Programma prima sessione

4 Giugno 2018                                                                                         

Il declino della Sinistra

ore 15:30    

Via della Dogana vecchia 5 – 00186 Roma                                                                                                                                                                                                                              

Relatori:
Mario Barcellona (Università degli studi di Catania), Simonetta Bisi (Università Sapienza di Roma), Alessandro Ferrara (Università  Tor Vergata di Roma), Michele Prospero (Università Sapienza di Roma), Paolo Quintili (Università  Tor Vergata di Roma), Carlo Scognamiglio (Università  Roma Tre), Pierluigi Winkler (Avvocato)

Discussant:                                                                                                                         Giorgio Fazio (Università Sapienza di Roma), Antonio Martone (Università degli studi di Salerno), Bruno Montanari (Università degli studi di Catania), Laura Pennacchi (saggista), Giuseppe Provenzano (Svimez), Walter Tocci (Centro per la Riforma dello Stato)

COSTITUZIONI AL FUTURO. NOI E L’ISLAM: LA SFIDA DELLE PROSSIME GENERAZIONI

  • Considerazioni su alcune tendenze autoritarie oggi presenti nel diritto degli Stati islamici

Il dibattito sulla struttura istituzionale dell’Islam e sulla sua presunta incompatibilità con le regole di un ordinamento democratico-costituzionale è spesso dimentico dei dati giuridici di base. Si tratta di un limite prospettico che trasforma in mere esercitazioni stilistiche tanto le perorazioni dei sostenitori di una piena e irenica integrazione quanto gli strali degli ostili e dei detrattori. L’Islam, in quanto sistema regolativo che non può essere ridotto soltanto alla dimensione ritualistica ma che appartiene alle istituzioni culturali di più popoli e più Stati, non è una costituzione. È al tempo stesso certamente “di più” (un ordinamento di credenze, usi, prassi, codici morali e giustificazioni etiche) e altrettanto sicuramente “di meno” (non attribuisce competenze in senso formale, non ordina la dimensione normativa di una comunità politica statuale). È comunque sia da osservarsi come molti dei limiti che vengono attribuiti alla pratica e ai convincimenti dei fedeli islamici in Occidente siano tutto sommato di più tenue incisività rispetto alle transizioni in atto nei Paesi dove l’Islam non è il culto di una minoranza migratoria, ma carattere coessenziale alla storia di un popolo. Carattere, oltre che coessenziale, maggioritario, per non dire in alcuni casi addirittura esclusivistico e assoluto. In nome di un’ortodossia letteralista che però poco ormai poggia sul Corano e troppo spesso insegue la mera rivalità tra scuole e ascendenze sovente contrapposte, nel mondo islamico si sono fatte strada norme e convinzioni che rischiano di far sorridere superficialmente l’osservatore occidentale, se non fosse che esse nascondono, pur dietro grandi valori, vessazioni concrete.

In Iran l’ayatollah Nasser Makarem-Shirazi ha condannato senza appello la pratica femminile di accudire piccoli cani da compagnia: sono animali immondi, che ingenerano nella comunità affetti promiscui, che si sostituiscono agli assi fondanti del vivere secondo la fede. In Arabia Saudita il muftì Abdullah al Najdi si è scagliato contro il gioco del calcio, invenzione demoniaca degli infedeli, salvo dovere riconoscere, però, che in Arabia Saudita il calcio ha un seguito e una tradizione sportiva non banale. Si è, perciò, corretto in parte il tiro: bene il football, purché si dia regole diverse rispetto al suo omologo occidentale (nel numero dei giocatori, nelle dimensioni del campo da gioco, ecc.). Una contraddizione non da poco visto che i settori dell’edilizia e dell’e-commerce sono in tutto il mondo arabo, ivi compresa l’élite saudita, in grande fibrillazione per i mondiali in Qatar del 2022.

In Turchia la Direzione per gli Affari Religiosi emana pareri contro i tatuaggi, il make up, i piercings. Persino molto più limitante l’attuale ordinamento malesiano, che pure, trattandosi di un Oriente da noi così distante, suscita minori attenzioni sulla stampa italiana. Il Consiglio Nazionale della Fatwa vieta alla lettera gli abiti femminili per gli uomini e quelli maschili per le donne, l’ascolto della musica metal e hard rock, anche se di band locali, nonché lo yoga, espressione di un paganesimo impudico e caotico. Per quanto dello yoga rischino di darsi troppo spesso letture sbrigative e discordi rispetto alla sua stessa ragione ispiratrice, la soluzione di vietarlo in radice non ripristina affatto il nobile significato originario di quella pratica.

 

 

  • La politica religiosa in Italia e i limiti imposti dal dettato costituzionale

 

L’apparente digressione ci consente di lumeggiare un aspetto troppe volte sottovalutato nel dibattito generalista sull’Islam in Occidente. Se alcune comunità effettivamente rischiano di maturare un atteggiamento di muta accondiscendenza rispetto alle azioni del fondamentalismo, questo oggettivo disvalore non può essere elevato a sistema. Non si può smettere di pensare all’involuzione autoritaria che ben può riguardare anche gli Stati teocratici dove pure si erano affacciate prudenti istanze secolari.

Nonostante le sfide internazionali della incolumità pubblica e del contrasto al terrorismo preoccupino in modo sostanzialmente inevitabile le opinioni pubbliche statuali, la presenza di a volte cospicue comunità islamiche, nel nostro Paese, non può essere rubricata alla voce dell’allarmismo e dell’emergenza. Il dettato costituzionale integra un tessuto istituzionale particolarmente favorevole al pluralismo. Lo dimostra il principio personalista di cui all’articolo 2 della Carta, che delinea i complessi equilibri tra la libera determinazione individuale e l’afferenza a formazioni sociali che esprimono caratteristiche anche identitarie dei propri aderenti. Lo conferma la visione sostanzialistica di cui al secondo comma dell’articolo 3 della Costituzione, che supera la mera eguaglianza formale di derivazione liberale, impegnando i pubblici poteri a un’attuazione esaustiva del principio di eguaglianza. Quanto all’ambito religioso, il pluralismo è avvalorato oltre ogni ragionevole dubbio dagli articoli 8, 19 e 20 della Costituzione medesima. L’articolo 8 pone, a norma fondamentale del sistema delle relazioni religiose, l’eguale libertà delle diverse confessioni. Prevede che esse possano (non debbano!) darsi statuti, nella cui formulazione concreta non possono intervenire ingerenze pubbliche e di polizia. Lo stesso articolo dà vita, inoltre, a un meccanismo impegnativo di regolazione bilaterale dei rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose, fondato sulla stipulazione di intese con rappresentanze individuate su base statutaria. L’intesa è in re ipsa la fonte ordinamentale deputata a valorizzare la diversità di ciascun interlocutore religioso; purtroppo, la storia repubblicana, salve fasi di maggiori entusiasmi e di più avvertite sensibilità pluralistiche, non ha messo in mostra una particolare brillantezza dei pubblici poteri in attuazione del terzo comma dell’articolo 8. La contrattazione tra lo Stato e le confessioni religiose è stata monocorde, invariante, produttiva di intese fotocopia, con ben poco riconoscimento di specificità statutarie e prerogative cultuali. A fare da contraltare ad intese che in sostanza miravano più a benefici di natura patrimoniale (otto per mille, disciplina agevolativa di enti, ministri di culto ed erogazioni), è a tutt’oggi una legge generale del 1929, che compendia aspetti tipici della legislazione fascista – il controllo del fenomeno religioso inteso soprattutto in termini di ordine pubblico – e principi desueti dello Stato liberale (una sorta di indifferentismo che non mette in discussione la condizione subalterna dei culti diversi da quello cattolico).

Questo quadro rende inevitabilmente meno riuscita l’applicazione puntuale delle norme di cui agli articoli 19 e 20 della Carta. Dispiega davvero tutte le sue proficue implicazioni ideali il riconoscimento della libertà religiosa individuale, pure intesa secondo una triplice direttrice non esaustiva (libertà di professione, di culto e di propaganda)? E che dire dell’impossibilità di prevedere discipline di specifico detrimento a carico di istituzioni e associazioni religiose? Non rischiano queste formule, piuttosto, di essere ritenute principi cartolari ad attuazione discontinua, soprattutto a danno di realtà religiose che non hanno avuto la debita forza politica per stipulare un’intesa con lo Stato e che restano perciò avvinte in una legislazione in moltissimi aspetti superata?

Riferirsi alla disciplina costituzionale, contrariamente a quanto spesso affermino i fautori di un inasprimento della legislazione migratoria e di una riduzione controllata degli spazi del pluralismo sociale, non significa per nulla delineare un sistema privo di limiti e responsabilità. Al contrario, le coordinate del sistema costituzionale appaiono non deflettere da scelte anche politicamente gravose poste in essere dal legislatore costituente. Ogni facoltà, nel bilanciamento degli interessi, corrisponde a una partecipazione matura a quello che l’articolo 4 individua come “progresso materiale o spirituale della società”. La ricordata autonomia statutaria di cui all’articolo 8 è ad esempio subordinata al non contrasto dello statuto con l’ordinamento giuridico: lo statuto non potrà cioè darsi come propria regola quella di ledere beni giuridici oggetto della tutela statuale. E anche l’ampia libertà garantita al culto religioso si arresta rispetto ai riti contrari al buon costume, inteso come limite specificamente afferente l’ambito della morale sessuale, ancor più se in riferimento a soggetti ancora in formazione. Il disposto costituzionale, in altre parole, non perde di incisività a presidio di un sistema coerentemente democratico, benché quel dettato fosse stato concepito riguardo a una popolazione lievemente inferiore a quella attuale e a una demografia religiosa interna di gran lunga meno varia di quanto oggi suggerito dalle circostanze.

