza” in cui viviamo è la regola».

Come è noto, si tratta della considerazione compresa nell’ottava tesi di filosofia della storia. Naturalmente, Benjamin è influenzato dall’applicazione dell’art. 48 della Costituzione di Weimar che, di fatto, prevedendo l’autosospensione della Costituzione stessa, condusse proprio ad uno stato di eccezione permanente. Ma, al di là dell’importante pretesto offerto dalla contingenza storica, Benjamin coglie un dato potenzialmente strutturale perché figlio del rapporto indissolubile tra violenza e diritto. Lo stato di eccezione effettivo, di fatto, non è più tale, non rappresenta un’eccezione costituiva del campo giuridico e, di conseguenza, ciò che rimane è la violenza fattuale priva di un inquadramento istituzionale. Rimane la forza del potere che si impone. Il concetto di violenza va inteso, a questo proposito, secondo l’accezione del termine tedesco Gewalt, che significa anche autorità e potere, e che Benjamin utilizza non a caso nel suo celebre scritto “Per la critica della violenza” dedicato al rapporto tra violenza e diritto.

Ma bisogna soffermarsi sulla legge che, secondo Benjamin, regola il rapporto tra diritto e violenza, a prescindere dalla finalità messianico-rivoluzionaria che lo stesso Benjamin, nel citato saggio dedicato al tema, attribuisce all’idea di violenza pura. La riflessione di Benjamin trae spunto da una constatazione sempre valida: «Si può formulare come principio universale della presente legislazione europea che tutti i fini naturali di persone singole entrano necessariamente in collisione con fini giuridici quando vengono perseguiti con violenza». La tendenza, da parte del diritto, al monopolio della violenza e dell’uso della forza che da tale principio segue non è causata dall’ovvia pretesa di salvaguardare i fini pratici dell’ordinamento giuridico. In realtà, è il diritto stesso come fenomeno sociale, nel suo complesso, ad essere posto in pericolo se si estendono senza controllo gli spazi della violenza privata. Per questo, Benjamin suggerisce di prendere in considerazione la possibilità che «la violenza, quando non è in possesso del diritto di volta in volta esistente, rappresenti per esso una minaccia, non a causa dei fini che essa persegue, ma della sua semplice esistenza al di fuori del diritto».

Si tratta, in altre parole, di una minaccia radicale. L’esistenza della violenza al di fuori del diritto è l’esistenza di un potere altro dal diritto, potenzialmente in grado di deporlo e sostituirlo. Ed è proprio dalla conoscenza dei tratti di fondo del processo di genesi di ogni ordinamento giuridico che scaturisce il timore nei confronti della minaccia rappresentata dall’esistenza della violenza al di fuori del diritto. La minaccia riflette, infatti, il rapporto costitutivo tra violenza e diritto che Benjamin in un celebre passo riduce al seguente meccanismo: «Ogni violenza è, come mezzo, potere che pone o che conserva il diritto». Il diritto avverte come minaccia l’esistenza della violenza al di fuori di esso proprio perché qualsiasi diritto è posto e conservato grazie alla violenza come mezzo. La violenza fuori dal diritto “ricorda” dunque l’origine del diritto stesso e quindi rappresenta una minaccia per l’ordinamento vigente.

  1. Verso lo Stato di sicurezza?

Ma la riflessione sulla funzione della violenza come mezzo, come Gewalt che pone e che conserva il diritto, consente forse di individuare una peculiare chiave di lettura idonea a decodificare gli indizi della torsione contemporanea dello Stato di diritto in Stato di sicurezza. Una chiave di lettura che acquista efficacia proprio perché in grado di farci scorgere un orizzonte concettuale entro cui poter inquadrare lo stato di eccezione permanente. A ben vedere, la legge del rapporto tra violenza e diritto, descritta da Benjamin, potrebbe essere compresa come una diversa rappresentazione dei meccanismi che presiedono all’istituzione di un potere sovrano che, sostituendosi al potere sovrano vigente, è da quest’ultimo percepito come manifestazione di violenza da contrastare in qualsiasi modo. Si tratta di una lettura tradizionale certamente corretta.

Il punto, semmai, è chiedersi quale indicazione si possa trarre dalla legge di Benjamin di fronte ad uno stato di eccezione permanente. Ebbene, una possibile indicazione sorge dall’anomalia della minaccia terroristica. Essa è davvero espressione di un potere che vuole sostituirsi a un altro? È l’azione di chi vuole affermarsi come nuovo potere sovrano? O, invece, è la manifestazione di una violenza puramente distruttrice, intesa a destituire un ordine, forse anche un intero contesto culturale, oggi facilmente associato alle ingiustizie scaturite dai processi di globalizzazione? Una manifestazione di violenza che, proprio perché priva di una vera soggettività politica alle spalle, non è alimentata dallo scopo di sostituirsi al potere vigente in Occidente. Una manifestazione di forza e violenza che non ha, cioè, usando la logica di Benjamin, l’intenzione di porre un nuovo diritto bensì di destabilizzare, al limite della destituzione, una forma di civiltà storicamente e culturalmente caratterizzata. A ben vedere, le azioni e le strategie terroristiche sembrano tutte adeguate a quest’ultima interpretazione.

Ma se così è, lo stato di eccezione permanente è l’espressione di una reazione tragicamente obbligata, quale unica possibile affermazione di potere interno negli ordinamenti vigenti, di fronte ad una minaccia esterna che non è identificabile secondo le logiche della costituzione e della destituzione sovrana o secondo la duplice funzione creatrice e conservatrice della violenza rispetto al diritto. Se così è, lo stato di eccezione permanente, e la conseguente tendenza verso la torsione dello Stato di diritto in Stato di sicurezza, non sono altro che i primi segni del successo della strategia destabilizzante, e non certo costituente, del terrorismo contemporaneo.

Alessio Lo Giudice

 

La sinistra da perdere subito e quella da rinvenire adesso

Quando si parla di crisi della sinistra bisognerebbe prima di tutto comprendere quale sia il soggetto che versa nello stato di crisi e a che condizioni si esca da questa empasse. L’informazione politica si lega a filo doppio alle contingenze e troppo spesso a decretare la disfatta o a sancire la risalita sono risultati inessenziali. Era segno di vitalità a sinistra la vittoria di Barack Obama negli Stati Uniti, col suo ovattatissimo fairplay che ha poco ridisegnato gli equilibri internazionali e che negli scenari interni ha avuto serie difficoltà a forgiare adeguatamente l’attuazione delle proprie riforme legislative generali?

Nei Paesi dell’Europa mediterranea, i più colpiti dalla crisi, a turno si rialzano le forze della sinistra riformista tradizionale (Spagna e Portogallo) o prevalgono nuovi movimenti che reinterpretano la propria provenienza di sinistra in modo eclettico e talvolta poco incisivo (Spagna, ancora, e Grecia) o si propongono vie d’uscita centriste e dirigiste dalla crisi di consenso elettorale (Francia e Italia). C’entrano con le esigenze della sinistra del XXI secolo, ormai prossimo al suo primo quinto di percorso, le social-democrazie dell’Europa Orientale, che assommano retaggi statalisti e un riformismo praticamente non pervenuto sui diritti civili? Talvolta vincono proprio ergendosi a baluardo, per l’osservatore esterno, contro le ondate xenofobe e nazionaliste, ma la socialdemocrazia dinamica e inclusivista che doveva superare l’influenza del comunismo con un’Europa dei diritti fondamentali è, nei sistemi politici balcanici, ancora un’utopia mal messa a fuoco. Questi pochi esempi indicano che la crisi della sinistra è una crisi di sistema, è una crisi della sua capacità di creare durevole e trasformativa mobilitazione di base; i (rari) successi elettorali in nulla scalfiscono quella crisi, persino la aggravano: rischiano di far credere che il placebo sia la terapia, che il brodino sia l’arrosto, che la crosta sia un quadro.

Per uscire dalla sua claustrofobica incomunicabilità la rappresentanza politica della sinistra deve individuare il ghetto in cui si è cacciata, con precisione. E parallelamente fornire un’analisi spietata dei treni che ha perso. Nel dibattito italiano, già il movimento del Settantasette e l’autonomia avevano segnalato – non sempre però indicando i rimedi e finendo spesso per eternare ceti e paraceti politici – la frantumazione della soggettività di riferimento della sinistra operaia storica. Il corteggiamento del pubblico impiego, la borghesia culta, il radicamento di fabbrica … non funzionavano più. Leggevano poco e male le battaglie di libertà dall’antiproibizionismo all’antimilitarismo, dal femminismo all’antisessismo. Nel secondo settore come nel terziario avanzato, andava issandosi un doppio binario, esploso soprattutto nell’ultimo decennio ma da tempo sotto gli occhi degli osservatori: la divaricazione tra la platea ristretta di lavoratori ragionevolmente garantiti e la massa informe (perciò afona) dei soggetti privi di qualsiasi tutela formale apprezzabile, alla mercede dei rinnovi, degli spostamenti, del volto gassiforme della “modernità liquida”.

I treni persi sono stati molti e quelli sbagliati su cui si è saliti numerosissimi. Si è persa l’opportunità di agganciare i movimenti per la pace sul terreno di una ridefinizione anticoloniale degli equilibri internazionali: la “prima superpotenza mondiale”, le piazze che urlavano contro la guerra in Iraq, si è sfarinata in meno di un decennio; così pure il movimento contro la globalizzazione delle merci e dei servizi. Non si è compreso che la globalizzazione ha fatto spostare i capitali, ma ha messo nuovi vincoli addosso alle persone: la mobilità non si può fermare. Reprimendola e ostruendola, si moltiplica soltanto la mobilità illegale, antigiuridica.

Si è saliti soltanto sui treni delle mode, sui mantra dettati da altri, non dalla platea tradizionale della sinistra, non dai settori nuovi del disagio sociale: si è stati per la terza via tra il socialismo e il capitalismo, il che era usare i simboli e i partiti del primo a beneficio del secondo; si è stati per la new economy, che ha smaterializzato la ricchezza e finanziarizzato l’economia; oggi si insegue la dottrina sociale di Bergoglio. Un cilindro enorme dal quale i prestigiatori pescano qualunque tipo di coniglio.

Questa è la sinistra da perdere subito, urgentemente, anche se i suoi presidi elettorali sono ancora vivi, per quanto in affanno: la sinistra priva di idee e vogliosa di carriere, la sinistra che a turno si proclama “non più sinistra” (quando conviene depoliticizzarsi per avere più seguito) o “vera sinistra” (quando conviene ri-politicizzarsi per serrare le fila della propria identità). E c’è una sinistra da “rinvenire”, che ancora non si vede, non si è data struttura, non si è data sufficiente forza d’urto né per occupare un immaginario simbolico, né per dare una direzione alla governance. Etimologicamente, “rinvenire” significa “invenire due volte”: verbo strano, questo “invenio”, sta a metà tra il nostro trovare e il nostro inventare. È la scoperta, si, ma non quella casuale, quella consapevole, quella che l’attimo dopo il suo evento viene svelata per ciò che è. È Newton, non è Colombo senza Vespucci. È Spinoza, molto prima che Hegel.

Il futuro di questa sinistra deve misurarsi con soggettività talmente schiacciate dal sistema che spesso non godono nemmeno dei diritti elettorali. La sinistra da rinvenirsi (altra stranezza etimologica: il “ritrovarsi” accidentale diviene il “riprendersi” nel benessere) deve avere a cuore la condizione dei detenuti e degli stranieri illegalmente soggiornanti sul territorio dello Stato, non per deresponsabilizzare il reo o per giustificare l’illecito, ma per eliminare le condizioni che riproducono esponenzialmente una criminalità vessatoria e predatoria. Questa sinistra deve stare coi senzacasa, perché in Italia la crisi abitativa non ha ancora, né forse avrà a breve, la consistenza che ha raggiunto in altri Stati, persino più ricchi, ma certamente il disagio del non avere dimora crea alienazione intollerabile.

E la sinistra da “rinvenire” non deve farsi scrupolo a studiare temi e istanze che non si possono conoscere campando sui simboli di un sapere premasticato. Deve conoscere la condizione dei (non)lavoratori tra i trenta e i quarant’anni, di formazione altamente specialistica e la cui specializzazione è stata menata dal sistema produttivo come il can per l’aia. E deve smetterla di nascondersi che nell’integrazione europea ci sono stati dei capitoli importanti, che hanno migliorato le condizioni di vita negli Stati nazionali per una lunga rincorsa di quasi trent’anni: quegli stessi capitoli che oggi, in nome di una burocrazia europea priva di partecipazione e probabilmente anche dell’adeguato know how tecnico-amministrativa (nonostante per tecnica si spacci!), stanno venendo stinti mano a mano, e poi strappati, e poi inceneriti. Questa sinistra dovrà avere nel proprio DNA l’impresa unipersonale come crescente e ancora però debole strategia di sopravvivenza, ma anche le lotte dei migranti senza documenti in regola, ma con diritti che sfidano qualunque documento. E deve tornare a leggere: avere imparato a memoria soltanto l’abstract della propria storia è come fingere di sapere la trama di un romanzo senza riconoscere la copertina.

Domenico Bilotti

L’internazionale necessaria. Sinistra e globalizzazione

1. Sinistra

In un tempo di clamorose ambiguità terminologiche, quale quello in cui viviamo, una parola che ha sollevato le emozioni di generazioni di uomini, quella che indica lo schieramento politico di sinistra, ha subito una progressiva opacizzazione fino ad essere quasi del tutto fraintesa e perfino capovolta sul piano semantico. Di conseguenza, occorre ribadire con forza che non si può intendere per sinistra altro che una forza politica che, sebbene attraverso modalità eterogenee (riformiste o rivoluzionarie), intende la storia come un processo reale di trasformazione perennemente in atto e teso a traslocare sul piano della rappresentazione/rappresentanza politica le esigenze della democrazia radicale contro le classi liberali e proprietarie. In questo senso, pertanto, è altrettanto ovvio che il processo di emancipazione a cui la sinistra faceva da sempre riferimento aveva un’alta considerazione della sfera della politica/conflitto e considerava la mera amministrazione un semplice addentellato (magari successivo alla conquista del potere) che, se non marginale, certamente cedeva il posto alla sfera sociale e istituzionale del conflitto. Su questo punto, evidentemente, la sinistra, mentre si opponeva frontalmente ai “moderati” liberali, i quali preferivano usare la politica come strumento di perpetuazione del potere, si intersecava in più punti con la destra – anch’essa, sebbene con scopi essenzialmente diversi, volta a intenti trasformativi.
Nel nostro tempo, ciò che invece vediamo è una sfera politica totalmente assorbita dall’attitudine economico- amministrativa. L’amministrazione, la governance, è oggi dappertutto. È evidente, pertanto, che ci sia stato – lentamente ma progressivamente – un appiattimento verso il centro dello schieramento politico e che i conservatori hanno gradatamente espulso sia la sinistra che la destra estreme dagli schieramenti politici.
È vero, altresì, che la sinistra è sempre stata ben lontana dal presentarsi in forma univoca e con intenti convergenti. Tutt’altro. Essa, infatti, nel corso della sua lunga storia, è stata spesso posseduta da una vera e propria tendenza auto-disgregativa. Potremmo qui ricordare le sue fortissime divisioni interne al tempo della guerra fredda: lo schieramento dei filosovietici si contrapponeva in maniera irriducibile a coloro che sostenevano invece un riformismo liberaldemocratico. E, andando ancora un po’ più indietro nella storia, come non pensare alle divisioni fra riformisti e rivoluzionari che provocò la fuoriuscita del nascente partito comunista dal partito socialista (1921)? Continuando in questo gioco a ritroso, potremmo perfino tornare con la mente alle diverse modalità con cui le istanze tipiche della sinistra, ossia la lotta per i diritti umani e per il raggiungimento d’una migliore uguaglianza contro l’arroganza delle classi privilegiate, si sono svolte all’interno della prassi socio-politica, sfrangiata e caleidoscopica, costituita dalla Rivoluzione francese e dalla sua deriva napoleonica.
Pertanto, assunto che una vocazione alla divisione interna sia una costante della sinistra, ciò che conta sono le modalità con le quali tali divisioni appaiano oggi. La messa in rilievo delle differenze sostanziali dell’attuale rispetto alle fasi storiche precedenti, consente uno sguardo più incisivo nei meccanismi che guidano la storia, sulla base del quale forse potrebbe essere possibile offrire anche qualche idea al suo sviluppo.

