Contro la frammentazione

In un tempo in cui gli uomini, in quanto singoli e in quanto specie, appaiono adagiati su un terreno che di stabile non ha più nulla, in un periodo storico che vede ciascuno di noi come un piccolo quanto insignificante ingranaggio d’un apparato tecnico sempre meno controllabile dal suo costruttore, in questo tempo, occorre ricordarsi che l’uomo è strutturato su un’identità che ha un centro psico-fisico unitario e che la comunità degli uomini non può essere frammentata senza produrle danni irreversibili.

L’uomo è un intero e l’umanità stessa non può essere concepita se non nella sua interezza. In un tempo segnato dalle grandi conquiste della tecnica, peraltro, l’uomo è ancor di più parte costitutiva ed essenziale dell’intera umanità: in un periodo storico segnato dalla globalizzazione culturale, sociale, economica, tutto ciò è del tutto (e a tutti) evidente. Ancor più evidente e decisiva, però, è l’interrelazione ambientale quando si assuma con chiarezza che viviamo in una fase temporale nella quale un qualsiasi “incidente” di tipo tecnico, qualsiasi evento che si registri in un determinato continente, prima o poi è in grado di diffondersi su larga scala, producendo danni catastrofici e spesso irreversibili. Per quanto riguarda poi il fenomeno dell’immigrazione transcontinentale, vero e proprio fenomeno esodale del contemporaneo, è sotto gli occhi di tutti che la mancanza d’una geopolitica globale e di istituzioni internazionali in grado di andare al di là di logiche spazio-temporali miopi e spesso ottuse e meschine, e dunque incapaci della sia pur minima lungimiranza, hanno prodotto e produrranno inesorabilmente fenomeni che minacciano di azzerare l’intero campionario dei diritti umani nella cui elaborazione si è affaticato l’Occidente da secoli.

Sulla base di considerazioni di questo tipo – forse troppo semplici per poter essere intese nella loro importanza epocale – occorre allora ripensare radicalmente l’essere dell’uomo, riconnettendolo strettamente con le sorti del suo mondo. Non c’è uomo senza mondo, mentre al contrario il mondo senza l’uomo è pensabile sia logicamente sia storicamente. In questa luce, dobbiamo aver chiaro che, se è senz’altro vero che è l’essere umano a produrre il mondo, è ancora più vero che il mondo possiede delle leggi che non possono essere alterate senza che l’umanità nel suo complesso ne debba risentire.

Entrando dunque in una logica di questo tipo (nulla è più necessario in sede politica di tali consapevolezze), una delle prime conclusioni a cui è necessario giungere è che le discipline settorializzate – così come gli interessi regionalistici – costituiscono un’espressione disastrosa del nichilismo imperante. Dividere le scienze e gli ambiti della produzione umana (simbolica o reale che siano), impedire la loro comunicazione essenziale, cioè, risulta del tutto irresponsabile ed è totalmente sbagliato. Così come è sbagliato e politicamente criminale costruire aree geopolitiche caratterizzate da crisi (economiche e politiche) permanenti, se non da vere e proprie guerre locali. In altri termini, tutto ciò va a costituire l’antefatto teorico di un tempo che, non occupandosi più del mondo, non è più in grado di curare neppure gli interessi fondamentali dell’uomo.

In modo particolare per le discipline filosofiche, inoltre, da sempre considerate a giusta ragione il collante di tutte le scienze, oltre che l’attività principale dell’uomo in quanto essere pensante, bisognerebbe entrare nell’ottica secondo la quale la conoscenza o è “integrale” o non è affatto. Nessuna particella dell’umano, in questo senso, può rendersi autonoma in maniera anarchica, nella convinzione che l’intero non reagisca.

L’impero della tecno-finanza estesa a livello planetario, tuttavia, va in direzione diametralmente opposta. È del tutto ovvio che rientra negli interessi precipui del capitale dividere uomini, Stati, aree geopolitiche e saperi. Assistiamo così al sempre più incalzante processo di disgregazione individualistica a cui fa seguito da presso una costruzione artatamente costruita di conflitti fittizi messi in scena ad uso e consumo del capitale e delle classi dominanti. Donne contro uomini, bianchi contro neri, guerre fra poveri, sovranità assoluta di visioni del mondo antisociali e grette come il neo-liberismo prima e l’ordo-liberismo a seguire. Evidentemente, tutto ciò nel mentre asserisce di incorporare una verità storica, alle sensibilità più acute si manifesta per quello che è, ossia un tentativo di distruggere le masse orizzontali e compatte della modernità nella direzione di un’atomizzazione sociale sempre più estesa. Nulla sembra più evidente, infatti, di quanto i processi di soggettivazione contemporanei stiano costruendo un uomo senza alcuna appartenenza: fuori da tessuti comunitari e da radici ambientali. Sta emergendo e sempre più consolidandosi un modello (post)umano passivizzato, senza passato e senza futuro, interamente appoggiato sulla tecnica e con addosso una crescente sensazione di superfluità. Inutile far notare come individui di tale sorta (atomizzati ed irrelati) non possano in alcun modo sfuggire alla presa irresistibile del potere tecno-finanziario. Inutile sottolineare, altresì, quanto un dispositivo di “verità” di questo tipo sia del tutto funzionale all’edificazione e al consolidamento progressivo di una massa di “diseguali” che ha tutti i vantaggi dalle divisioni interne che vengono operate nelle masse di “uguali”.

In questo quadro, credo che debba essere la filosofia, anzitutto, a segnalare la necessità di un cambio radicale d’orizzonte. Ovviamente, non parlo della filosofia da “torre d’avorio”. Meno ancora di quella autoreferenziale che gioca i propri narcisismi nelle conferenze per élite sempre meno significative sul piano pubblico o che imperversa all’interno delle ritualità annose ed inveterate del potere accademico. Mi riferisco, molto diversamente, alla filosofia che ha per oggetto il pensiero e l’unità dello spirito umano che al pensiero corrisponde. Credo, infatti, che, da questo punto di vista, la filosofia sia anzitutto una politica. Una politica degna di questo nome, infatti, sa bene che il suo compito è quello di guardare alla comunità (lato sensu) nel suo complesso e al rapporto originario fra gli uomini, nel quadro di un bisogno ineludibile di costruzione del “luogo” del loro stesso abitare. Non c’è politica adeguata a se stessa che non sappia coinvolgere nella sua prassi quotidiana la filosofia, ossia l’unica disciplina capace di disporre di una visione complessiva dell’uomo in quanto singolo e in quanto specie. L’uomo che deve essere preso in considerazione, inoltre, non può più essere “il soggetto razionale” della tradizione illuministica, o il “cittadino” della tradizione statualistica moderna, né tantomeno l'”agente economico” tipico delle posizioni liberali, bensì un essere peculiare che si caratterizza essenzialmente per un’esposizione radicale all’evento della sua stessa esistenza.

Per giungere ad un approdo di questo tipo è chiaro che tutte le scienze sono utili e necessarie: anche quelle che non avevano mai raggiunto la dignità di “scienza accademica”. A patto, però, che tutte loro possano essere riconnesse al senso filosofico più generale ed originario possibile. Ad esempio, costituirebbe una buona filosofia quella che ritornasse a porre domande ingenue, come quelle dei bambini o dei poeti, o comunque di coloro che sanno proporre “uno sguardo straniero” sul mondo. Una buona filosofia è tale quando si mostra capace di porre in un colpo solo davanti ai tanti paradossi e alle innumerevoli contraddizioni che caratterizzano l’esistere.

In conclusione, dunque, credo che sarebbe necessario che la filosofia diventasse una visione dell’uomo esprimibile attraverso una politica internazionalistica. Per converso, occorrerebbe una politica capace di stringere una nuova, sacra alleanza con la filosofia.

Sarebbe urgente che la filosofia mutasse il suo senso e la sua ispirazione settorializzata e divenisse “antropologia politica”.

Antonio Martone

 

 

VIDEO – I valori dell’illuminismo: colloquio tra Robert Louden e Paolo Quintili

Il presente dialogo tra Quintili e Louden, ponendosi nel solco del pensiero kantiano, tenta di offrire una risposta alla risorgenza della religione, o delle “fedi religiose” nelle sue componenti irrazionalistiche ed entusiastiche . Intorno ad esse, richiamandosi ai valori propri dell’illuminismo, si intende ricostruire le fondamenta di una “ragione illuminata” e secolarizzata ( “la ragione deve essere la nostra fede”) che possa fungere da principio guida alla comprensione dell’altro (soprattutto se appartenente a una differente cultura e tradizione linguistica). Aprire uno spazio di dialogo tra le differenti interpretazioni di fede vuol dire recuperare un messaggio universale di eguaglianza e di “fratellanza” che leghi insieme tutti gli uomini.

Politica 4.0

Salvini domina la scena mediatica; Di Maio lo insegue a qualche lunghezza di distanza; Conte, il cui titolo sarebbe anche Presidente del Consiglio, annaspa; Mattarella, saggio custode dalla Costituzione, a volte è costretto a metterci una pezza. Berlusconi torna a salire o a scendere in campo; Renzi batte le ali e fa chicchirichì, Martina “regge”, Calenda inventa il Fronte Repubblicano, per scimmiottare i Francesi, solo che noi siamo una repubblica, sì, ma senza repubblicanesimo. Questa è la politica italiana 4.0, come si usa dire oggi, in uno scenario dominato dall’abbraccio Putin – Trump fatto per disarticolare, con mezzi diversi, l’Europa e farne evaporare financo l’idea.

Quella che sto per raccontare è una storia triste, che ai più darà fastidio, perché è sempre preferibile evitare fare i conti con la realtà. Ma la racconterò ugualmente per un altro “perché”: perché, per ricominciare a fare politica, occorre sapere da dove si viene.

La politica, che la mia generazione e molte precedenti avevano conosciuto con i suoi pregi e difetti, è finita. Aveva più di tre secoli sulle spalle. Nata con lo Stato moderno, territorio, confini, popolazione di appartenenza, articolatasi in Stato “assoluto” prima e “di diritto” poi, si è sviluppata secondo categorie capaci di interpretare, e quindi dare significato, all’agire degli uomini e delle generazioni: idee, progetti, decisioni.

La “categorie” sono, infatti, costrutti mentali, formati da astrazioni intellettuali, capaci di dare un nome, una identità, all’esperienza umana, consentendone, quindi, una interpretazione ed una direzione. Anche “esperienza” è una astrazione intellettuale, con la quale si definiscono quelle azioni della vita, individuale o associata, alle quali il soggetto assegna un significato; non ogni nostra azione, infatti, per ciascuno di noi assume il significato di “esperienza”; alcune segnano la vita, altre passano nell’indifferenza.

Ho fatto questo inciso, probabilmente un po’ noioso, per arrivare a dire che la fine della politica è determinata dalla estinzione di quelle categorie (nel senso che ciò che si è estinto è il concetto stesso di “categoria”, per ragioni che dirò di qui a poco), che ne hanno costituito la vita in quell’arco di tempo chiamato “modernità”. Ne nomino alcune: “popolo”, “nazione”, “borghesia”, “proletariato”, “classe”, “democrazia”, “dittatura”, “libertà”, “uguaglianza” e, infine, il binomio “destra / sinistra”. Non so se sono tutte, ma quelle che comunque voglio mettere in gioco, dal momento che hanno fatto la storia politica, sociale e culturale che abbiamo conosciuto.