 

 

  • L’associazionismo islamico in Italia. Quale contributo e quali prospettive

 

La trama complessiva dei principi costituzionali, testé succintamente ricordata, quanto l’iniziale premessa esemplificativa sulle problematicità insite in alcuni sistemi islamici, vale a chiarire che non si è in presenza di un’invasione migratoria (e ideologica) con profili sin d’ora lesivi della pubblica convivenza. Quand’anche ciò si delineasse negli sviluppi futuri delle questioni di sicurezza, pare che l’ordinamento non sia del tutto privo dell’adeguata strumentazione giuridica volta a fronteggiare le problematiche correlate. Anzi, è forse da addebitare alla classe politica di avere ancora troppo limitatamente messo in opera quel tipo di strumentario normativo formale. Parimenti ovvio che ai cultori del diritto non possa capitare di incorrere in indistinte islamofobie dell’ultima ora. Proprio la civiltà araba e quella persiana hanno introdotto nelle nostre sistematiche privatistiche alcuni istituti tutt’oggi frequentissimi e vitali nella concreta pratica giuridica. La stessa etimologia di molto lemmario commerciale e civile parla chiaramente. Bastano alcuni esempi di termini e concetti mutuati dal mondo arabo-islamico: il “magazzino” era il deposito della merce; la “dogana” era il libro mastro sul quale erano segnate tutte le merci in transito; la “zecca” era la moneta ed estensivamente il conio. Per valutare l’esecuzione di un rapporto, si ricorreva a un calendario riconosciuto come unità regolatrice da entrambe le parti del contratto (“almanacco” è calendario in arabo). Rappresentare oggi il diritto islamico e il diritto occidentale come mondi in guerra è falso; sono, piuttosto, “mondi”, “ordini”, che sovrintendono probabilmente alla realizzazione di fini tipici “diversi”. È perciò necessario riconsiderare adeguatamente le condizioni per rinnovare una proficua osmosi di istituti, pratiche, strumenti regolativi.

Un primo elemento interessante, per riequilibrare le coordinate di questo rapporto, è dato proprio dall’attuale conformazione giuridica dell’Islam italiano. Vista l’enorme difficoltà a selezionare una rappresentanza univocamente legittimata, ai fini della stipulazione di un’intesa, nella pratica si sono affermati modelli associativi ibridi, grazie ai quali le finalità cultuali tipiche dell’associazionismo islamico hanno incrociato le diverse persone giuridiche nominate del codice civile. Le comunità islamiche hanno assunto forma ora di associazioni di promozione sociale, ora di comitati, ora persino di fondazioni; alcune d’esse non hanno trascurato, non potendo raggiungere altro tipo di regime agevolativo fiscale, di costituirsi in “onlus”, ai sensi del diritto tributario. Il modello tipico delle realtà locali di associazionismo islamico è curiosamente divenuto un paradigma improprio, non riconosciuto nominalmente né nel diritto comune unilaterale né nel diritto bilaterale speciale: l’associazione culturale islamica. Si tratta di un nome sempre più spesso condiviso praeter legem, ma dalla determinazione tipologica e contenutistica sempre meno certa.

Una seconda osservazione riguarda la presunta impossibilità di raggiungere l’intesa con una comunità islamica di rilievo nazionale, comunque considerata, in ragione dell’assenza di riferimenti organici unitari nell’Islam italiano. Vale la pena ricordare che, quando si vuole, si stipulano intese diverse anche con soggetti collettivi che riguardano un medesimo ambito religioso. L’Italia ha stipulato intese con due istituti buddhisti (una Unione e un Istituto, una “scuola” di più recente radicamento) e numerosi sono gli atti bilaterali nei confronti di soggetti diversi del Protestantesimo contemporaneo (luterani, battisti, valdesi, apostolici…). Non si arriva all’intesa con enti esponenziali dell’Islam, tra gli altri motivi, forse perché si teme che all’interno di quella stessa comunità il soggetto beneficiato dall’intesa ne risulterebbe gravemente additato e screditato. Delle due l’una, però: se non c’è intesa, almeno si rimetta mano alla legislazione generale, se possibile con proposte di sistema puntuali anche negli aspetti giuridico-formali e non soltanto, più o meno indistintamente, in toni proclamativi, come purtroppo di recente usa.

Non convince che possa essere un organo di costituzione governativa a reggere le fila di questo dibattito, così articolato e complesso, che si tratti della “Consulta per l’Islam italiano” o del “Comitato per l’Islam italiano” o, più di recente, del “Consiglio per le relazioni con l’Islam”. La sfida oggi in atto non è quella di isolare un segmento, di creare una “confessione religiosa islamica” in laboratorio: sarebbe una forma poco attenta e poco contemporanea di giurisdizionalismo. Serve, piuttosto, aprirsi convintamente alla maggioranza del mondo islamico in Italia e in Europa, che è da tempo consapevole dell’opportunità e della necessarietà di non tradire il gioco democratico, di non essere competitore aggressivo avverso le istituzioni giuridiche della comunità politica. Non ascoltare questa parte della popolazione islamica in Italia non solo è errore sotto il profilo della regolamentazione giuridica, ma rischia di essere soprattutto boomerang per la pubblica sicurezza. Boomerang, invero, di rara e speciale pericolosità.  

Domenico Bilotti

L’EQ PER MIGLIORARE IN AMBITO LAVORATIVO – IN PRINCIPIO CI FU L’INTELLIGENZA EMOTIVA

IQ

Sentiamo ormai sempre più spesso parlare di EQ (Emotional Quotient), ovvero d’intelligenza emotiva, cosa ben diversa dall’IQ (Intelligence Quotient), ovvero l’intelligenza logico-deduttiva; esatto: logico-deduttiva. Le misurazioni dell’IQ non possono rilevare l’intelligenza tout court ma la predisposizione e/o l’abitudine all’utilizzo del pensiero astratto. Nei test della Commissione Europea, infatti, questo tipo di misurazione è, appunto, conosciuto come “abstract reasoning”. Non si tratta, quindi, soltanto di semplice predisposizione ad apprendere[1] ma della capacità di ragionare per astrazioni e di servirsi del pensiero logico/deduttivo; per queste motivazioni i matematici (ma anche i filosofi) sono avvantaggiati in queste misurazioni, non per una maggiore intelligenza in toto (e in realtà difficilmente misurabile), ma semplicemente per un maggiore “allenamento”, trattandosi del proprio campo di studi. L’istituzione del Mensa[2] si basa appunto sulla volontà di riunire ai fini di una condivisione delle conoscenze quelle persone che, nei test sull’IQ dimostrano, appunto, una spiccata predisposizione a formulare concetti.

IQ o EQ?

Per anni le aziende e/o le istituzioni, oltre alla dimostrazione di possedere le richieste conoscenze di contesto, hanno selezionato i propri candidati basandosi sulle misurazioni dell’IQ per garantirsi migliori performance, ma così non è stato; già, perché le migliori performance hanno questo in comune: un EQ (non un IQ) alto.

Ma cos’è questa intelligenza emotiva? Si tratta della nostra prima forma d’intelligenza.

Neonati, macchine pensanti, animali

Se osserviamo i neonati constatiamo che il loro apprendimento passa attraverso le emozioni, catalogandosi, le emozioni, come l’umana prima forma di apprendimento[3] che si attua percorrendo un percorso inverso rispetto a quello, ad esempio, percorso dagli automi e dalle macchine nei romanzi e nei film di fantascienza, e che mutano in persone attraverso un esercizio del logos che si trasforma in coscienza; lo vediamo anche nel regno animale in quanto l’apprendimento, ad esempio, in un animale domestico, è correlato in primo luogo a stimoli sensoriali e a emozioni legate a un particolare evento (tenendo presente sempre il tipo d’intelligenza di specie e senza cadere vittime, anche se accade troppo spesso, di misurare e quindi fraintendere l’intelligenza dei nostri pet attraverso parametri umani di misurazione come fanno le ricerche di Stanley Coren che è un neuropsichiatra e non un etologo; la sua indagine non può che essere antropocentrica). Sin dalla celebre teoria della linea del filosofo Platone, la conoscenza non è soltanto una questione di livelli, ma di gradi, e il primo stadio, quello emotivo-sensoriale che si avvale di immagini, è la base, la molla da cui gli altri possano partire o meno. Un altro filosofo, Spinoza ci parlerà poi, e invece, di una coesistenza di logos e passioni come strumenti di conoscenza; non più gradi, quindi, ma vie parallele e complementari necessarie l’una all’altra; al fine, appunto, di ridurre la visione limitata che, in quanto esseri limitati, possediamo.
 Non è un caso che logos e mythos abbiano la stessa radice rintracciabile nel “raccontare”.

Non ci sarebbe quindi, come sosteneva ancora un altro filosofo, Hegel, una gradualità di conoscenza che vede il predominio del logos sul mythos, ma due “racconti” paralleli e complementari.
Pertanto, si avrebbe un primo approccio, un avvicinarsi che è emotivo-sensoriale, che resterebbe poi da substrato e via parallela alla coscienza di sé partorita dal logos.

La macchina pensante nasce invece da un logos e si autodefinisce prendendo coscienza di sé, atto anch’esso di logos; esseri viventi e macchine percorrono un processo inverso nel diventare persone[4]: verso la presa di coscienza i viventi, e dalla presa di coscienza le macchine (le emozioni per gli umani sarebbero pertanto il primo stadio; per le macchine l’ultimo); paradossalmente, tanti esseri umani potrebbero presentarsi come privi di una sorta di autocoscienza; a differenza delle macchine, però, provano dolore; questo punto, quello del dolore appunto, è la strada che è stata percorsa nel tempo per arrivare a parlare dei diritti degli animali, o meglio di “persone” animali.