2. Fine della sinistra?
Il problema del potere oggi sembra aver ormai oltrepassato le categorie novecentesche: destra e sinistra appaiono largamente superate dalla storia (per lo meno nelle loro attuali declinazioni). Non che non esista più il conflitto politico: evidentemente, quest’ultimo sarà vivo fino a quando vi saranno uomini. Il grande indice del mutamento, però, avvenuto in modo particolare a partire dal 1989, quando si ruppe il bipolarismo fondato a Yalta, è la disgregazione e la frammentazione del corpo sociale che un tempo si raccoglieva intorno alla “sinistra”.
E, appunto, a partire fondamentalmente dagli ultimi decenni del XX secolo, la sinistra si è frammentata in mille rivoli diversi e ha mutato perfino la sua essenza. Perché è accaduto tutto ciò e sulla base di che cosa? Non è facile rispondere ad una domanda simile, tuttavia, forse alcune realtà macro-sociologiche si possono indicare: sviluppo dei trasporti, crisi del bipolarismo di Yalta, avvento di internet e innovazioni tecnologiche, flussi migratori, nuove sovranità sovranazionali, limiti energetici e ambientali allo sviluppo di sistema ecc. Tutto ciò ha edificato realtà socio-politiche che hanno lentamente eroso la base sociale storica della sinistra, permettendo – appunto – l’introduzione di modalità meramente amministrative (e dunque conservative) che hanno eroso se non cancellato integralmente le forze tradizionalmente progressiste. Si è affermata, in tal modo, una visione della sinistra tutta interna al modello amministrativo-competitivo, a-statuale e per nulla sociale (Clinton, Blair), ossia quella che ha assunto come punti di riferimento il neo-liberismo di Reagan e Thatcher. I fenomeni che si sono legati a questa visione del mondo – convinta che l’arricchimento smodato dei pochi avrebbe favorito il miglioramento dei molti – ha prodotto fenomeni devastanti quali la finanziarizzazione estrema dell’economia, le privatizzazioni, i licenziamenti e le precarizzazioni nel mondo del lavoro, le pratiche di deregulation e l’enfatizzazione del ruolo dell’economia. Per quanto riguarda l’Europa, inoltre, la nascita dell’UE, data la diversa condizione di partenza dei popoli membri dell’Unione, ha reso necessario l’introduzione, in alcuni paesi, di severe politiche di austerity le quali si sono rovesciate quasi esclusivamente addosso al ceto medio e a quello basso senza neppure offrire a questi ultimi la possibilità di sentirsi rappresentati contro i ceti dominanti, e di conservare dunque la speranza, ma esponendoli semplicemente alla colpevolizzazione rispetto a se stessi. Questo modello di sinistra, in rotta di collisione rispetto ai suoi stessi valori tradizionali, portava alle estreme conseguenze quell’individualismo già da sempre annidato nel codice genetico della modernità. Diversamente dalle pratiche istituzionali e simboliche del Moderno, tuttavia, la visione del mondo della sinistra neo-liberal non trovava più alcun gruppo organizzato (neppure lo Stato) come argine simbolico o reale al proprio scatenamento.
La conseguenza immediata di tutto questo, accanto alla lacerazione del tessuto sociale e dell’idea stessa di comunità, è stato l’aumento esponenziale delle disuguaglianze e l’incremento delle tensioni sociali con il risultato che la grande parte della base elettorale della sinistra si è spostata in massa verso i partiti nazionalisti di destra.
Per quanto riguarda le classi intellettuali, le stesse che la precedente sinistra considerava guida insostituibile e preziosa nella direzione della conquista egemonica del potere, che cosa dire? Il minimo è che le élite hanno seguito pari pari la trasformazione (se non il tradimento) di cui erano state protagoniste le classi politiche. Slegati dai bisogni delle persone, quasi sempre a braccetto con banchieri e plutocrati, le élite intellettuali dirigenti della sinistra hanno perso la fiducia delle classi lavoratrici. Particolarmente efficace è la formula “radical chic” coniata nel 1970 da Tom Wolfe, scrittore e giornalista statunitense. Tale definizione, a mio avviso, è estremamente utile per indicare non soltanto coloro a cui era stata riferita direttamente da Wolfe, ossia gli intellettuali newyorchesi ricchi che, negli anni Sessanta e Settanta, ospitavano nei propri salotti ogni sedicente “rivoluzionario”, dalle Pantere Nere agli antimilitaristi di professione, agli hippy psichedelici. In realtà, tale definizione può essere estesa fino a raccogliere quegli intellettuali o politici che, nella loro visione della storia snobistica, benpensante, intellettualoide, quanto sostanzialmente ipocrita, rappresentano esattamente il clamoroso distacco delle élite dalla propria base di riferimento. A causa del tradimento delle classi dirigenti, pertanto, ma considerando anche altri elementi storico-contingenti, milioni di elettori di sinistra – appunto – hanno traslocato le loro simpatie politiche verso le destre – spesso nazionaliste e sovraniste.
Se questo è lo scenario complessivo, che cosa dunque rimane nell’orizzonte attuale della storia? Data la insopprimibilità del potere sovrano, a chi possiamo dire che la sovranità oggi appartenga? La grande novità storica è che il potere si presenta ora raccolto all’interno di due dimensioni fortissime e quasi inespugnabili: la tecnica e i suoi sacerdoti da una parte, e le sovranità transnazionali (per esempio l’UE) e i suoi sacerdoti , con relativi chierichetti, dall’altra.
Il potere, o meglio i poteri dominanti, schierano ogni giorno le loro immense risorse militari e di propaganda al fine di soffocare sul nascere l’emergere di una coscienza collettiva che possa poi divenire “di sinistra”. Non passa giorno senza che si registrino attacchi, il più delle volte pretestuosi e privi di fondamento, atti a scatenare la paura o le tensioni interne a masse inebetite. Del resto, si tratta di strategie già abbondantemente utilizzate in altri tempi, anche recenti, e non vi sono motivi per supporre che non possano funzionare ancora.
Non sono particolarmente ottimista circa il ritorno di una effettiva lotta politica democratica e di un ripristino di una sana dimensione del conflitto. Non lo sono non tanto perché consideri invincibili i poteri che oggi dominano il mondo, quanto perché le masse appaiono del tutto disgregate, incapaci di tenere una linea coerente e sprovviste di lungimiranza: afflitte altresì da una falsa coscienza rassegnata al proprio destino servile, se non totalmente inconsapevoli della posta in gioco. Senza l’apporto delle donne e degli uomini coscienti della loro libertà (ciò che il potere si affanna ogni giorno a deprimere), tuttavia, il conflitto politico indispensabile alle forze di sinistra non potrà in alcun modo attivarsi e crescere. Esiste il pericolo assai concreto che, nei prossimi decenni, il potere possa diventare ancora più inattaccabile ed esteso di oggi.
Tale pericolo è nutrito dalla crisi della rappresentanza istituzionale che fa da pendent alla passività di elettori /utenti, sotto molti aspetti, teleguidati in maniera emozionale e a-critica verso scelte per nulla consone a come dovrebbero essere le scelte di un elettore democratico, ossia informate e ben elaborate. Come già era stato, in maniera visionaria, annunciato da una grande linea del pensiero politico che va da Tocqueville ad Arendt, attraverso Nietzsche e i Francofortesi, l’homo (post) democraticus, nella sua postura dromologica e privo delle risorse tradizionalmente affidate alla dialettica e all’elaborazione, orfano di immaginazione e incapace di approfondimento, appare destinato a privilegiare atteggiamenti “automatici”, “ideologici”, disarticolati, incoerenti e di corto respiro. In tal modo, pertanto, l’epoca della complessità diviene – per singolare paradosso – quella del non-pensiero. Non può che essere tale infatti l’atteggiamento di un uomo globalizzato meramente formato dalla tecnica e dal denaro, alienato e sradicato, irreggimentato non più, come avveniva nel moderno, nelle masse guidate da un ideale e volte verso una frontiera, ma abbandonato nel vuoto di una solitudine che, per essere colmata, per evitare l’angoscia estrema, ha davanti a sé soltanto la linea di fuga verso un conformismo omologante e mimetico che non richiede alcuno sforzo e che solleva dalla fatica inevitabile connessa ad una soggettivazione “singolare”.
Il moderno aveva esordito con l’idea del dominio prometeico da parte dell’uomo sulla natura. L’uomo della modernità aveva spostato incessantemente le proprie frontiere proprio allo scopo di superarle. La tecno-scienza era esattamente questo. Alla fine del percorso moderno, ci ritroviamo però con un apparato costruito dall’uomo che esercita diabolicamente il proprio dominio sull’uomo stesso. La città elettronica (la Ecity) estende le proprie propaggini su tutta la terra e chiede ad ogni singolo uomo di costituire nient’altro che una piccola, insignificante rotella del suo immenso meccanismo. Le donne e gli uomini del XXI secolo sono spinti incessantemente verso processi di soggettivazione tesi alla costruzione di una child society nella quale una grande entità – la tecno-finanza – provvede a tutte le esigenze umane in cambio della libertà e del pensiero.
Provare a ricostruire una piattaforma teorica di sinistra non dovrebbe significare anzitutto prendere posizione rispetto a questo?

3. Possibilità
La fine dell’universalismo statuale, oltre ad aver fatto emergere soggettività prima compresse, ha dato spazio ad una situazione socio-istituzionale con tratti marcatamente nichilistici. La globalizzazione, in questo quadro, sembra costituire ormai un mondo chiuso su se stesso: asfittico e claustrofobico. In conclusione, e soltanto in maniera evocativa, mi piacerebbe sottolineare però che le possibilità per un nuova sinistra, benché assai fragili, esistono. Si tratta di un sentiero strettissimo, arduo da frequentare e che necessita di tempi probabilmente lunghissimi.
E dunque: intanto, l’universalismo non dovrebbe essere identificato sic et simpliciter con la città elettronica globalizzata, sradicante e priva di contenuti che non siano quelli legati all’impero della tecno-finanza: occorrerebbe cioè costruire un senso inedito dell’universalismo: un’’“idea” universale di uomo fondamentalmente rimossa nell’ambito dei secoli moderni che oggi, del resto, sembra ancora tanto lontana. Si tratta di una prospettiva potente, poiché capace di svuotare dall’interno sia i comunitarismi ultra-blindati delle nuove destre, sia l’astrazione iper-tecnologica, anonima e impersonale, delle sinistre neo-liberal: è un universalismo concreto, nel quale le esigenze dei corpi vissuti, in quanto originariamente segnati da un’appartenenza data dalla memoria storica e dal legame con uno spazio/ambiente determinato, possono senz’altro essere investite di senso all’interno di uno spazio globale nel quale il confronto fra libere differenze non sia assoggettato alla logica imperialistica ed omologante del capitale finanziario.
In un tempo in cui l’universalismo è lasciato al nichilismo della tecno-scienza e al consumismo planetario, il compito più difficile ma anche più urgente è quello che si sforza di recuperare il senso universale dei corpi prima ancora che questi siano cooptati nello spazio impersonale e anonimo della ecity. In effetti, uno dei connotati della tecnica è proprio quello di impedire alla soggettività di attivare le intenzionalità dei corpi, obliterandole a favore di un dogmatismo spersonalizzante quanto omologante. I corpi nei quali sono sedimentate le innumerevoli memorie storiche andrebbero, di contro, valorizzati e fatti esprimere a pieno, alla luce di uno spazio pubblico (esterno ormai ai confini dello Stato moderno) nel quale agiscono libere differenze ed intervalli singolari.
Il capitalismo contemporaneo ha l’ambizione di slegarsi da qualsiasi contenuto di senso culturale: si tratta di un nichilismo che pensa se stesso – paradossalmente – come un’affermazione senza precedenti della libertà. Il capitalismo contemporaneo, diventato città elettronica globalizzata, ha la necessità vitale di corrodere e cancellare i significati culturali locali, poiché ha bisogno di estendersi senza alcun condizionamento pre-esistente che possa ergersi come limite alla diffusione della tecno-finanza.
Tuttavia, il capitalismo della ecity contemporanea non si riconosce in quanto nichilismo. Esso, al contrario, trasforma la cancellazione del senso di cui è protagonista, in una proliferazione incessante di significati/eventi. Ciò produce non soltanto l’”impercezione” del capitalismo in quanto nichilismo, ma anche la dimenticanza del vuoto di senso di cui il capitalismo stesso rappresenta l’espressione più compiuta. E così, nel proliferare incessante di eventi/vuoti, anche il dissenso diviene parte attiva della mega-macchina universale: è infatti del tutto ovvio che, all’interno di un orizzonte di questo tipo, non si possa in alcun modo parlare di una logica antagonistica. In realtà, le forme di critica, come piccoli o grandi trompe-l’oeil, risultano perfettamente organici al sistema e vengono perfino utilizzati come motore del suo stesso dinamismo. Non è possibile opporsi alla ecity: essa, come un gigantesco magnete cosmico, non smette di esercitare un’irresistibile forza ipnotica. Forse se ne può parlare soltanto con termini teologici, dal momento che il capitalismo contemporaneo è un sistema di produzione economico che coinvolge in sé, e che anzi presuppone, una visione del mondo globale che si radica in un’antropologia storica assai peculiare. In questo senso, avevano visto giusto coloro che scorgevano nel capitalismo una vera e propria religione. Si tratta, però, di una religione senza dogmatica né teologia ma interamente fondata sul “culto”, ossia la produzione e il consumo innalzati a festività permanente. Il capitalismo concerne un culto inteso come pratica costante del debito e dunque del peccato: un peccato che non prevede alcuna redenzione, mentre il mondo vive costantemente accanto alla possibilità dell’apocalisse. Nel capitalismo non è prevista espiazione, bensì radicalizzazione e universalizzazione della colpa.
In un orizzonte simile, pertanto, per poter acquisire un ruolo politico di sinistra, la critica dovrebbe acquisire coscienza di sé al punto da diventare “senso del vuoto”: soltanto in tal modo, essa potrebbe innervare nuove “simboliche” di azione politica. In questa maniera, cioè, attraverso la modulazione attiva di corpi portatori di memoria e di concretezza storica, sarebbe possibile restituire al politico una dimensione di partecipazione tale da assurgere ad un ruolo di reale antagonistico rispetto alla ecity globalizzata.
È chiaro che tutto ciò presuppone però una nuova investitura politica. Lo spazio pubblico in quanto tale dovrebbe ritornare – sia pure con modalità che rimangono in larga misura da inventare – a rivestire un ruolo significativo. Soltanto una ripoliticizzazione dei corpi e del loro essere in comune appare in grado di ridare vigore ad una globalizzazione che oggi presenta soltanto tratti nichilistici. La peggiore globalizzazione è quella che tende, invece, alla spersonalizzazione del rapporto lavorativo e alla strutturazione endemica del disagio, alla de-localizzazione della produzione e alla costruzione di oligarchie assolutamente indifferenti alla realtà dei singoli. La globalizzazione in senso deteriore costruisce modelli sganciati dalle realtà locali, ma non prende in considerazione un fattore decisivo, ossia che la politica abita nei corpi delle donne e degli uomini, così come è nei territori dove i corpi vivono la loro esperienza che si accumulano le memorie individuali e collettive. Non che nei territori ci si possa ritrovare in una maniera romanticamente “autentica”. Non è a questo che penso. Al contrario, ritengo che lo specifico dell’uomo non sia affatto ritrovarsi quanto piuttosto perdersi, per poi ri-conoscersi. E, tuttavia, non è possibile né perdersi né tantomeno riconoscersi quando la propria identità storica accumulata nelle memorie dei corpi e dei territori siano obliterati dal dogmatismo tipico della città globale.
In questa luce, pertanto, appare di somma importanza disoccultare la particolarità soggettivo-corporea (con le relazioni comunitarie che essa già da sempre implica) dalla coltre fittissima degli aspetti macchinali che la ecity globalizzata comporta. Si tratta di elementi in grado di destrutturare un biopotere feroce ed inflessibile che dispone di capacità manipolatorie senza precedenti. Dati questi presupposti, sembra che dal nichilismo della città elettronica, in realtà, non si possa uscire: e comunque non subito e forse mai del tutto. La società dei simulacri, il grande apparato della tecno-scienza, si im-pone con una forza che appare invincibile.
Eppure, anche la paura di deragliare dai binari del potere sociale, come tutte le cose umane, ha i suoi limiti. Non sono rari i momenti e le circostanze nelle quali i timori sono meno grandi delle realtà che li hanno fatti nascere. Occorre però fare attenzione a non credere di potersi opporre alla macchina in maniera soltanto apparente – come quando si entra nel gioco perverso della violenza collettiva – mentre non si sta facendo altro che alimentarla. In realtà, nessun approdo ad un altro orizzonte storico-culturale sarà possibile se non passando attraverso lo stretto sentiero della coscienza individuale. È soltanto grazie a quest’ultima, infatti, che potrà avvenire la lotta difficile nei confronti del nichilismo della tecno-finanza. Dovrà essere soltanto la coscienza, cioè, a combattere contro quei dispositivi macchinali nei quali siamo già da sempre strutturati e che ci costituiscono in quanto soggetti sociali: quegli stessi che, magari senza che ce ne avvediamo, vanno a costituire un piccolo meccanismo dell’immenso apparato universale. Il dovere primario sarebbe allora quello di liberarci da convinzioni, pregiudizi, concetti imposti dall’esterno e perfino da desideri che stentiamo a distinguere da noi stessi. Parallelo a questo, dovrebbe essere il compito di rivoltarci, magari anche attraverso modalità non violente di disobbedienza civile: coscienze individuali capaci di costituire un fronte comune per un nuovo tessuto di senso.
Nessun sistema è tanto irrispettoso della singolarità umana di un modello di sviluppo tale che, prima di guardare agli uomini e alle relazioni concrete, costruisce una città elettronica davanti alla quale gli individui possono soltanto scegliere se entrarvi come meccanismi insignificanti o esserne esclusi come carne superflua. In fondo è questo l’attuale scenario oscillante fra la ecity e la no city. Una tappa ulteriore della civiltà umana, invece, avrebbe il compito di recuperare l’idea secondo la quale i corpi sono differenze in atto da mediare incessantemente all’interno di uno spazio democratico e che non vi sono differenze che non vivano concretamente all’interno di corpi incessantemente desideranti e agenti su un piano di universalità.
Sebbene la coscienza individuale detenga il ruolo fondamentale quanto alle possibilità di rilanciare un’autentica lotta “di sinistra”, è necessario altresì sottolineare come nulla sia più indispensabile, se si intende procedere in questa direzione, quanto la creazione di un’unità. Senza quest’ultima, infatti, senza la coordinazione in un movimento unico di masse post-statuali liberate dagli egoismi nazionalistici e capaci di visualizzare gli interessi comuni (la violenza sull’ambiente, il nascente pauperismo, la consapevolezza dei rischi di guerre globali, la crescita delle disuguaglianze) nessuna emancipazione sarà mai possibile. Nel tempo della globalizzazione, nel nostro tempo, troppi sono i vincoli che possono essere opposti e imposti a gruppi di sinistra che intendessero rivoltarsi contro l’ordine dominante rimanendo però soltanto all’interno di un ambito nazionalistico (connotabile ormai in senso sempre più provinciale). Occorre(rebbe) dunque – mutatis mutandis – una nuova Internazionale. E ciò è paradossale, poiché quanto più c’è bisogno di unità e di internazionalismo, tanto più le masse contemporanee appaiono disarticolate e atomizzate: disponibili a rinvenire soltanto nella tecnologia massmediatica il proprio elemento aggregante e/o dis-aggregante.
In ogni caso, nonostante le difficoltà del lavoro, mi sembra abbastanza indubitabile che una sinistra degna di questo nome abbia, oltre che il compito, anche la necessità storica di procedere in tale direzione.

Antonio Martone

Il vero Ottantanove – Alle fonti dei «diritti dell’uomo» e della «laicità»

  1. I «diritti dell’uomo e del cittadino»

 Come e quando nasce il concetto di «diritti dell’uomo e del cittadino»? Le tappe del processo di definizione dei diritti umani che vengono svincolati dal riferimento normativo alla credenza nella trascendenza di un Dio e nelle sue leggi, sono numerose – anche in quei luoghi in cui vien fatta menzione retorica di un «Dio» che non appartiene tuttavia più a una religione rivelata determinata, ma è il Dio di Spinoza e dei deisti, l’«architetto del mondo» di un Voltaire. Alcune di queste tappe, in particolare, devono ritenere la nostra attenzione. Lo Spirito delle Leggi (1747) di Montesquieu, le voci «Autorità politica» e «Diritto naturale» dell’Encyclopédie (1751) di Diderot, la Storia delle due Indie (1780-1782), dell’abate Raynal, cui lo stesso Diderot diede un importante Contributo. Dietro questi elaborati testuali ci sono ovviamente altre grandi sintesi – il Trattato teologico-politico (1670) di Spinoza, ma va ricordato anche il Locke dei Due trattati sul governo (1690) e la tradizione del diritto naturale tra Sei e Settecento (Grozio, Pufendorf), il Contratto sociale di Rousseau (1762), che da quella tradizione emana; infine la Politique naturelle (1773) e l’Ethocratie (1776) di D’Holbach, le diverse forme di pensiero «utopistico», affidato all’anonimato o alla letteratura clandestina, durante tutto il periodo dell’Illuminismo[1].

