Il Timeo di Platone

Il Timeo di Platone

di Francesco Fronterotta

[drop_cap style=”2″ bgcolor=”#dddddd” color=”#787882″]I[/drop_cap]l Timeo, composto fra il 355 e il 350 a.C. e appartenente perciò all’ultima fase della produzione di Platone (che morì, mentre era intento alla redazione dell’ultima sua opera, le Leggi, nel 347), è un dialogo peri phuseos, sulla natura. Ma tale precisazione non chiarisce in nessun modo l’oggetto dell’esame che vi è condotto né giustifica l’ampiezza e la varietà degli argomenti che gli interlocutori del dialogo si dedicano via via ad affrontare, con accenti, modalità e lunghezza di volta in volta assai disuguali. In linea di principio, e in via del tutto preliminare, è possibile osservare che il Timeo doveva offrire, insieme con il Crizia e forse con l’Ermocrate, che non fu mai scritto, un quadro complessivo che permettesse di fondare en te phusei, “nella natura”, quei tratti ideali, e in qualche misura utopici, della città perfetta che Socrate aveva presentato nella Repubblica e riassunto per sommi capi proprio all’inizio del Timeo (17c-19c). Si può quindi immaginare che, per legittimare un’adeguata fondazione della città perfetta nella concretezza del divenire e della storia, si debba innanzitutto procedere esaminando l’educazione, la costituzione e l’origine degli uomini che ne saranno i cittadini e, avanzando ancora a ritroso lungo questo percorso, il principio, la composizione e la struttura dell’intero universo, nel quale e a partire dal quale gli uomini trovano la loro origine. Infatti, solo a condizione di mostrare che l’universo e i viventi che lo popolano manifestano una qualche forma di equilibrio, di armonia e di perfezione, diverrà possibile pensare che la fondazione di una città perfetta, costituita cioè secondo il modello dello stesso universo e con il materiale “umano” effettivamente disponibile, sia concretamente e storicamente verosimile e credibile. Una volta individuato così il fondamento di legittimità del discorso intorno alla città perfetta, l’esposizione potrà progredire ulteriormente, giungendo a proporre un resoconto, a metà strada fra la storia e il mito, del comportamento “reale” della città perfetta e dei suoi cittadini, delle sue azioni belliche e dei suoi straordinari exploits. Timeo discuterà perciò, nel Timeo, della “natura dell’universo, (…) cominciando dall’origine del cosmo e fino alla natura dell’uomo”, mentre Crizia, nel Crizia, “come avendo ricevuto [da Timeo] gli uomini cui ha dato vita con il suo discorso (…), dopo averli condotti davanti a noi come fossimo giudici”, ne farà “i cittadini di questa città, gli ateniesi di quell’epoca, che, da oscuri che erano, la tradizione dei testi sacri ci ha riportato alla memoria”, parlandone “come di nostri concittadini e di ateniesi” (Tim. 27a-b).

Il primo e fondamentale interrogativo che si pone per ogni discorso cosmologico, o quantomeno per quello che il Timeo si propone di condurre, è certo il seguente: il mondo ha un inizio nel tempo oppure è eterno? In prima battuta, il Timeo sembra fornire una risposta esplicita al nostro interrogativo. Infatti, alla domanda se il cosmo (1) sia sempre stato (en aei); oppure (2) sia nato (gegonen), Timeo replica netto (28b-c): il mondo “è nato” (gegonen) e ciò, inoltre, “per azione di una causa”, un’affermazione che pare supporre, quale che sia l’interpretazione del dialogo nel suo insieme, un “inizio” della vicenda cosmica. È vero, naturalmente, che il verbo greco gignesthai significa sia “divenire” sia “nascere”, nel secondo caso soltanto, dunque, implicando la “nascita” dell’universo, cioè la sua generazione nel tempo, mentre nel primo caso, se l’universo “diviene”, ciò significa semplicemente che si tratta di una realtà instabile e soggetta al mutamento e che in un certo senso si genera e si corrompe continuamente (o si generano e si corrompono gli enti in esso contenuti), il che non implica però che sia “nato” in un momento determinato del tempo, cioè che se ne possa porre un “inizio”. Vi sono però ragioni per supporre che il mondo sia stato generato, e che dunque abbia avuto un inizio nel tempo, e in particolare il fatto che viene chiamato in causa un demiurgo divino che lo genera e che, di conseguenza, se ne descrive concretamente la generazione. Ma anche questo argomento, apparentemente inconfutabile, risulta tuttavia in qualche misura controverso, perché dipende dallo statuto narrativo, letterale o metaforico, che si attribuisce all’esposizione di Timeo e al ruolo che in essa viene così attribuito al demiurgo cosmico. Le due questioni, dell’origine o dell’eternità del mondo e della natura dell’artigiano supremo che lo ha prodotto e della sua azione produttiva, sono perciò indissolubilmente connesse.