La relazione

La prima forma di apprendimento e la prima forma di intelligenza si sviluppano, pertanto all’interno di quella prima relazione “madre (o qualsiasi altro caregiver[5])/bambino”.

I primi tre anni di vita[6] sono fondanti e fondamentali per la nostra personalità e intelligenza futura (sia EQ che IQ) di ognuno di noi, essendo l’apprendimento per emozioni all’interno di una relazione, e sentendoci accettati in essa, diventa la “base sicura” per lo sviluppo dell’EQ prima e dell’IQ poi.

Dal concetto di “base sicura” parte la nota “teoria dell’attaccamento” spesso confuso con “alto contatto”. Come ha già rilevato il pediatra spagnolo Carlos González nel suo Cresciendo juntos (Temas de hoy, Barcelona 2013), il termine “alto contatto” è ispirato, tramite traduzioni non felici, alla teoria dell’attaccamento di John Bowlby, l’attachment theory. Tale teoria sostiene che tutti i bambini (tranne, forse, alcuni casi patologici) stabiliscono un legame di attaccamento che potrebbe essere sicuro o insicuro. L’attaccamento sicuro o insicuro non dipendono tanto dal contatto fisico o meno ricevuto (o almeno non solo da quello), quanto dalla prontezza della risposta ai bisogni principali di un neonato.

In realtà il vero scopritore della “teoria dell’attaccamento” fu l’etologo Konrad Lorenz che notò qualcosa di molto più importante dell’imprinting per cui è ricordato: notò appunto la relazione (di cui il fenomeno dell’imprinting è una parte) come “base sicura” per il legame e per i primi apprendimenti.

Se stiamo parlando di primi apprendimenti ricordiamoci anche che il pensiero dei bambini rispetta questi tre parametri: è pratico, è magico, è legato al movimento.

I primi apprendimenti all’interno di una relazione sono innanzi tutto essenzialmente emotivi e basati sull’accettazione; inoltre, in quanto pensieri legati al movimento, ci permettono pertanto di muoverci e agire nell’immediato, qui e ora.

L’intelligenza emotiva che si nutre di relazione e si sviluppa nella relazione (in particolar modo in quella primaria relazione caregiver/bambino), ha anche il carattere dell’azione e di quella decisione immediata che anticipa l’azione stessa; essa è anche, pertanto intelligenza decisionale (di solito, infatti, i grandi leader possiedono anche un levato EQ) legata sempre alla situazione contingente; non è un caso che i test della Commissione europea che cercano di rilevare l’EQ si chiamino, appunto, situational judgment, e sono ormai diventati parte integrante (assieme alle conoscenze di contesto, quelle tecniche e la misurazione dell’IQ) del processo di selezione dei candidati per lavorare nell’Unione Europa.

In questa tipologia di test sono valutate 8 tipologie di competenze: Analysis and Problem Solving, Communicating, Delivering Quality and Results, Learning and Development, Prioritising and Organising, Resilience, Working with Others, Leadership.

Le 8 tipologie di competenze elencate rientrano nell’intelligenza emotiva, ed è ora sempre più chiaro in che modo possa influenzare le performance di un’azienda.

La prima vera “competenza” per la vita è, come abbiamo visto, l’EQ; essa ci permette di comportarci adeguatamente in ogni situazione e ci aiuta a districarci in circostanze apparentemente senza via d’uscita; va di pari passo con la felicità; i primi tre anni di vita sono importanti per quest’apprendimento che s’imprime grazie alla “mente assorbente” (Montessori).

Sono state le ricerche di Peter Salovey e Jack Mayer, che hanno definito il QE come concetto scientifico; un grosso numero di studi suggeriscono che le capacità emotive spiegano in misura significativa il successo personale e professionale. Se per molti anni la tradizione del pensiero le ha ignorate e soffocate, adesso le emozioni sono riconosciute come ricchezza, fonte d’informazione, gui- da autentica nei processi decisionali, e saperle gestire riveste un’importanza fondamentale; e in tutto questo ci ricolleghiamo nuovamente al filosofo Spinoza che affidava tale gestione a conoscenza e consapevolezza.

La consapevolezza e la conoscenza sono “aperti” al nuovo e non tentano di ridurre a definizioni la complessità del reale.

Maslow sempre attuale

La consapevolezza, in quanto “aperta”, rimanda a quell’autorealizzazione che è apertura e che è posta in cima alla famosa piramide di Maslow; l’autorealizzazione comprende la moralità, la creatività, il problem solving, l’accettazione e l’assenza di pregiudizi. Questo modo di essere dell’autorealizzazione ricalca quasi le caratteristiche che abbiamo sin qui viste associate a un’alta intelligenza emotiva.

La piramide di Maslow dei bisogni[7] umani è molto nota a chiunque si occupi psicologia, di risorse umane e/o mastichi di project management. È del 1954 la pubblicazione di Motivazione e personalità, in cui Maslow ha esposto e definito una teoria concernente una gerarchizzazione dei bisogni e delle motivazioni; alla base della piramide sono inseriti i bisogni e le motivazioni originate dai bisogni primari (fisiologici), e al vertice compaiono bisogni e motivazioni più alti e votati alla piena realizzazione del proprio potenziale umano, ovvero l’auto-realizzazione. Secondo la piramide di Maslow il passaggio a uno stadio superiore può avvenire solo previa soddisfazione dei bisogni di grado inferiore. La base di partenza per lo studio dell’individuo è quindi la sua considerazione come insieme di bisogni/motivazioni. Poter garantire una politica e un’assistenza efficace e centrata sulla persona deriverebbe quindi dall’essere capaci di riconoscere i bisogni/motivazioni di quell’individuo cogliendone la sua attuale posizione nella piramide. Si parte dall’assunto dell’unicità e irripetibilità degli individui a differenza dei bisogni che sono comuni e permetterebbero una migliore vita ove soddisfatti. Maslow elenca e cataloga i bisogni in “fondamentali” (fisiologici) e “superiori”, ritenendo questi ultimi quelli psicologici e spirituali. I bisogni fondamentali (fisiologici o elementari) non appagati non possono consentire l’appagamento di quelli superiori. Maslow ci consente d’effettuare autocritica poiché solo analizzando la nostra personale capacità di soddisfare i propri bisogni possiamo essere in grado di comprendere (e anticipare) le necessità degli altri.

Allenamento

L’IQ, per quanto “allenabile” a seconda dell’abitudine al ragionamento logico-deduttivo, è tendenzialmente alquanto stabile, senza cambiamenti significativi a distanza di mesi, ad esempio; si può dire più o meno lo stesso circa la nostra personalità pur essendo, per natura, creature mutevoli e votate al cambiamento che è nel corso naturale delle cose.

L’EQ può variare persino a distanza di pochi mesi; situazioni di grande stress emotivo, isolamento, solitudine, educazione punitiva che causa ansia e paura costante, mobbing e/o altro possono riscrivere completamente la situazione generale del nostro EQ, causandoci comportamenti disfunzionali e non adatti alle circostanze e/o situazioni e, in quanto tali, di basso EQ.

Viceversa, un clima accogliente, l’accettazione nel contesto, il percepire di essere una parte importante dell’ingranaggio, aumentando la stima di sé, possono, portare a innalzamenti dell’EQ.

Pertanto, sebbene tendenzialmente “stabile”, sull’IQ possiamo intervenire direttamente mentre l’EQ può sfuggirci di mano sia per avversità che per aiuti esterni e che contemplano, sempre, una relazione.

La stessa autonomia del bambino che impara i primi passi si costruisce nella relazione e non interrompendo la relazione.

Il neuropsichiatra infantile Winnicott[8] descrive un bambino che gattona allontanandosi dalla madre che resta comunque in un determinato raggio d’azione. Iacono A. M., studiando Winnicott, è arrivato a riformulare questa evidenza empirica come “teoria della coda dell’occhio”: il bambino, con la coda dell’occhio appunto, muovendo i primi passi verso l’autonomia, si accerterebbe che la propria madre si mantenga comunque in una distanza visibile, accessibile e raggiungibile; che sia una base sicura, appunto. La madre, del resto, si comporta in modo simile: anch’essa, con la coda dell’occhio, ha chiaro il raggio d’azione di quei primi esperimenti d’autonomia. La relazione c’è, eccome!

La figura del coach aziendale esterno

Possiamo abituarci ad assumere comportamenti differenti nelle varie situazioni che siamo chiamati quotidianamente ad affrontare. Questo può allenare il nostro EQ. Si allena con i comportamenti e nelle situazioni, dentro il contesto, e non con gli esercizi logico-deduttivi in solitario come può accadere con l’IQ. Si tratta di assumere un habitus differente dinanzi alle varie situazioni.

In ogni caso, sia che il nostro comportamento possa essere disfunzionale o meno, abbiamo bisogno di un ausilio esterno che, nella relazione, ci possa indicare le vie che percorreremo in autonomia nell’esercizio comportamentale teso ad innalzare l’EQ.

Pensiamo alle aziende che sul potenziamento dell’EQ investono da tempo con risultati performanti straordinari: svetta fra tutti Google, di cui è ormai storia nota l’innovativo approccio alle risorse umane che unisce incentivi economici e strategie di conciliazione tra la propria vita privata e il lavoro, tra i quali ci sono 5 mesi aggiuntivi di maternità retribuita. C’è inoltre attenzione alla gestione in completa autonomia di una parte del tempo lavoro da parte di ogni singolo dipendente. Si condividono gli spazi di lavoro e si coinvolgono i dipendenti nelle nuove assunzioni al fine di creare opportunità di condivisione delle idee e dei progetti; in questo modo s’instaurano meccanismi atti a stimolare la creatività e a incoraggiare l’iniziativa personale. Si può lavorare fuori dall’ufficio, in mobilità, per organizzare il proprio orario secondo quanto richiesto da un determinato progetto in un determinato momento.