All’origine di tutte queste “categorie”, ve ne è una che è stata il tratto distintivo della “modernità”: quella di “Soggetto”, che può essere individuale, associato, organico e collettivo.

Tralascio “popolo” e “nazione”, per arrivare subito alla borghesia come soggetto (ed alla sua scomparsa, ma di questo più avanti). Come soggetto storico, la borghesia non coincideva con la semplice detenzione del capitale, ma era un modo, soprattutto etico-culturale, di intendere il rapporto imprenditorialità – profitto. Non occorre scomodare Max Weber per saperlo, basta leggersi l’affresco contenuto ne “Il Borghese” di Franco Moretti (Einaudi, Torino 2017) per rendersene conto. “Borghesia” evoca altre due categorie che hanno segnato la storia tra Otto e Novecento: “classe” e “proletariato”. È Marx ad introdurre i due termini, l’uno generale l’altro specifico, come segni di una lettura scientifica della storia. Alla base vi è la categoria generale “soggetto collettivo” che viene denominato “Classe”; ne segue che borghesia e proletariato si specificano come “classi” nelle quali si articola la società ed alle quali viene ricondotto il conflitto che ha da sempre attraversato la società. Soprattutto, l’introduzione della “classe” è servita a dare un nome unificante a quella massa di umanità prima dispersa, senza nome, perché frantumata dalla condizione umana di operaio sottomesso alla classe borghese, titolare dell’impresa industriale. Una moltitudine dispersa che, in virtù del luogo ove svolge per intero sua vita, la “fabbrica”, acquista, così, un nome: “classe operaia”. L’operaio, nel momento che prende coscienza di sé, grazie alla materialità fisica della fabbrica e del suo stare gomito a gomito vicino all’altro, identico a sé, ed alle macchine, prende coscienza della sua dipendenza, ma anche della essenzialità del suo lavoro per il profitto dell’impresa. Acquista consapevolezza di essere non un semplice individuo, ma di costituire insieme a tutti i compagni di lavoro un soggetto unico, collettivamente identificabile. Capisce che ha di fronte a sé, come altro soggetto, il padrone della fabbrica, con il suo capitale e con il relativo profitto, che si genera però solo grazie al lavoro operaio. Secondo questa interpretazione, accanto alla classe operaia, anche la borghesia viene letta come “classe”, individuata dal rapporto impresa – capitale – profitto – lavoro.

La storia viene allora intesa, interpretata e raccontata come conflitto tra due classi: quella operaia e quella borghese e su questa contrapposizione si rimodellano categorie storicamente più antiche come quella di democrazia, libertà, uguaglianza, e ne nascono interpretazioni nuove come quella di socialismo e liberalesimo, che danno vita a quella dicotomia storica, che ancora oggi viene recitata nella retorica quotidiana, destra / sinistra.

Ho fatto questa rapidissima rassegna di termini carichi di cultura, per arrivare ad una riflessione: la “categoria” politica denominata “sinistra” è strettamente legata all’esistenza storico-interpretativa di un soggetto collettivo che acquista identità e vita per mezzo della materialità del lavoro consistente nel posto fisso in un luogo determinato: la fabbrica. Anche la “destra”, quella meritevole storicamente di questo nome, è legata alla stessa materia costitutiva ed alla esistenza della borghesia. Solo che le due vicende sono divenute, nei decenni recenti, diverse. La “destra” può ancora essere evocata con qualche riferimento, più che altro retorico, per la ragione che ciò che è ancora vivo e vitale è il nesso “capitale-profitto”. Nesso che è solo il simulacro materialistico della “destra”. Infatti, i capitalisti di oggi non possono più dirsi “borghesi”, poiché l’egoismo finanziario ha preso il posto dell’investimento produttivo, per l’inversione che si è determinata tra economia materiale e finanza. Di conseguenza: il “liberalesimo” che segnava lo spirito borghese si è deformato in “liberismo” e la concorrenza del “mercato” in “mercatismo”.

Con la fine di queste due categorie sono venuti meno anche gli strumenti propri della politica in quanto “pensiero”: la riflessione ed il progetto. Dicendo questi ultimi termini, pensiero – riflessione – progetto, metto in campo quella destrutturazione temporale prodotta dalla tecnologia elettronica, che ha sostituito la temporalità diacronica (passato – presente – futuro) con la a-temporalità dell’impatto. Questa sostituzione ha spostato l’agire umano dalla riflessione alla reazione; dal progetto all’immediatezza del risultato. Quindi “pensare”, che è una attività diacronica, è divenuta una attività se non impossibile, quanto meno inutile. E con il pensare sono venute meno le sue strutture costitutive: la ri-flessione e le “categorie” interpretative della realtà. L’algoritmo, che ha sostituito il pensiero, ha deformato l’oggi ed il domani, il presente ed il futuro, nella fredda immediatezza del risultato, nel quale ogni variabile è assorbita in un mero calcolo di percentuale di rischio.

L’affermarsi della dimensione dell’immediatezza è ciò che ha prodotto il domino della economia finanziaria sull’economia reale, del profitto immediato sull’investimento nel tempo, e tutto questo ha prodotto quella globalizzazione mercatista che ha esautorato lo Stato e con questo la effettiva pregnanza di ogni categoria politica. Nel mercato globale, ciò che fa la differenza è la riduzione dei costi di produzione; la fabbrica, allora, diviene una appendice del lavoro robotizzato ed il posto di lavoro non può più essere “fisso”. Senza fabbrica e privato del posto fisso, il lavoratore diviene un mero individuo, lasciato solo, in perenne competizione con altri per guadagnarsi la giornata. Il mercato globale e la finanza hanno frantumato, perciò, la pensabilità stessa di un “soggetto collettivo”. Tant’è che oggi l’unico soggetto che ancora può essere identificato con questo aggettivo, “collettivo”, sono i pensionati, perché è l’unico soggetto che può essere pensato unitariamente, in quanto ha una sua definita identità dovuta alla sua stabilità.

In un mondo fatto così, se la “destra” può avere ancora uno spazio, certamente non più ideale, ma materialmente legato al nesso capitale – profitto, la “sinistra”, privata della fabbrica, del posto fisso, ed insieme di un “soggetto collettivo” e, con questi, privata anche dell’idea di futuro, perde la sua stessa struttura costitutiva. Attenzione: con questo, non intendo dire che l’idea di “sinistra” sia necessariamente legata alla categoria del conflitto, poiché il soggetto collettivo non è, del pari “necessariamente”, dal punto di vista storico-politico, un soggetto conflittuale. Lo era nella lettura marxiana, ma questa non è l’unica possibile.

Voglio, invece, sottolineare un altro aspetto. La “destra”, pur perdendo il suo essere “borghese”, ma conservando il profitto, può sopravvivere alleandosi con i robot; la “sinistra”, invece, non può fare a meno degli uomini. Ed è da qui che occorre ripartire, facendo a meno del soggetto collettivo, per il quale sono venute meno le categorie intellettuali che lo costituivano, per tornare a cogliere, invece, l’origine di ogni dimensione esistenziale.

Occorre, cioè, tornare alla riscoperta pratica della struttura originaria del nostro essere uomini. È più semplice di quanto si creda. Basti soffermarsi solo un attimo su di un dato evidente, ma che troppo spesso sfugge: che ciascuno di noi, essendo un ente finito, ha necessariamente un altro IO accanto al suo, non uguale, ma sicuramente pari, in quanto IO. Ne segue che ciascuno di noi oltre ad essere per se stesso un “IO” è, allo stesso tempo, anche un “ALTRO” per l’IO dell’altro. E questo è un dato strutturale della soggettività, assolutamente non modificabile, poiché non modificabile è il nostro essere enti finiti. Possiamo ignorare questa nostra condizione umana: si può essere egoisti, individualisti, cinici, senza scrupoli, crudeli e violenti, ma queste scelte della persona non modificano la struttura della relazionalità intersoggettiva, anzi, la violano. Vale a dire che, poiché ciascun IO contiene in sé l’ALTERITA’, violare l’ALTRO è come violare quella parte del se stesso che costituisce, integrandolo, il nostro stesso IO.

In questo pensiero, che è una presa d’atto, risiede il germe di quella solidarietà che dovrebbe costituire la linfa e la bussola di una nuova sinistra: non più un soggetto organico, storico-collettivo, ma una “rete” costituita dall’erigere a sistema quella relazionalità intersoggettiva che costituisce l’essenza del nostro essere uomini sulla terra.

Bruno Montanari

La lotta tra insicuri (È venuto il momento della disobbiedenza civile)

La lotta tra insicuri (premessa di Luciano Monti, docente di Politiche dell’Unione Europea LUISS)

 

In questi concitati giorni di scontri istituzionali (a livello europeo e interno al nostro paese) sulla gestione dei flussi migratori e sul soccorso in mare dei naufraghi, non è possibile ragionare solo “con la pancia” e orecchiando slogan e grida.

I cosiddetti “sovranisti” che si trovano uniti nell’affermare la priorità degli interessi nazionali perimetrati dai confini geografici, non si trovano poi d’accordo su una politica migratoria che presupponga un sia pur minimo concerto tra paesi appartenenti allo stesso continente. La verità è che emergono questioni non solo politiche, ma anche economiche, giuridiche e etiche. Non è possibile leggere il fenomeno migratorio in atto limitandosi a uno solo di questi aspetti.

Le questioni economiche mettono in rilievo due fattori entrambi sottovalutate nel contingente dibattito politico. Il primo fattore è quello demografico, che ci delinea un’Europa (e in particolare l’Italia) con una popolazione sempre più anziana a detrimento del tasso di occupazione e in ultima istanza (causa proporzionale alterazione del tasso di dipendenza) dell’equilibrio dei sistemi di Welfare. Il secondo è quello legato all’aumento dei divari tra i redditi die cittadini, che ha spinto molta della popolazione italiana, originariamente appartenente alla classe media, alla soglia di povertà. Tra questa, una fetta importante è costituita da nuclei familiari con capofamiglia under 35.

Entrambi i citati fattori economici generano tuttavia un fenomeno sociali rilevante: l’insicurezza sul proprio futuro. A sua volta l’insicurezza conduce ad atteggiamenti di arroccamento sulle proprie prerogative (per esempio la difesa a oltranza dei diritti acquisiti anche quando è palese la disparità di trattamento) e di intolleranza (la paura che “il nuovo arrivato” usurpi qualche opportunità).

Sono così convinto che la radice della soluzione al problema dei flussi migratori (da taluni economisti addirittura auspicati) non vada solo cercata nella loro regolamentazione, ma nella rapida attuazione di quel pilastro sociale europeo che i paesi membri hanno sancito l’anno scorso a Göteborg. Pilastro che ha proprio l’obiettivo di restituire quella sicurezza economica e sociale che oggi manca a molti dei cittadini europei: un pilastro che, alla stregua della politica migratoria, non può essere risolto su base nazionale, ma necessariamente su vasta scala. Politiche comuni, strumenti comuni e mutualizzazione di rischi e oneri sono alla base di queste politiche

Paradossalmente, la proposta della componente pentastellata del governo, incentrata sul reddito di cittadinanza, offrendo una soluzione strutturale al problema dell’insicurezza sociale, mina la base ideologica leghista, che su tale timore si basa.