Cosa accade in questi testi? Dico «accade», per sottolineare il valore performativo di queste opere, che dal linguaggio passano, spronano direttamente all’azione. Lo Spirito delle Leggi, di Montesquieu, va ricordato, venne subito condannato al rogo dal Parlamento di Parigi nel 1748 e l’autore si salvò solo grazie alla sua condizione di nobile e ai potenti appoggi di cui godeva presso certi ambienti della corte. Il primo evento è di ordine metodologico, e va sotto il nome di «determinismo geografico». Cosa s’intende con ciò? Montesquieu sostenne che il carattere, appunto lo «spirito» delle leggi è determinato, nei diversi popoli, dalla situazione geografica e geo-politica, diremmo oggi, nella quale essi si trovano a formularle. Le leggi cambiano, a seconda dei tipi di popoli: del Nord, delle Zone temperate, del Sud ecc. Il mutamento e la varietà delle leggi, e i conseguenti «diritti» (al plurale), sono dipendenti anche dalla storia, dal passato diverso di questi popoli. Inoltre, contrariamente a Hobbes, Montesquieu sposta il terreno del conflitto tra gli uomini dal cosiddetto ius naturae, dallo «stato di natura», allo ius civilis, lo stato civile, in questo vicino alle tesi del Contratto sociale di Rousseau.

Gli uomini non si fanno la guerra in un ipotetico «stato di natura», nel quale sarebbero, al contrario, essenzialmente buoni (il «buon selvaggio» di Rousseau), bensì si fanno la guerra solo nello stato civile, quando cioè si organizzano in società e in Stati. Le leggi servono, perciò, a rendere incruento il conflitto e a regolamentarlo. È un passo avanti enorme. Ogni cittadino è libero fin là dove inizia la libertà del suo simile, e le leggi stabiliscono appunto i confini di tale libertà nel diritto comune a ciascuno. Si capisce bene tuttavia – come osserverà criticamente Rousseau, nell’articolo «Economia politica» (1752) dell’Encyclopédie – che i cittadini più ricchi e potenti hanno facilmente la meglio sui più deboli, se la condizione di partenza di ciascuno è diseguale. Montesquieu, ad esempio, con Lo Spirito delle leggi, la vinse facilmente contro la censura, mentre un povero artigiano che nel 1773 venne trovato con una copia in tasca dello Spirito delle leggi e del Bon sens (1772) di D’Holbach, dovette scontare ben otto anni di prigione. In linea di principio, sul piano formale, tutti, sovrano compreso, sono sottoposti alle leggi, che al tempo di Montesquieu erano applicate in modo diverso secondo i diversi «stati» di cittadini. La rivendicazione di eguaglianza reale di fronte alla legge sarà una delle idee di punta del rousseauismo, che ispirerà molti rivoluzionari del 1789.

Una tappa ulteriore viene compiuta, in direzione dell’eguaglianza dei diritti dei cittadini, oltre che dal già menzionato Rousseau, da Diderot e D’Holbach. Rousseau stabilì che la sovranità reale, ossia il luogo reale del potere, non risiede nel monarca, ma nella «volontà generale» del popolo, che diviene una sorta di «deposito» delle leggi cui il monarca, e il suo potere esecutivo, devono attingere. Nel Contratto sociale, emerge la nozione di «consenso» senza il quale nessun sovrano è legittimato a governare. Non è la semplice appartenenza a una comunità e la condivisione di una comune credenza, ma una comune volontà politica, a sancire il deposito di legittimità delle leggi e del diritto.

Poi ci sono i «diritti naturali» dell’uomo, su cui si soffermerà Diderot, che non sono assimilabili alle regole del «diritto positivo», diverso, storicamente e culturalmente, da popolo a popolo. Tali diritti sono più alti e più universali, indipendenti in certa misura dalle variabili storiche. Sono il diritto all’esistenza, alla libertà e, infine, alla proprietà. Nessun uomo può, neanche volendolo, alienare una benché minima parte ad esempio della propria libertà, né della propria esistenza. Solo la proprietà può essere alienata, ma è un’alienazione apparente, in quanto cedendo una proprietà, nel mercato, si riceve un altro bene formalmente equivalente, dunque anche questa proprietà è un intero inalienabile nella sua sostanza.

Su tali fondamenti Diderot condannerà, senza mezzi termini, la schiavitù come un’attività criminosa, che viola il sacro diritto dell’uomo alla libertà, attività perciò da bandire dal consesso dell’umanità civile. Ci sono pagine assai eloquenti al riguardo, nel Contributo alla Storia delle due Indie (1780), in cui Diderot usa toni molto accesi che troveranno risonanza durante la Rivoluzione francese, quando la schiavitù verrà abolita ufficialmente, per decreto, nel 1794. Sono pagine poco note, soprattutto in Italia, che val la pena di leggere. È la celebre invocazione dell’avvento di un «nuovo Spartaco», che troviamo nell’edizione della Storia delle due Indie dell’abate Guillaume-Thomas Raynal, del 1774, cui Diderot diede il suo Contributo. Il «nuovo Spartaco», sotto la penna del filosofo, diventerà nell’edizione del 1780 il «grand’uomo» che l’umanità oppressa attendeva da gran tempo:

Dov’è questo grand’uomo che la natura deve forse all’onore della specie umana? [(ed. 1774): Dov’è questo nuovo Spartaco, che non troverà dinanzi a sé nessun Crasso]. Dov’è questo grand’uomo che la natura deve ai suoi figli vessati, oppressi, tormentati? Dov’è? Apparirà, non dubitiamone, si mostrerà, innalzerà il sacro stendardo della libertà. Questo venerabile segnale raccoglierà attorno a sé i compagni della sua sventura. Più impetuosi dei torrenti, lasceranno dappertutto le tracce incancellabili del loro giusto risentimento. Spagnoli, Portoghesi, Inglesi, Francesi, Olandesi, tutti il loro tiranni diverranno preda del ferro e del fuoco. I campi americani s’inebrieranno con trasporto di un sangue che attendevano da così tanto tempo e le ossa di tanti sfortunati, ammassate da tre secoli, trasaliranno di gioia. L’antico mondo unirà i suoi applausi al nuovo. Ovunque si benedirà il nome dell’eroe che avrà ristabilito i diritti della specie umana, ovunque si erigeranno dei trofei alla sua gloria. Allora il codice nero sparirà; e quanto sarà terribile il codice bianco, se il vendicatore non consulterà che il diritto di rappresaglia! In attesa di questa rivoluzione, i negri gemono sotto il giogo dei loro lavori, la cui descrizione non può che renderci più interessati al loro destino[2].

 

I concetti-chiave ci sono già tutti: «diritti della specie umana», «rivoluzione», «codice» ecc. Poco sopra, nello stesso capitolo, Diderot aveva fatto intervenire un’altra figura, odiosa stavolta, quella del negriero intento ai propri affari, e, soprattutto, quella della religione che, proibendo la resistenza al male ̶ cioè il Cristianesimo ̶ li legittimava. Qui, la laicità occidentale emette, in concreto, i suoi primi vagiti rivoluzionari:

 

Guardate quest’armatore che, curvo sul proprio scrittoio, regola, con la penna in mano, il numero di attentati che può far commettere sulle coste della Guinea; che esamina, a suo agio, di qual numero di fucili avrà bisogno per ottenere un negro, quante catene per tenerlo garrotato sul suo naviglio, quante fruste per farlo lavorare; che calcola, a sangue freddo, quanto gli varrà ogni goccia di sangue che questo schiavo verserà nella sua abitazione; che discute se la negra darà di più o di meno alle sue terre, con i lavori delle sue deboli mani, che con i pericoli del parto. Voi fremete… Eh! Se esistesse una religione che tollerasse, che autorizzasse, non foss’altro che con il suo silenzio, simili orrori; se occupata in questioni oziose o sediziose, non tuonasse senza posa contro gli autori o gli strumenti di questa tirannia; se essa facesse addirittura un crimine, per lo schiavo, spezzare le sue catene; se soffrisse di avere in seno a sé il giudice iniquo che condanna a morte il fuggitivo: se questa religione esistesse, non bisognerebbe strozzarne i ministri sotto le rovine dei loro altari?[3]

Questa «religione» esisteva. È esistita, per secoli, dopo la scoperta dell’America, e durante tutto il corso dell’età coloniale, fin nel secolo XIX, pronta a legittimare gli orrori della schiavitù in nome del «diritto canonico», quel diritto preteso superiore al «diritto naturale», che derivava dall’appartenenza confessionale alla sola e unica vera Religione Cattolica, Apostolica e Romana ̶ i nativi americani, non avendo ricevuto la rivelazione e dediti a «culti barbarici», erano considerati alla stregua di non-uomini o di animali. Ma più tardi anche la religione «pretesa Riformata» non fu da meno in tal senso, a legittimare o tollerare la schiavitù nel mondo (a parte individuali eccezioni).

Le riflessioni di Diderot sfociarono, una decina di anni più tardi, nelle prime dichiarazioni dei diritti dell’uomo e del cittadino e nel già menzionato decreto di abolizione della schiavitù senza indennizzo per i proprietari, che fu sancito dalla Convenzione Nazionale a maggioranza giacobina. È il decreto 2262, del 16 Pluvioso, anno II (4 febbraio 1794) della Repubblica Francese, una e indivisibile, che abolisce la schiavitù dei negri nelle colonie:

La Convenzione Nazionale dichiara che la schiavitù dei Negri in tutte le Colonie è abolita; di conseguenza, decreta che gli uomini, senza distinzione di colore, domiciliati nelle colonie, sono cittadini Francesi e godranno di tutti i diritti garantiti dalla Costituzione. In nome della Repubblica, il Consiglio esecutivo provvisorio comunica e ordina a tutti i corpi amministrativi e tribunalizi, che la presente legge facciano consegnare nei loro registri, leggere, pubblicare ed affiggere, ed eseguire nei loro dipartimenti e competenze rispettive; in fede di ciò, noi vi abbiamo apposto la nostra firma e il sigillo della Repubblica. A Parigi, il ventiduesimo giorno di Germinale, anno II della Repubblica Francese, una e indivisibile.

 

Cosa bisogna intendere precisamente, a quest’epoca, con la parola «laico» e, più tardi con «laicità», termini che accompagnano questi eventi emancipativi e fondatori?

 

  1. Le insidiose ambiguità della nozione di «laicità»

 

La tematica della «laicità» eccede senz’altro i limiti di questo breve intervento. Tenterò dunque di abbozzare soltanto i contorni della questione, con riferimento alle prime apparizioni della “cosa”, la laicità, nell’età dell’Illuminismo e della Rivoluzione dell’Ottantanove, prima che appaia la parola “laicité”, in francese (la prima delle lingue europee). Il termine laicità appare infatti solo alla fine del XIX secolo, in occasione del caso Dreyfus, affermandosi poi nella lingua corrente sulla scia della Loi Émile Combes, del 1905, ancora oggi in vigore in Francia (con alcuni ritocchi in senso reazionario, voluti da N. Sarkozy), che sancì la radicale separazione dello Stato dalle Chiese, in particolare la Cattolica, soprattutto sul terreno dell’educazione.

L’aggettivo laïque (o laïc) esisteva già da gran tempo, come attestano i dizionari dei secoli XVII e XVIII. Il significato era sinonimo di «secolare», ossia di non appartenente al clero o all’apparato ecclesiastico, con valenza neutra, avente anche funzione di sostantivo: «un laico», come dirà il Littré nel Dizionario della lingua francese del 1873, è «colui che non è né ecclesiastico, né religioso»[4]. Ma nell’etimologia il termine ha due fonti: 1/ dal greco laos, che designa il popolo, distinto da ethnos e demos che esprimono il senso sociologico o politico. Laikòs significa dunque «del popolo» o «popolare». 2/ Più tardi, in età tardo medievale, interverrà il senso di laicus, in latino, come di ciò che non è appartenente alla chiesa.

I due significati, in età moderna vengono a sovrapporsi e a condensarsi. Quindi, «laico» è termine che si situa alla giuntura di due significazioni assai diverse: «laico» è insieme colui che appartiene al popolo e colui che non esercita alcuna funzione sacerdotale in seno alla chiesa. Tale ambiguità o ambivalenza spiega una serie di malintesi che continuano a interessare il concetto tardivo, contemporaneo, di laicità, inteso oggi più come antitesi alle credenze e alle religioni che come equivalente dell’appartenenza al popolo (laos). Tra senso neutro e senso «militante», la laicità è perciò spesso malintesa e può servire a giustificare delle prese di posizione talora opposte. È un’opposizione che viene a risorgere, oggi, in un periodo che si potrebbe definire critico per la laicità. Le profonde trasformazioni che nel mondo contemporaneo interessano lo statuto del «credere» e della credenza, in seno alle società globalizzate, accanto al risorgere di movimenti più o meno radicali e integralisti in campo religioso ̶ come anche il nesso tra le diverse «credenze» in situazioni socio-politiche difficili per certe popolazioni del pianeta ̶ , favoriscono confusioni e amalgami che sfociano sempre più in conflitti violenti e in soluzioni criminali, contrari alla pace civile e, in ultima analisi, all’equilibrio della civilizzazione mondiale.

Qui la laicità diventa una posta politica importante, che gioca a vantaggio di situazioni o di progetti contraddittori – come, ad esempio, i propositi di «laicizzare» contesti sociopolitici (Medio Oriente, bacino mediterraneo) in cui le religioni rivelate giocano tuttora un ruolo culturale egemone: quale «credere» o «credenza» offre la laicità in alternativa alle religioni rivelate?. La laicità ridiventa così un problema al quale occorre trovare una soluzione che giochi positivamente al fine di assicurare un «vivre ensemble dans la dignité» ̶ come sostiene a ragione Fathi Triki[5] ̶ per ottenere il quale occorre riportarci, in certo modo, da storici, alle sue fonti. Dobbiamo riportarci cioè all’epoca in cui le società europee dell’Occidente erano anch’esse profondamente marcate dal peso del fatto religioso, nella sua massima potenza d’espressione. Il periodo cruciale è quello che gli storici definiscono «l’età dei Lumi», tra Seicento e Settecento, cioè l’età della diffusione, su ampia scala, di un senso comune razionalista nuovo, che affrancò gli uomini dal vincolo pubblico sacrale, portando le società umane a ricostruire, su nuove basi, il nesso tra potere politico e credenza.

Per dirla in breve, la filosofia tra Sei e Settecento, dallo Spinoza del Trattato teologico-politico (1670) al Diderot dell’Encyclopédie (1751-1772), ha spostato il centro della battaglia per le istituzioni del vivere comune, dal legame sociale tra politica e credenza (legge divina, ispirata alle Sacre Scritture e alle diverse Chiese), al legame sociale che s’istituisce tra politica e diritti dell’uomo, più precisamente «i diritti del genere umano» di cui parla Diderot nel Contributo alla Storia delle due Indie, letto sopra, che diventarono un nuovo «credo» universale. I diritti del genere umano come nuovo «credo» universale, è ci che fa oggi problema. Questo concetto superò e integrò la funzione storica e sociale svolta per secoli dalle credenze religiose e assunse un ruolo nuovo, non ovunque e universalmente egemone. Fu uno spostamento di portata universale e cruciale nella storia dell’umanità.

 

 

  1. La nascita vera e propria della laicità

 

Con l’abolizione della schiavitù sancita dall’Assemblea nazionale dell’Ottantanove ̶ il «vero» Ottantanove ̶ assistiamo dunque propriamente alla nascita della laicità. È una data capitale nella storia della politica e dei diritti dell’uomo, il 4 febbraio 1794, che fa il paio solo con quella, parallela, di un’altra legge precedente, che dichiarò, nel 1791, eguali e liberi nei diritti tutti i cittadini francesi di confessione ebraica. Anche questa fu una legge fortemente voluta, dopo la fuga del re a Varennes, stavolta da una minoranza di girondini e dai giacobini insieme, che realizzava in concreto gli assunti contenuti negli articoli 10 e 11 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino dell’agosto dell’Ottantanove: «Art. 10. Nessuno può essere perseguito per le sue opinioni, anche religiose, purché le loro manifestazioni non turbino l’ordine pubblico stabilito dalla legge. Art. 11. La libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell’uomo: ogni Cittadino può dunque parlare, scrivere, stampare liberamente, salvo a rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi determinati dalla legge». La notte del 27 settembre 1791, dopo un lungo e drammatico dibattito, l’Assemblea nazionale votò la seguente legge:

L’Assemblea Nazionale, considerando che le condizioni richieste per acquisire il titolo di cittadino francese, di godere dei diritti di cittadini attivi, sono definiti dalla Costituzione; dato che ogni uomo che soddisfa tali condizioni, presta il giuramento civile e promette di adempiere a tutti i doveri imposti dalla Costituzione, ha diritto con ciò stesso a tutte le prerogative da essa accordate, abroga tutti gli aggiornamenti, tutte le riserve e le eccezioni che contengono gli antichi decreti relativi agli ebrei che prestavano il giuramento civile, in quanto tale giuramento deve essere considerato come una rinuncia a tutti i privilegi e alle leggi eccezionali che sono state precedentemente stabilite in loro favore.

Era la formula legale alquanto contorta per esprimere l’eguaglianza di diritti degli ebrei nei confronti degli altri cittadini della Nazione francese. Non esisteva più una «Nazione ebraica». Si abrogavano pretesi «privilegi», di razza, di stirpe, di religione, per restituire agli ebrei dignità e parità di uomini e cittadini. Dal quattordicesimo secolo gli ebrei non avevano il diritto di risiedere, né di soggiornare nelle terre del «Re Cristianissimo». Fatti salvi appunto i «privilegi particolari», come quelli di cui godevano gli ebrei di Bordeaux e di Bayonne o ancora quelli di Metz e d’Alsazia e, infine, di Parigi. E il loro commercio, anch’esso godeva di «privilegi» in tutto il regno. Come insegnò l’abate Sieyès, il privilegio è esenzione, dispensa per colui che l’ottiene, e scoraggiamento per tutti gli altri. Ma solo per gli ebrei quei «privilegi» significavano l’esatto contrario.

Il decreto tuttavia sortì un effetto singolare: non tutti i «cittadini francesi di religione ebraica» erano d’accordo. Perché? Il decreto esigeva infatti che, contemporaneamente e di conseguenza, gli ebrei rinunciassero a tutto ciò che aveva fatto di loro, fino a quel momento, una minoranza comunitaria solidamente organizzata. Il termine di «Nazione ebraica» portoghese o d’Alsazia è dunque definitivamente estirpato dalla lingua; ma anche le strutture comunitarie esistenti, i poteri dei rappresentanti e dei preposti, le giurisdizioni rabbiniche, le tassazioni per le casse di carità, tutto era abolito d’un colpo. Come era stato abolito, con grande clamore, pochi anni prima, il port de la rouelle, il «passo della rotella», il marchio o segno distintivo, una stoffa rotonda di tessuto giallo che gli ebrei dovevano portare addosso, per essere riconosciuti. I tradizionalisti s’opposero alla scomparsa di quel marchio, con disperazione, perché la rotella gialla dava ancora il segno della loro «elezione». Qui tocchiamo uno dei paradossi o aporie della laicità: nelle società chiuse o di lunga e grande tradizione religiosa, l’appartenenza comunitaria – con tutti i suoi segni, simboli e pratiche – è sentita, in molti casi, come avente un valore superiore alla stessa uguaglianza e libertà. In questi casi, perché si affermino i «diritti dell’uomo» (uguaglianza e libertà), occorre cambiare anzitutto il senso comune, operare cioè per quel cambiamento in un modo pacifico, attraverso i mezzi di formazione e di educazione delle coscienze, prima di affermare o rivendicare ogni «primato della laicità».