Il demiurgo è infatti colui il quale riproduce nel tempo l’ordine e la disposizione delle realtà eterne, così fabbricando le cose sensibili assumendo come modello le idee intellegibili. Ora, fra le numerose questioni che una simile ipotesi, appena evocata, suscita, ne sottolineo particolarmente una, a mio avviso fondamentale per l’attuale esame: il demiurgo agisce nel tempo o al di fuori del tempo? In altri termini: con la figura del demiurgo, che rinvia all’esigenza di una mediazione fra le realtà atemporali e le realtà temporali, Platone vuole farci intendere che tale mediazione fra l’atemporale e il tempo (1) sussiste da sempre, al di fuori del tempo, sicché quella del demiurgo è di fatto una metafora, oppure (2) che essa ha avuto un inizio nel tempo, sicché il demiurgo va concepito allora come una figura personale, caratterizzata da una volontà e da una capacità di decisione che si esplica in base a un piano o a una previsione razionale? Questa è, evidentemente, la difficoltà principale posta dall’esposizione del Timeo. Ma le risposte possibili a tale domanda comportano entrambe delle temibili difficoltà. (1) Se infatti la mediazione demiurgica fosse originaria ed eterna e al di fuori dal tempo, bisognerebbe allora supporre o (A) che essa è in atto già da sempre, sicché, dunque, la funzione demiurgica non si configura come un’azione deliberata, ma come metafora di uno stato di cose o di una condizione che sussistono da sempre, e occorrerebbe in tal caso spiegare in che modo, negando di fatto che si dia un’effettiva generazione dell’universo che, anch’esso, sussisterebbe da sempre come una realtà eterna; oppure (B) che, trattandosi invece di un’azione deliberata di produzione e di modellaggio di un materiale informe, essa si estende letteralmente da un “prima” a un “poi” (perché, se la mediazione demiurgica si presenta come una vera e propria azione deliberata, vi saranno in tal caso un “prima” e un “poi” di questa azione, un momento o una condizione che la precedono e un momento o una condizione che la seguono), introducendo così nuovamente una scansione temporale e, di seguito, un principio o un’origine di tale produzione. (2) Ma se, di conseguenza, il demiurgo possiede questa funzione, se è davvero una “causa” cosciente e responsabile nella misura in cui compie un progetto che, come tale, deve avere un inizio o un punto di partenza, si cade nell’ulteriore difficoltà di dover giustificare sul piano razionale una simile funzione demiurgica associata all’intervento di una divinità personale. Mi pare si tratti di una difficoltà da non sottovalutare per un filosofo, come Platone, che fa dipendere di fatto l’ordine e la disposizione di tutte le cose da un set di modelli eterni, le idee, la cui struttura viene riprodotta su un materiale sensibile altrettanto eterno. Che spazio c’è, infatti, nell’interazione fra un modello e un materiale eterni, per un agente cui si attribuisce l’inizio o l’origine, nel tempo, di tale interazione? Da dove viene questo agente, di cui non sembra esservi traccia negli altri dialoghi? Perché e come questo agente avrebbe scelto un momento in cui dare inizio a tale interazione? A cosa servivano i modelli e il materiale eterno prima dell’intervento del demiurgo? Queste sono solo alcune delle questioni che, nella prospettiva di un’interpretazione letterale del Timeo, rimangono senza una soluzione soddisfacente.