Per affrontare gli aspetti giuridici e etici della gestione dei flussi migratori, propongo invece l’estratto del contributo dell’amico Pier Virgilio Dastoli, che prova a fare chiarezza, invitando tutti quantomeno a porsi le domande corrette e a darsi qualche risposta, non dimenticandosi che anche la citata componente economica va tenuta in debito conto.

 

È venuto il momento della disobbedienza civile (estratto) di Pier Virgilio Dastoli (Presidente Cime)

 

Le ripetute incursioni del Ministro degli Interni Matteo Salvini nella politica migratoria sollevano questioni essenziali non solo politiche e morali ma di diritto interno, europeo e internazionale. Le tre dimensioni sono strettamente collegate e non possono essere esaminate separatamente.

L’azione internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimo è regolata dalla Convenzione internazionale firmata ad Amburgo il 27 aprile 1979 ed entrata in vigore il 22 giugno 1985 sulla base di un accordo internazionale elaborato dall’Organizzazione Marittima Internazionale volto a tutelare la navigazione con esplicito riferimento al soccorso marittimo e che resta a tutt’oggi la pietra miliare dei salvataggi in mare per la Guardia Costiera che è tenuta ad osservarla e per i governi nazionali che sono tenuti a farla osservare.

L’Italia ha dato applicazione alla Convenzione, dopo averla ratificata, con il Decreto Interministeriale dell’8 giugno 1989 con un’organizzazione territoriale al cui centro agisce il Comando Generale diretto attualmente dall’Ammiraglio Pettorino con funzioni di Centro Nazionale di Soccorso in Mare (IMRCC) che opera attraverso il numero 1530.

Il suo braccio operativo è rappresentato dalla Guardia Costiera che è l’organo competente per l’esercizio delle funzioni di ricerca e salvataggio in mare con criteri conformi al diritto internazionale. L’IMRCC oltre ad intervenire in caso di soccorso di mezzi e cittadini italiani è incaricato del soccorso a mezzi e persone straniere.

Un naufrago non è, secondo il diritto internazionale, un richiedente asilo o un immigrato illegale o – come si dice con una parola che ha assunto un suono dispregiativo – “clandestino” (i“clandestini” erano coloro che durante la Resistenza svolgevano attività antifasciste) ma una persona che deve essere soccorsa, salvata da rischio di annegamento e curata.

Nel momento in cui un naufrago entra nel territorio dell’Unione gli si applicano i diritti previsti dalla Carta dei Diritti Fondamentali che proteggono tutte le persone che stanno sul territorio europeo con alcune eccezioni limitate a diritti civili e politici.

La Guardia Costiera è composta in Italia da 12.000 fra ufficiali e sottoufficiali appartenenti a un corpo autonomo che dipende in primis (formazione, addestramento, aggiornamento, avanzamento delle carriere, corresponsione economica) dal Ministro della Difesa poiché si tratta di un corpo della Marina Militare.

La Guardia Costiera dipende funzionalmente dal Ministro delle infrastrutture e dei Trasporti che si avvale delle articolazioni centrali (Comando Centrale di Roma) e periferiche (Capitanerie di Porto) per la gestione tecnica e amministrativa di tutti gli aspetti correlati al comparto marittimo sia terrestre sia tecnico-nautico.Il Corpo si interfaccia inoltre con altri ministeri come l’Ambiente, le Politiche Agricole, i Beni Culturali e con gli Interni ma solo per quanto riguarda la sicurezza degli ambiti portuali.

Il Corpo è coordinato dal Comandante Generale normalmente che può provenire dalla Marina Militare o dallo stesso Corpo delle Capitanerie di Porto come l’attuale Ammiraglio Pettorino.

Il Comandante Generale deve agire dunque nel rispetto della Convenzione di Amburgo i cui principi e le cui regole operative prevalgono sulle leggi e sulle regole operative italiane. Egli deve agisce anche nel rispetto la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea perché, se non agisse, potrebbe essere denunciato per omissione o rifiuto d’atti d’ufficio.

In tutti questi anni e agendo nel rispetto della Convenzione di Amburgo e della Carta dei Diritti dell’Uomo, la Guardia Costiera Italiana ha salvato decine di migliaia di uomini, donne e bambini.

Per questa ragione pensiamo che essa dovrebbe essere candidata al Premio Nobel della Pace.

Il Comandante Generale risponde dei suoi atti al Ministro della Difesa e al Ministro per le Infrastrutture e i trasporti (nel caso del governo italiano a Toninelli) o dal Presidente del Consiglio con il placet di questi due ministri e non è tenuto a obbedire agli ordini del Ministro degli Interni che, se rivolti alla Guardia Costiera, si configurano come una violazione dell’atto normativo con cui il Presidente del Consiglio ha attribuito le deleghe ai membri del suo governo.

La disobbedienza agli ordini del Ministro degli Interni si configura come una forma tutta speciale di Civil Disobedience perché non si tratta di ribellarsi ad una legge ingiusta ma di ignorare un ordine tre volte illegittimo: esso contravviene alla Convenzione di Amburgo, alla Carta dei Diritti Fondamentali, alle deleghe attribuite dal Presidente del Consiglio ai suoi ministri.

Vale la pena di ricordare qui il saggio di Don Milani “L’obbedienza non è più una virtù” del 1965.

Lo stesso modello di Civil Disobedience si applica a tutti coloro che agiscono in mare

con funzioni di ricerca e di salvataggio: medici e infermieri, organizzazioni non governative, navi mercantili…. che dovrebbero ispirarsi all’insegnamento del radicale americano Howard Zin nella sua raccolta di saggi Disobbedienza e Democrazia la cui teoria era “è giusto disobbedire ad atti ingiusti”.

(Pier Virgilio Dastoli, Presidente del Consiglio Italiano del Movimento Europeo-CIME)

 

                            Luciano Monti

Normazione, amministrazione, giurisdizione e governo

Riflessioni elementari su disegno ed esercizio della sovranità nell’ordine costituzionale vigente

 

Per secoli, l’Occidente (in senso geografico, dal punto di vista eurocentrico al quale si guardavano le cose) si era caratterizzato per il fatto di praticare culture politiche di “autogoverno” (erano – in ambito mediterraneo – le prevalenti: vi guardavano il mondo greco; quello italico, etrusco e romano in particolare; quello cartaginese). In tali culture l’idea generale (a prescindere dalle specifiche declinazioni che se ne facevano) era che la “sovranità” (la condizione politico-giuridica che permetteva ad una “comunità politica” di essere indipendente) fosse un attributo “della” comunità (nel suo insieme). La quale comunità gestiva dunque tale sua sovranità attraverso modalità concrete (complesse e – anche significativamente – diversificate) connotate da un elemento comune. Ciascuna (sottolineo: ciascuna) delle manifestazioni necessarie a dare forma organizzata alla propria vita collettiva ed ordinato svolgimento alle relazioni che in essa intervenivano (creazione delle “regole” di indirizzo, da un lato, ed “attuazione amministrativa e giudiziaria” di esse) prevedeva il concorso – diretto o mediato – di tutte le componenti sociali della comunità interessata.

 

  1. Non vi è dubbio che uno dei problemi più acuti venuti in evidenza negli ultimi decenni della nostra esperienza costituzionale sia il disequilibrio che è venuto nel tempo a definirsi tra i cosiddetti “poteri” (tra i quali si ripartisce il governo di una collettività politica) e, in particolare, tra quello di “indirizzo” (governativo-parlamentare), da un lato, e quello “amministrativo” e “giurisdizionale”, dall’altro, entrambi (più visibilmente il secondo), tendenzialmente sempre meno percepiti come disponibili ad operare in sintonia con le indicazioni del primo e perciò sempre più come autoreferenziali.

Non credo di tradire la realtà se osservo che la esistenza della questione sia un fatto oggi generalmente riconosciuto.

Ma credo anche che se non si guarda alle cose con la radicalità elementare che – sola – ne può lasciare comprendere le cause, non se ne comincerà mai a venir fuori. Altra cosa – molto più difficile – sarebbe immaginare anche linee di concreta soluzione. Ma ognuno comprende come ciò non solo aprirebbe immediatamente (non potrebbe non essere) un dibattito divisivo importante su obbiettivi, priorità e tempistiche, ma distoglierebbe l’attenzione dalle cause “prime” del fenomeno. Quelle la cui mancata individuazione ha reso – negli ultimi decenni (almeno due) – quel dibattito (tutt’altro che mancato) privo del suo presupposto primo: le ragioni “strutturali” che lo giustificano. Le quali vengono ben prima delle ovvie (e naturali) concrete divisioni sulle soluzioni. Sono la sola premessa possibile (di metodo insomma) verso una eventuale “condivisa” (nella necessità e non nella convenienza di parte) riconsiderazione della questione.

 

  1. Parlerò con la elementare sommarietà indispensabile.

Ogni sistema politico non può non darsi una struttura di decisione e di gestione organizzata. Il che esso fa in coerenza, ovviamente, con la propria visione di governo. Seguendo dunque una logica di coinvolgimento collettivo (visione “partecipata”) o una invece di “concentrazione” (più o meno intensa). In altre parole, secondo l’idea di sovranità da esso adottata.

I sistemi politici occidentali (tra i quali anche il nostro si situa) sono eredi, da questo punto di vista, di una duplice tradizione storica, che ne ha segnato variamente le vicende (e che li ha anche resi profondamente diversi nei loro concreti assetti).

Per secoli, l’Occidente (in senso geografico, dal punto di vista eurocentrico al quale si guardavano le cose) si era caratterizzato per il fatto di praticare culture politiche di “autogoverno” (erano – in ambito mediterraneo – le prevalenti: vi guardavano il mondo greco; quello italico, etrusco e romano in particolare; quello cartaginese). In tali culture l’idea generale (a prescindere dalle specifiche declinazioni che se ne facevano) era che la “sovranità” (la condizione politico-giuridica che permetteva ad una “comunità politica” di essere indipendente) fosse un attributo “della” comunità (nel suo insieme). La quale comunità gestiva dunque tale sua sovranità attraverso modalità concrete (complesse e – anche significativamente – diversificate) connotate da un elemento comune. Ciascuna (sottolineo: ciascuna) delle manifestazioni necessarie a dare forma organizzata alla propria vita collettiva ed ordinato svolgimento alle relazioni che in essa intervenivano (creazione delle “regole” di indirizzo, da un lato, ed “attuazione amministrativa e giudiziaria” di esse) prevedeva il concorso – diretto o mediato – di tutte le componenti sociali della comunità interessata (quasi mai ordinate secondo logiche di uguaglianza: nemmeno dove prevalevano, come ad Atene, forme di governo “democratico”). La maiestas era insomma, in quella visione, della “civitas” e non di un qualunque organo di essa. E il correlato esercizio dell’imperium che tale maiestas giustificava avveniva sempre perciò attraverso soggetti (magistrati) individuati mediante procedure (di investimento nelle funzioni) collettivamente controllate e la cui concreta attività era disciplinata da un “accompagnamento” in itinere (“pareri” necessari, collegialità/concerto dell’atto, possibilità di interventi inibitori) e da un controllo successivo (valutazione dell’operato) ispirati dalla stessa preoccupazione.