Ad ogni modo, in queste due leggi, l’abolizione della schiavitù e l’emancipazione degli ebrei, che cambiarono l’esistenza di milioni di esseri umani – anche se per un breve lasso di tempo[6] – la laicità prende corpo concreto, in leggi e pratiche di vita sociale nuove che marcheranno la cultura e le mentalità degli uomini moderni, il loro senso comune, anzitutto. Non dobbiamo dimenticare, tuttavia, che i rivoluzionari dell’89 e gli stessi filosofi più progressisti, sopra menzionati, che li avevano ispirati, non avevano ancora chiara l’idea-cardine del nostro concetto di laicità, come separazione dello Stato dalla Chiesa.

Tant’è che il 12 luglio 1790, per integrare i poteri della stessa Chiesa nelle nuove finalità della rivoluzione in corso, l’Assemblea decreterà la Costituzione civile del clero ̶ quella che auspicò lo stesso Spinoza nel Trattato Teologico-politico, ̶ ossia la sottomissione della Chiesa alla Repubblica, con un duplice scopo: provvedere al mantenimento del clero, per il servizio pubblico che questo assicura e, in contropartita, la costituzione di una «chiesa nazionale» fondata sul principio dell’elezione dei curati e dei vescovi, che s’impegna ad essere fedele alla nazione e alla Costituzione. In molti casi vi fu il rifiuto degli ecclesiastici di sottomettersi al giuramento civile, e la rivolta dei cosiddetti «refrattari» aprirà le porte, insieme, alla guerra civile in Vandea e a un’attitudine sempre più offensiva e ostile dei rivoluzionari nei confronti della Chiesa cattolica, considerata oramai come un avversario da combattere, anche opponendole una nuova religione civile, come quella concepita da Rousseau nel Contratto sociale, con il culto dell’Essere Supremo.

Si aprono così le porte a due successive tappe di avanzamento della laicità.

La prima è la laicizzazione dello stato civile, con il decreto del 20 settembre 1792, che ritirò alla chiesa cattolica e affidò alle singole municipalità locali, con il ruolo dell’ufficiale di stato civile, sotto sorveglianza delle autorità amministrative e, più tardi, del giudice, il compito di tenere tre registri, per le nascite, i matrimoni (e i divorzi) e i decessi. Allo stesso tempo, con la legge del 21 settembre 1791 sul divorzio, il matrimonio non è più un sacramento o atto della chiesa, ma un contratto, per scambio di consensi tra gli sposi dinanzi all’ufficiale di stato civile e i testimoni. Conseguentemente, il divorzio è la rottura consentita di tale contratto.

La seconda tappa, decisiva, è il Decreto sulla libertà di culto e la separazione delle chiese e dello Stato, del 3 ventoso anno III della Repubblica, il 21 febbraio 1795. Sotto il regime della Convenzione nazionale e dopo la caduta di Robespierre (29 luglio 1794) vengono prese delle decisioni importanti che formulano per la prima volta in assoluto, in termini espliciti, la separazione della Chiesa cattolica e della Repubblica. È chiamato il «Decret sur la liberté des cultes»:

La Convenzione Nazionale, dopo aver ascoltato il rapporto dei suoi Comitati di salute pubblica, di sicurezza generale e di legislazione, riuniti, decreta:

Art. I. Conformemente all’articolo VII della Dichiarazione dei diritti dell’uomo, e all’art. XXII della Costituzione, l’esercizio di nessun culto può essere turbato.

Art. II. La Repubblica non ne finanzia nessuno.

Art. III. Essa non fornisce alcun locale, né per l’esercizio del culto, né per l’alloggio dei suoi ministri.

Art. IV. Le cerimonie di ciascun culto sono proibite al di fuori del recinto chiuso scelto per il loro esercizio.

Art. V. La legge non riconosce alcun ministro del culto: nessuno può comparire in pubblico con gli abiti, gli ornamenti o i costumi adibiti alle cerimonie religiose.

Art. VI. Ogni assembramento di cittadini per l’esercizio di un qualsivoglia culto è sottoposto alla sorveglianza delle autorità costituite. Questa sorveglianza si riassume nelle misure di polizia e di pubblica sicurezza.

VII. In un luogo pubblico, non può essere apposto alcun segno particolare di un culto, né esteriormente, in qualunque maniera si dia. Il luogo che gli viene assegnato non può essere designato da alcuna iscrizione. Nessuna proclamazione, né convocazione pubblica può essere fatta per invitarvi i cittadini.

VIII. I comuni o le sezioni di comune, in nome collettivo, non potranno acquistare né affittare locali per l’esercizio dei culti.

  1. Non può essere formata alcuna dotazione perpetua o vitalizia, né essere istituita alcuna tassa per pagarne le spese.
  2. Chiunque turbasse con la violenza le cerimonie di un culto qualsivoglia, o ne offendesse gli oggetti, sarà punito secondo la legge del 22 luglio 1791 sulla polizia e il tribunale correzionale.

 

Con quest’ultimo decreto si compie il passo essenziale della vera e propria separazione Stato(Repubblica)/Chiesa, inscritto pochi mesi dopo, il 5 fruttidoro anno III (22 agosto 1795), nella stessa Costituzione del 1795, detta «Costituzione del Direttorio»:

Art. 334. A nessuno può essere impedito di esercitare, in conformità con le leggi, il culto che ha scelto. Nessuno può essere costretto a contribuire alle spese di alcun culto. La Repubblica non ne finanzia nessuno.

Con l’avvento di Napoleone Bonaparte e il Concordato tra la Repubblica francese e il Vaticano del 15 luglio 1801, e la svolta autoritaria della Rivoluzione, si riconoscerà di nuovo una sorta di primato alla religione cattolica, non come «religione di Stato» ma come (Art. 1) «La religione della grande maggioranza dei Francesi», tenendo fermo il principio democratico del consenso e la nozione di maggioranza, con le dovute tutele e «riconoscimenti» egualmente dei culti protestanti, calvinista e luterano, e il culto ebraico, che assumono anch’essi uno statuto pubblico. Napoleone mette all’opera quello che la Rivoluzione aveva fondato: la libertà di coscienza e la libertà di culto, nei limiti dell’ordine pubblico, cioè della sottomissione alla legge e al governo.

 

  1. La ri-clericalizzazione della società civile. Dove risiede la laicità?

 

Il 30 luglio 1814, a Roma, in piena Restaurazione, con la bolla Sollicitudo omnium ecclesiarum, il papa Pio VII ricostituì la Compagnia di Gesù in tutto il mondo, soppressa nel 1762 in seguito allo scandalo del Père de La Vallette. La Rivoluzione era finita, la Francia sconfitta, le potenze europee si stavano ricostituendo dopo il congresso di Vienna in una «Santa Alleanza». Il nemico da battere non era più Bonaparte e i rivoluzionari, ma le opere da loro compiute in venticinque anni di sconvolgimenti, di equilibri di potere, di mentalità, di senso comune. Occorreva riconquistare le coscienze, contaminate dal virus rivoluzionario dei diritti dell’uomo.

Il primo obiettivo della ricostituita Societas Iesu, in Francia e altrove, fu dunque l’educazione. Sul terreno dell’educazione e della formazione la Rivoluzione aveva compiuto passi da gigante, istituendo l’Istruzione pubblica, le Grandi Scuole di formazione superiore, aveva tolto al clero quel compito di educazione delle coscienze che fino al 1789 era stata loro esclusiva prerogativa e privilegio. La lotta, a partire dal 1814, si sposta perciò sul terreno della scuola primaria e degli Istituti superiori. La chiesa cattolica centrerà le proprie rivendicazioni su questo piano per riconquistare l’autorità di cui disponeva nell’Ancien Régime, per formare così le nuove generazioni all’obbedienza a un ordine spirituale che era, al tempo stesso, un ordine politico e sociale.

La libertà di coscienza ̶ centrale nelle stesse leggi napoleoniche e inscritta al cuore del codice che porta il nome di Codice napoleonico ̶ , diventa e resta, ancora ai giorni nostri, l’agone nel quale si gioca la partita delle libertà civili e del potere politico.

In che cosa può dunque consistere oggi, in tempi di globalizzazione e di migrazione generalizzata di uomini e idee, la libertà di coscienza? Anzitutto il concetto deve confrontarsi con le sensibilità culturali dei popoli in cui deve esprimersi ̶ secondo la grande lezione del determinismo geografico di Montesquieu ̶ e dei diversi strati sociali cui si riferisce, in rapporto all’operazione di presa di distanza e di separazione delle leggi delle religioni da quelle dello Stato. Tzvetan Todorov (1939-2017), semiologo e filosofo di origini bulgare scomparso un anno fa, ha scritto un’opera importante intitolata, L’esprit des Lumières, «Lo spirito dell’Illuminismo», in cui affronta in modo assai efficace la questione. Per Todorov anzitutto, le Lumières «non possono ‘passare’, perché sono giunte a designare non più una dottrina storicamente situata, ma un’attitudine nei confronti del mondo»[7].

All’interno di questa attitudine, riconosciuta tale anche da Michel Foucault[8], esistono sempre tre «sfere» della libertà di coscienza dell’individuo, piuttosto che le due tradizionalmente riconosciute: 1 / la «temporale», legata alla storia, e 2/ la «spirituale», legata alle convinzioni metafisiche di appartenenza (comunitaria) di ciascuno, alle credenze. La terza sfera, la più importante, è 3/ «la sfera privata e personale che l’individuo è il solo a gestire, senza che nessuno vi trovi niente da ridire». Il problema della laicità si connette all’esercizio e all’attività di questa terza sfera. Come dunque la sfera dell’intimità personale del credere, che non si può aggirare, può costituirsi, senza venire schiacciata dalle altre due, in un ambiente geo-storico dato? E anche: quale spazio lasciare al senso del sacro ̶ come la coscienza e la sensibilità privata e individuale del divino ̶ fuori di ogni discorso o posizione ecclesiastica istituzionale? Il problema della costituzione della laicità e del suo spazio inviolabile si esprime oggi, a mio avviso, in questi termini. Come lasciare libertà di costituzione, nei diversi ambiti e contesti geo-storici determinati, a questa terza sfera, in ogni individuo? Anzi, di più: come favorire, a livello culturale e istituzionale, la sua costituzione? Ciascuno di noi ̶ uomini e intellettuali del XXI secolo, emancipati grazie all’operazione storico-culturale dell’Illuminismo[9] ̶ ha una propria «religione personale», anche inconsapevole, taciuta, che s’esprime nell’intimità del dialogo con sé e prende poi corpo nell’agire quotidiano.

Il problema dei fallimenti o delle difficoltà di diffondere un senso comune laico, di farlo divenire egemone, in contesti profondamente marcati dalla presenza, talora ingombrante, delle tradizioni religiose e delle istituzioni ecclesiastiche, consiste proprio nella difficoltà di coltivare questa terza sfera della libertà di coscienza, che in molti contesti geo-politici non giunge neanche a formarsi. Il ruolo dell’educazione è qui decisivo, strategico direi.

Quando è possibile formare le coscienze a sentire il valore dello spazio dell’intimità individuale del sacro, allora sarà anche possibile togliere potere di presa, sulle stesse coscienze, delle tradizioni religiose e degli istituti ecclesiastici. L’asserzione laica fondamentale: «la religione è un fatto privato» va intesa non come un’ingiunzione o un imperativo dogmatico, da imporre con la forza, ma come un compito aperto, un progetto delicato e difficile, che spetta alla filosofia e alle istituzioni formative pubbliche realizzare. Ed è anche questo un lascito incompiuto del «vero Ottantanove».

Paolo Quintili

 

 

APPENDICE

(Trésor de la Langue Française)

LAÏCITÉ, subst. fém.
A.  Principe de séparation dans l’État de la société civile et de la société religieuse. La laïcité est un des grands principes sur lesquels repose, avec l’obligation et la gratuité, l’enseignement public français (Pédag. 1972). Le principe de la laïcité n’est pas absolu : l’Alsace et la Lorraine demeurent sous le régime du Concordat de 1801 (DEBB.-DAUDET Pol. 1978) :

  1. … M. Piou fonde l’Action Libérale Populaire, merveilleux régulateur de l’opinion bien pensante, parfait outil aux mains de la République anticléricale, et qui va lui permettre de poursuivre, avec le minimum d’à-coups, jusqu’au vote de la Loi de Séparation, le grand œuvre de la Laïcité.
    BERNANOS, Gde peur, 1931, p. 366.
  2. Caractère des institutions, publiques ou privées, qui, selon ce principe, sont indépendantes du clergé et des Églises; impartialité, neutralité de l’État à l’égard des Églises et de toute confession religieuse. Laïcité de l’État, de l’école publique. Pourtant le cœur déchiré, broyé par la vision du châtiment, il s’attachait encore aux paradis menteurs de la laïcité et implorait à mi-voix l’appui de son député (AYMÉ, Vouivre, 1943, p. 244) :
  3. En France, on préféra instituer un système dont le principe paraissait plus conciliable avec les conceptions constitutionnelles de neutralité et de laïcité. Aussi l’État s’interdit-il d’aider matériellement, de patronner, d’appuyer ou d’encourager d’une manière quelconque l’action privée dans le domaine de l’enseignement…
    Encyclop. éduc., 1960, p. 89.

Prononc. et Orth. : [laisite]. Att. ds Ac. 1935. Étymol. et Hist. 1871 (La Patrie, 11 nov. ds LITTRÉ Suppl.). Dér. sav. de laïc*; suff. -(i)té*. Fréq. abs. littér. : 25. Bbg. MAUGENEST(D.). Laïcité auj. Cah. de l’actualité relig. et soc. 1981, no 223, pp. 215-216.

[1] Di fondamentale importanza il volume di O. R. Bloch (a cura di), Le matérialisme du XVIIIe siècle et la littérature clandestine, Paris, Vrin, 1982; e la rivista semestrale «La Lettre Clandestine», Paris, 1992-2018.

[2] Histoire des deux Indes, Genève, Pellet, 1781, vol 6, Livre XI, chap. XXIV, pp. 134-135: «Origine et progrès de l’esclavage. Arguments imaginés pour le justifier. Réponse à ces arguments» (corsivi miei).

[3] Ivi, p. 127.

[4] Dictionnaire de l’Académie Française, Paris, 1694: «LAIQUE. adj. de tout genre. Seculier. Il est opposé à Clerc & Ecclesiastique. Une personne laïque. un Officier laïque. de condition laïque. la communion laïque. Chappelle en patronage laïque. Il est souvent substantif. Un laïque. les Ecclesiastiques & les laïques.» ; l’ed. 1762 aggiunge: «Qui n’est ni Ecclésiastique ni Religieux. Une personne laïque. Un Officier laïque. De condition laïque. Chapelle en patronage laïque. Patron laïque». É. Littré, Dictionnaire de la langue française, Paris, 1873 : «Qui n’est ni ecclésiastique ni religieux. ̶ «Ainsi ce qu’on gagna dans la réforme, en rejetant le pape ecclésiastique successeur de saint Pierre, fut de se donner un pape laïque, et de mettre entre les mains des magistrats l’autorité des apôtres» (BOSSUET, Var. V, 8). Fig. ̶ «Nous sommes [Diderot et moi] des missionnaires laïques qui prêchons le culte de sainte Catherine» (VOLTAIRE, Lett. Catherine II, 1er mars 1773) . Substantivement. Un laïque. Une laïque. ̶ «Ils [les Vaudois] voulaient que les laïques, gens de bien, eussent pouvoir de l’administrer [la confirmation] comme les autres sacrements» (BOSSUET, Var. XI, 107). ̶ «Les pasteurs qui ont fondé leurs Églises [des protestants] étaient presque tous de simples laïques» (FÉN. T. II, p. 5). Qui est propre aux personnes laïques. Condition laïque. ̶ «Mme de Warens imagina de me faire instruire au séminaire pendant quelque temps…. il [l’évêque] permit que je restasse en habit laïque, jusqu’à ce qu’on pût juger, par un essai, du succès qu’on devait espérer» (J.J. ROUSSEAU, Conf. III). On écrit aussi laïc au masculin. HISTORIQUE. XVIe s. ̶ «Ils n’ont point estimé que leur droit fust aucunement amoindri, s’ils estoient sujects aux juges laïcs, quant aux causes civiles» (CALV. Instit. 983). ̶ «Le pape ne peut deroger ni prejudicier par provisions beneficiales, ou autrement, aux fondations laïcales, et droit des patrons laïcs de ce royaume» (P. PITHOU 30). ÉTYMOLOGIE. Provenç. laic, layc ; anc. catal. llaych ; anc. espagn. laico ; portug. leigo ; ital. laico ; du lat. laïcus, qui vient d’un terme dérivé du mot grec signifiant peuple».

[5] Cfr. Fathi Triki, Éthique de la dignité, Révolution et vivre ensemble, Tunis, Arabesques, 2018 ; ID, La philosophie du vivre-ensemble, L’Or du temps, Tunis 1998; ID, Vivre ensemble dans la dignité, Video realizzato da Vincent Cespedes: https://www.youtube.com/watch?v=ImyRhJwhjik.

[6]Con l’avvento di Napoleone Bonaparte la schiavitù venne reintrodotta, e si diede corso alla repressione della nuova repubblica libera di Santo Domingo (Haiti), con a capo il primo leader nero della storia occidentale, Toussaint Louverture (1743-1803): cfr. Madison Smartt Bell, Toussaint Louverture. A Biography, New York, Pantheon Books, 2007; Aimé Césaire, Toussaint Louverture, la révolution française et le problème colonial, Préface de Charles-André Julien, Paris, Présence Africaine, 1961.

[7] T. Todorov, L’esprit des Lumières, Paris, Robert Laffont, 2006, p. 125 ; Lo spirito dell’Illuminismo, trad. it. di G. Lana, Milano, Garzanti, 2007.

[8] M. Foucault, Qu’est-ce que les Lumières ? (1984), in Dits et écrits, vol. 2, Paris, Gallimard, 1989.

[9] Cfr. Il mio saggio (inedito): Laïcité, citoyenneté et nouveaux processus d’universalisation. Vers des nouvelles « Lumières » méditeranéennes ?, conferenza tenuta in occasione della Journée Mondiale de la Philosophie UNESCO, Tunisi, 16-17 novembre 2015, pp. 8-10.