Nelle aziende in cui l’organizzazione non è ripensata completamente come accade in Google ma in cui è avvertita la necessità di migliori performance, l’ausilio di un coach aziendale esterno può intervenire in tal senso, facilitando la via per un potenziamento dell’EQ e della soddisfazione dei dipendenti.

Bisogna tuttavia essere aperti al cambiamento (senza dover attuare uno stravolgimento stile “Google”) perché questo tipo di coach che ci farà migliorare le nostre performance non si relaziona e non agisce solo sui singoli team come fanno, ad esempio, i vari counselor dell’analisi transazionale spesso chiamati nelle aziende per percorsi di benessere organizzativo.

Il coach aziendale esterno deve essere in grado di affermare una metodologia quantitativa e qualitativa che abbracci l’intera esperienza di ogni azienda e/o organizzazione e di ciò che offre sul mercato; questo tipo di coach teso a un miglioramento delle performance tramite potenziamento dell’EQ non si limita alla sola gestione dei “knowledge worker” ma è in grado di fornire una risposta continua e soddisfacente a ogni livello del sistema azienda.

Questa figura deve essere in grado di offrire un approccio all’Innovazione che focalizzi l’intero ciclo di sviluppo di prodotto sulla collaborazione efficace con il fine di creare valore per tutti gli attori coinvolti; solo così si possono trasformare astratte idee di business in opportunità di business tramite team performanti.

 

L’EQ è la chiave per performance sempre migliori[9] e il coach aziendale esterno (di solito un business coach[10]) è la chiave sia per innalzare l’EQ e la soddisfazione generale, sia per migliorare le proprie performance e le performance aziendali.

Il triangolo vincente è pertanto EQ, (business) coach e performance.

Sentiamo ormai sempre più spesso parlare di EQ; è giunta l’ora di applicarla per migliorare le performance e, soprattutto, per vivere meglio.

 

[1] Vedere al riguardo l’articolo on line: http://www.huffingtonpost.com/entry/5952a975e4b0326c0a8d0bd2

[2] https://www.mensa.org/

https://www.mensa.it/

[3] Vedere, ad esempio:

  • Abbott, L. & Hevey, D. Training to work in the early years, in G. Pugh (ed.) Contemporary Issues in the Early Years. London: Paul Chapman Publishing inassociation with Coram Family, 2001.
  • Abbott, L. & Pugh, G., Training to Work in the Early Years: Developing the Climbing Frame. Buckingham: Open University Press, 1998.
  • Ball, C., Start Right – The Importance of Early Learning. London: Royal Society for the Encouragement of Arts, Manufacturers and Commerce, 1994.
  • DES, Starting with Quality, Report of the Committee of Inquiry into the Quality of the Educational Experiences Offered to 3 and 4 Year Olds, Chaired by Mrs Angela Rumbold CBE. London: HMSO, 1990.
  • DfES, Birth to Three Matters. London: DfES Publications, 2002.
  • Hevey, D. & Curtis, A., Training to work in the early years, in G. Pugh (ed.) Contemporary Issues in the Early Years, 2nd edn. London: Paul Chapman, 1996.
  • HM Treasury, Every Child Matters. London: The Stationery Office, 2003.
  • Langston, A., Birth to Three Matters, Training of Trainers, Final Report, 7 May. Manchester: Manchester Metropolitan University, 2004.
  • Langston, A. & Abbott, L., Birth to Three Training Matters, Interim Report, Esme ́e Fairbairn/Manchester Metropolitan University Research Project. Manchester: Manchester Metropolitan University, 2004.
  • QAA, The Framework of Higher Education Qualifications in England Wales and Northern Ireland. London: QAA, 2001.
  • QCA, Early Years Education, Childcare and Playwork. A Framework of Nationally Accredited Qualifications. London: QCA, 1999.

[4] Recentemente, il 12-01-2017, gli eurodeputati di Strasburgo hanno votato e approvato una relazione «recante raccomandazioni alla Commissione concernenti norme di diritto civile sulla robotica»; si richiede, in parole povere, di disciplinare automi e intelligenza artificiale fornendo alcune norme che possano regolamentare unità senzienti elettroniche, ovvero macchine in grado di sentire, pensare e agire. Sono le raccomandazioni del gruppo di lavoro in materia dei diritti da riconoscere ai robot-umani che auspica una legge che si preannuncia essere una pietra miliare. La Commissione ne discute da maggio 2016 quando è stato presentato un draft report con le richieste in merito il 31-05-2016 [Committee on Legal Affairs – European Parliament, Draft Report with recommendations to the Commission on Civil Law Rules on Robotics (2015/2103(INL), 31.05.2016] e su cui la Commissione si era già espressa con un’opinione il 23-11-2016 [(Opinion of) Committee on on Civil Liberties, Justice and Home Affairs for the Committee on Legal Affairs – European Parliament, with recommendations to the Commission on Civil Law Rules on Robotics (2015/2103(INL)), 23.11.2016]. Dal punto di vista giuridico se ne occupa da tempo un PhD dell’Università europea di Roma, Scialdone M., i cui riferimenti si trovano in Il diritto dei robot (slide della lezione tenuta l’8 luglio 2016 nell’ambito del master di II Livello in Diritto dell’Informatica e Teoria e Tecnica della normazione presso l’Università La Sapienza di Roma, 2016).

[5] Letteralmente “dispensatore di cure”.

[6] Maria Montessori, educatrice, pedagogista, filosofa, medico, neuropsichiatra infantile e scienziata italiana, in quasi tutti i suoi scritti insisterà sull’importanza dei primi tre anni di vita, durante i quali la mente è definita “assorbente”.

[7] Si crede che la nascita del termine bisogno si sia avuta durante il medioevo quando si provò a latinizzare la parola di origine franca bisõnnon che significava sia cura che necessità. Da qui l’idea del bisogno come mancanza di cui si sente necessità.

[8] Celebre pediatra e psicoanalista inglese. Le presenti considerazioni sono tratte dalle sue opere maggiori:

  • Winnicott D.W., Clinical Notes on Disorders of Childhood. Heinemann, London, 1931
  • Getting To Know Your Baby. Heinemann, London, 1945
  • The Child and the Family. Tavistock, London, 1957
  • The Child and the Outside World. Tavistock, London, 1957
  • Collected Papers: Through Paediatrics to Psychoanalysis. Tavistock, London, 1958
  • The Child the Family and the Outside World. Pelican Books, London, 1964
  • The Family and Individual Development. Tavistock, London, 1965
  • Maturational Processes and the Facilitating Environment: Studies in the Theory of Emotional Development. Hogarth Press, London, 1965
  • Thinking about children, A Merloyd Lawrence Book, Massachusetts 1966
  • Playing and Reality. Tavistock, London, 1971
  • Therapeutic Consultation in Child Psychiatry. Hogarth Press, London, 1971
  • The Piggle: An Account of the Psychoanalytic Treatment of a Little Girl. Hogarth Press, London, 1971
  • Playing and Reality, Tavistock Publications Ltd, New York 1982

[9] Sia chiaro che si tratta una conditio sine qua non. Dietro un alto EQ ci sono performance migliori, ma un alto EQ non significa necessariamente performance migliori. Per questo la figura del coach è molto importante.

[10] Che magari conosca le più moderne teorie e pratiche di Design, Management, Comunicazione e Coaching.

Sotto l’ombrello della Costituzione: la voce delle differenze

  1. Quanto spazio c’è sotto l’ombrello della Costituzione?

La Carta fondamentale della Repubblica può essere raffigurata come un ombrello le cui falde rappresentano un sistema protettivo finalizzato a soccorre, all’occorrenza, le diverse soggettività in essa richiamate. Saggiamente la Costituzione non utilizza categorie semantiche stringenti (modalità “catalogo”), e quando lo fa, la ragione dipende dalla necessità di dover rispondere a specifiche situazioni non generalizzabili. Diciamo, allora, che la forza di una qualsiasi Costituzione (specie di quelle scaturite dalle grandi rivoluzioni liberali settecentesche poi “rigenerate” e “arricchite” nel secondo dopoguerra) risiede nella capacità di “prevedere” cosa accadrà nel futuro, e dei loro autori (i “padri costituenti”) di presentarsi come i depositari, oltre che di competenze tecniche, anche di qualità straordinarie (“numinose”). E in effetti, a pensarci bene – e circoscrivendo il discorso all’esperienza italiana – come potremmo definire quelle persone (uomini e donne) che dopo la tragedia della seconda guerra mondiale – ognuna con esperienze di vita diverse, tutte segnate dalla tragedia del fascismo e dalla guerra di liberazione – hanno deciso di mettere da parte il loro “privato” pur di ridare al paese la speranza, partendo dal ripristino della democrazia? Senza il loro sacrificio, noi (singole persone e poteri pubblici) oggi saremmo altro; di certo non avremmo tutti quei diritti e quelle libertà che ci consentono (pur tra mille problemi) di vivere senza timore, di esibire la nostra personalità in pubblico al riparo di qualsiasi intrusione. E ogni volta che qualcuno (soggetto privato o pubblico non fa differenza) cerca di conculcare la nostra natura (… ricordando che la battaglia per i diritti è sempre in corso) sappiamo di poter fare ricorso agli strumenti che la Costituzione ha previsto, anche ricorrendo a dispositivi creati altrove (in Europa per esempio), certi che una determinata istituzione si farà carico delle nostre rimostranze assicurando (all’occorrenza) il ripristino della legalità tradita. Questo è possibile, allora, grazie all’ombrello della Costituzione, che mette al riparo i cittadini e le istituzioni dalle intemperie politiche che possono infuriare nello spazio pubblico, impedendo che i nemici della democrazia possano scardinare i valori di fondo su cui essa si fonda e favorendo, con procedure definite dalla legge, la partecipazione di tutti al governo della società. Grazie alla elasticità del “tessuto” di cui è fatta la Costituzione (la sua trama valoriale frutto di tradizioni diverse), situazioni sociali e soggetti, anche non espressamente previsti dalla Carta, ricevono degna considerazione e vengono ritenuti, sulla base di una corretta interpretazione effettuata da un corpo di esperi (dottrina, giudici, legislatore, etc.), meritevoli di protezione sulla scorta di una serie di premesse argomentative (la politica) e successive disposizioni giuridiche (le norme) germinate dalla costante lotta contro tutto quanto si palesa in contrasto con i primi dodici articoli della Costituzione (i diritti fondamentali).