Bisogna allora rivolgersi direttamente, per saggiare la coerenza della concorrente interpretazione metaforica, alla figura del demiurgo. “Costruttore e padre del tutto” (28c), il demiurgo è, innanzitutto, “buono” (29e e passim) il che implica che l’opera da lui compiuta sarà la migliore possibile. Egli possiede molteplici competenze, tecniche e intellettuali a un tempo: plasma la cera (74c), fonde i metalli e lavora il legno (28c; 33b), riunisce armoniosamente le diverse parti della sua opera (30b; 33d); più in generale, è l’artigiano che fa apparire l’ordine universale nel disordine cosmico (53b; 75d) e, allo stesso tempo, l’intelligenza (nous) che “riflette” (30b; 34a; 52d; 55c), “considera” (33b), “parla” (41a-e), “si rallegra” (37c) del prodotto realizzato e della sua somiglianza al modello eterno. In questo senso, il demiurgo rappresenta legittimamente la causa della generazione delle cose sensibili, cui conferisce la forma e la struttura dei paradeigmata ideali, pur rimanendo entro i limiti imposti dalla “minorità” e dall’imperfezione del mondo sensibile: il divino artefice non compie quindi in nessun modo una creatio ex nihilo, perché è costretto a operare nel contesto degli elementi già esistenti a sua disposizione, ai quali può, semplicemente, attribuire un ordine determinato. Ciò spiega l’uso in apparenza stravagante, da parte di Platone, del termine demiourgos, che indica a un tempo l’attività produttrice degli artigiani e la funzione regolatrice dei magistrati: come artigiano, il demiurgo dalle molteplici competenze tecniche e meccaniche “lavora” la materia informe; come magistrato in seno a una comunità, stabilisce l’ordine della sfera sensibile, adeguandolo, per quanto possibile, alla “legge” delle supreme realtà. Diviene così piuttosto chiara la funzione filosofica della figura del demiurgo: trait d’union ontologico fra le cose sensibili e le idee intellegibili, ma diverso da entrambe, egli contempla il mondo delle idee per riprodurne l’immagine nel mondo sensibile su cui ha il potere e la capacità “artigianale” di agire; d’altra parte, può agire sul mondo sensibile proprio in quanto ha il potere e la capacità “intellettuale” e “regolativa” di contemplare e riprodurre in esso l’immagine delle idee. Abbiamo a che fare insomma con l’indicazione di una serie di competenze tecniche o operative del demiurgo, che non contraddicono una sua rappresentazione funzionale e metaforica né pare lecito sostenere che, nell’esercizio delle sue funzioni, il demiurgo metta in atto una volontà personale e che proceda perciò ad azioni propriamente deliberate, dal momento che, nei passi del dialogo in cui si fa riferimento a una “volontà” del divino artefice (cfr. per esempio 30a6-c1; 41a7-c6; 42d2-e4), risulta abbastanza chiaro che ogni sua possibile azione è necessariamente e invariabilmente condizionata dalla perfezione della sua natura, sicché egli non può che produrre l’ottimo, nei limiti del possibile, al punto che, anzi, là dove emerge l’esigenza di popolare il mondo di viventi mortali, il demiurgo affida il compito della loro generazione agli dei suoi aiutanti, appunto perché, essendo a lui inferiori, potranno costituire creature mortali, cioè inferiori a quelle che, se egli se ne assumesse il compito, necessariamente (dunque anche contro la sua volontà) costituirebbe immortali (41a-c). Resta però la questione fondamentale: anche ammettendo la maggiore plausibilità di una comprensione metaforica, e non letterale, della figura e dell’azione produttiva del demiurgo cosmico, come conciliarla con l’indicazione di partenza di un inizio di tale azione, e della vicenda del cosmo cui essa dà avvio, che pare invece da assumere letteralmente?