La popolocrazia e l’ossimoro di un populismo di sinistra

Pochi sono i concetti politici che, al pari della locuzione di populismo, sono al tempo stesso ricusati come schemi-contenitori fluidi e multiuso (da molti studiosi giudicati persino tendenziosi nella loro formulazione), e nondimeno vengono utilizzati come insurrogabili strumenti di indagine. Accanto a una copertura elastica, che abbraccia ogni fenomeno politico in apparenza eccentrico, il termine ha assunto una valenza assiologica, prevalentemente negativa. In molti casi rinvia ad una etero-definizione il cui intento è di norma quello di criticare, stigmatizzare gli altri indirizzi e movimenti in nome di una forma politica ritenuta altrimenti minata. Come ogni studio politico dedicato al populismo, anche quello di Ilvo Diamanti e Marc Lazar1 contiene una dimensione analitico-descrittiva e una apertura verso asserzioni di carattere più valutativo. Sul piano empirico-descrittivo, la questione definitoria del populismo rimane irrisolta e anzi pare in gran parte complicata dalla trama eterogenea costituita dalla multiforme fenomenologia di atteggiamenti, stili, comportamenti credenze classificate come populiste. Se il riferimento discriminante per isolare la specificità del fenomeno è alla opposizione del basso contro l’alto, dei molti contro le èlite, non si esce dall’equivoco teorico che accompagna il populismo. La frattura moltitudine-élite è per certi versi originaria, si pone al centro del modello teorico di Machiavelli2 sottile indigatore degli “omori” in contrasto nella vita civile, e che per la sua celebrazione della costruttività del conflitto sociale arduo sembra definibile come un pensatore populista, nel senso deteriore e spregiativo che si accompagna alla nozione.

Il fatto è che si trovano oggi in circolazione populismi dall’alto e dal basso. Non sono soltanto le moltitudini piene di rancore ad essere mobilitate in contrapposizione ai pochi che comandano. Sono anche i piani alti del potere a proporsi al pubblico come figurazione autentica della massa che richiede la soppressione delle fastidiose mediazioni istituzionali. La stessa polarità dentro-fuori risulta sfuggente poiché le versioni contemporanee di populismo sono collocate sia dentro il sistema, sia fuori del sistema. Se il riferimento discriminante è alla collocazione dei movimenti nello spazio politico, la rassegna del campionario populista ne svela esemplari di destra, di sinistra e anche di centro. Una caratteristica precipua dei movimenti populisti è quella di rigettare il sapere, la competenza, l’autoreferenzialità della tecnica come rifugio delle élite che mascherano, occultano le cose per celare il vero al cospetto del più genuino sentimento della gente. Ma questa versione tardo-bucolica del mondo della tecnica convive con la maturazione speculare di un tecno-populismo che esalta invece le magnifiche virtù della rete quale strumento di una immediata relazione politica degna di una agorà ritrovata. Accanto al tecno-pessimismo e alla nostalgia di semplice, al rimpianto dei valori della terra si presenta il tecno-ottimismo con l’elogio del cyberspazio della rete come dissolutore di ogni enigma metafisico. La tecnocrazia che spoliticizza le questioni in nome della complessità e il populismo che spoliticizza i problemi collettivi in nome del semplice (uno vale uno) condividono la riduzione del governo a amministrazione affidata al cittadino-portavoce. La dicotomia centro-periferia sembra anch’essa suggente dinanzi a un variopinto mondo di movimenti che non nascono solo dalla periferia, dai territori per sfidare il potere ma che già annidati al potere si propongono dalla postazione dell’appellativo populista sono affrancate dalle riprovazioni che ricadono sulle culture nere e consegnate a un purgatorio concettuale4.

Il momento normativo, in ogni indagine politica, rimane un corollario inevitabile, e anche Diamanti e Lazar ne fanno uso. Sotto il profilo assiologico, il loro libro può essere considerato come un tentativo di difesa della categoria politica della liberaldemocrazia, minacciata dalle tendenze degenerative che scuotono i sistemi costituzionali occidentali. In alcuni passi del volume si tende, in sintonia con una tale ottica valoriale, a contrapporre la calma ragione liberale-discorsiva alla confusa passione-interesse. “Per esistere, il populismo ha bisogno di eccitare le passioni, cosa che si manifesta nel suo linguaggio, mentre la democrazia liberale e rappresentativa cerca di prosciugarle, al fine di far trionfare la ragione”. Questo schematismo ragione-passione non pare risolutivo. Così anche Hume sarebbe da considerare un filosofo populista. La sua geometria delle passioni, che contiene una lucida analisi dei moventi reali o interessati dell’agire, andrebbe setacciata con sospetto e denunciata come un fondamento etico-politico del populismo. Nella loro genesi reale, i movimenti populisti sorgono in occidente proprio quando una pretesa ragione si separa dagli interessi e quindi con i ritrovati procedurali banalizzati non riesce a contente, integrare, dare forma.

Più persuasiva, rispetto al fuorviante schema assiale ragione-passione, è l’indicazione che il libro suggerisce per definire in termini politici il populismo come avversione alla mediazione. Sia il capo, che si appella al popolo contro la lentocrazia delle assemblee, sia il movimento dal basso che si mobilita reclamando momenti di democrazia diretta, imporre istanze per la revoca dei mandati condividono un paradigma: il culto dell’immediato, il sogno di un legame solo orizzontale e senza più forme, limiti. Non ogni teoria del capo carismatico è annoverabile tra le espressioni del filone populista (Weber è più propriamente un conservatore) e non ogni istanza per un allargamento degli spazi di partecipazione e controllo diffuso è indice di una mentalità populista (Gramsci o lo stesso Kelsen non appartengono alla famiglia teorica del populismo). A questo riguardo, pesa un equivoco teorico connesso all’impiego del termine populismo assunto nella sua accezione americana. Nella cultura politica d’oltreoceano, populista è da intendere ogni declinazione della democrazia come regime provvisto di un catalogo partecipativo più ampio rispetto a quello ristretto al puro momento competitivo-elettorale. Una tendenza diffusa nella cultura americana è ben resa dal titolo di un libro di L. Wiker, “Liberalism against populism”. Il suo nucleo ideale consiste nel contrapporre una democrazia “liberale” (elettorale-competitiva) e una “populist democracy” con sensibilità verso la partecipazione, il referendum, la volontà generale, le domande sociali5. Sull’uso equivoco che prevale in ambito americano, si costruiscono definizioni non esaustive del fenomeno populista, confuso anche con tendenze verso lo sviluppo di nuove istituzioni di democrazia deliberativa.

La figura della mediazione, che viene saltata e combattuta in nome della identità “immediata” da realizzare attorno al trascinamento di un capo, non è solo quella ristretta alla dimensione elettorale-competitiva ma abbraccia la rappresentanza come essa si è storicamente strutturata nelle democrazie ispirate al modello del costituzionalismo novecentesco. Il populismo non è quindi la pura contrapposizione della massa all’élite ma l’espressione di una specifica crisi della forma politica che ha perso i soggetti, gli strumenti, i principi. La mediazione che si è infranta è quella storicamente maturata dall’apporto di molteplici tendenze e processi politici. Essa

prospetta una democrazia pluralista, che, oltre il quadro liberale classico, fa la sintesi di eterogenei apporti culturali: suffragio universale, rappresentanza, controlli di legalità e di costituzionalità, diritti sociali e centralità del lavoro. La democrazia è quel progetto che ha un fondamento (il lavoro, i diritti, la finalità sociale imposta dal pubblico potere alla stessa attività d’impresa), che è mediata (dai soggetti collettivi della rappresentanza politica e sociale), che definisce un compromesso tra partecipazione e capitalismo. Si tratta quindi di una inedita formazione politica che aggiusta la “forma” e la “sostanza” modellando la democrazia oltre che come sistema istituzionale di governo anche come assetto sociale. La democrazia che è in crisi in occidente non è stata ferita dalla invasiva “popolocrazia” ma sfidata dai “nuovi barbari” che sono entrati in scena dopo la decomposizione del nesso tra forma e sostanza che ne aveva definito il volto tardo novecentesco del politico.

Le forze che avevano definito la forma e la sostanza della democrazia nel secondo dopoguerra sono decomposte dalla grande disintermediazione richiesta dalle nuove dinamiche dell’economia globalizzata. Quando le espressioni sociali e politiche del lavoro si presentano molto indebolite sino a perdere autonomia organizzativa, la sintesi novecentesca appare infondata e salta così la “forma” della politica invasa da micropratiche dissolutive. Il populismo è non già la causa della crisi ma l’espressione di una forma de-formata. Da dialetto marginale, che esita a presentarsi nella sfera pubblica con i sui simboli ancestrali e aggressivi, il populismo diventa la rude lingua ufficiale perché è caduta la “forma” per dare una rappresentazione alle domande, ai conflitti. Mancano traduttori, soggetti che mobilitano e al tempo stesso trattengono (la zona dell’indicibile prima presidiata dai partiti che non politicizzavano questioni “culturali” legate all’etnia, alla identità di fede) e gli attori populisti si insediano come portatori dei nuovi codici del tutto disinibiti. Quando si parla di crisi della rappresentanza bisogna intendersi. E’ caduta la costruzione politica della rappresentanza, cioè l’idea di una funzione positiva della èlite politica che mobilita interessi collettivi, che dalle istanze particolari definisce visioni generali, che dal conflitto progetta alternative di società. Questo profilo della rappresentanza e della produttività della contesa sociale in uno spazio organizzato dai soggetti del pluralismo è in gran parte sfumato. Ma non è scomparsa la funzione rappresentativa-passiva della politica. Anzi proprio questo passivo aderire a ciò che già esiste negli umori più diffusi è il tratto distintivo dei populismi contemporanei. Entrare in sintonia con i rancori, i pregiudizi esistenti, i timori di discesa repentina nella gerarchia sociale sempre più fluida, in un quadro che non contempla alcuno sforzo di cambiamento, di sfida ai poteri dominanti è la preoccupazione cruciale delle forze populiste che assumono la rappresentanza come fotografia statica della paura.

Nel contesto della crisi della democrazia rappresentativa novecentesca, occorre leggere le dinamiche del populismo (ostilità alla mediazione in nome di non-partiti e leader carismatici) di cui l’antipolitica (la rivolta del cittadino-portavoce contro la “casta” responsabile del declino, dell’impoverimento, dei costi esorbitanti del professionismo politico) è un aspetto rilevante. In questa cornice, che vede infranta la sintesi storica che in Europa e in America aveva connesso economia, politica e diritti, Y. Mounk interpreta il populismo che, nella sua indagine, appare come un fenomeno che matura quando la “colla che univa in un mix unico diritti e regole democratiche si sta rapidamente assottigliando”. Dalla decomposizione della democrazia novecentesca “stanno nascendo due nuove forme di regime: una illiberal democracy, o democrazia senza diritti, e un undemocratic liberalism, o diritti senza democrazia”6. In un tale processo di lunga durata, la riconduzione della fenomenologia del populismo a una conseguenza generalizzata della grande recessione economica del 2007 obbedisce a una spiegazione troppo monocausale che, pur cogliendo un tratto essenziale, trascura l’esistenza di una decostruzione lenta che si avvale di molteplici variabili7. Per quanto riguarda l’Italia, nell’insediamento di un populismo diventato ormai tratto di sistema, ha inciso molto un lavoro antipolitico di professione che, anche prima della grande contrazione economica, aveva immesso il verbo dell’antipolitica come asse strategico, con una operazione egemonica risultata vincente ma distruttiva delle condizioni generali della politica. Con la guerra della innocente società civile contro la casta dei politici corrotti e ritenuti, proprio come casta, arroccati in una inaccessibile posizione di dominio, situata al di fuori del gioco competitivo, la borghesia italiana ha rimediato alla sua minore attitudine ad esportare merci di qualità con una invidiabile capacità di aprire la fabbrica delle cattive ideologie di esportazione (la fortuna mondiale della parola “casta” in tutti i movimenti populisti conferma la vitalità del mady in Italy nelle degenerazioni della forma politica)8.

 

La proposta politico-culturale che Diamanti e Lazar avanzano è quella di reagire alle manifestazioni distruttive della popolocrazia (ostilità alla separazione dei poteri, ai limiti formali dell’esercizio dell’autorità, proliferazioni di stili, mentalità, pratiche antipolitiche e esibizioni pseudocarismatiche) confidando nella virtù adattiva-trasformativa della rappresentanza. Questo auspicabile ritrovamento della forma politica, per non restare sul piano del puro dover essere, esige però, attorno alla rappresentanza come istituto imprescindibile del moderno, una ricomposizione dei soggetti sociali e politici. Una sinistra sociale e politica, da questo punto di vista, è una condizione minimale per la riprogettazione della forma democratica in occidente. Convincenti paiono le considerazioni critiche che il libro dedica alle diffuse inclinazioni a ripensare la sinistra in Europa sul solco dell’ossimoro raffigurato nella proposta di un populismo di sinistra. Un vero ossimoro: se la condizione basilare del populismo è la dichiarazione di essere oltre destra e sinistra, che senso ha l’autoproclamazione di “populismo di sinistra” per occupare una posizione ben precisa nella divisione assiale dello spazio politico? Pensare di ricostruire i pilastri della forma politica europea con l’importazione di un peronismo di sinistra9 pare non solo irrealistico (come ogni artificiale prodotto di laboratorio sganciato da dinamiche effettuali, culture, esperienze) ma estremamente riduttivo come formula ideologica imposta come novità a un continente che ha scoperto la forma della razionalità politica occidentale.

 

Molto pertinente è pertanto il rilievo critico avanzato da Diamanti e Lazar secondo i quali “il marxismo ostacola l’espansione del populismo. Il populismo di sinistra, quindi, appare solo come una forma degradata dell’ideologia dei partiti di sinistra”. Il pensiero di Marx si inserisce lungo una tendenza duplice che prima spinge a differenziare (la classe) e poi ad astrarre politicamente dalle diversità (il popolo quale sfera politico-giuridica). Lo stesso dispositivo teorico era già presente in Machiavelli che distingueva tra la plebe (connotazione sociale di una parte) e il popolo (ricomposizione politica). L’asse verticale (critica della astrazione politica) in Marx si accompagna sempre all’asse orizzontale (conflitto di classe). La politica organizzata è, in tale prospettiva, un punto irrinunciabile per ogni impostazione critica nella tradizione della sinistra. Spiegava proprio Marx, alludendo ai soggetti sociali dispersi, che finché “l’identità dei loro interessi non crea tra di loro una comunità, un’unione politica su scala nazionale e un’organizzazione politica, essi non costituiscono una classe”10. E se i ceti sociali subalterni, il discorso vale anche per quelli frammentati della postmodernità, non dispongono di una organizzazione politica “non possono rappresentare se stessi; debbono farsi rappresentare”. I delegati sindacali, i lavoratori precari e frantumati hanno rinunciato a costruire una loro coalizione sociale, con una organizzazione politica autonoma, credendo di essere rappresentati da una microimpresa che maneggia in solitudine la magia occulta della rete. Sono vittime in tal senso di forme di falsa coscienza. Il marxismo è indeclinabile secondo gli schemi racchiusi nel gergo populista perché la sua ambizione teorica è proprio quella di cogliere l’effettiva natura dei rapporti sociali di dominio e subordinazione che vengono invece deformati dalle maschere dell’ideologia del sotto e del sopra. Anche per una sorta di eccesso di dipendenza dall’effettuale, come si ricava dalla descrizione-amplificazione di disagi rispetto ai quali non si scava in profondità per cogliere la radice sociale, il populismo è una maschera che inganna, deforma, riduce cose complesse a schemi semplificati. Il codice populista si mantiene assai lontano dal vero anche quando parte dalla reale situazione di disagio e però ne nasconde la genesi, ne occulta il fondamento. Il tratto peculiare del populismo è quello di inventare soluzioni ingannevoli perché, per raccogliere sostegno, rivolge il disagio contro nemici irreali o caricaturali.

Anche sulla cruciale tematica dell’Europa, affiora un paradosso costitutivo che vede il populismo reagire, in nome del basso, alla vocazione tecnocratica dei vertici burocratici, o fase del funzionalismo che decide le politiche senza giustificazione elettorale e neutralizzandole11. Agitando lo schema alto-basso per scagliarsi contro le neutralizzazioni della tecnocrazia (che, in nome della tecnicalità delle questioni, trascende l’asse destra-sinistra) il populismo non fa altro che recuperare la stessa struttura cognitiva della tecnocrazia (le cose vanno scrutate oltre la lente deformante di destra e sinistra) per ridurre i problemi controversi a semplice amministrazione.

Confluendo nelle acque della ormai alluvionale corrente della “popolocrazia” che invoca referendum (anche un “normale” leader conservatore ha affidato al popolo la scelta sul destino dell’Europa), direttismo, dispositivi del recall in funzione anti-élite, annichilimento delle classi dirigenti e dei contropoteri, depotenziamento del pluralismo con opachi non-partiti, abbattimento della rappresentanza e delle verticalizzazioni con il capo pseudocarismatico, la sinistra diventerebbe un subalterno fattore di accelerazione ulteriore della crisi della democrazia. Sfigurata e scivolata a pura “autocrazia elettiva”, la pratica democratica sarebbe declassata in un paradigma che postula un mondo minimo di procedure indifferenti a scopi12. Essenziale è invece una sinistra di parte, con una analisi di classe e un diffuso radicamento nel conflitto sociale, capace di ricostruire forme organizzate indispensabili per interrompere il sentiero della destrutturazione di ogni autonomia della politica inghiottita dalle potenze dell’economia in un processo di espropriazione che pudicamente viene definito democrazia del pubblico. La rottura della mediazione o forma non è la semplice conseguenza della democrazia del pubblico e delle nuove tecniche della comunicazione, è connessa invece al tramonto della soggettività politica del lavoro e alla metamorfosi delle democrazie del mercato che archiviano la questione sociale. Per questo non c’è più forma: si sono eclissati i soggetti. L’industria del rancore come “nuova” politica così riesce a soppiantare la critica, sostituire il conflitto e azzerare la capacità di costruire, rappresentare oltre la pura fotografia di passioni tristi, paure, sentimenti ostili. Il populismo, nel vuoto della mediazione, vince con l’amplificazione di emozioni e pronunciando l’indicibile. L’attitudine del populismo è quella di essere al tempo stesso sistema e antisistema. La ridefinizione di una nuova “forma” della politica non può consistere nel puro e semplice recupero della democrazia procedurale liberata dai barbari ma nella progettazione delle condizioni sociali, culturali, istituzionali di un governo pubblico dei disagi dell’età del capitalismo della globalizzazione.

Michele Prospero

1 Diamanti e M. Lazar, Popolocrazia, Roma-Bari, Laterza, 2018.

 2  “Populari” contro “cittadini grandi”, molti contro i potenti sono gli “omori” opposti che da Machiavelli (Discorsi, in Opere, vol. I, a cura di R. Rinaldi, Torino, 1999) vengono analizzati come fonti di divisioni, inimicizie, zuffe (conflitti sociali orizzontali che istituiscono ordini e nuove libertà). La differenza delle declinazioni populiste è che nella polarità alto-basso si rinviene la costruzione di “formule” ingannevoli con le quali i poteri reali si nascondono, deviano.