 

  1. Fatta per durare nel tempo

Quando i costituenti scrissero la Costituzione, la società italiana si presentava conformata in maniera molto diversa rispetto ai tempi presenti. Le urgenze erano diverse, così come i bisogni e gli interessi delle persone dipendevano in massima parte dalla necessità di lasciarsi alle spalle i disastri della dittatura e della guerra. Buona parte di quei problemi sono stati affrontati e risolti, grazie, soprattutto, alla volontà dei costituenti e dei primi governi repubblicani di mettere da parte alcune divergenze ideologiche e di stabilire priorità a partire dalla centralità della persona umana. Il “personalismo” rappresenta il fulcro attorno al quale si è dato corso alla rinascita democratica del paese, predisponendo una serie di organi e apparati aventi il compito di far discendere da quel super valore-principio tutte le regole necessarie per impedire il ritorno al passato e dare vita, di contro, ad una società libera e uguale. E’ bene, perciò, non dimenticare mai che tutto quanto oggi diamo per scontato è frutto di una stagione politica tra le più complesse della storia del nostro paese e soprattutto della ferma volontà umana, intesa come impegno pratico e ideale (il sale della politica) a rimuovere le cause generatrici di diseguaglianze, discriminazioni, coercizione, conformismo, etc. Certamente, non tutto quanto sognavano i costituenti e i tanti protagonisti della prima fase democratica della Repubblica ha trovato concreta attuazione. Alcune norme costituzionali non hanno ancora trovato integrale attuazione. Lo scontro ideologico e geopolitico che ha dominato la scena pubblica (italiana ed Europea) almeno fino al crollo del muro di Berlino (1989) ha frenato alcune riforme, ma tanti successi (anche insperati) hanno ripagato dagli sforzi intrapresi: in primis la costruzione dell’Europa unita che ha garantito la pace nel vecchio continente e ispirato molti paesi ad aprirsi alla cooperazione e al libero mercato. Se oggi osserviamo il rovescio di questa trama, ci accorgiamo di quanti intrecci è stato necessario imbastire per dare vita al miracolo del ricamo che ci si offre a prima vista. E’ vero che alcuni nodi restano ancora irrisolti (il persistere delle diseguaglianze per esempio) e che altri si manifestano in forma anche allarmante (il rifiuto delle differenze) ma la democrazia costituzionale è il regime delle possibilità; solo essa (in base alle esperienze praticate nel mondo) è in grado di infondere speranza perché tende a non escludere nessuno dalla sua gittata (tranne chi mette in discussione i suoi cardini di fondo: dunque è anche “escludente” ma solo verso chi non riconosce la lezione della storia, il dato dell’esperienza) e a non richiedere (paradossalmente) “professione di fede” neppure ai suoi nemici. Questo significa che, a differenza di altri sistemi di reggimento politico, la democrazia costituzionale è più a rischio, è facile cioè che subisca tensioni e finanche aggressioni mortali; ma chi si è battuto contro la dittatura fascista (e idealmente contro tutte le tirannie sia politiche che religiose che l’Europa ben conosce e che ancora sperimenta, seppure sotto mutate versioni) preferisce lottare quotidianamente per preservare le sue fondamenta, piuttosto che accettare le blandizie o le minacce di “nuovi Leviatani” che si aggirano per il mondo. Sarebbe, in sintesi, un errore immaginare chiusa la stagione della Costituzione del 1948 solo perché le forze politiche che l’hanno partorita sono scomparse, o ne resta qualche limitato strascico. “Le vere Costituzioni sono prodotti storici astratti, che perdurano indipendentemente e oltre il cambiamento dei partiti e degli uomini al potere” (G. Zagrebelsky, Diritto allo specchio, Einaudi, Torino, 2018, p. 192).

 

 

  1. La flessibilità del diritto

Quella di oggi è dunque una Costituzione dalle radici profonde, che guarda lontano perché sicura del proprio retaggio storico nonchè delle potenzialità che questo “motore” è ancora in grado di sprigionare. In essa si rispecchia una società diversa, la quale – a differenza del passato – deve mettere in conto la compresenza di nuovi bacini culturali, frutto dei grandi processi migratori in corso da alcuni anni scaturenti dai rivolgimenti sociali e politico-istituzionali attivi soprattutto in Africa e in medio-oriente. Questo scenario multiculturale ha bisogno, per essere governato, di soluzioni rinnovate, certamente diverse da quelle approntate quando lo spazio pubblico nel nostro paese risultava quasi del tutto mono-culturale. Per alcuni, il multiculturalismo è un problema che andrebbe confinato ai margini del discorso politico (almeno fino a quando non diventa pervasivo) nonché “risolto” partendo dal rigetto di alcune sue caratteristiche evidenti, come la religione per esempio (specie quella islamica), il cui “peso”, secondo certe chiavi di lettura non più marginali, risulta irriducibile ai canoni della democrazia liberare. A ciò si aggiunge il fenomeno del terrorismo di matrice fondamentalista che amplifica la percezione delle trasformazioni in corso e presta il fianco a interpretazioni (e manipolazioni) riduzioniste e schematiche del rapporto tra Islam, radicalismo a base religiosa e società aperta. Secondo un’altra chiave di lettura, invece, il multiculturalismo andrebbe studiato partendo, innanzitutto, dal contesto sociale all’interno del quale ha trovato progressivo radicamento, evitando semplificazioni e, soprattutto, mettendo a disposizione degli “altri” tutto quanto è costudito nel forziere della nostra tradizione costituzionale. In base a questa visione (possibilista e realista nello stesso tempo) non si devono certamente negare le difficoltà del confronto tra estranei, ma bisogna anche avere il coraggio di ri-scoprire e far funzionare gli strumenti lasciatici in eredità dai padri. La sfida consiste, allora, nel provare a rileggere le matrici di senso della nostra cultura, sulla base di un approccio “interculturale” (che non stabilisce priorità tra soggetti e sistemi di pensiero, ma prova a fissare connessioni funzionali alla comprensione e alla convergenza su soluzioni pratiche, di vantaggio per tutti) pluralista (disponibile cioè a non lasciare indietro nessuno e a valorizzare le differenze) e fiducioso verso le capacità risolutive del diritto (che non si trincera nel puro legalismo ma “ascolta” la società, vede le sue trasformazioni e si immedesima con essa). Da problema, allora, il multiculturalismo può diventare risorsa. Ma è chiaro che alla politica spetta il duro compito di ascoltare e vedere cosa succede nella società, proponendo soluzioni che hanno a cuore le sorti di una cittadinanza oggettivamente multiforme. Se, al contrario, prevale la regola che qualcosa (o qualcuno) deve restare fuori, oltre il “margine della legalità” – dove non esistono garanzie di alcun tipo per gli indesiderati – allora significa che neppure la Costituzione potrà salvarci e che il futuro del paese è nelle mani dei barbari.

La sfida, per concludere, consiste nel valorizzare (sfruttare) al massimo le proprietà del diritto costituzionale, soprattutto la sua flessibilità, la capacità cioè di armonizzarsi ai cambiamenti della società e di assecondare il suo profilo mutevole. Nello stesso tempo, si tratta di nutrire fiducia nelle capacità “difensive” della Costituzione, facendo appello ai suoi cardini valoriali (che oggi si intersecano con quelli elaborati a livello europeo) non per retrocedere di fronte ai mutamenti culturali, ma per rilanciare con soluzioni innovative e razionali. Il percorso è appena all’inizio. Ai giovani, soprattutto, spetta raccogliere la sfida e proporsi come attori protagonisti di questo scenario inedito.

Gianfranco Macrì

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dalla cattedrale ai non-luoghi. Soggettività globali

La libertà moderna aumenta di pari passo con la creazione di nuove forme di soggettività e queste ultime tendono, sempre più e sempre meglio, a svincolarsi dalle identità “segnate” tradizionali che non permettevano – era questa la logica “cattedralistica” premoderna – di fuoriuscire dallo spazio entro la quale esse risultavano da sempre inscritte. Nel passaggio fra il moderno e l’attuale, il processo dromologico si è radicalizzato e si è dovuto confrontare con l’emergere quasi inavvertito di una nuova entità che è diventata progressivamente sempre più autonoma rispetto all’azione dagli uomini.

Laicità, Europa, Mezzogiorno, Socialismo. A partire dall’attualità di Francesco De Martino

Quando lo storico Jacques Le Goff doveva datare il “suo” Medioevo, era sempre interdetto e approssimativo sul Sud Italia: alcune delle strutture giuridico-economiche del feudo avevano allignato nel Meridione fino al XVIII secolo; il confessionismo vissuto come pratica culturale, insieme a una visione rusticamente proprietaria del latifondo, sopravviverà fino a parte del XX. Le epoche storiche non si concludono per tutti allo stesso modo e non tutte le forme di secolarizzazione maturano, evidentemente, allo stesso modo.