Questa visione della sovranità cedette il passo – da Augusto in avanti (in un tempo nel quale dunque l’intero Occidente era stato ormai, da circa due secoli, ricondotto di fatto ad un unico “governo”: quello di Roma) – ad una nuova visione (che si sarebbe a lungo proiettata nel tempo).

Le difficoltà (drammaticamente emerse in un secolo e mezzo di profondo travaglio, sfociato alla fine anche in una lunga stagione di guerre civili) di mantenere costante l’equilibrio conseguito nella distribuzione di funzioni e competenze, quale disegnatosi nei secoli (ed orientato a rendere possibile un ordinato concorso collettivo alla gestione politica della comunità: autogoverno) portarono ad una novità radicale. Al posto di una visione che vedeva nella sovranità un’attribuzione “della” civitas ne subentrò una che la concepiva ora come attribuzione di un organo di questa (in pratica: il princeps).

Si trattò di un cambiamento di cose che avrebbe segnato la storia occidentale per quasi due millenni. Con enormi conseguenze sulle “culture” sociali e politiche che si sarebbero nel tempo succedute (molteplici e varie sotto i più diversi aspetti, ma costanti nel vedere la sovranità come attribuzione di un organo della collettività).

 

  1. Quando alla fine del Settecento – per effetto finale delle rivoluzioni francese e americana – l’Occidente (che ormai non era più un luogo “geografico”, ma un’“area culturale”: quella legata, per i vari tramiti, all’antico luogo geografico) – tornò all’idea dell’autogoverno (come rimedio ai guasti della concentrazione della sovranità che la storia metteva sotto gli occhi di tutti), immaginò di doverne anche fissare i cardini che avrebbero reso la pratica non degenerabile in “concentrazioni fattuali” del potere, che ne determinassero una sostanziale identificazione con una parte soltanto della collettività (quella materialmente in grado di occuparne gli spazi più ampi).

Tali cardini (continuo a semplificare radicalmente) furono visti in alcuni strumenti organizzativi (variamente declinati in concreto, con conseguenti rilevanti differenze di efficienza/efficacia pratica dei vari sistemi che ne sarebbero nel tempo venuti), ma tutti ispirati ad alcune comuni idee di base.

Constatata la impossibilità – per le incommensurabili dimensioni, sia fisiche (i nuovi “stati”) che “giuridiche” (i soggetti “cittadini”) delle nuove collettività rispetto alle antiche civitates – di replicare modelli di partecipazione “diretta” all’autogoverno, si ricorse all’idea di una partecipazione attuata in forme “rappresentative”.

Per prevenire il rischio di vanificazioni fattuali (legate alle dinamiche di riposizionamento delle forze sociali) dell’ordine di governo concordato con il “patto fondativo” che dava vita alle nuove collettività (che prendevano il posto dei regimi cancellati con le rivoluzioni avviate), si ricorse all’idea di una architettura scritta (costituzione) delle strutture di governo. In essa la distribuzione delle funzioni e delle competenze doveva essere improntata all’idea di una “divisione” dei poteri/funzioni (realizzata attraverso l’attribuzione di tali poteri/funzioni a “istituzioni” (legislative, amministrative, giudiziarie) non comunicanti e il più possibile “indipendenti” ciascuna da ogni altra. Nella convinzione che gli eventuali “eccessi” (rispetto all’intervenuta ripartizione) sarebbero stati reciprocamente prevenuti/corretti dall’esercizio indipendente della funzione attribuita.

Per impedire che i fattuali conflitti (e le connesse dinamiche di potere delle forze sociali) perpetuassero il rischio di un “diritto” privo di generale controllo collettivo, si immaginò di scongiurarlo attraverso l’adozione della “legge” quale unica espressione possibile della normazione.

 

  1. Si è trattato di errori. Determinati da una visione tutta “ideologica” delle cose (della quale l’illuminismo era stato la culla finale), che ha preteso di cancellare la storia dalla realtà.

Nessuno dei tre “pilastri” ha retto all’impatto con la storia.

Nessuno degli ordinamenti ispirati a quei principi è sfuggito al disastro di inefficienza che (in misura ovviamente diversa, in ragione della varietà delle declinazioni) è sotto gli occhi di tutti. E che alimenta un vento di reazione spesso reso cieco dalla rabbia e dunque non meno pericoloso del perseverare ostinato nella conservazione dell’inconservabile.

L’ Occidente deve reagire. E il solo modo per farlo è il cominciare con il prendere coscienza di errori ed imprevidenze.

 

  1. La realtà “sociale” (come “definita” nelle articolazioni dagli interessi tendenzialmente omogenei ed aggregabili che le guidano) poteva probabilmente essere immaginata come “rappresentabile” alla fine del Settecento. E lo era anche forse ancora alla metà del secolo scorso. Di sicuro non lo è più oggi. Ed appare dunque indispensabile convincersi della necessità di rivedere (il quomodo è altra cosa) i meccanismi pubblici di “delega”/“investitura”/“controllo” dell’esercizio delle funzioni politiche (legislative e amministrative).

La società contemporanea è divenuta una società – come ama dirsi – “liquida”, nella quale gli interessi si compongono/scompongono con una grandissima rapidità e, soprattutto, si esprimono in direzioni molto difficilmente aggregabili. Il che spiega per altro perché i “movimenti” abbiano preso il posto dei “partiti” e perché gli orientamenti si formano sempre più a partire dalle “soluzioni” proposte (e sempre meno dalla più o meno presunta coincidenza di interessi di “classi”: quali oltretutto?).

Nessuno immagina, naturalmente, che nuove soluzioni “formali” (l’adozione insomma di assetti normativi più aderenti alla realtà delle cose) possano, da sole, rimettere in funzione i meccanismi inceppati. È sempre l’uomo l’insuperabile attore. Le dinamiche di potere hanno una “fattualità” non facilmente imbrigliabile. Dipendono molto dalla “cultura” dei protagonisti. Ma è certo che esse abbiano tuttavia necessità di “forme”. Ne sono condizionate. Ed è certo perciò che se quelle adottate sono inappropriate, non vi potrà essere adeguata efficienza.

Non si può più rinviare l’apertura insomma di una seria discussione.

 

  1. Ma parimenti indispensabile appare una riflessione sulla “legge”.

Non perché sia in sé erroneo pensare ad essa come strumento “moderno” di regolazione collettiva. Non ne sono negabili né la tempestività con la quale permette di provvedere, né la più elevata certezza (del diritto) che essa consente di conseguire.

Ma perché non possono trascurarsi le conseguenze (sotto gli occhi di tutti) del punto di vista adottato. Che ha fatto ritenere sufficiente preoccuparsi di assicurare procedure collettivamente (politicamente) “controllate” di creazione della legge e non parimenti importante preoccuparsi anche di individuare strumenti per mantenerne collettivamente “controllata” anche l’applicazione.

La “legge” non può essere lo strumento diretto di disciplina della organizzazione e gestione delle relazioni sociali. Ne può dare solo (ed è anche opportuno che accada) l’indirizzo. Non ne può dettare (almeno sempre) la concreta disciplina. Lo impedisce la inesorabilità delle trasformazioni (e ora anche la rapidità con la quale esse maturano).

La distanza tra “creazione formale” della “regola” e tempo di applicazione della stessa ne impone un’applicazione realizzata attraverso gli “occhiali” di coloro che leggono la realtà da disciplinare. Il significato “attuale” della regola è quello che vi vede chi la applica (non chi la crea). E gli stessi fatti che lo inducono a stabilirlo (la realtà materiale alla quale egli è chiamato a dare disciplina) sono, a loro volta, espressione di “comportamenti” (dunque di costumi operativi) che raramente corrispondono a quelli tenuti in considerazione da chi ha costruito l’enunciato formale (la legge).

Non basta l’adozione di una “legge” perché si possa dire che si sia fissato il “diritto” che ne discende. La “normazione” vivente non è quella voluta da chi vi ha dato “indirizzo” (legislatore), ma è quella di chi (amministratore) dà ad essa “attuazione”. E non possiamo perciò continuare a trascurare le conseguenze concrete di un sistema costruito senza alcuna considerazione di tale elementare verità.

Autogoverno non può che voler dire possibilità di “controllo” costante, da parte della collettività (con modalità almeno mediate), dei processi politici che la fanno vivere: adozione delle regole di riferimento e amministrazione della realtà in coerenza con esse. Una civitas (grande o piccola che si voglia) è sovrana se le decisioni che la riguardano (di indirizzo e di gestione) sono di coloro che ne sono i cives (come soggetti politico-costituzionali). Sia che le adottino direttamente, sia che lo facciano investendone organismi concordati (e da essi controllati).

 

  1. Non la faccio lunga. Mi limito ad una sola, ma spero sufficiente considerazione.

La possibilità di una “normazione” coincidente con la “legge” è impraticabile. La legge non può essere sufficiente. Necessaria (per l’indirizzo delle cose), si tradurrà in strumento di concreta valutazione normativa (permetterà insomma la disciplina di una concreta vicenda) attraverso la insuperabile mediazione di chi è chiamato ad attuarla. Riceverà “significato” da costui (dall’interpretazione che egli ne darà). La legge non “vive” insomma (non può vivere) se non attraverso la intelligenza, la sensibilità, l’attenzione, il pensiero di chi ne gestisce la sua “attuazione”. La quale dunque ha un ruolo “politico” (generale) non diverso da quello di colui che crea la legge.

Le due “funzioni” si integrano insuperabilmente.

Esse possono certo (ed è ben pensabile che sia opportuno che accada) essere affidate a “soggetti istituzionali” distinti. Ma entrambi i soggetti (istituzionali) in questione devono – all’interno almeno di un sistema che attribuisca la “sovranità” alla volontà collettiva (art. 1 della costituzione del 1947) e ne consideri possibile solo una delega di esercizio (artt. 1.2 e 101.1) – ricevere un trattamento omologo.

Non è possibile che uno dei due (nel nostro caso: il parlamento) dipenda (per l’investitura nella funzione e per il controllo di esercizio che subisce) dal “sovrano” (la collettività dei cives, che appunto lo “elegge” e ne giudica politicamente l’operato alla successiva scadenza elettorale) e l’altro (il corpo giudiziario) ne sia invece sottratto.

Se questo accade (come nel sistema adottato dal nostro costituente), il secondo non solo inevitabilmente prevale sul primo, ma (se gode anche di assoluta indipendenza nell’esercizio della funzione: artt. 104 ss.) può sovrapporsi (nei fatti) allo stesso titolare della “sovranità”. Amministrerà infatti le regole secondo il proprio insindacabile giudizio. E poiché – nell’eventuale contrasto tra “significato” della legge (quale inteso dal “legislatore”) e significato di essa (quale inteso dal “giudice”) non potrà che prevalere (nel concreto esercizio della funzione) che il secondo (è del giudice la “decisione” del caso), la “normazione” (la concreta disciplina che i fatti riceveranno) non sarà più quella immaginata dal legislatore, ma quella voluta dal giudice. E tutto questo (ragione non secondaria delle tensioni maturate) nonostante l’architettura (costituzionale) disegnata abbia proclamato di volere piuttosto, semmai, il contrario (“soggezione” del giudice alla legge: art. 101).