3 L. Curini, Corruption, Ideology, and Populism, Palgrave Macmillan 2018, p. 161. Esiste un populismo etico che con istanze anticorruzione esalta il popolo puro e combatte l’élite corrotta. Oltre al populismo dell’onestà esiste anche il populismo a sostegno del capo liquidato dai magistrati politicizzati. Al populismo giustizialista si affianca un populismo antigiustizialista ostile alla separazione dei poteri

4 T. Lochocki, The Rise of Populism in Western Europe, Berlin, 2018, p. 7. Mentre il populismo della destra radicale nel suo primitivismo identitario ha un impianto illiberale, le versioni populiste delle formazioni conservatrici (oltre le ideologie, le dottrine) rimangono nello spettro democratico occupando nella competizione politica lo spazio comunitario-identitario-tradizionale proprio dei partiti di centro destra più moderati. Studiando “le cause dietro le cause” (p. 151) si comprende come la formula “for the nation, against the elite” si avvalga di efficaci tecniche di comunicazione politica per veicolare messaggi populisti (aspettative, identità) che consentono a partiti di nicchia di espandersi in tempi di crisi.

5 Dacombe, The Theories, Concepts and Practices of Democracy, London, 2018, p. 7.

6 Mounk, The People vs. Democracy, London, 2018, p. 43.

7 La grande recessione, con la sua contagiosa ansia di discesa per l’impoverimento dei ceti medi, è la causa immediata di rivolte anti-establishment, ma il trend della ribellione del populismo identitario e antipluralista è più lungo. La destra è pragmatica nel convertire istanze economico-patrimoniali in domande identitarie e la sinistra è altrettanto scaltra nel tramutare le tematiche sociali in diritti civili. Cfr. Lochocki, op. cit., p. 157.

 8 Lo schematismo dentro-fuori non è adottato solo da forze esterne ma anche da figure istituzionali, da soggetti interni che dal governo organizzano referendum istituzionali contro le poltrone, la casta. Anche la polarità alto-basso non copre le sole formazioni populiste irregolari ma le élite del potere. Sono gli abitanti dei piani alti dell’edificio del potere a scagliarsi contro il potere in nome del basso. Il sistema si fa antisistema. Se forze esterne costruiscono la rappresentanza in nome della rinuncia alla rappresentanza, forze interne al palazzo agitano la rottamazione delle èlite come valore. La forma dell’antipolitica non è esclusiva delle forze populiste. L’antipolitica come resistenza contro la casta è il profilo della cultura liberale ufficiale in Italia. La lotta contro la nomenclatura, contro la partitocrazia e poi contro la casta è l’ideologia della borghesia rispettabile.

10  Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, Roma, 2015, p. 238.

 11  Innerarity, Democracy in Europe, cit.

 12 M. Bovero, Autocrazia elettiva, “Costituzionalismo.it”, 2015, n. 2. Il sistema democratico generato in autocrazia elettiva è già populista. Le ribellioni populiste confermano l’ossatura del populismo di sistema. Il risvolto della mitologia orizzontalista è infatti la dimensione plebiscitaria di un capo che, con il supporto dei media vecchi e nuovi, verticalizza l’esercizio del potere e lo indirizza contro la rappresentanza. La debolezza del liberalismo politico è la conseguenza di una rottura della forma novecentesca che precipita nella complessiva geografia dei poteri.

 

 

Dalla lotta di classe alla class action: una sinistra per il 21° secolo

Il declino della sinistra non ha bisogno di illustrazioni, il suo rilancio sì. La letteratura sul primo è immensa, le idee per il secondo scarseggiano. Quindi conviene accennare qualcosa sul declino e concentrare l’attenzione sul rilancio. Sul declino mi limito a citare un fattore sociale, oggettivo ed uno soggettivo, legato agli errori della sinistra democratica.  Il fattore oggettivo è la frammentazione della base sociale della sinistra nel tardo 20° secolo. Innovazione tecnologica, delocalizzazione, migrazioni hanno dissolto le solidarietà “di classe” che un tempo formavano la base sociale della sinistra. Il fattore soggettivo è aver creduto – da parte della sinistra riformista dei Clinton e dei Blair – alla narrazione neoliberal, riconducibile a Reagan e Thatcher, del trickle down e aver pensato che finanziarizzazione dell’economia e mercati globali disancorati da ogni territorio potessero essere addomesticati in ultima analisi a vantaggio anche dei più svantaggiati. Invece i costi di quella favola – privatizzazioni, deregulation, precarietà del posto di lavoro, flessibilità, tagli ai servizi, licenziamenti, aumento esponenziale della diseguaglianza – hanno colpito l’elettorato della sinistra facendone il popolo di “forgotten men” che ha votato per i populisti sovranisti. La domanda di protezione dagli esiti della globalizzazione e finanziarizzazione dell’economia si è dunque rivolta all’offerta populista, centrata sulla favola del riguadagnare la sovranità economica dentro la cornice dello stato-nazione.

Possiamo aggiungere mille dettagli a questa analisi, ma non sposteremmo le linee di fondo. La sinistra di oggi è come una sinistra europea che negli anni sessanta avesse continuato a puntare sulla redistribuzione della terra ai contadini. Urge una riflessione nuova, e questo è il sasso che voglio gettare nello stagno del declino. Il rilancio deve far tesoro della diagnosi e trarne due insegnamenti: cambiare scala e cambiare soggetto. Cambiare scala: l’ultima volta che la sinistra ha imposto un vero cambiamento socioeconomico al capitalismo che aveva condotto alla catastrofe del 1929 fu con il New Deal di Roosevelt. Ma dopo il 2008 la scala è irrimediabilmente cambiata: il problema di Roosevelt si originava a Wall Street e si risolveva a Washington. Nessuna soluzione all’assetto del capitalismo finanziario e al nuovo “potere assoluto” dei mercati finanziari globali, disancorati dai contesti nazionali, può avere come teatro esclusivo e sufficiente un parlamento nazionale. La natura “assoluta” del potere esercitato da tali mercati (con al loro interno criptoattori come le agenzie di rating o attori pseudoeconomici come i fondi sovrani) non consiste, come nel caso dell’antico potere assoluto dei re, nell’operare al di sopra della legge – i mercati sono regolati dalle leggi –, ma nel potere quasi sempre ottenere le leggi desiderate da parte di parlamenti dove le maggioranze si dissolvono se il paese retrocede nell’economia globale. Come i monarchi assoluti potevano convocare o dissolvere i parlamenti, ed accoglierne o respingerne la legislazione, così i mercati finanziari hanno oggi il potere di togliere legittimità alle legislazioni democratiche negando quella “prosperità” su cui si gioca la competizione elettorale. Sette governi democratici sono caduti in Europa per la pressione dei mercati dopo la crisi del 2008: in Portogallo (2009), Spagna (2011), Grecia, Irlanda, Islanda (2009), Italia (2011), Lettonia (2011).

Inoltre, mentre nelle elezioni del 1932 e del 1936 Roosevelt disponeva di un blocco sociale pronto a votare le sue riforme, questo blocco è oggi una nostalgia del passato e va ricostruito interamente, in un quadro segnato dalla frammentazione sociale del mondo del lavoro. Ma non si può ricostruirlo, e ricostruire una nuova sinistra che lo rappresenti, se si ripropongono le categorie che ci hanno portato fin qui. Occorre liberarsi di almeno due dogmi del passato: a) la diffidenza verso il diritto e b) la sottovalutazione del consumo.

Tanti nella sinistra democratica considerano il diritto, la sfera legale in genere, come il luogo di radicamento di un processo e di un atteggiamento di “giuridificazione” della politica che ne depotenzia la portata aggregativa e trasformatrice.[1] E’ un atteggiamento dogmatico su cui riflettere, perché il diritto e la sfera legale in genere presentano il vantaggio, cruciale nel nostro contesto, di non presupporre soggetti collettivi, narrazioni condivise e capacità di mobilitazione nel modo in cui queste cose sono presupposte da una politica progressista. Il diritto presuppone alcune di queste cose quando lo pensiamo come prodotto legislativo di parlamenti composti da forze in competizione elettorale, ma non quando il diritto è applicato o quando opera in contesti di common law. Anche in contesti di civil-law però ormai si dà la possibilità di class-action a difesa di interessi lesi. E per partecipare e poi beneficiare di una class-action, che può essere inserita come azione legale in una strategia politica, basta una firma. Il secondo dogma della sinistra è la denigrazione del consumo a fronte della produzione di beni e servizi. Qui intendo consumo come qualcosa di ben distinto dal “consumismo” come fenomeno culturale con aspetti mimetici. Le borse di Gucci le consumano in pochi e pesano fino a un certo punto sugli assetti sociali. Ma invece, mentre partecipiamo alla produzione in una varietà proibitivamente diversa di modalità, che è difficile poi riannodare a una soggettività politica unitaria, consumatori, non consumisti, lo siamo tutti. Subiamo tutti l’esperienza “alienante” (in un nuovo senso) del rappresentare “atomi a perdere” che si scontrano con forze economiche soverchianti – non Gucci e Prada, ma grandi gruppi economici, istituti bancari e finanziari, compagnie assicurative, sanità privata, gestori di telecomunicazioni, utilities che distribuiscono energia e acqua, compagnie di trasporto, reti distributive, gruppi editoriali, colossi del web – le quali ci impongono regole su cui abbiamo zero influenza.

La protezione del consumatore è costituzionalizzata nell’UE. L’art. 38 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea,[2] ora inclusa nel Trattato di Lisbona, prevede “un livello elevato di protezione dei consumatori”. Ora, mentre la legislazione antitrust rappresenta un’applicazione del principio di eguaglianza nella sfera delle relazioni fra grandi protagonisti del mercato, scopo dell’Art. 38 è colmare il fossato che separa l’influenza esercitata dai grandi players e il singolo consumatore atomizzato, senza ricadere nell’utopia regressiva dell’abolizione del mercato. Nulla impedisce a una sinistra rifondata di iniettare un forte contenuto ideale nella protezione del consumatore attraverso class-action, e dal concepire la class-action, specie ove accompagnata dall’istituto “punitive damages”, come implementazione, in una società complessa e socialmente frammentata, di un forte principio di eguaglianza, tale da imporre al mercato di rendere meno irrealistica la sua premessa fondante di un eguale status dei contraenti. Niente, se non una tradizione dogmatica che privilegia la contrapposizione di classe a un capitalismo manifatturiero, fordista, che non esiste più, impedisce a una sinistra nuova di fare della class-action uno strumento flessibile al servizio dell’eguaglianza. Niente, se non un pregiudizio antico contro il consumo, impedisce a una sinistra nuova di concepire e presentare questa universale relazione socio-economica come il terreno di confronto ove – proprio come nella epopea passata del lavoro salariato e dello sfruttamento – è direttamente in gioco quel principio di eguaglianza che figura in cima ai valori costituzionali. L’“eguaglianza dei cittadini” deve acquisire un nuovo significato, oltre l’ inammissibilità, davanti alla legge, di distinzioni “di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”: deve diventare vera eguaglianza di opportunità nel mercato.

Prendiamo ad esempio le agenzie di rating. Standard & Poor, Fitch, Moody’s, vendono sul mercato la loro capacità di valutare in modo affidabile le chances di successo di istituzioni, banche, governi, e prodotti finanziari. Spesso però influenzano la realtà che pretendono di osservare. Nell’aprile 2011 Standard & Poor ha abbassato il rating degli Stati Uniti — una decisione non incontestabile, visto che le altre agenzie non l’hanno condivisa. Inoltre nel 2012 ha qualificato come “spazzatura” gli “Eurobonds” prima che esistessero – il che è difficile considerare una osservazione. Un esempio di class-action contro comportamenti simili, guidata da un governo locale, viene dall’Australia. Una battaglia legale di 8 anni ha visto vincere il comune di Swan (Western Australia) contro Standard & Poor in merito alla condotta fuorviante collegata ai suoi ratings prima e durante il fallimento di Lehman Brothers. La class-action ha coinvolto 92 partecipanti, guidati dal Comune di Swan nel New South Wales, fra cui investitori, consigli locali, chiese e associazioni di beneficenza e non profit.[3] La democrazia è il contrario dell’impunità. E la ricomposizione di una cittadinanza democratica può partire dal chiedere conto del loro comportamento a questi ed altri attori, come i fondi sovrani e le potenze economiche prima citate, attraverso class-actions sponsorizzate direttamente dai governi, invece che da associazioni del consumatore, e dall’ottenere un sanzionamento di tali comportamenti, come è accaduto con Volkswagen nel Dieselgate.

Da un’ottica di sinistra tradizionale, azioni come queste sembrano interne a una logica “giuridificante” in ultima analisi interna al neoliberalismo, ma l’onere della prova va piuttosto invertito. Tocca a chi difende un approccio più tradizionale, “socialdemocratico” o “old-labor”, mostrare come nelle condizioni attuali di iperpluralismo, flessibilizzazione del lavoro, frammentazione delle clasi sociali, e mancanza di una visione complessiva contro-egemonica – fortunatamente assente in un orizzonte postmetafisico – si possa più efficacemente contrastare il capitalismo finanziarizzato con manifestazioni, petizioni, scioperi e occupazioni. Fino quel momento, ritengo sensato affermare che la domanda polanyiana di “protezione” non vada né lasciata nelle mani delle forze populiste, né affidata solo a misure riformatrici approvate sull’onda di classici movimenti di protesta, ma possa anche affidarsi al successo di processi di class-action condotti sullo sfondo del costituzionalismo globale dei diritti umani e della giurisprudenza delle corti internazionali.     La sinistra non può ritrovare la sua vocazione e il suo radicamento se non reinterpreta il principio di eguaglianza anche in chiave economica come alternativa tanto all’acquiescenza al neoliberalismo che l’ha condotta al suo declino attuale quanto alla illusoria promessa populista di protezione attraverso la chiusura sovranista.

In estrema sintesi: le classi di lavoratori passano, ma i consumatori restano. La vecchia lotta di classe era sottesa da un forte principio egualitario – lo sfruttamento significava prendere, da parte dell’imprenditore, di più di quel che si dava al lavoratore. Non si vede perché lo stesso principio egualitario – secondo cui consumatore e produttore devono rapportarsi veramente da eguali sul mercato delle merci e dei servizi – non possa aggregare quei pubblici di consumatori che la collocazione lavorativa dividerebbe. Il che ovviamente non significa che, ove possibile, non si debbano perseguire in forma più tradizionalmente legislativa politiche volte ad assicurare la separazione rigida fra banche di risparmio e banche di investimento, ad acquisire la proprietà di istituti bancari in sofferenza, a rendere obbligatorie forme di tassazione degli investimenti finanziari e forme di assicurazione obbligatoria collegate ai medesimi, oltre che all’implementazione dei diritti sociali. Significa solo che il futuro della sinistra va sganciato da un collegamento di classe e da un troppo rigido orientamento alla centralità della legislazione, che la espone alla penalizzazione elettorale derivante dalla frammentazione sociale delle classi lavoratrici.

Alessandro Ferrara

[1]W.Scheuerman, “Recent Frankfurt Critical Theory: Down on Law?”, Constellations, 2016, forthcoming. See also his “Recognition, Redistribution, and Participatory Parity: Where’s the Law?”, this volume, pp. xx-xx.

[2] See the Official Journal of the European Union at

http://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/?uri=CELEX:12012P/TXT

[3] See http://www.abc.net.au/news/2016-02-20/councils-hail-‘david-and-goliath’-legal-win-to-recoup-gfc-losses/7186012, accessed 6 July, 2016.

Politica, etica, autenticità

ABSTRACT

Sinistra e politica sono termini quasi sovrapponibili. Se rivolgiamo il nostro sguardo alla storia d’Europa, le forze della sinistra progressista sono sempre state caratterizzate da un’istanza di allargamento dei diritti politici, e al tempo stesso di valorizzazione delle istanze stesse della partecipazione democratica sulle esigenze di controllo sociale pretese dalla struttura economica dominante. La sinistra è dunque sempre stata interprete di un diverso bilanciamento, nell’antagonismo tra amministrazione proprietaria e partecipazione democratica, a vantaggio di questa. Ciò non vuol dire che la sinistra abbia inteso esprimere posizioni antieconomiche o extraeconomiche. L’idea è invece quella di assoggettare i meccanismi amministrativi ai fini della politica, che è l’inverso delle opzioni conservatrici, le quali invece – tradizionalmente – ricorrono alla politica per garantire una perpetuazione del sistema di produzione dominante.

Nelle società a capitalismo avanzato, come ben segnalato da Marcuse, grazie allo sviluppo tecnologico, impiegato soprattutto nei settori produttivi, si è pressoché riusciti a soddisfare in gran parte i bisogni primari delle popolazioni (limitatamente ad alcune aree territoriali), ma a tal fine, per non interrompere il proprio flusso produttivo e non ricadere su sé stesso, il sistema è costretto a generare e indurre sempre nuovi bisogni, per poi amministrarli. Tale sistema, capace di questa fuoriuscita dai bisogni primari, porta con sé l’idea della sua stessa ineluttabilità. Non possiamo certamente negare che continuino a persistere ampie fasce di povertà nei paesi più sviluppati, e che tale organizzazione produttiva determini forme di ultra-impoverimento in altre aree del pianeta, e neanche che sussistano stratificate forme di oppressione e controllo sociale. Tuttavia, nelle società che hanno ormai raggiunto un sistema di organizzazione industriale, finanziario e amministrativo molto sviluppato, esiste in generale una garanzia sociale generalizzata di emersione da quella condizione di miseria cui ampie fasce della popolazione europea erano esposte nei secoli addietro, come correlazione naturale con condizioni climatiche, epidemie e carestie.

La politica, dunque, assimilando questo dato nella forma dell’ineluttabilità, si traduce in governance, amministrazione gestionale. Il riformismo non rinvia più – come concetto – all’idea di poter superare il sistema di oppressione capitalistico attraverso le istituzioni democratiche. Oggi il riformismo è l’idea stessa di amministrazione, finalizzata alla conservazione, dello sviluppo liberista, che in certe fasi è richiamato a correggere alcune sue storture. Ma il meccanismo implicito al capitale, e con esso il quadro assiologico che ne deriva, è tenuto vivo.

La difficoltà della gestione di questa fase, che dunque segna il processo con il carattere del declino, è a mio parere una resistenza a riconoscere la dimensione etica della pratica politica, che è implicita nella storia della sinistra, e che propongo di far riaffiorare. Anzi, di rivendicare con forza. Ma un’etica più vicina, che non anteponga l’obiettivo finale dello sviluppo alle implicazioni morali che agiscono in ogni negoziato imminente. L’obiettivo è invece quello di lasciar emergere il peso della dimensione assiologica nella stessa nozione di socialismo, onde valorizzarne la forza e la prospettiva di “eudemonismo sociale”. Va da sé che questo slittamento dal pragmatismo politico all’ideale etico-sociale significa, e così è stato nella storia del movimento operaio, il sacrificio della piena libertà economica individuale, indubbio elemento generatore di sudditanza e sfruttamento. Non c’è più spazio per nessuna sinistra se non si riprende a rimettere in discussione il rapporto tra diritti fondamentali e diritti patrimoniali.