Nell’Italia repubblicana, allora, quasi che si dovesse scontare il peso di un’organizzazione del potere invadente e spesso socialmente poco legittimata, fare una politica riformatrice e laica al Sud Italia apparve per lungo tempo complicato. Lo è probabilmente persino adesso, ma i problemi si sono evoluti: alle volte incancreniti, alle altre alleviati. La cultura meridionale, poi, ha sempre prediletto la discussione, il confronto, la ricerca teorica perseguita come ideale; il pragmatismo venato di accenti teologici calvinisti e protestanti non è mai stato maggioritario. Ne sia prova la grande stagione dell’Illuminismo italiano: intellettuali, che erano sudditi di corone diverse e che attività diverse svolgevano nella vita di ogni giorno, si univano intorno a una nuova e comune tavola di principi; sol che a Milano essa si nutriva di pragmatismo, di interlocuzione diretta coi poteri e con la mobilitazione immediata delle ricchezze, mentre a Napoli il sistema dell’autorità e dell’intermediazione era così complesso e stratificato da non consentire posizionamenti sempre altrettanto netti.

Il politico socialista Francesco De Martino (1907-2002), oltre a essere stato grande giurista e storico del diritto, ben conosceva queste tematiche perché alla modernizzazione del Sud Italia dedicò molto della sua attività politica. Lo fece ottenendo incarichi di primo piano nel partito nazionale, smentendo perciò, tra i primissimi, quel luogo comune che voleva il Sud preda di truppe cammellate dei partiti romani. De Martino fu segretario del Partito Socialista tre volte e in tre momenti di eccezionale gravità storica. Tra il 1963 e il 1966, quando giungeva a maturazione e in breve a senescenza l’esperienza del “centrosinistra”, da intendersi come stagione espansiva dei diritti sociali, non come coalizione odierna della politica. Tra il 1969 e il 1970, quando la strategia della tensione avvampava e la dialettica interna della Sinistra riformista sembrava esasperata ed esasperante. Tra il 1972 e il 1976, quando l’agenda legislativa si intestò il riformismo, le libertà civili e i primi lineamenti del garantismo processuale che, superati a fatica gli anni di piombo, porterà solo nel 1988 al nuovo Codice della Procedura Penale, ma già nel 1975 a una Legge Penitenziaria organica. Sta di fatto che De Martino raccoglie il suo primo segretariato da Nenni, il “padre” riconosciuto del socialismo autonomista repubblicano, e conclude il suo ultimo cedendone le insegne a Craxi, che nel Partito Socialista rappresenterà apogeo e discesa, unità e frammentazione, forza di governo e crisi della governance.

Occuparsi oggi di De Martino significa riconoscere che la battaglia per la libertà di coscienza all’interno dei partiti e a favore della democraticità della loro struttura non è finita. Il mandato imperativo usato come strumento per arginare i voltagabbana sarebbe una costrizione troppo forte per chi come De Martino aveva sempre ritenuto la democrazia interna a un partito o a un movimento espressiva della qualità della vita democratica di un Paese. Colpisce, inoltre, che tante battaglie di un tempo, che De Martino combatteva sin dal suo collegio di Chiaia-Posillipo proiettandosi fino alle vette ideali del dibattito europeo, abbiano così tanti specifici contrappunti nell’attualità delle ultime ore.

Cultore del confronto tra la sinistra italiana, divisa ed eterogenea, e quella francese, tradizionalmente più organica, al punto, quest’ultima, da non avere ancora assorbito la ascesa di un discutibile figliol prodigo come Emmanuel Macron; favorevole al voto secondo coscienza nella legislazione sui diritti civili: ieri si leggeva “aborto”, “divorzio”, “riforma del diritto di famiglia”; oggi “unioni civili”, “fine vita”, “procreazione assistita”. Favorevole a una legislazione attuativa del disposto costituzionale su partiti e sindacati, ancor non pervenuta (abbiamo maliziosa certezza che il ritardo di questa auto-riforma sia a base della frantumazione, della de-sindacalizzazione e della precarizzazione del lavoro, oltre che causa dell’insorgenza di una brutta, sbrigativa, demagogica, antipolitica). E De Martino fu pure favorevole all’unità programmatica tra i cattolici del dissenso – il vasto movimento ecclesiale che voleva una Chiesa nel secolo con la libertà ribadita e difesa dal Concilio Vaticano II, non con gli stilemi del temporalismo – e la sinistra socialista. Non sorprende se oggi tante rivendicazioni a mezzo stampa del Papa, per quanto a volte poco utili nella loro genericità o non molto attente alla libertà del confronto secolare di canalizzarsi nella propria autonomia, finiscano per diventare surrogato di un’azione rivendicativa della Sinistra, che sul fronte sociale appare indebolita, meno seguita e autorevole, meno assertiva e presente.

De Martino, socialista e libertario, visse l’ampio travaglio di tutta la sinistra che non sempre condivise la vocazione governativa del PSI e quella centralistica del PCI, dal Partito d’Azione fino alla vicinanza ai Democratici di Sinistra, tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila, quando i partiti di sinistra erano maggioranza di governo negli Stati membri della UE e in poco meno di un quinquennio dissiparono il loro consenso, il loro credito e soprattutto la loro capacità di lettura del reale.

De Martino divenne senatore a vita nel 1991, nominato da un Presidente della Repubblica, Cossiga, che era stato per decenni agli antipodi del grande romanista italiano: non garantista, non ostile al temporalismo, non pacifista. La nomina fu ovviamente giustificata per gli altissimi meriti di De Martino nel campo civile, letterario e scientifico. Le maggiori opere di De Martino guidano ancora oggi gli studi romanistici tutti, non solo giuridici; si soffermano sulla “costituzione” e sulla economia romana. La storia economica è il contesto sostanziale entro cui si muovono le relazioni tra i privati. Costituzione altro non è, ci suggerisce Calamandrei, che storia della configurazione giuridica delle istituzioni di un popolo. Patrimonio laico di ogni tempo e in ogni tempo da dover rinnovare.

Il cittadino lavoratore e lo Stato costituzionale

  1. Le Costituzioni europee tendono a contemperare il funzionamento del mercato con la tutela delle persone e dell’utilità sociale, ma solo quella italiana considera con sincerità l’astrattezza dell’uguaglianza solo formale e mira a rimuovere le condizioni che ostacolano la pari dignità sociale (art. 3.2) perché “riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo” e al contempo “richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (art. 2 Cost.).

Il principio giuridico di solidarietà non è espressione di beneficenza o assistenza: riguarda la condizione di un gruppo in cui quelli che prestano solidarietà e quelli che ne beneficiano hanno ruoli reversibili e interscambiabili e la loro relazione non è diretta ma mediata dalle istituzioni. Questo modo di intendere la cittadinanza rende ognuno potenzialmente responsabile della soddisfazione dei bisogni altrui e aperto verso la società: recepirlo comporta affermare il primato della politica (e del diritto) sull’economia.

  1. L’attuazione del principio di solidarietà ha il suo baricentro nel diritto del lavoro “la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove tutte le condizioni che rendano effettivo questo diritto” e solo il cittadino-lavoratore può esercitare compiutamente i diritti e adempiere ai connessi doveri, concorrendo “al progresso materiale e spirituale della società” (art. 4 Cost.).

Ma già nell’Assemblea Costituente, Nitti affermò “dobbiamo dare al popolo italiano, con ogni sforzo, una sensazione di vita, non false illusioni (..) al fine di non promettere oltre ciò che si possa attuare in un avvenire non troppo lontano” e nella relazione di Ruini al progetto dell’art. 4 si legge: “l’affermazione del diritto al lavoro, e cioè di una occupazione piena per tutti, ha dato luogo a dubbi da un punto di vista strettamente giuridico, in quanto non si tratta di un diritto già assicurato e provvisto di azione giudiziaria”. Il diritto al lavoro fu posto come un onere, per il legislatore, di aumentare l’occupazione (sia nel lavoro subordinato sia nel lavoro autonomo), secondo le concrete possibilità di intervenire sull’offerta e sulla domanda di manodopera. La figura del cittadino-lavoratore andava a sfumare proprio mentre veniva disegnata.

  1. Le aspettative coltivate nel Novecento sono molto mutate. In tante situazioni (che forse aumenteranno nel futuro) il cittadino può non essere in grado di mantenere sé e la sua famiglia, per cause a lui non imputabili, perché privo di un reddito da lavoro (o di una pensione) che renda questo possibile (art.38.1 Cost.). Solo gli enti pubblici possono attivarsi per garantire alle persone (adulti maggiorenni, minorenni e anziani indigenti) i “mezzi necessari per vivere” una esistenza “libera e dignitosa” (art. 36.1 Cost.) in una società che, nonostante i suoi ingravescenti problemi, abbonda ancora di beni materiali, evitando che la protezione degli individui sia rimessa alla carità dei privati.
  2. Nelle società odierne sopravvivere è diventato possibile in casi nei quali in passato era impossibile e impossibile in casi nei quali in passato era possibile: è sempre meno un feno­meno solo natu­rale e sempre più un feno­meno arti­fi­ciale e socia­le. La disoccupazione strutturale e le migrazioni di massa mostrano che per tanti la semplice vo­lon­tà di lavo­rare non basta per vivere.

In termini diversi dalla nostra Costituzione, ma più consoni alla realtà presente, l’art. 34.3 (Sicurezza sociale e assistenza sociale) della Carta di Nizza, parte integrante dei Trattati dell’Unione, nel capo IV (Solidarietà) prevede che: “Al fine di lottare contro l’esclusione sociale e la povertà, l’Unione riconosce e rispetta il diritto all’assistenza sociale e all’assistenza abitativa volte a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti, secondo le modalità stabilite dal diritto comunitario e le legislazioni e prassi nazionali”. La norma sancisce lo ius existentiae come diritto fondamentale, condizionandolo esclusivamente a uno stato di bisogno: ma usa il termine solidarietà per quella che in realtà è una forma di assistenza. Si accetta che alcune categorie di persone siano prive di vera autonomia: cittadini di secondo livello, quasi come stranieri rispetto alla gestione della cosa pubblica, ai quali è riservata un’esistenza dignitosa (forse) ma non libera.