Nell’immaginare possibile una “normazione” affidata unicamente alla “legge” si è solo dato espressione ad un impulso emotivo.

Si è inteso cancellare dall’ordine giuridico ciò che la storia dimostra essere invece il solo contenuto compatibile con la possibilità di mantenere elevato il tasso generale di consenso nei confronti dei suoi assetti: un contenuto fattuale delle “regole” (il “dettato applicato” di esse) il più possibile prossimo ai “costumi” collettivi praticati (con generale approvazione). Quelli che orientano insomma gli indirizzi della normazione (li rendono quelli “attesi”: leggi) e quelli che ne permettono poi un’attuazione giudiziaria percepita come la “dovuta”.

In nome di un “ideologico” astratto (e immobile) “dover essere”, si è trascurata l’insuperabile (dinamica) “storicità” dell’essere.

Si sono dimenticate due cose.

Da un lato, che le scelte “normative” sono frutto (ordinariamente) di esperienza: vengono dall’osservazione, in sede “amministrativa”, dei “problemi” che hanno necessità di regolazione e dalla opportunità di introdurre regole mancanti/nuove/diverse rispetto alle esistenti.

Dall’altro, che la “regola” (massimamente se “chiusa” in un “enunciato formale”) è costruita sull’osservazione di una realtà che sarà altra (non potrà che essere altra, tanto più in tempi di rapide trasformazioni della realtà materiale) nel momento nel quale diverrà necessario “amministrarla” (adottare la decisione pratica o giudiziaria richiesta dalle circostanze). Insomma: per essere “amministrata” (applicata) una “regola” deve essere “letta” (interpretata nel suo significato normativo) e “adattata” alla realtà che ne reclama applicazione (anche qui in forza di una “lettura”). Due operazioni (interpretazione della “regola” e del “fatto”) che non possono che essere dell’interprete. Dunque di chi applica. La legge non vive del suo “dettato”, ma dell’ “interpretazione” che ne viene data. Il diritto (la normazione/disciplina che dalla legge si ricava) non è dunque ciò che ha voluto il “legislatore”, ma è ciò che (nei fatti) ne ritiene il suo “amministratore”: funzionario/giudice.

Averlo dimenticato ha dato occasione ad una gravissima incoerenza di sistema. Che ha determinato, alla lunga, le tensioni che viviamo.

Il potere “politico” (governativo-parlamentare) esaspera le sue “grida” (ne moltiplica il numero, ne estende nel massimo il dettato), nella speranza di stringere l’amministratore in binari rigorosi. L’amministratore (il giudice in particolare: aspetto di macro-evidenza della questione) guarda con i suoi occhiali alla realtà ed attribuisce alla “regola” (ormai persino quanto alla sua “esistenza” in ambiti un tempo ritenuti assolutamente e intransigentemente sottratti alla “interpretazione”: vedi il cd. “concorso esterno”) un significato che non ha altro riferimento che se stesso (ovviamente come “corpus”, non a caso “gerarchizzato”, e poi anche “organizzato” per indirizzi ideologici: vedi gestione delle carriere ad opera del consiglio superiore della magistratura).

Nella costruzione “rivoluzionario/illuministica” della “legge/veicolo unico della normazione” (illusoriamente adottata per contrastare – non va certo disconosciuto – secoli di pratiche illiberali e partigiane di interpretazione) si è consumato l’abbaglio di fondo. Che ha assunto come possibile una “vigenza” della legge in sé, indipendente dalla sua “attuazione” (amministrativa/giudiziaria). E dunque come sufficiente un’esposizione a controllo “politico” della sola funzione legislativa.

Senza dire della illusione (“complementare”) che vi potesse essere un “bilanciamento” (tra le due funzioni) determinato da spinte e controspinte (check and balance). La spinta che determina reazione è quella macroscopica (le leggi ad personam, il predicato uso alternativo del diritto di una certa stagione). Non anche quella quotidiana e strisciante, ben più stravolgente ed incisiva (come l’azione giurisdizionale che si traduce in normazione “sostitutiva”/”integrativa” di quella “legislativa”). Qualcuno ritiene reversibile a quella voluta dalle “forme” la costituzione “materiale” invalsa o cancellabile dall’ordine giuridico vigente un qualunque orientamento “suppletivo/correttivo” della legislazione adottato in sede giurisdizionale?

 

  1. Il problema non riguarda solo la relazione tra “legislazione” (attribuzione del parlamento) e “amministrazione giudiziaria” di essa (attribuzione del corpo giudiziario). Riguarda anche (e prima ancora) la libertà stessa di esercizio parlamentare della funzione legislativa.

Per effetto dei meccanismi adottati (controllo di costituzionalità delle leggi ad opera di una apposita “corte”), l’esercizio della sovranità disegnato – in materia di legislazione – ha dovuto scontare non solo la “correzione strisciante” (in sede di attuazione giudiziaria delle leggi) ad opera di un corpo giudiziario (che avrebbe dovuto esservi solo “soggetto”), ma anche i limiti (ai quali si sono sommati nel tempo quelli derivanti da vincoli internazionali di ancora più complessa decifrazione di compatibilità con la “sovranità” collettiva come affermata nella carta) derivanti da giurisdizioni sovranazionali.

Le tensioni esplose sono sotto gli occhi di tutti.

Non affronto il problema delle giurisdizioni esterne e mi limito al problema del giudizio di costituzionalità.

Ognuno comprende bene come già l’adozione stessa di una costituzione scritta “rigida” sia causa di ovvie questioni da fronteggiare. Essa non può reggere all’impatto con le trasformazioni della realtà. Lo dimostra all’evidenza, d’altra parte, il prevalere nei fatti su di essa (ormai da tutti accettato) della cd. costituzione “materiale”. Dunque della insuperabile esposizione di quella scritta ad una rivisitazione continua del significato dei suoi enunciati.

Se a ciò aggiungiamo il combinarsi di una tale visione di cose (costituzione scritta) con la esposizione della legislazione ordinaria ad un giudizio di conformità ai principi e ai valori della costituzione non possiamo sorprenderci dell’apertura di un problema ancora più grave.

Rimettere la “interpretazione” di “costituzionalità” di una “legge” ad una “corte” priva di un forte raccordo politico con la “sovranità collettiva” rischia di trasformare in legislatore “di fatto” un soggetto (la corte) che “di principio” non si vorrebbe lo fosse (essendosi appunto la legislazione immaginata piuttosto, nel disegno di “esercizio” della sovranità adottato, come prerogativa esclusiva di organismi elettivi a ciò esplicitamente delegati). Nel legiferare il parlamento ha di certo “interpretato” esso stesso la costituzione. Ma la “lettura” che ne ha fatto non è quella che – secondo un diverso, altrettanto soggettivo, punto di vista – ne doveva fare. Con una differenza: che il parlamento è la sede delegata dichiarata (art. 1.2) di esercizio della “sovranità” legislativa e la corte è un organo che, almeno dichiaratamente, non ne ha avuto alcuna (e tantomeno prevalente).

Nessuno nega che senza un qualche meccanismo di controllo del suo permanente rispetto (da parte del soggetto legiferante) sarebbe privo di senso darsi una “costituzione”.

Ma non può non osservarsi come il meccanismo di controllo adottato (avendo manifesto contenuto “politico”) avrebbe dovuto preservare almeno la possibilità che l’esercizio di tale controllo avvenisse attraverso modalità che non spostassero (senza dichiararlo e senza preoccuparsi comunque di un qualche coordinamento) la titolarità della funzione. Non si può, da un lato, dichiarare – ed enfatizzare (coro unanime della classe politica di ogni tempo e colore) – che titolarità ed esercizio della sovranità sono del popolo (come rappresentato) e, nello stesso tempo, porre le premesse perché nei fatti l’elemento fondante dell’ordine sociale (la normazione concretamente vivente) sfuggisse ad ogni controllo sociale.

La incoerenza del sistema adottato è assolutamente palese.

Da un lato, si è affidata la normazione (ritenuta coincidente con la legislazione astratta) ad un organo (il parlamento), al quale è espressamente (ed esclusivamente) delegato (attraverso procedure collettive controllate di formazione dello stesso) l’esercizio della sovranità. E del quale, inoltre, si è, altrettanto espressamente, prevista la periodica verifica collettiva della corrispondenza del suo operato alla volontà popolare. Dall’altro, si è voluto però, nello stesso tempo (nell’ambito cioè dell’architettura costituzionale adottata), prevedere che la “effettività” (la concreta “vigenza”) della legislazione votata dipendesse dal giudizio di un organo (la corte costituzionale), privo di un (almeno paritario) fattuale raccordo con la sovranità popolare.

È veramente difficile contestare l’impressione che – quanto alla funzione legislativa – l’esercizio di questa sia passato nei fatti (per la pervasiva influenza dell’orientamento della corte in ordine al “significato costituzionale” delle leggi) in capo ad un organo al quale invece – esplicitamente – esso si nega (e del quale, in coerenza con tale astratta negazione, sono state regolate perciò composizione e legittimazione). E non può perciò meravigliare se – nella considerazione comune – il “giudizio di costituzionalità” (a misura in cui si è diffuso ed intensificato nei contenuti) abbia finito (come da qualche decennio ormai si constata) con l’essere percepito come l’espressione non solo fattuale, ma anche usurpata, della sovranità politica.

Che il problema abbia assunto in Italia proporzioni più gravi che altrove è, d’altronde, sicuro.

Negli altri paesi a costituzione scritta, la situazione (anche limitando lo sguardo solo a quelli di maggiore rilievo politico) è non solo molto varia, ma sempre anche molto diversa dalla nostra.

Negli USA è vigente un giudizio “diffuso” di costituzionalità (contenuto, ai fini della uniformità delle valutazioni, dal ruolo che – in un sistema di vincolo giurisdizionale al “precedente”, secondo la gerarchia fissatane – assume il giudizio della Corte Suprema). In Francia ne vige uno invece “preventivo”. In molti se ne adotta uno “accentrato” e “successivo” come (in via quasi esclusiva) accade in Italia. Ma dove questo accade (Austria, Germania, Spagna ad esempio) la relativa disciplina non coincide con quella italiana. A parte il problema delle modalità introduttive (da noi incidentali: subordinate dunque ad un giudizio sommario di ammissibilità da parte del giudice ordinario), vi è comunque, dal punto di vista che stiamo considerando, una differenza molto significativa quanto alla ben più accentuata legittimazione “politica” dei giudici costituzionali che in tali diversi ordinamenti si osserva. Per restare ai casi evocati: in Austria – la patria del modello – i giudici sono solo di indicazione governativa e parlamentare; in Germania, è lo stesso (sono tutti di indicazione parlamentare, secondo un bilanciamento che tiene conto anche della struttura federale dell’ordinamento). Nella stessa Spagna – nella quale il modello è più vicino al nostro – i   giudici sottratti alla indicazione “politica” (parlamentare/governativa) lo sono nella misura di un sesto (i 2 indicati dalla magistratura, sui 12 totali), in Italia in quella di un terzo (5 su 15), che diviene addirittura dei due terzi (se si tiene conto che anche quelli di nomina presidenziale non possono ritenersi di espressione governativo/parlamentare).

Ognuno comprende bene le profonde differenze concrete che ne conseguono.