Carlo Scognamiglio

 

Il fondamento etico

(Pubblicato per “Mondoperaio”)

Da un estratto del diario di Lev Tolstoj, recante la data 31 luglio 1905, si ricava la pungente considerazione secondo cui «il socialismo è un’applicazione parziale del cristianesimo, inesatta perché incompleta». La rappresentazione del progetto socialista come “scisma” o eresia nell’ampio solco della tradizione cristiana è una pista non poco battuta, ma la citazione tolstojana, specie se considerata in riferimento al tempo e al contesto che le dà origine, segnala una chiave importante, nonché attuale, per accedere alla relazione, non facile, tra filosofia e socialismo. Non esiste un’idea di cambiamento sociale che non abbia provato a esplicitare la propria – talvolta completamente implicita – struttura categoriale. L’ideologia politica non è solo il risultato di un’analisi dei rapporti sociali, generato da ponderate letture storiche ed economiche. La teoria politica che accompagna l’azione riposa su una visione dell’uomo, della natura e del senso dell’essere, più o meno emersa. L’ideale socialista, più d’ogni altra visione/azione nel teatro politico mondiale, ha cercato e cerca, in maniera tormentata, un quadro sistematico (sia esso materialistico o provvidenzialistico) in grado di irrobustire le ragioni dell’azione politica. Ma come la citazione tolstojana bene evidenzia, nella storia del socialismo il problema fondazionale, su cui tornerò in seguito, si intreccia in modo non sempre coerente con la ricerca di un orizzonte etico-sociale, ereditato in parte dalla tradizione culturale cristiana. Alcune idee fondanti del socialismo, come l’abolizione o attenuazione dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, l’emancipazione dalle sue servitù storiche e naturali, tradottasi nell’idea di trasferire su un piano antropologicamente più dignitoso le classi subalterne, stabiliscono un contatto importante con l’etica cristiana. Vi si può riconoscere il profondo valore egalitario, tradotto in una costante attenzione agli ultimi, ma integrato con un elemento evolutivo del tutto estraneo al messaggio evangelico, perché connesso direttamente alla percezione sociale dell’industrializzazione e dei suoi effetti, e una relativa storicizzazione della relazione tra le classi. Senza indugiare oltre nella comparazione, occorre sgombrare il campo dall’equivoco di una lettura pseudo-religiosa del socialismo. Non si tratta di incastonare la tradizione progressista nella struttura concettuale, simbolica e storica della religione cristiana. Dio non c’entra. L’obiettivo è invece quello di lasciar emergere il peso della dimensione assiologica nella stessa nozione di socialismo, onde valorizzarne la forza e la prospettiva di “eudemonismo sociale”.
Guardiamo all’oggi. Mentre nella discussione teorico-politica interna alla sinistra contemporanea si fanno spazio le insinuanti ambiguità della filosofia biopolitica, i movimenti sociali colgono appieno il portato di un’istanza che non è più comprensibile sul terreno dell’aspirazione scientificamente fondata a uno stato di diritto sociale, perché foriero di una potente riscossa etica condotta in nome di una maggiore giustizia, intesa in senso forte. Si osservino due fenomeni italiani e una tendenza internazionale: non è possibile occultare un dato storico, e cioè che la prima e nuova grande manifestazione delle donne, esprimente un’istanza emancipatrice dal tratto sociale ed economico insieme, si sia sollevata nell’ultimo anno e mezzo sulla spinta di un’esigenza di riconquista morale di un giusto riequilibrio delle relazioni di genere. Analogamente, i movimenti dei lavoratori di tutte le sigle sindacali, proprio in queste settimane, chiamano a raccolta i propri iscritti rivendicando non un protagonismo annunciato da una scienza della maturazione di epoche produttive e dei sistemi di governo, bensì – in prima battuta – evocando il valore dell’equità, declinato evidentemente in senso etico, perché semanticamente ancorato a richiami espliciti al “buon esempio”, alla condanna dei privilegi, al rispetto della dignità umana. Ma allargando l’orizzonte al quadro sovranazionale, la reazione popolare alla più grande crisi finanziaria del dopoguerra ricorre all’eloquente parola d’ordine dell’indignazione, senza dubbio carica di una valenza morale. La sensazione è che i movimenti progressisti e portatori di istanze emancipatrici abbiano intuito prima e meglio di marxisti e post-marxisti il legame esistente, ma necessitante di ulteriori iniezioni di forza, tra socialismo ed etica sociale. Questo legame, per la verità, è già sufficientemente stretto nella filosofia di Marx, forse anche più di quanto lo stesso autore del Capitale fosse consapevole. Nonostante gli sforzi di Marx nel sottolineare la linearità comportamentale del capitalista che paga la forza-lavoro come una qualsiasi altra merce, estraendo un surplus di valore e cioè escludendo un’implicazione moralistica nel concetto di sfruttamento, si capisce bene – e Benedetto Croce aveva evidenziato questo problema – che il processo di generazione di plusvalore è l’effettivo rovesciamento della terza formula dell’etica kantiana. L’imperativo categorico (specificatamente nella forma del divieto di considerare l’umanità come mezzo), come Hermann Cohen aveva intuito e segnalato, è la vera fondazione teorica del socialismo.
Ora, i riferimenti al cristianesimo o al kantismo possono valere solo a titolo persuasivo, onde identificare l’importanza della questione etica nella storia del socialismo, ma sono del tutto insufficienti in una delineazione possibile di quella che potremmo chiamare “gerarchia dei valori”, propria di quella tradizione politica. Per quanto stridente possa apparire l’operazione, provo a enunciare l’idea secondo cui il socialismo debba portare con sé, in modo implicito, un’etica liberale. La posizione di apertura morale che tratteggia la prospettiva liberale in particolar modo sui temi eticamente sensibili, impropriamente detta “laicità”, costituisce di fatto un’opzione assiologica, che colloca il valore della libertà individuale, e in generale il valore di “personalità” in una posizione riguardevole nella propria gerarchia. Ma si tratta di un valore che è comprensibile soltanto alla luce di un universalismo di tipo cristiano, che rompe definitivamente la lunga tradizione dello schiavismo del mondo antico, definendo l’eguale dignità di ogni singola persona. L’egualitarismo è in realtà un’idea fondativa rispetto all’ideale liberale. Il socialismo, in qualche modo, ricostruisce il nesso tra libertà personale e parità sociale. Secondo il motto di Bernstein, «non esiste idea liberale che non appartenga anche al patrimonio ideale del socialismo», che è anzi un liberalismo più radicale e coerente rispetto alla tradizione liberale borghese. Il socialismo chiede alla democrazia di essere più democratica, e auspica un liberalismo che diventi autenticamente liberale. Al di là delle singole spigolature storiche dei movimenti, dei partiti e dalle esperienze di governo di ispirazione socialista, il filo rosso dell’istanza emancipatrice sta tutto nel tendenziale riallineamento di eguaglianza politica ed economica, superando le divisioni sociali e produttive che impediscono tale processo. Il fatto che i socialisti si siano storicamente differenziati dai partiti liberali dipende dall’assimilazione assiologica di un modello politico su un piano etico. Il liberalismo costruisce storicamente la sua teoria dell’equilibrio dei poteri e delle garanzie individuali, mentre il socialismo radicalizza tali istanze trascinandole nell’orizzonte del dovere morale (per cui lo stato deve perdere più o meno gradualmente forza oppressiva e occasioni di “abuso”), e al tempo stesso disegna all’orizzonte della propria etica sociale un ideale di umanità dove ciascuno si riappropria della dignità umana. Va da sé che questo slittamento dal pragmatismo politico all’ideale etico-sociale significa, e così è stato nella storia del movimento operaio, il sacrificio della piena libertà economica individuale, considerata elemento generatore di sudditanza e sfruttamento. Pertanto, il socialismo si costituisce nell’adesione a un’etica al tempo stesso formale e sostanziale (dove cioè la dignità umana è criterio formale dell’imperativo categorico ma a anche valore di riferimento della programmazione e dell’azione), innervata – per la fondamentale eredità del marxismo – dalla critica dell’economia politica, ragion per cui, ben lo si intende, a differenza del pensiero liberale classico, il socialismo non può trovare alcuna seria compatibilità con il sistema di produzione capitalistico.
Tuttavia la relazione tra filosofia e socialismo, nella sua complessità, non si può risolvere nella sola rivisitazione della sfera assiologica, che accomuna o distingue il socialismo di ieri da quello di domani. La questione si rende intrigante quando richiede la problematizzazione vera e propria dei concetti chiave di quella prospettiva valoriale. A cominciare dall’identificazione dei protagonisti di questa storia: l’uomo e la dignità umana. Nei Manoscritti del 1844 Marx interpretava il comunismo come movimento orientato alla restituzione all’uomo di una sua “umana essenza”, concetto che vale in senso lato per il socialismo d’ogni tempo, come chiave d’interpretazione dell’istanza di emancipazione sociale. Ma per avere un umanismo occorre una teoria dell’uomo, che Marx inclinava a organizzare in senso materialista, e che tuttavia non è l’unico senso possibile. Ciò significa che alla potenza assiologica dell’etica cristiana e kantiana vengono ancorate una concezione metafisica del rapporto natura-uomo e una filosofia della storia che presentano, nell’arco di due secoli di idee socialiste, numerose varianti, tutte apparentate nella comune necessità di una definizione solida del proprio sguardo. Il che non è un male, anzi, si tratta di un’esigenza che va assecondata. La stessa questione dei valori necessiterebbe di una teoria generale dell’azione e della realizzazione più ampia e complessa, e sicuramente non riduzionista. La recente discussione tra neo-realisti e teorici del pensiero debole, in cui matura una vicendevole accusa di incompatibilità filosofica con le istanze storiche della sinistra politica, indica in qualche modo l’esigenza, nel processo di auto-comprensione identitaria dell’istanza progressista, di chiarire le proprie categorie ontologiche ed ermeneutiche. Ma ciò di cui l’umanesimo socialista ha bisogno non è un’inossidabile impalcatura categoriale in grado di descrivere puntualmente e definitivamente il mondo reale, né di un pensiero gioiosamente aleatorio e autoreferenziale, bensì un di sistema aperto (un interessante percorso, in questa direzione, è stato tracciato da Gyorgy Lukács nel suo recupero di un importante pensatore tedesco, oggi semisconosciuto, come Nicolai Hartmann, e della sua ontologia critica). Soltanto per questa via il socialismo potrà sciogliere il nodo strutturale che irrigidisce la fluidità concettuale della relazione tra opzione etico-politica e sistema categoriale di riferimento. Mi spiego: il socialismo presuppone una filosofia della storia, in cui si renda possibile la spiegazione del succedersi di avvenimenti, epoche, sistemi politici o produttivi, in base a una legalità metafisica (sia essa di natura dialettica o deterministica). Ma una qualsivoglia teoria della storia diventa – di fatto – teoria della necessità storica, dunque escludente la possibilità stessa dell’azione libera individuale, dell’iniziativa soggettiva (e poco importa qui se si preferisca un riferimento al soggetto personale o collettivo). Eppure, non solo non posso fare a meno di pensarmi come essere libero, ma costruisco l’ideale dell’azione politica orientandolo principalmente ai valori di libertà e personalità. L’orizzonte della storia collettiva impedisce di vedere la capacità teleologica del soggetto all’interno del proprio nesso sociale (anche il partito, per essere soggetto storico, deve poter agire delle decisioni, e non essere agito da forze storiche incontrollate), sebbene ne residui il sentimento etico che pretende di dar voce all’istanza della responsabilità, dunque della libertà. Allora il socialismo come idea politica in sé portatrice di una posizione assiologica chiara, deve forzare questo reciproco scarto tra teoria e prassi, e svolgere in un sistema aperto una chiarificazione categoriale dell’essere reale e assiologico, per poi scommettere – ché diversamente non è possibile neanche prender sul serio la propria stessa esistenza – sulla libertà dell’essere personale, e dunque su un processo di liberazione sociale dallo sfruttamento, come termini di una reciproca implicazione.

Carlo Scognamiglio

I conformisti dei nostri tempi: sul modo d’essere e di vivere della maggioranza

(da: S. Bisi, La maggioranza sta. I conformisti del XXI secolo, Bordeaux 2017)

In un universo culturale in cui tutti cercano di distinguersi, di apparire diversi, unici e originali esistono ancora i conformisti? Sì, e in gran quantità dato che costituiscono la maggioranza degli appartenenti a ogni società, compresa la nostra. Le società cosiddette avanzate però sono estremamente complesse, pertanto su un tema come il conformismo le risposte non possono limitarsi a secche alternative. Occorre ragionare, argomentare basandosi essenzialmente sull’osservazione diretta della vita quotidiana, un’osservazione che mi ha portato a dirigere lo sguardo sociologico sulle persone che frequentano quei luoghi più di recente diventati parte rilevante del sociale, fino ad assumere loro stessi un significato simbolico, non tanto utilitaristico quanto identitario: dal mercato rionale all’aeroporto, dalle boutique ai centri commerciali, dagli studenti dell’università ai circoli del tennis, dalle palestre ai centri estetici, dai luoghi della movida alle spiagge.

Ho cercato di “leggere” oltre l’apparenza la maggioranza, cioè quelle donne e quegli uomini a cui è stato insegnato che “da noi” la felicità è un diritto, che il nostro modello di vita non è esportabile, che nell’agire conforme – e cioè nella logica mercantile che distingue la nostra società occidentale – avrebbero trovato qualcosa di più di un appagamento effimero, momentaneo. Una maggioranza poco incline a occuparsi degli altri, dei diversi, una maggioranza che vive in conformità con il modello sociale dominante senza vederne incoerenze e contraddizioni, “coltivando tranquilla l’orribile varietà delle proprie superbie”, nelle parole di Fabrizio De André.

Come agisce, cosa fa per gratificare se stessa? Dove guarda, in cosa crede, come agisce?

Noi: noi italiani, noi europei, noi americani…. noi giapponesi, noi cinesi, e chissà quanti altri pronti a diventare come noi, condividiamo i modelli di vita, i valori positivi (enfasi sul successo) e i valori negativi (stigma dell’insuccesso), gli oggetti della felicità (i vari gadget), le lecite aspirazioni (fare danaro), felici di consumare (i non consumatori sono i nuovi devianti, o i nuovi impuri, come li ha chiamati Bauman), timorosi di chi attenta al nostro benessere (difendiamoci anche con le guerre preventive), sempre pronti a scambiare la libertà (degli altri) con la sicurezza (nostra).

Fatalmente, anche le persone finiscono per assomigliarsi. In un sistema che sempre più si caratterizza per le reciproche interdipendenze, assistiamo a un processo di identificazione, una tendenza generale all’omologazione di abiti mentali e comportamenti, che ci rende simili da un capo all’altro del mondo.

Mentre dovrebbero esserci meno alibi rispetto al passato, ci troviamo di fronte a un paradosso: proprio nel momento storico in cui è smisuratamente aumentata la possibilità di essere informati su tutto o quasi tutto, proprio in questa epoca caratterizzata da un ininterrotto e quotidiano viaggiare di notizie e conoscenze che dovrebbero rendere più comprensibile il concetto di “complessità”, accade il contrario. Potremo sottoscrivere quanto ha detto Cornelius Castoriadis, una voce forte contro il conformismo generalizzato e la montée de l’insignifiance: questa è l’epoca del “non-pensiero”[1]. Questa società “liquida” – che meglio sarebbe definire “smarrita” – non riesce infatti neppure a comprendere appieno la propria storia e il proprio cammino.

Il contesto non solo non aiuta, non stimola, non incoraggia a pensare ma di fatto, con vari accorgimenti e l’uso sapiente dei media e della pubblicità, non offre neanche il doveroso stimolo e incoraggiamento a farlo. L’uomo nuovo, l’uomo occidentale del XXI secolo, dovrebbe essere emancipato, dovrebbe avere acquisito istruzione e cultura, invece sembra essere sempre meno stimolato e stimolante e sempre più oscillante tra aggressività, rabbia e inerme accettazione.

Crisi economiche, catastrofi naturali, guerre e attentati si susseguono. Media e social network ci aggiornano ventiquattrore su ventiquattro. Noi partecipiamo a questi drammi postando la notizia su Facebook, commentando con faccine piangenti, o con un tweet, aderendo a raccolte di denaro digitando un numero di telefono o via web. Bastano però pochi giorni o al massimo qualche mese perché tutto venga digerito ed espulso. Perché lo sguardo ritorni a fluttuare nel raggio corto del proprio entourage.

La domanda che in un certo senso identifica il post moderno, domanda inevasa, recita: cosa resta, ora che tutte le grandi narrazioni sono evaporate? Resta solo l’idolo narcisistico della crescita e dell’espansione, restano i “post”, cioè quelli che non sono più comunisti, fascisti, padri eccetera[2]. Resta la promessa di felicità, quella felicità dell’uomo moderno, coniata ironicamente da Fromm, che si esprime nel guardare le vetrine (o i siti commerciali online) e nel comprare tutto quello che si vuole in contanti o a rate[3]. Quei beni materiali oggetto del desiderio da soddisfare a ogni costo: pensiamo all’assurdità dei tanti che in religiosa fila aspettano dall’alba l’apertura dei negozi per acquistare e sostituire il vecchio Iphone con l’ultimo modello. Un fenomeno che si ripete in molti luoghi del mondo, a conferma della globalizzazione del desiderio, e pazienza se per averlo si debba spendere mezzo stipendio: un attimo di felicità condivisa per un oggetto il cui valore cala nel giro di un mese.

E questo mentre è in atto una crisi economica di vasta portata, una crescita della disoccupazione che ha ridotto i redditi e quindi la capacità di consumo. Nel caso Italia ci si può riferire alla lettura delle elaborazioni fatte dal Censis sulla base dei dati Istat e Gira, sui consumi alimentari. Si constata l’evoluzione delle patologie del benessere motivata dalle differenze nell’acquisto di cibo in base al reddito, per cui diminuiscono i consumi “sani” a favore del cosiddetto junk food. Giuseppe De Rita ha così commentato: “Si rinuncia a una bistecca non allo smartphone nuovo. Sono cambiate le priorità”[4]. La creazione continua di bisogni crea tensioni psicologiche e frustrazioni. E fa nascere una nuova povertà, che non è quella reale delle sacche di povertà presenti nei nostri opulenti paesi, né la cosiddetta povertà relativa, di chi stenta ad arrivare alla fine del mese. La nuova povertà è una povertà psicologica: ci si percepisce poveri se non si riescono più a soddisfare le sempre nuove sorgenti di esigenze.

Nella pur estesa e difficile crisi, è più forte la paura di impoverire che l’impoverimento reale, timore avvertito soprattutto dal ceto impiegatizio a reddito fisso, e dai giovani. Tutto ciò si può ben legare a quella che possiamo chiamare una questione di “significati immaginari sociali” colonizzati dai valori dominanti: progresso, universalismo, dominio della natura, razionalità.

E nell’immaterialità del mondo digitale, come nella vita reale, troviamo un consumatore passivo, che cerca emozioni velocemente fruibili. Bjung-Chul Han parla di un capitalismo delle emozioni, in grado di capitalizzare sull’emotività. Lo sanno bene i proprietari dei social media, che offrono gratuitamente spazi e servizi online: svelare se stessi significa anche offrirsi volontariamente a chi lo spazio sociale lo sorveglia e lo sfrutta. Significa accettare informazioni che arrivano in rete senza comprenderle, senza inquadrarle nel contesto razionale, significa, nota Han, perdere interesse per la politica così come è stata finora, e sostituirla con il mugugno e il dileggio, equiparando il politico a un fornitore, di cui ci si lamenta perché non soddisfa. Così il cittadino, questo vocabolo che volto al plurale diventa una simbolica rappresentanza della cosiddetta democrazia dal basso, ha creato una parità annullando vecchie disparità (classi, comunità, servi e padroni).