  1. Le condizioni delle popolazioni vivono trasformazioni, per lo più silenziose, con velocità e forze variabili e imprevedibili ma certamente continue. Quella attuale è il risultato della debolezza dei singoli. L’oscuramento dell’idea del cittadino-lavoratore si intensifica con il diminuire delle persone che hanno un lavoro stabile e corrispondente alle loro migliori inclinazioni. L’incertezza del lavoro allontana da una partecipazione sana alla vita politica o, comunque, la rende materialmente più difficile, e spinge gli individui marginalizzati verso opzioni politiche opportunistiche e dal respiro breve. Aumentando la disaffezione alla vita politica, diminuisce la legittimazione dei governanti e la loro possibilità di adottare scelte rilevanti. Con la crisi dei partiti, la democrazia fondata sul suffragio universale si trasforma in un sistema acefalo oppure degenera in oligarchia o in autocrazia.

Tre facce dello stesso prisma: la legittimazione interna degli Stati diminuisce per lo scarso esercizio del dovere civico di votare e di associarsi liberamente (artt. 48-49 Cost.) “in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” (perciò dovrebbe sanzionarsi l’inadempimento del dovere di votare e vanno fissate norme per assicurare la democrazia dentro i partiti): gli Stati perdono sovranità, perché il futuro delle popolazioni dipende meno dalle loro scelte e più da decisioni extra‑statali o da meccanismi economici mondiali; la democrazia rappresentativa mantiene le sua forma ma perde sostanza a causa dell’asimmetria tra il carattere globale dei mercati e quello ancora prevalentemente statale della politica e del diritto.

Tuttavia, in Europa la democrazia costituzionale può mantenersi se si evolve a un livello sovrastatale: uno Stato sovranazionale potrebbe restituire alla politica il governo dell’economia e della finanza e al diritto il ruolo di garantire le libertà fondamentali e i diritti sociali. Manca una volontà sociale forte in questa direzione.

 

                                                                                                                                                                                                       Angelo Costanzo

Laureato in giurisprudenza e in filosofia, ha lavorato in tutti i settori della magistratura giudicante anche con funzioni direttive. Si è impegnato nell’insegnamento universitario, nella formazione per le professioni legali e nel confronto con altre professioni, pubblicando fra l’altro: Condizioni di incoerenza (Giuffré,1992); Teoria generale del diritto (Giappichelli,1998); Livelli del biodiritto (ISB,2002); L’argomentazione giuridica (Giuffrè,2003); Logica dei dati normativi (Giuffrè, 2005); Il vizio di mente fra categorie giuridiche e categorie scientifiche (Bonanno,2007); I reati contro la libertà sessuale (Utet, 2008).

La politica tra progettualità e mera contingenza

La politica serve ancora all società?
L’idea di “sociale” è strettamente legata ad una dimensione antropologica, risalente nei secoli, che ha dato luogo all’altra idea risalente, che è quella di “politica”. Entrambe queste idee si sono tradotte in concetti individuanti entità umane riconoscibili in quanto omogenee (quali che siano i tratti in cui rilevi l’omogeneità). Tale processo identitario, che riguarda sia il sociale che la dimensione politica, è caratterizzato dalla emergenza del confine come dato materiale, che diviene anche simbolo ideale, di separazione tra un “di qua” e un “di là”, e quindi di inclusione e separazione – esclusione.

L’utile, la “Buona Scuola” e il diritto alla noia

Un tempo il totalitarismo era politico e circoscritto in uno o più Stati. Oggi è la politica a essere sotto scacco di un totalitarismo più potente e più invisibile che pervade ogni settore e che valica i confini statali per divenire globale. Per questo anche l’istruzione è merce, segue le regole del Mercato, del guadagno, di ciò che questa società controllata dal Mercato considera “utile”. Non si studia più per piacere o diletto, non si amano più i libri, ma si usano come mezzi e fonti di guadagno.

Mondo Cane

Il cane è l’amico dell’uomo per antonomasia. Eppure, l’espressione “mondo cane” non solo è entrata nel linguaggio comune, ma è stata utilizzata negli anni ’60, e dopo, quasi fino ad oggi, in alcuni documentari – “verità” per illustrare gli orrori del mondo.

Già nel 1924 Hound dava il titolo ad un racconto horror di Howard Phillips Lovercraft, pubblicato sulla rivista Weird Tales, nel quale la figura del cane (da caccia, hound appunto) era associata ad una vicenda nella quale la negromanzia svolgeva un ruolo decisivo, fino a condurre a morte i due protagonisti.

C’è allora da chiedersi come mai questo animale, domestico per eccellenza, presti però la sua immagine a rappresentare aspetti truculenti e violenti della vita umana; forse, ma è solo una timida ipotesi, perché il cane viene ricondotto ad alcune specie di canidi, come lo sciacallo, il coyote ed il lupo, che propriamente domestici non sono. In più, lo stesso cane, in altre culture, che non sono quella europea ed occidentale in generale, è oggetto di combattimenti e di sacrifici, fino a divenire cibo per gli uomini. Ma senza arrivare a questi eccessi che oggi ci sembrano “esotici”, fino a qualche tempo fa tutti avevamo presente cosa volesse dire guardarsi “in cagnesco” e cosa volesse dire, dopo una sfida perduta, ritirarsi “con la coda tra le gambe”. In generale, era del tutto ovvio constatare che il “mondo” canino, pur connotato da dimostrazioni di sensibilità e, in senso lato, di affettuosità, può diventare facilmente il simbolo di una condizione umana segnata dal disagio della lite e della sconfitta. Da qualche tempo a questa parte, tuttavia, il cane ha assunto nella società contemporanea un ruolo indiscutibilmente ed esclusivamente benigno: quello del migliore amico di cui l’uomo (è ovvio che usi il termine al di là della specificità di genere), penso a quello italiano di oggi, possa beneficiare. E da qui intendo cominciare la mia riflessione.

La società italiana contemporanea è affetta da una intensa ondata di cinofilia. Che si sia in coppia oppure singoli, donne e uomini esibiscono il loro cane, ovunque: non solo per strada, che è il luogo più ovvio e che, ora, ha anche la capacità di farne balzare agli occhi la cospicua quantità, ma a teatro, in chiesa, in autobus, in treno e in aereo, nelle trattorie e nei supermercati ecc. Per non parlare del commercio, che attorno al cane si sta sviluppando: dai negozi “dedicati”, dove la specializzazione si associa spesso alla ricercatezza nel campo della nutrizione e dell’abbigliamento (sì, proprio, “abbigliamento”), alle pubblicità che circolano sui media, alla specializzazione veterinaria, fino al contributo dello psicologo.

Insomma dire oggi “mondo cane”, significa rappresentare un mondo ove l’orrore dei documentari-verità è del tutto sostituito dal benessere e dal confort che quell’animale dispensa all’uomo. A voler essere realisti, nel mondo contemporaneo, quei documentari di denuncia dovrebbero sostituire nel titolo alla parola “cane” la parola “uomo”, anche se mentre “mondo cane” eufonicamente è accettabile, “mondo uomo” non funziona. Eppure, è proprio perché oggi esiste un “mondo uomo”, come luogo di violenza e di orrore pubblico e privato, che il cane ha il suo straordinario successo nell’ambiente umano.

Vorrei spiegarne il perché, dal mio punto di vista.

Il cane rappresenta per l’ Io l’antidoto contro il rischio dell’alterità e della differenza; meglio: dell’alterità, in quanto differenza strutturale, nel senso che “alterità” e “differenza” sono termini che identificano concetti non separabili e privi di ogni significato valutativo. Il cane, infatti, consente al suo proprietario – padrone di esprimere e manifestare quella affettività, quel bisogno di non essere solo, senza correre il rischio della non corrispondenza, e quindi della delusione. Il cane corrisponde alla richiesta di riconoscimento affettivo del padrone senza alcuna fatica per quest’ultimo; l’“alterità” canina si pone sul piano della non competizione umana e la differenza stessa, poiché anche questa non è umana, non espone al pericolo dell’ignoto. In fondo, il rapporto Io – cane si presenta come un circuito emotivo, con il quale l’ Io può manifestarsi con quella immediatezza espressiva che gli evita anche il lavorìo psicologico di rappresentarsi al mondo come un “sé”. Il cane è, quindi, un’entità vivente ma “altra”, nel senso specifico che esiste su di un piano che non è umano. Per questa ragione la sua “alterità” è innocua e, in più, emotivamente disponibile alla richieste di riconoscimento del padrone. In altre parole, esso costituisce il tramite di un percorso circolare indispensabile per ri-condurre all’Io la possibilità di dar vita, nella sua realtà quotidiana, ad un rapporto con un’entità altra, con un’“alterità” che non sia in alcun modo rischiosa. Attraverso il cane, il suo padrone non corre il rischio che l’alterità sia una sua mera immaginazione né quello di un desiderio destinato a rimanere insoddisfatto. Una alterità, infine, che evita il maggior pericolo che pervade l’ambiente sociale odierno: quello di un individualismo monadico-competitivo.

Un corollario. Il percorso circolare padrone – cane – padrone soddisfa una ulteriore esigenza: quella propria di mascherare di fronte al se stesso e al mondo la propria insicurezza e solitudine.