Nei sistemi di controllo “diffuso” – si induce un percorso di mediazione continua e si attenua perciò il rischio di un’eccessiva unilateralità di orientamenti.

In quelli di controllo “concentrato” (preventivo o successivo) tutto si lega alla composizione delle corti. Se interamente “governativo/parlamentare”, si favorisce ovviamente una più immediata possibile identificazione della responsabilità “politica” degli indirizzi adottati di quella che può farsene invece quando le corti siano costituite (come in Italia) secondo logiche che ne accentuano invece l’indipendenza (e quindi una più facile sottrazione agli indirizzi assunti dagli organi ai quali spetta l’esercizio della sovranità politica).

 

  1. Una sola semplice conclusione: l’ordine politico contemporaneo non recupererà certo efficienza solo perché avrà risolto uno (per quanto centrale) dei suoi problemi. Ma di quelli le cui ragioni sono chiare esso deve cominciare con urgenza ad occuparsi. Ignorare le evidenze non aiuta, come non aiuta di certo non vedere le debolezze del sistema adottato e l’urgenza di aprire una seria approfondita riflessione sulle possibili vie di uscita. Né facili. Né prossime. Ma indispensabili.

 

M. Barcellona, Dove va la democrazia, Castelvecchi 2018

Mario Barcellona

Dove va la democrazia?

Castelvecchi, Roma 2018, pp. 87, € 15,00.

 

 

 

 

Il breve saggio, che con questo titolo, sarà a breve pubblicato da Castelvecchi, tratta della crisi della democrazia.

L’idea da cui muove è che all’origine di questa crisi stia uno scontro, che è insorto circa cinquant’anni fa soprattutto sul terreno del rapporto tra politica ed economia e che ha radicalmente ridisegnato la stratificazione sociale e gli immaginari individuali e collettivi. Per questo ne tratta a partire dal celebre Report su “La crisi della democrazia”, redatto a metà degli anni ’70 del secolo scorso da M.J. Crozier, S. Huntington e J. Watanuki: la crisi in esso diagnosticata suggeriva la destrutturazione delle società del Welfare ed è da questa destrutturazione che nasce, appunto, la crisi di oggi.

La Postdemocrazia di C. Crouch, la Controdemocrazia di P. Rosanvallon e la Democrazia deliberativa degli allievi di J. Habermas suggeriscono che la democrazia possa essere salvata dall’esterno delle istituzioni rappresentative, attraverso un demos che si organizzi fuori da quelle forme e da quei partiti che fino a qualche tempo fa le avevano vivificate.

La tesi di questo saggio è che, invece, non ci sia un “esterno”, un “fuori” intrinsecamente diverso dalle istituzioni della democrazia che, di per sé, sia in grado di salvarla. Perché la sua crisi comincia proprio da questo “esterno”: essa viene da una mutazione antropologica, che investe i pensieri e le prassi, che ridetermina la cifra quasi prepolitica delle relazioni sociali, che alle molteplici solidarietà della società di un tempo sostituisce una universale singolarizzazione, una individualizzazione di massa, che produce in ciascuno una percezione di sé astratta dalle proprie condizioni, materiali e spirituali, di esistenza e lo rende “impolitico” e, perciò, “irrappresentabile”.

Come si è osservato in una precedente riflessione (Tra Impero e Popolo. Lo Stato morente e la sinistra perduta, Castelvecchi, 2017) di cui qui è sembrato giovasse ricordare alcuni passaggi, la progressiva estinzione delle sovranità nazionali e la robottizzazione e informatizzazione dell’economia hanno stravolto i rapporti di lavoro e con essi gli assetti generali delle società: la stratificazione sociale ha preso la forma di una clessidra, ove la parte superiore è occupata dalle élite, dalle loro corti e dai minores che esse garantiscono ed in quella inferiore trova posto tutto il resto, l’insieme molteplice dei non protetti.

A questa modificazione dei rapporti sociali e politici si è, però, accompagnata una ancor più radicale modificazione del modo in cui gli uomini intendono sé stessi ed i rapporti tra loro: un orizzonte, ove a ognuno è dato di salvarsi da solo. Di questa modificazione, che prende forma nell’ascensa dell’ordo˗liberalismo a “pensiero unico” e che consiste in una universale singolarizzazione delle società, è figlia la “morte della politica” e sono nipoti i populismi di oggi. Essa consiste in una universale astrazione dalle condizioni di esistenza di ogni individuo e procura che il disagio di una tal “società liquida” sia esternalizzato: la singolarizzazione rende latente il conflitto e, senza conflitto, c’è solo l’indistinto del popolo, che cerca le ragioni del suo malessere in un altro da sé e riesce a vederlo solo nell’indistinto di una superfetazione parassitaria del potere o del diverso che viene da fuori. Ma le è anche parente quel che ai populismi si contrappone e che però, seppur con ben altri fini, ne ripete il paradigma, solo svestendolo dal disagio e dal risentimento: la predicazione che la distinzione tra destra e sinistra, ossia la disputa sull’ordine ed il governo sociale, è del tempo che fu.

È, per l’appunto, questa modificazione dell’immaginario che fa di questa società una società impolitica e irrappresentabile.

Le origini della politica moderna e i mutamenti cui la rappresentanza è andata incontro dal tempo dell’ideazione dello Stato moderno giovano a comprendere meglio questo passaggio cruciale.Nel grande artificio secondo il quale è stata pensata l’origine dello Stato moderno, il patto sociale esibiva una fondazione politica, che, però, dava vita ad un ordine al cui funzionamento la politica rimaneva del tutto estranea. E postulava un popolo concepito come dispera multitudo, che ha voce solo una volta e solo nella finzione della sua stipula. L’ordine, perciò, stava fuori dallo Stato, nel particolare delle relazioni private, e lo Stato metteva in scena solo l’interesse suo proprio, l’interesse generale. Questo Stato, dunque, non conosceva la politica come disputa sull’ordine e non conosceva la rappresentanza se non come rappresentazione dell’artificiale unità della moltitudine.

Politica e rappresentanza entrano nel mondo solo quando la liquidità della dispersa moltitudine hobbesiana prende a solidificarsi e quando la società dei liberi e uguali proprietari di J. Locke prende a divedersi tra proprietari e non proprietari.       Il loro presupposto è, dunque, la distinzione, ossia l’oltrepassamento della doppia astrazione su cui si è inaugurata la modernità, quella del popolo (che metteva in scena l’unità artificiale di un’indistinta moltitudine) e quella dell’eguale soggetto proprietario (che consegnava il retro-scena della ribalta pubblica all’incommensurabile singolarità dei portatori di diritti e dei loro interessi particolari).

Politica e rappresentanza, dunque, prendono la scena della Modernità solo quando il suo immaginario originario viene rimosso, solo quando il posto della dispersa moltitudine di un tempo è preso da solidificazioni, appartenenze organizzate, che pongono le condizioni imprescindibili della politica e della democrazia rappresentativa. La crisi di oggi nasce, così, da una sorta di ritorno di quell’immaginario originario: il popolo si ripresenta di nuovo come moltitudine degli individui irrelati e le solidificazioni della politica si dissolvono nella società liquida della universale singolarizzazione.

Nel domani di una tale società singolarizzata non ci può essere, allora, che una democrazia singolare. Una democrazia che, sul versante della politica, produce disincanto e rancore per fronteggiare i quali può solo consegnarsi a crescenti divaricazioni tra governo e società. E che, coniugandosi con la rivoluzione economica della tecno˗scienza, produce già, e sempre più produrrà, una società divisa, dove la nuova moltitudine degli esclusi rischia di essere confinata in una nuova riserva sussidiata proprio perché non aspiri più a lavorare.

Robot e intelligenza artificiale – si osservava nel saggio che si è prima ricordato – sembra promettano di distruggere più lavoro di quello che la crescita da essi promossa produce. Si riprospetta così, in una forma inedita, un’antica contraddizione: l’iperbolica crescita della produttività espande incessantemente le capacità di produrre merci, ma riduce incessantemente le basi salariali del loro consumo.

Probabilmente il capitalismo troverà il modo di sottrarsi ad un esito infausto del suo rinnovato matrimonio con la tecno˗scienza. Ma le conseguenze per la società si intravedono già: precarizzazione e, poi, inoccupazione, insicurezza e solitudine, e una democrazia singolare che conta sempre più sull’indifferenza e l’astensione. Lo scenario che preannunciano è quello di una società spaccata in un nucleo operoso, in grado di accedere ai consumi della produzione tecnologica, ed una grande riserva, ove il “resto” è confinato proprio per non lavorare e sono somministrate assistenza e rassegnazione.

Solo un nuovo immaginario, che riprenda a distinguere e ad aggregare, seppur nel modo necessariamente diverso che a questo tempo è proprio, potrebbe, dunque, inaugurare un ritorno della politica e il ridispiegamento di una democrazia che ridia corpo alla rappresentanza.

Se si vuole sottrarre la democrazia al destino singolare che l’oggi promette, occorre, perciò, chiedersi se e immaginare come la società possa tornare a pensarsi politicamente e ad organizzare in conseguenza la propria rappresentanza, e dunque come si retrocede o si oltrepassa l’universale singolarizzazione, dalla quale dipende, e nella quale propriamente consiste, la sua crisi.

Concepire un altro immaginario e un’altra democrazia, restituita alla politica ed alla rappresentanza, potrebbe sembrare utopico: non c’è più lo Stato su cui politica e rappresentanza erano cresciute, non ci sono più i confini a riparo dei quali esso aveva preso forma e si erano resi pensabili progetti di società, un’universale contingenza sembra la sola cifra secondo la quale il mondo di oggi si lascia trattare. Ma pensare che non si possa ormai che registrare tutto questo vorrebbe dire che le società hanno cessato di auto-istituirsi, che l’immaginazione che ne ha segnato i tempi si è ormai spenta, che la fonte delle sue significazioni si è definitivamente inaridita, che il logos della tecno-scienza sposata col mercato e la sua economia l’abbia irrevocabilmente prosciugata. E questo, forse, non è ancora detto.

Su questo, che è il vero spazio della politica e della democrazia, l’unico, occorrerebbe, allora, iniziare a riflettere.

 

La politica fuori dal corpo del sovrano

Nell’intervento “La politica al tempo dei robot. Ovvero si dà ancora un principio speranza?”, Bruno Montanari traccia un quadro impietoso delle trasformazioni intervenute nella postmodernità, con l’esplosione della comunicazione digitale, che oggi si traduce anche in una delle frontiere più avanzate dell’economia.

L’accento di Montanari era sulla cosiddetta “novazione antropologica”, generalmente elusa dalle riflessioni nell’ambito sulla fenomenologia del lavoro. In generale, sintetizzando in maniera forzosa, egli denunciava uno scadimento del pensiero entro “l’immediatezza dell’attrazione e della reazione emotivo-operazionale”. In questo quadro, viene meno non solo la dimensione collettiva su cui avevano poggiato le grandi soggettività “politiche” moderne, ma anche il “futuro” come orizzonte progettuale consegnatoci dal “passato”. Resta il “puro e secco immediato”, scandito dalla temporalità delle tecnologie.

Ora, certamente le questioni poste da Montanari presentano un’assoluta urgenza, e meritano di essere approfondite. Vorrei qui, però, portare soltanto alcuni elementi di riflessione, al fine di allargare l’orizzonte della discussione.