Rimandando per un approfondimento al saggio di Han, Psicopolitica[5], vorrei sottolineare un elemento che a mio avviso emerge chiaramente da questa e da altre analisi: l’inconsapevolezza. Ed è in questo baratro di inconsapevolezza che si muove quella “maggioranza soddisfatta” di cui parla Bauman e che disegna nel capitolo dal bel titolo: Della morale che inizia dentro casa. Una maggioranza poco incline ad assumersi la responsabilità della minoranza più debole, e alla quale, in forza del “potere dell’opinione”, i governi non possono fare torto.

Questa maggioranza, occupata nella mera soddisfazione dei bisogni individuali, ascolta altre voci, guarda ad altro, non reagisce, anzi, accetta quanto la società offre, trova conforto nell’essere in tanti: si contagiano, si copiano, sognano… e fuori i diversi. Hanno anche un alibi: hanno sempre fretta, vivono freneticamente. Dal lavoro allo svago non fanno altro che correre, anche se non sono certa che sappiano dove stiano andando.

Nella vita quotidiana però non è possibile allontanarsi, disancorarsi totalmente dalle leggi, complicate e molteplici, della propria e insidiata interiorità. E allora si tenta un recupero: ecco il fenomeno del “risveglio delle religioni”, la difesa della famiglia legalmente sancita, la battaglia contro diritti già, e a fatica, acquisiti (divorzio, aborto, procreazione assistita, unioni civili), il rinverdirsi di desuete e moraleggianti dispute, i nuovi conservatorismi. Da più parti si riaffacciano pretese di verità assolute, spacciando troppo spesso la difesa delle “cose” per difesa dei valori.

In realtà, parlare di risveglio dei valori, è assolutamente improprio: ne sono rimasti i nomi, simulacri, simboli vuoti, parole di facciata che servono più ad alzare barriere che ad accogliere le (eventuali) pecorelle smarrite. Prevale una spinta alla passività piuttosto che all’iniziativa. Sempre più si tende a rassicurare se stessi adattandosi a quei modelli di vita socialmente condivisi, in una autodifesa dell’identità quasi a garanzia di conforto e di gratificazione.

Anche nella civiltà occidentale contemporanea, l’unione col gruppo è la maniera più frequente per superare l’isolamento. È un’unione in cui l’individuo si annulla in una vasta comunità, e il suo scopo è quello di far parte del gregge. Se io sono uguale agli altri, sia nelle idee che nei costumi, non posso avere la sensazione di essere diverso. Sono salvo: salvo dal terrore della solitudine[6].

 

In questa ricerca degli oggetti del desiderio sembra prevalere una condizione generalizzata di infantilità: il mercato alimenta rapidi e voraci entusiasmi, destinati in breve tempo alla delusione, offrendo novità che rendono subito vecchio ciò che poco prima era ritenuto indispensabile; la televisione alimenta una dimensione favolistica che induce a credere in mondi immaginari; personaggi dello sport e dello spettacolo alimentano miti impossibili, favorendo mimetizzazioni in altri da sé. Un’enfatizzazione, questa, che contribuisce a iscrivere sempre più persone nella già numerosa cerchia delle pedine del destino: sugheri, gavitelli in balia delle correnti della vita, senza difesa verso i condizionamenti, gli stereotipi, le idee ricevute, le allettanti sirene della superficialità.

Non c’è niente – per ora – da opporre al consumismo se non un modello di vita che poco ha di elitario o di autenticamente popolare. Si assiste a uno spostamento verso il centro, una posizione dove alberga la mediocrità, secondo l’analisi di Alain Deneault nel suo saggio dal titolo La Mediocratie[7]. Vivere nella mediocrità comporta una vita condotta all’insegna del mantenimento dell’ordine economico e sociale, dove la media è diventata la norma. Una deresponsabilizzazione generalizzata che non accetta una riduzione dei desideri, che mette al primo posto il piacere individuale, e annulla qualunque altra priorità che non sia il valore primario: il denaro.

In che modo si tutela il nostro conformista dinanzi alla compiuta alienazione o quantomeno dinanzi al ripiegamento dell’essere su se stesso? Costruendosi una tana come nell’angosciante racconto di Kafka.

In poche parole il conformista si chiude in cerchie familiari o amicali in cui trovare sistematica conferma di quello che pensa, vivendo in quartieri che tengono a debita distanza gli outsider, formandosi un’opinione tramite quelle forme di spettacolo che sono ormai diventati i telegiornali, restando adolescenti in età adulta, astenendosi dall’impegno collettivo.

Costruire la propria tana è un lavoro duro, che richiede un impegno quotidiano. Il lavoro di chi giorno per giorno deve difendersi dagli altri vissuti come concorrenti (chi è più ricco? chi più giovane? chi più bello?) o come nemici (i diversi, i poveri, i migranti). Il gruppo di amici rappresenta, anche per gli adulti, il rifugio sicuro perché non c’è confronto ma condivisione, perché si è simili nel gusto e nelle idee, e il ritrovarsi nei soliti luoghi e negli stessi social media dà una nota di certezza alla turbolenza degli animi. I ragazzi del muretto, i tifosi della stessa squadra, i compagni di burraco o di altri giochi di carte, le discoteche alla moda, le cene nei soliti ristoranti con le stesse persone… segni tutti della tendenza a chiudersi, a cercare sicurezza in chi riconosciamo simile a noi.

Dominati da un senso di onnipotenza simile a quello dei bambini, come bambini i nostri, numerosi, cittadini normali reagiscono alle privazioni con sentimenti quali gelosia e invidia, rancore, ribellione e litigiosità. Nei vissuti quotidiani, però, si insinua un inspiegabile turbamento, sentimenti vaghi e penosi che si sottraggono a un riconoscimento, e si esprimono con vari e subdoli sintomi tra i quali, purtroppo, alberga anche l’odio verso coloro che del loro mondo non fanno parte[8].

Insomma, l’omologazione degli stili di vita, o per meglio dire, il dilagante conformismo, rappresenta un’efficientissima scuola del disimpegno e dell’inconsapevolezza. Ma sono in pochissimi ad avvertire questa emergenza. In primo luogo i diretti interessati, ossia gli stessi giovani, per non parlare dei politici. I giovani dediti all’esibizionismo e allo sballo in discoteca o nel corso di quelle adunate postmoderne che sono le varie movide, le vacanze in paradisi esotici e così via. Penso infatti che l’incredibile livello di omologazione delle nuove generazioni costituisca un problema politico di prima grandezza proprio perché imprigiona la coscienza nei giochi delle apparenze e nella vertigine fine a se stessa.

Simonetta Bisi

[1] C. Castoriadis, “Contre le conformisme généralisé », Le Monde diplomatique, agosto 1997

[2] R. Ronchi, Come fare. Per una resistenza filosofica, Feltrinelli, Milano, 2012

[3] E. Fromm, L’arte di amare, Oscar Mondadori, Milano, 1996.

[4] La Repubblica, 24710/2016, p.3

[5] B-C. Han, Psicopolitica, Nottetempo, 2016 e E. Mauro, “Il fantasma della libertà all’epoca degli emoticon”, La Repubblica, 30-6-2016, p. 31.

[6] E. Fromm, L’arte di amare, cit. p.26

[7] A. Deneault, La mediocratie, Lux Editeur, Montreal, 2016, citato in: A. Mincuzzi, La “mediocrazia” ci ha travolti, così i mediocri hanno preso il potere”, La Repubblica, 19-6-2016.

[8] Il termine “normale” in questa accezione si riferisce alla maggioranza, cioè ai conformisti.

 

Una politica riformista oggi

Le migliori menti nel dibattito politico del momento si esercitano in analisi sulla crisi economica e sociale che, oramai, da anni attanaglia il nostro Paese e che non sembra aver fine.

Tutti, in un impulso di irrefrenabile rimozione, imputano le responsabilità del declino a varie cause per non affrontare i veri nodi del problema e le declinano per lo più in: populismi, sovranismi, qualunquismi, finanche rigurgiti razzisti.

Nessuno cerca, chi per miopia, chi per mera convenienza, chi per paura della perdita di un mondo che fu e che vede sfuggirgli, di analizzare con la dovuta serenità, scevra da condizionamenti ideali e da opportunismi, i veri nodi del problema e le sue principali cause.

Nel titolo di questa breve riflessione vi è un chiaro riferimento al Riformismo, corrente politica e di pensiero che la storia ci ha trasferito densa di speranze tese al miglioramento graduale della società con particolare riguardo della classe lavoratrice. La corrente di riferimento, è quella che nel novecento ha visto quali uomini di punta: Turati, Treves, Matteotti, Salvemini, Carlo Rosselli. Corrente di pensiero politico, la cui cifra preponderante è stata la formazione di società che hanno visto coniugare, in armoniosa sintesi, il walfare e l’economia di mercato e che hanno prodotto notevole sviluppo sotto il profilo economico e sociale.

Ebbene, il significato delle parole a volte cambia nel comune modo di intenderle, causa fenomeni e accadimenti che trasformano l’identità culturale del suo significato originario. Laddove una volta per riformismo si intendeva tutto ciò che gradualmente portava al miglioramento della condizione umana, oggi, invece, la parola spesso usata in Europa, evoca subito cambiamenti sì, ma in peggio, in particolare: tagli di bilancio, rigidità, sacrifici, col portato inevitabile, di disoccupazione, impoverimento, bassi salari e precariato diffuso, nella sostanza un futuro senza sviluppo

Diventa sempre più impervio coniugare walfare, sviluppo e benessere. Al centro del sistema politico non c’è più l’Uomo ma il bilancio, il freddo dato contabile, che ha portato l’intero continente europeo ad “impiccarsi” alle politiche restrittive che non stanno dando i frutti sperati e che nel nostro Paese hanno portato e porteranno nel tunnel di una grave crisi di cui non si vedrà l’uscita.

E’entrato in crisi l’intero sistema istituzionale ed economico. La crisi del sistema bancario ne è un fulgido esempio: falliscono banche e si stigmatizza l’attività della banca centrale, istituzione da sempre considerata garanzia di serietà e competenza per la tutela di tutti.

Le sinistre in Europa ed ancor più in Italia, versano in gravi crisi di identità.

Se a questo si aggiunge il problema, sul quale ci si potrebbero scrivere interi tomi, degli effetti della globalizzazione sull’intero pianeta, non vi è chi non veda che la situazione diviene esplosiva e può tendere al catastrofico.

Allora diventa facile e fuorviante nascondersi dietro slogan ad effetto: il populismo, il sovranismo ed altre pretestuosità del genere.

E’lapalissiano dire che le persone non possono che sentirsi prima cittadini del proprio Paese poi cittadini europei e poi, forse, cittadini del mondo. E’palese il disorientamento generale specialmente tra i giovani.

In virtù della crisi, essi non trovano più lavoro e, quando assunti, esso è precario e sottopagato. Si ritiene, per lo più, che la colpa sia dell’Europa, dello straniero che viene in cerca di fortuna e fugge da luoghi impossibili.

Non si considera mai che vi è la netta carenza di una politica che lo tuteli e attui misure adeguate.

Generalmente, nella Storia recente, tale compito è stato svolto non certo dalle forze politiche di riferimento dell’oligarchia finanziaria o industriale ma da quelle forze di sinistra riformista che volevano coniugare sviluppo ed equilibrio economico, meriti e bisogni, concorrenza e competenza, socialità ed individualità, nella sostanza libertà e giustizia sociale.

Bisogna prendere atto che il sistema politico-economico costruito dai nostri padri fondatori è in stato comatoso, allo stato attuale non regge più.

Il grande accordo tra industria, partiti, sindacati, sistema cooperativo e Chiesa ha garantito sviluppo economico e conseguente benessere, con politiche di spesa a volte eccessive ma il sistema ha retto per molti anni. Si assisteva la grande impresa con leggi ad hoc che producevano investimenti, si assisteva il sistema cooperativo con benefici fiscali tutt’ora esistenti, si praticava nell’ambito delle piccole e medie imprese massiccia evasione per lo più tollerata, si davano contributi a pioggia per lo sviluppo del mezzogiorno, si praticava un clientelismo sfrenato con assunzioni nel pubblico oltre il consentito sia nelle aziende a partecipazione pubblica che negli enti, insomma non vi era settore che non avesse qualche beneficio. Il tutto in una sorta di consociativismo politico-economico diffuso e generale.

Tutto si teneva. Nel ’92 con la fine della c.d. prima repubblica, espressione esclusivamente giornalistica, sotto l’incedere dei procedimenti giudiziari, si estinguevano i partiti della famosa prima repubblica, salvo uno che cambiava nome ma non veniva meno quel sistema, né sul piano morale né sul piano dei precedenti assetti economici. Il sistema di assistenza diffusa rimaneva intatto ed il malcostume poi, si implementava in maniera esponenziale. Ai ladri di partito si sostituivano i ladri e basta che crescevano a dismisura. Alla luce dei fatti odierni l’unico cambiamento vero, sul piano sostanziale di quegli anni, è stata la dismissione dell’IRI con la privatizzazione di imprese a partecipazione pubblica di ottimo livello.

Non è stato un cambiamento di sistema politico-economico, ma solo una gattopardesca trasformazione, tanto che se si guardano i dati il debito pubblico dal ’92 ad oggi, esso è superiore a quello formatosi dal ’46 al ’92.

Ma quale seconda repubblica, semplicemente trasformazione della prima e niente più.

Con la successiva introduzione della moneta unica e l’applicazione di rigide politiche di bilancio imposte dall’Europa la visione di quel sistema, mai estintosi, diviene chiara, trasparente, senza possibilità di equivoci: il re è nudo. L’Europa del bilancio, alle quale si è sovrapposta la globalizzazione mette in grave crisi più di tutti il sistema Italia, che non ha avuto mai una vera e propria economia di mercato e con un welfare che si reggeva non tanto sullo sviluppo prodotto, ma soprattutto sull’espansione del debito senza limiti di sorta. L’economia era ed è per lo più assistita, quel poco di economia che non fruisce di assistenze, specialmente nei settori della piccola e media impresa, è talmente gravata da oneri burocratici, sociali e fiscali che è sempre più difficile per queste rimanere sul mercato. Anche le piccole imprese, che numerose fanno comunque PIL e non possono fuggire all’estero come le grandi, subiscono la concorrenza spesso sleale di piccole attività straniere operanti senza controlli negli stessi settori con mano d’opera impiegata spesso in nero ed in condizioni di sfruttamento e con più vantaggiose regole amministrative e fiscali. A questo va poi aggiunto un fenomeno tutto italiano: gli investimenti di un enorme flusso di denaro proveniente dai proventi delle organizzazioni criminali e che costituiscono parte significativa del Pil nazionale.

Alcuni, onde nascondere alla gente i veri problemi, la “buttano” addirittura sul razzismo ma la realtà è che non esiste alcun rigurgito razzista, se non in esigue minoranze che lo praticano da sempre. E’ certo, però, che coloro che si vedono andare in pensione alla soglia dei 70 anni, che vedono aumentare i costi sanitari e che sono costretti a sostenere i figli che rischiano di essere precari a vita, mal pagati, se non sfruttati, mal digeriscono coloro i quali, ancora più disperati, si affacciano dall’estero ad un mercato del lavoro privo di ogni regola. E questo fastidio non è certo frutto di razzismo, come molti ci vorrebbero far credere, ma solo di disperazione: tristemente solo lotta tra poveri. Le politiche di rigidità causano il sottosviluppo e soprattutto sono causa della cosa più odiosa dell’umanità: la lotta tra gli emarginati, lo scontro tra i meno abbienti che prescinde totalmente dal colore della pelle.

La forbice sociale si allarga sempre più ed ancor più la forbice generazionale.

Se ci togliamo le quasi tremila medie imprese che fatturano da 50 milioni di euro a due miliardi, il fiume di denaro illecito, e poco altro, a meno che non si vuole considerare la grande impresa indenne da sostegni statali, il resto è per lo più assistito.

Si è cercato di vendere politicamente il precariato per flessibilità ma questa esiste solo dove c’è una dinamica di mercato che nel nostro Paese non è mai esistita. Tutto è controllato con un complesso di procedure amministrative degne dei migliori paesi illiberali. L’onesto imprenditore viene dissuaso dall’intraprendere nuove attività. Viene, invece, favorito attraverso il mancato controllo, lo sfruttamento dei lavoratori che, nei casi di immigrati è a volte vera e propria schiavitù, viene tollerata ogni forma di illegalità nell’ambito commerciale e nei servizi privati.

Non è questa la sede, per ovvii motivi redazionali, per addentrarsi in ulteriori analisi molto più vaste cui torneremo in seguito, va sinteticamente però avanzata qualche proposta.

Mi limito a poche righe per ora.

  • Snellimento di tutte le procedure amministrative di tipo autorizzativo in generale, onde facilitare ogni legittima intrapresa che si volesse praticare;
  • Eliminare ogni facilitazione per quelle imprese in forma cooperativa che nei fatti sono grandi imprese che operano nei settori finanziari, bancari, assicurativi e della grande distribuzione mettendoli sullo stesso piano delle imprese che operano come società di capitale negli stessi settori. Riportiamo il cooperativismo all’iniziale vocazione, quando lo scopo era favorire il lavoro degli associati e la loro sicurezza;
  • Separare le banche di raccolta da quelle di affari affinché il risparmiatore sappia che si fa del suo denaro, se ci si gioca a “dadi” con i derivati o se si impiega per crediti a famiglie e attività produttive;
  • Regolare il commercio semplificando le procedure e senza differenti trattamenti nello stesso settore merceologico, ristabilendo una leale concorrenza;
  • Controllo, vigilanza e prevenzione in ogni situazione lavorativa che debelli il caporalato, lo sfruttamento e la schiavitù (vedi in agricoltura);
  • Equiparare le pensioni sociali al costo per lo Stato del migrante;
  • Attuare una giustizia efficiente e repentina attraverso la messa in ruolo di più operatori in tutti i settori;
  • Agevolare i giovani al lavoro con dei limiti ai contratti a termine per l’impresa che li utilizza;
  • Stabilire criteri per i danni causati dalla pubblica amministrazione per le sue lentezze con tempi certi e termini perentori per ogni procedura. Chi investe deve poter programmare le proprie attività.
  • Prevedere sgravi fiscali per chi inizia un’attività per i primi cinque anni, onde permettergli un sereno avviamento.

Queste sono solo alcune idee sulle quali torneremo per ulteriori e più completi approfondimenti.                                                                         Se il Paese non saprà prendere la strada delle vere riforme che possano rendere veramente dinamica e flessibile la nostra economia, ma saprà solo attuare politiche restrittive imposte dall’Europa, non ci sarà speranza per il futuro se non per una opulenta oligarchia senza anima.

Pierluigi Winkler