Questo attuale “mondo cane”, nella versione esclusivamente benigna che ho rapidamente descritto, apre una questione che va ben oltre la quotidianità canina; esso mette a nudo una dimensione antropo-psicologica che investe e conforma l’ Io nelle società contemporanee. Mette a nudo la perdita di una dimensione, che potremmo definire ontologica, dell’esistenza umana e di un’altra che propriamente è storico-culturale. La dimensione ontologica si individua nella strutturalità della relazione Io – Tu; strutturalità ontologica in quanto derivante dalla finitudine esistenziale di ciascun Io. Quella storico-culturale prende corpo e visibilità nel Noi, in quanto risoluzione storico-politica di diversi modi di concepire la vita associata, oltre l’originario Io – Tu. Dimensioni, quella ontologica e quella storico-culturale, che nella storia dell’occidente hanno formato, spesso anche in modo tensivo e dialettico, una antropologia capace di costruire un mondo umano nel quale Io – Tu – Noi sono stati i pilastri sui quali la nostra Ragione teoretica ha costruito una filosofia politica e giuridica, un pensiero sociale ed istituzionale e l’istanza etica.

La società contemporanea, un tempo definita come “post-moderna”, non credo che, oggi, sia definibile ancora così. Il post-moderno, infatti, ha segnato una stagione culturale nella quale il pensiero ha portato a compimento, dissacrazione e dissoluzione quella visione del mondo che la Ragione aveva allestito tra 700 e 800. La gran parte del‘900, nella sua esplicazione post-metafisica e post-sistematica, ne ha allestito la strada. Per fare solo un esempio, basti pensare alla torsione della teoresi intorno alla verità in quella della utilità, che include altre torsioni. Tuttavia il pensiero novecentesco ha introdotto e costruito la post-modernità usando le medesime categorie filosofiche della modernità: Nietzsche non avrebbe mai potuto dissacrare Hegel senza la categoria teoretica della “storia” hegeliana. O l’esistenzialismo non avrebbe potuto soprattutto ripensare la soggettività senza la “postilla” kierkegaardiana. E questo è stato solo l’inizio. Come potevano affermarsi una filosofia empiristica e linguistica senza discutere nel profondo la tradizione ontologico-metafisica? e così via. Dunque la post-modernità, pur con la “liquidità” dei suoi concetti e delle sue visioni umane, è stata, però, un “pensiero”, cioè un apparato di ragionamenti capace di produrre una rappresentazione del mondo sulla quale l’uomo era portato a riflettere e discutere.

La contemporaneità, invece, non solo non ha un pensiero, ma non è un pensiero, poiché sono venute meno le condizioni per le quali la mente umana possa “pensare”. Mi spiego.

Il pensare, del quale il ragionare è la sua dimensione articolata in rappresentazioni ideali e concettuali espresse dal linguaggio, sia alfabetico che iconico, implica come premessa strutturante quella costituita dalla categoria della “temporalità”. Il pensare consiste in una successione seriale di attività mentali, originate dalla esperienza materiale dell’incontro dell’uomo con il mondo. Il conoscere, che ne è un possibile esito, è poi la traduzione elaborata dall’attività della ragione dell’incontro con il mondo in rappresentazioni concettuali.

Pensare, come premessa del conoscere, e la connessa espressione linguistica, corrispondono a specifiche attività cerebrali, come spiega Lamberto Maffei in un suo libro di qualche anno fa (Elogio della leggerezza, Il Mulino, Bologna 2014), nelle quali sono impegnate le aree di Broca e Wernicke, la prima legata alla formazione del pensiero, la seconda alla comprensione del linguaggio. Queste attività cerebrali hanno come determinante e, direi, strutturante per le loro operazioni, il fattore “tempo”.

Questo è il punto-chiave. E’ su questa proprietà, infatti, della parte sinistra del nostro cervello che si determina una diversità di risposta cerebrale che determina un modo diverso di agire della persona. Si tratta della diversità tra gli effetti prodottisi a partire da eventi ricevuti in successione temporale, come avviene per la comunicazione linguistica, ed effetti derivati da stimoli visivi. “La vera rivoluzione evolutiva nel lobo sinistro – scrive Maffei – non riguarda solo il linguaggio ma anche i meccanismi nervosi che generano le stringhe di eventi legati tra loro nel tempo in maniera tale che, nella maggior parte dei casi, solo la stringa assume significato. Per questa ragione propongo di chiamare l’emisfero linguistico ‘emisfero del tempo’. Le stringhe di eventi legati tra loro sono la base del ragionamento, e contrastano ad esempio con la comunicazione visiva, dove gli eventi nervosi concernenti un’immagine non sono in serie ma in parallelo, in quanto sono trasmessi contemporaneamente, tutti insieme. Si potrebbe dire che la comunicazione visiva, al contrario di quella linguistica, è atemporale” (pp.54 – 55, il corsivo è mio).

Il fattore “tempo” dunque non è solo un’idea della mente, ma appartiene allo stesso strutturarsi e svilupparsi della funzione cerebrale; la conseguenza è decisiva per il comportamento umano prodotto dalla forma dei modelli comunicativi e dalla loro frequenza e prevalenza nell’ambito dell’agire sociale. Se al modello linguistico si sostituisce, in modo prevalente e direi abitudinario, quello visivo, si avrà una sorta di riformattazione del cervello, il quale, come quello di qualsiasi altro muscolo, modifica lo sviluppo delle sue parti, rafforzando quelle più impegnate e riducendo le potenzialità di quelle meno impegnate.

Se i modelli comunicativi sono quelli che, da sempre, mettono in forma un ambiente sociale, allora occorre chiedersi in che misura l’attuale modello comunicativo operi in base a due fattori: la sua struttura strumentale e il suo destinatario.

La struttura strumentale è quella propria di una tecnologia informatico-digitale, il cui fine è l’immediatezza degli effetti comunicativi. E’ una tecnologia il cui obiettivo è realizzare effetti in tempo reale; dove, per “tempo reale” intendo una tecnologia il sui successo sociale si fonda sulla capacità di inviare messaggi in modo da realizzare, proprio, reazioni immediate. Quasi che il fine ed il successo della comunicazione consista nell’immediatezza della reazione del destinatario, sia sotto forma di parola che di decisioni o più genericamente comportamenti.

In altre parole, quello avviato dalla attuale tecnologia è un modello comunicativo che punta sull’impatto dell’evento, prodotto dalla immediatezza a-temporale della dimensione visiva, annullando l’intervallo tutto temporale tra la comunicazione linguistica, la lettura e la riflessione; una procedura, quest’ultima, che proprio nella temporalità della successione degli eventi consente di sviluppare il pensare ed il ragionare.

Il secondo fattore riguarda il destinatario della comunicazione. Quest’ultimo è costituito dall’utente – massa, il quale è esposto in modo del tutto passivo ad una molteplicità di meccanismi comunicativi, dai social network a Whatsapp a Twitter che lo illudono di essere partecipe attivo del villaggio globale della comunicazione senza confini. L’immediatezza del “tempo reale”, allena il suo cervello a reazioni immediate, nelle quali alla riflessione razionale si sostituisce una sorta di pulsionismo emotivo. E questo accade proprio perché l’atemporalità del visivo si è sostituita alla temporalità del ragionamento.

Un tale modello comunicativo, appartenendo ormai alla abitudine mentale dell’uomo contemporaneo, invade necessariamente anche la dimensione del politico, trasformando, quest’ultimo, in una sequenza di spot capaci di produrre impatto emotivo e quindi risposte ambientali valide nella a-temporalità dell’immediato. Non deve stupire, quindi, che oggi la politica sia priva di progettazione ideale, per la ragione che il “cervello” dell’attuale classe politica ha perso la funzione delle temporalità, e quindi del pensare e ragionare, per essersi conformata a quella della atemporalità dell’impatto. La battuta: “siamo sempre in campagna elettorale” o la stessa impossibilità di operare riforme che hanno come spazio temporale il “futuro” (si pensi alla rischiosa complessità sociale che investe la vita dell’uomo contemporaneo in tutto il pianeta) hanno origine proprio nella perdita della temporalità di qualsiasi modello comunicativo destinato ad un utente – massa. E quest’ultimo viene evidentemente pensato come sensibile alla pulsione provocata da argomenti e parole che si fermano alla cosiddetta “pancia”; in altre parole l’utente-massa non ha più una testa.

Un tale tipo di comunicazione investe ogni campo della vita, non solo quella pubblica, ma anche quella privata. Un esempio per tutti: facebook, dove si realizza ad un tempo la globalizzazione della notizia, la esibizione visivo-atemporale di un se stesso, consegnato ad immagine esteriore, ed una reazione che si riduce, perché non può andare oltre, ad un immediato I like.

Un tale tipo di comunicazione, che gioca tutta la sua efficacia sulla atemporalità, priva gli utenti della soggettività della riflessione e del ragionamento e del relativo, articolato ed adeguato linguaggio destinato a veicolare il ragionamento. Così facendo, si rende sterile ogni rapporto interpersonale, rinsecchendo ogni possibilità di relazione inter-soggettiva, la quale, invece, si costituisce proprio sulla temporalità della durata. Tra il tocco di un I like e un dialogo tra due amici corre tutta la differenza strutturale che passa tra il vivere nel tempo e l’agire nell’immediatezza del momento.

Allora, perché meravigliarsi se i giovani di oggi, formatisi alla tecnologia dell’impatto, hanno perduto l’idea stessa della Storia e della sua costitutiva diacronicità e, con essa, la capacità di pensare e ragionare per un futuro? La ragione è terribilmente semplice: tale categoria è scomparsa dalla loro abitudine mentale. Perché loro, come l’uomo medio peraltro, hanno perso la capacità di relazioni intersoggettive effettive, nel senso di pensate come durevoli e non concepite come strutturalmente effimere? Per la ragione che il mondo dei messaggini riduce il linguaggio a semplice manifestazione di emozioni momentanee, non a caso adeguatamente espresse, peraltro, soprattutto dalle “faccette”.

Ecco perché il mondo che viviamo ogni giorno è diventato “mondo cane”; per lo meno i cani hanno ancora un loro modo di manifestare la durevolezza di una relazione vivente con il padrone: leccano e abbaiano.