Innanzitutto credo sia necessario cogliere l’eterogeneità che caratterizza le forme di relazione e di produzione nel mondo digitale. Se spazi sempre più ampi sono occupati da comunità “create” dai privati, veicolando i canali di relazione in direzione dell’immediatezza, della neutralità e dell’impersonalità, è anche vero che sempre più frequenti sono le esperienze in cui sono i soggetti a rivestire un ruolo “creativo” e propulsivo.

Le esperienze di innovazione sociale che abitano il mondo vario e frastagliato dell’economia digitale nascono spesso dalla risposta di soggetti in carne e ossa a bisogni sociali eccedenti, nell’ambito di una crisi strutturale dei modelli di protezione sociale novecenteschi. Pur sviluppando forme di solidarietà e di cooperazione inedite, tali esperienze prendono forma entro piattaforme di proprietà di grosse corporation orientate alla massimizzazione del profitto. In questo quadro, la necessità di sopravvivere non può che spingere i soggetti in questione verso la concorrenza e l’autosfruttamento.

In questo quadro, c’è forse da pensare a come la politica possa dare spazio alla capacità trasformativa dei soggetti, sfuggendo a quel modello piramidale, ereditato dal sovranismo moderno, che concepiva il motore della politica nella testa del sovrano, capace di trasformare la moltitudine in popolo.

La liberazione, allora, non può che chiamare in causa i soggetti in carne e ossa, al di là di qualsiasi visione a priori della società. Qui è necessario non rinunciare al metodo dialettico, che ci insegna ad assumere la costitutiva apertura dialettica dell’uomo al mondo e agli altri, che lo espone alla storicità dell’orizzonte di senso in cui nasce e si forma. In questo quadro, anche il potere ha carattere relazionale, ed è possibile opporglisi solo decidendosi contro di esso, guadagnando spazi di decisione, senza rifugiarsi nella nostalgia per “natura umana” immune alla storia o per una qualche essenza al di fuori del potere stesso. Ma è un affare che investe la capacità di auto-determinazione dei soggetti, che è un rapporto in divenire, mai chiuso una volta per tutte.

È questo, forse, l’orizzonte per un nuovo umanesimo, che ci sfida a pensare la possibilità di una politica plurale, dal basso, al di là del corpo del Leviatano.

Giacomo Pisani

Il secolarismo arabo come forma dell’islamismo politico

L’Islam dei giorni nostri, in particolare le teorie pubbliche della comunità politica fondate sulla precettistica religiosa, utilizza ancora la giustificazione teocratica offerta dalla fede per legittimare la propria azione. Paradossalmente, argomentazioni religiose adottano i giuristi tunisini che difendono il divieto della poligamia e argomentazioni religiose sfoderano gli opinionisti turchi che invitano Erdogan a riconsiderare la punibilità dell’adulterio femminile. È ancora più stucchevole che l’osservatore esterno, soprattutto se di cultura laico-occidentale o se di ascendenza islamica ma da tempo incardinato nelle culture e nelle accademie occidentali, entri nel dibattito pretendendo di spiegare ai musulmani come si debba essere musulmani, ai leader religiosi come si debba attuare la religiosità nelle relazioni sociali.

Conflitto di interessi e Stato di diritto

Perché mettere in relazione “conflitto d’interessi” e “Stato di diritto”? Per la ragione che il conflitto di interessi non riguarda solo Berlusconi e simili. E’ una situazione a più ampio spettro. Essa non si realizza solo nella mescolanza di interessi economici privati e funzione politica (caso emblematico Berlusconi, appunto), ma prende corpo ogni qual volta un soggetto, portatore di uno specifico interesse privato (non solo economico, ma semplicemente “di parte”, cioè “parziale”), occupando, allo stesso tempo, una posizione pubblica, che gli conferisce un potere tale da incidere sugli interessi generali della collettività, opera in modo da subordinare quest’ultimo (l’interesse generale) al soddisfacimento del primo (l’interesse di parte).

Si inverte, così, il fine dello Stato diritto: non è più il diritto, nella sua articolazione base, sfera pubblica – sfera privata, a controllare il potere, ma è quest’ultimo, il potere, costituito dalla mescolanza di interessi privati e funzione pubblica, a controllare lo Stato.

Oggi siamo esattamente in questa situazione. Per capirla, muovo da una riflessione sul presente che mi porta a svolgere una premessa di ordine generale.

“Stato di Diritto” è divenuta una formula vuota, sia per la gente comune che per il personale politico ed anche giornalistico (largamente inteso). Per la prima, la gente comune, più che vuota quella formula è del tutto priva di significato, essendo venuta meno qualsiasi idea di “diritto” e, ancora di più, di “ordinamento”. Inoltre, con l’incombente presenza dell’Europa, è evaporata anche la figura dello Stato. Per la gente comune il diritto coincide con i giudici, con la galera, con le tasse, e così via; con quelle realtà, insomma, che sperimenta quotidianamente sulla propria pelle. In più, la pervasività dei social ha fatto perdere, nella mentalità comune, la distinzione tra sfera personale, e dunque “privata”, e sfera sociale, e dunque “pubblica”.

A sua volta, l’ambiente della comunicazione giornalistica, che, per mestiere, è avvezzo ad usare l’espressione “Stato di diritto”, vi fa riferimento in modo spesso generico. Più come evocazione di una formula taumaturgica, tra il rito e la protesta, che non, invece, per sottolinearne quei profili specifici che costituiscono, per il cittadino, la garanzia della correttezza ordinamentale dei comportamenti posti in essere da chi detiene il potere politico.

Profili, che oggi vengono trascurati, in omaggio ad un primato della efficacia materiale dei comportamenti e delle azioni, al posto della loro qualificazione giuridica. Essi sono: la distinzione, già sottolineata, tra sfera degli interessi privati e sfera degli interessi pubblici o generali (l’antico “bene comune”), dalla quale deriva la specifica legittimazione soggettiva degli operatori politici che è diversa, in quanto pubblica, rispetto a quella dei “portatori di interessi”, che sono semplici cittadini privati.

Vengo ora alla questione del “conflitto di interessi”.

L’idea di “Stato di diritto” e la funzione storica che ha esercitato, sono state quelle di trasformare una affermazione di fatto di un potere personale in una funzione impersonale di governo della cosa pubblica. Tale trasformazione è stata affidata alla oggettività e tipicità propria delle regole del diritto, le quali sono state pensate come capaci di controllare, in funzione del perseguimento dell’interesse generale, l’esercizio del potere da parte di chi lo aveva conquistato e di stabilire in base a quali regole potesse legittimamente esercitare tale potere (la “legittimazione soggettiva”, appunto). Se le cose stanno così, allora si comprende perché la legittimazione dei soggetti e la connessa distinzione tra sfera privata e sfera pubblica sia decisiva.

Da questa premessa di ordine storico, ma del tutto vigente ancora oggi, ne discende che l’attuale governo della Repubblica, contiene un “conflitto di interessi”, pervasivo almeno su due piani.

In primo luogo, il “contratto” che è alla base della costituzione dell’accordo di governo; in secondo luogo, la conseguente indicazione del Presidente del Consiglio. Il punto è che tale conseguenzialità riveste una precisa valenza giuridica, assolutamente non secondaria e dunque non trascurabile.

Andiamo per ordine: la fonte contrattuale dell’accordo di governo. Qui il conflitto di interessi è il seguente: un “contratto”, essendo un atto di diritto privato concluso da soggetti di diritto privato, come in realtà sono Salvini e Di Maio, e le rispettive entità che rappresentano, è efficace solo per i contraenti mentre, in virtù del ruolo istituzionale, cioè “pubblico” che i due soggetti incarnano, quel contratto acquista efficacia erga omnes, come accadeva per il vecchio contratto collettivo concluso dalle organizzazioni sindacali negli anni ’70 e seguenti. Con una differenza che considero decisiva: che, per giustificare giuridicamente l’efficacia erga omnes di quel contratto, si sono affaticate schiere di illustri giuristi, da Costantino Mortati a Francesco Santoro Passarelli, da Gino Giugni a Federico Mancini. Oggi, invece, nessuno se ne è fatto carico, tanto è venuta meno la distinzione tra sfera privata e sfera pubblica e la connessa distinzione di efficacia dipendente delle rispettive “fonti”: privata, il “contratto”; pubblica, le procedure costituzionali. La conferma di questa confusione è dimostrata dalla mescolanza tra interessi di parte e interesse generale che emerge dall’attività giornaliera dei due massimi sottoscrittori del contratto: Di Maio e Salvini, appunto, entrambi Vice Presidenti del Consiglio e anche Ministri della Repubblica. Prova ne sia la recente assenza del Ministro dell’Interno ad una riunione europea, di sua specifica competenza istituzionale, per privilegiare un impegno elettorale del suo partito; subordinando così l’interesse generale ad un interesse “di parte”. Non a caso, la comunicazione mediatica continua a dire che entrambi continuano a fare campagna elettorale; senza però mettere in luce che proprio qui sta il conflitto di interessi.

Secondo punto: la figura del Presidente del Consiglio. Se alla sua origine vi è una fonte contrattuale, anche la sua legittimazione è contrattuale, quindi “privata”; tale figura, allora, si presenta piuttosto come quella di un mero mandatario della volontà dei contraenti. E non è senza significato “materiale” che essi sono anche vice-presidenti del consiglio, quasi stabilire di fatto un sostanziale rapporto di mandato rappresentativo conferito al Presidente.

Mi si può obiettare che, in passato, sia Berlusconi, sia Renzi abbiano ricoperto ad un tempo la funzione pubblica di Presidente del Consiglio e quella privata di segretario del partito; è vero, e questa è stata una stortura del sistema elettorale, al quale si è voluto dare una inclinazione maggioritaria senza intervenire in modo esplicito e lineare sull’intero sistema, che avrebbe richiesto anche una coerente modifica costituzionale. Vi è però una differenza: che nell’attribuire l’incarico di formare il governo non vi fu alcuna forzatura della procedura; in altre parole, cioè, non vi fu alcun “contratto” originario. La procedura costituzionale, infatti, che fa capo all’iniziativa esclusiva del Presidente della Repubblica, sta a significare che la formazione del governo si pone al di sopra dell’interesse di parte, rappresentato dai singoli partiti. Così formato, il Governo si rivolgerà al Parlamento per ottenere la fiducia, che non proviene dai partiti, ma dei “gruppi parlamentari”. Non bisogna dimenticare che il Governo è un organo “esecutivo” e che la sovranità appartiene al Parlamento, che è formato non dai partiti ma dai “gruppi parlamentari”. E’ proprio in questa separazione tra il privato dei partiti ed il pubblico dei “gruppi parlamentari” che l’interesse generale trova affermazione prevalente sull’interesse particolare dei soggetti politici che formano il Governo.

In definitiva, la vicenda attraverso la quale è emerso il presente governo è costituzionalmente inedita. Essa dà luogo ad un conflitto di interessi, tra portatori di un interesse privato e ruolo pubblico – istituzionale connesso, formalizzato in un “contratto” con efficacia erga omnes, che, essendo di mero fatto, priva quei soggetti della necessaria legittimazione soggettiva.

Credo che questo costituisca il vero vulnus inferto alla Costituzione, perché potrebbe diventare una prassi tanto strisciante quanto inconsapevole, attraverso la quale i detentori di un potere di fatto possano infischiarsene delle procedure costituzionali e convertire un consenso parziale in una sorta di “volontà generale”.

Bruno Montanari

Pensare la politica nel tempo del disordine

  1. Il potere nel disordine

Sembrerebbe oggi che una nozione tanto vaga, quanto totalizzante, di sicurezza sia in grado di prendere il sopravvento su altre categorie politiche, determinando una riconfigurazione dello Stato di diritto e tendendo così più al suo tradimento che alla sua protezione. La prevenzione dei delitti si ridurrebbe a una sorta di obiettivo apparente, dietro il quale si celerebbe la volontà di stabilire uno Stato di sicurezza fondato su controlli e limitazioni sempre più generalizzati e invasivi.

L’impressione è di trovarsi in una condizione che supera la tipologia del potere nello Stato moderno magistralmente delineata da Michel Foucault. Supera sicuramente il potere sovrano che, in nome della sicurezza del sovrano stesso, dispone della vita e della morte: «il diritto di far morire o di lasciar vivere». Ma supera anche il potere disciplinare, affermatosi a partire dal XVII secolo in particolare, non più fondato esclusivamente sulla gestione della morte bensì, come sostiene Foucault, sulla perpetuazione, e quindi sul controllo, della vita: «Si potrebbe dire che al vecchio diritto di far morire o di lasciar vivere si è sostituito un potere di far vivere o di respingere nella morte».

Il potere disciplinare pare, a prima vista, più affine al paradigma della società del controllo e quindi allo Stato di sicurezza che sembra profilarsi di questi tempi attraverso il mantenimento dell’emergenza. La disciplina dei corpi, la loro amministrazione, la misurata inscrizione, anche attraverso forme di coercizione, dei comportamenti dei singoli entro canovacci prestabiliti e quindi controllabili, tipici appunto della società disciplinare a cui si riferisce Foucault, sembrerebbero coerenti con ciò a cui assistiamo oggi.

Per non parlare della docilità degli uomini a cui sembrano mirare anche i meccanismi di potere contemporanei. Abbiamo, infatti, l’impressione che anche il sistema di potere capitalistico-finanziario contemporaneo, come il regime proto-liberale del settecento, sia diretto, più che a bloccare, negare o eliminare forze e popolazioni, a incentivarne la crescita disciplinata, a potenziarle e moltiplicarle per poterle ordinare e quindi sfruttare. Abbiamo l’impressione che i luoghi del bio-potere moderno (scuole, collegi, caserme, carceri, ospedali, manicomi) si traducano oggi in forme diverse ma di sostanza analoga (centri di accoglienza, zone rosse, basi militari ma anche centri commerciali, centri benessere, villaggi turistici, gli spazi virtuali della rete).

Ma, a ben vedere, si tratta soltanto di impressioni. In realtà, la biopolitica della popolazione descritta da Foucault si fonda sull’obiettivo di normalizzare la vita della popolazione stessa in modo da esercitare su di essa un potere generale. Natalità e mortalità, salute e divertimenti sono scrupolosamente regolati per normalizzare e quindi disciplinare e ordinare una società. Il diritto, inteso come norma che normalizza più che come legge che impone, svolge proprio una funzione regolativa e correttiva in base alla lettura di Foucault. Non si tratta infatti di brandire la spada, minacciando la morte attraverso il comando della legge, quanto di distribuire ciò che fa parte del vivente per rendere normalmente docili e funzionali gli individui

Ebbene, la tendenza contemporanea segue invece una direzione opposta alla normalizzazione dei contesti sociali. Prende atto del disordine e sul mantenimento di esso costruisce gli spazi di potere. La gestione e il controllo dell’emergenza, che presuppongono la persistenza dell’emergenza stessa, rappresentano le condizioni tanto per l’acquisizione quanto per l’esercizio del potere. Affermare ciò, naturalmente, non equivale a ridimensionare la pericolosità di minacce evidenti come quelle terroristiche né, tanto meno, a sostenere una delle tante tesi complottistiche che sorgono quotidianamente. Equivale, invece, a prendere atto dell’intreccio fra la reale portata destrutturante dei pericoli contemporanei e il percorso di trasformazione culturale che sta interessando l’Occidente, sempre più pronto a mettere in discussione i fondamenti della sua civiltà giuridica.

  1. La regola della violenza

Come leggere il potere politico che sembra incarnarsi oggi, ai più alti livelli, nella capacità di mantenere il caos? Come interpretare uno stato di cose in cui l’obiettivo apparente, di fronte a minacce ormai costanti come è soprattutto quella terroristica, è rendere l’emergenza una situazione permanente per costruire le condizioni stesse del potere?

Siamo, in realtà, di fronte alla continua manifestazione di poteri di fatto alimentati da un disordine che non si vuole ordinare. Perché nell’ordine il potere di fatto incontra il limite del diritto, delle procedure di legittimità democratica, delle libertà inviolabili. Nell’ordine il potere di fatto è, in misura variabile, inibito. Nella celebre concezione di Carl Schmitt, lo stato di eccezione conduce alla sospensione temporanea dell’ordinamento giuridico per proteggerlo e, successivamente, riattivarlo. Una tale dinamica, però, non funziona più di fronte alla trasformazione dell’eccezione in regola. Il meccanismo si inceppa. Proprio questo effetto aveva, in qualche modo, già intuito Walter Benjamin allorché, “ispirato” dalla trasformazione dell’ordinamento di Weimar in regime nazista, scrive: «La tradizione degli oppressi ci insegna che “lo stato di emergenza” in cui viviamo è la regola».

Come è noto, si tratta della considerazione compresa nell’ottava tesi di filosofia della storia. Naturalmente, Benjamin è influenzato dall’applicazione dell’art. 48 della Costituzione di Weimar che, di fatto, prevedendo l’autosospensione della Costituzione stessa, condusse proprio ad uno stato di eccezione permanente. Ma, al di là dell’importante pretesto offerto dalla contingenza storica, Benjamin coglie un dato potenzialmente strutturale perché figlio del rapporto indissolubile tra violenza e diritto. Lo stato di eccezione effettivo, di fatto, non è più tale, non rappresenta un’eccezione costituiva del campo giuridico e, di conseguenza, ciò che rimane è la violenza fattuale priva di un inquadramento istituzionale. Rimane la forza del potere che si impone. Il concetto di violenza va inteso, a questo proposito, secondo l’accezione del termine tedesco Gewalt, che significa anche autorità e potere, e che Benjamin utilizza non a caso nel suo celebre scritto “Per la critica della violenza” dedicato al rapporto tra violenza e diritto.

Ma bisogna soffermarsi sulla legge che, secondo Benjamin, regola il rapporto tra diritto e violenza, a prescindere dalla finalità messianico-rivoluzionaria che lo stesso Benjamin, nel citato saggio dedicato al tema, attribuisce all’idea di violenza pura. La riflessione di Benjamin trae spunto da una constatazione sempre valida: «Si può formulare come principio universale della presente legislazione europea che tutti i fini naturali di persone singole entrano necessariamente in collisione con fini giuridici quando vengono perseguiti con violenza». La tendenza, da parte del diritto, al monopolio della violenza e dell’uso della forza che da tale principio segue non è causata dall’ovvia pretesa di salvaguardare i fini pratici dell’ordinamento giuridico. In realtà, è il diritto stesso come fenomeno sociale, nel suo complesso, ad essere posto in pericolo se si estendono senza controllo gli spazi della violenza privata. Per questo, Benjamin suggerisce di prendere in considerazione la possibilità che «la violenza, quando non è in possesso del diritto di volta in volta esistente, rappresenti per esso una minaccia, non a causa dei fini che essa persegue, ma della sua semplice esistenza al di fuori del diritto».

Si tratta, in altre parole, di una minaccia radicale. L’esistenza della violenza al di fuori del diritto è l’esistenza di un potere altro dal diritto, potenzialmente in grado di deporlo e sostituirlo. Ed è proprio dalla conoscenza dei tratti di fondo del processo di genesi di ogni ordinamento giuridico che scaturisce il timore nei confronti della minaccia rappresentata dall’esistenza della violenza al di fuori del diritto. La minaccia riflette, infatti, il rapporto costitutivo tra violenza e diritto che Benjamin in un celebre passo riduce al seguente meccanismo: «Ogni violenza è, come mezzo, potere che pone o che conserva il diritto». Il diritto avverte come minaccia l’esistenza della violenza al di fuori di esso proprio perché qualsiasi diritto è posto e conservato grazie alla violenza come mezzo. La violenza fuori dal diritto “ricorda” dunque l’origine del diritto stesso e quindi rappresenta una minaccia per l’ordinamento vigente.

  1. Verso lo Stato di sicurezza?

Ma la riflessione sulla funzione della violenza come mezzo, come Gewalt che pone e che conserva il diritto, consente forse di individuare una peculiare chiave di lettura idonea a decodificare gli indizi della torsione contemporanea dello Stato di diritto in Stato di sicurezza. Una chiave di lettura che acquista efficacia proprio perché in grado di farci scorgere un orizzonte concettuale entro cui poter inquadrare lo stato di eccezione permanente. A ben vedere, la legge del rapporto tra violenza e diritto, descritta da Benjamin, potrebbe essere compresa come una diversa rappresentazione dei meccanismi che presiedono all’istituzione di un potere sovrano che, sostituendosi al potere sovrano vigente, è da quest’ultimo percepito come manifestazione di violenza da contrastare in qualsiasi modo. Si tratta di una lettura tradizionale certamente corretta.

Il punto, semmai, è chiedersi quale indicazione si possa trarre dalla legge di Benjamin di fronte ad uno stato di eccezione permanente. Ebbene, una possibile indicazione sorge dall’anomalia della minaccia terroristica. Essa è davvero espressione di un potere che vuole sostituirsi a un altro? È l’azione di chi vuole affermarsi come nuovo potere sovrano? O, invece, è la manifestazione di una violenza puramente distruttrice, intesa a destituire un ordine, forse anche un intero contesto culturale, oggi facilmente associato alle ingiustizie scaturite dai processi di globalizzazione? Una manifestazione di violenza che, proprio perché priva di una vera soggettività politica alle spalle, non è alimentata dallo scopo di sostituirsi al potere vigente in Occidente. Una manifestazione di forza e violenza che non ha, cioè, usando la logica di Benjamin, l’intenzione di porre un nuovo diritto bensì di destabilizzare, al limite della destituzione, una forma di civiltà storicamente e culturalmente caratterizzata. A ben vedere, le azioni e le strategie terroristiche sembrano tutte adeguate a quest’ultima interpretazione.

Ma se così è, lo stato di eccezione permanente è l’espressione di una reazione tragicamente obbligata, quale unica possibile affermazione di potere interno negli ordinamenti vigenti, di fronte ad una minaccia esterna che non è identificabile secondo le logiche della costituzione e della destituzione sovrana o secondo la duplice funzione creatrice e conservatrice della violenza rispetto al diritto. Se così è, lo stato di eccezione permanente, e la conseguente tendenza verso la torsione dello Stato di diritto in Stato di sicurezza, non sono altro che i primi segni del successo della strategia destabilizzante, e non certo costituente, del terrorismo contemporaneo.

Alessio Lo Giudice