Si deve tornare a tale proposito alla distinzione fondamentale, che viene stabilita in 27d-28b, fra un genere di realtà “che è sempre, senza avere generazione” e un genere di realtà “che sempre diviene, senza mai essere”; il primo genere di realtà, in quanto è eterno, immobile ed esente da generazione e corruzione, consiste delle idee intellegibili, che possono essere conosciute attraverso il pensiero e il ragionamento, dando luogo a una conoscenza e a un discorso veri perché sempre identici a se stessi, mentre il secondo genere di realtà, in quanto diviene nel tempo, si muove, si trasforma ed è soggetto a generazione e corruzione, consiste nell’insieme delle cose sensibili, che costituiscono l’oggetto di una conoscenza e di un discorso solo parziali e imperfetti. Ciò comporta che il discorso di Timeo, poiché riguarda l’universo (che è una realtà, o un insieme di realtà, sensibile, mutevole, soggetta alla generazione e alla corruzione), e non il modello eterno, immobile e sempre identico, non sarà un discorso pienamente vero, coerente con se stesso ed esatto da ogni punto di vista; si tratterà invece di un discorso soltanto “verosimile” (eikos), nella misura in cui si rivolge a una realtà, o a un insieme di realtà, l’universo, che altro non è che un’immagine (eikon) simile alla realtà vera, una copia imperfetta del modello originale perfetto (29b-d). Se dunque l’universo è una realtà sensibile e se, a questo titolo, esso non può costituire l’oggetto di un discorso pienamente vero e stabile, ma solo di un’esposizione verosimile, sarà proprio questa esposizione a esigere un punto di partenza, in modo da poter dare conto, nei termini temporali di un discorso umano soltanto verosimile, di una realtà eterna. La genesi del cosmo di cui Timeo si ripromette di parlare all’inizio del dialogo (27a-b) non costituirebbe dunque il suo inizio effettivo, la sua origine, ma indicherebbe la sua condizione eternamente mutevole e instabile, soggetta a successive generazioni e corruzioni, ma non a una generazione prima o assoluta – una condizione eternamente mutevole e instabile, nell’ambito della quale occorrerà tuttavia scegliere un punto di partenza del discorso intorno all’universo. Comporre un discorso su una realtà eternamente diveniente, che riproduca tale realtà nel suo eterno divenire, poiché il divenire eterno non può essere narrato se non da un impossibile discorso a sua volta eterno e diveniente, implica che si scelgano fittiziamente un punto di partenza e un punto di arrivo: ma tale scelta proietta sul contenuto di un simile discorso, altrettanto fittiziamente, un’origine e una fine. Ora, che non vi sia un termine dell’universo, una sua fine, è esplicitamente detto nel Timeo (32c), sicché la scelta del termine del discorso di Timeo sull’universo è evidentemente arbitraria ed è fatta coincidere con il completamento dell’universo come lo conosciamo, ossia con la descrizione delle specie viventi che lo popolano (90e-92c); credo si possa perciò ipotizzare che un’analoga condizione valga per l’inizio dell’universo, che non sussiste realmente come tale, ma dipende dall’esigenza di fissare un punto di partenza per il discorso che lo riguarda: per cominciare il discorso intorno al cosmo, si deve scegliere, nell’ambito della vicenda del suo eterno divenire, un inizio; ma questa scelta fa sì che l’inizio scelto per il discorso, l’arche tou logou, si traduca fittiziamente in un’arche tou kosmou, cioè in un inizio della vicenda, che è invece di per sé eterna, del mondo stesso in divenire. Ciò troverebbe corrispondenza nelle frequenti affermazioni di Timeo (cfr. 29c, 34c, 51c-d e passim), secondo cui il discorso che egli conduce è in parte partecipe del caso, come tutti i discorsi umani, e dunque non del tutto esatto e consequenziale, rispetto al suo ordine e alla sua disposizione; vale a dire che, plausibilmente, proprio l’ordine e la disposizione del discorso dipendono da questa strutturale deficienza.

Se dunque quella dell’origine del mondo nel tempo è una metafora costruita a fini espositivi, per illustrare la struttura e la composizione dell’universo in base all’imitazione dei modelli eterni nei limiti di un discorso umano, resta da considerare la sua concreta attuazione seguendo la rappresentazione, essa pure metaforica, dell’attività della produzione demiurgica. Il demiurgo procede infatti alla costituzione del corpo del mondo (31b-34a) servendosi dei quattro elementi fondamentali, fuoco, aria, acqua e terra: poiché l’universo è una realtà generata, e perciò corporea e sensibile, che esaurisce in sé la totalità degli enti sensibili, in esso devono trovarsi gli elementi componenti di tutte le cose. Ma quella operata dal demiurgo non è una composizione casuale, giacché egli procede mescolando i quattro elementi in base a una proporzione ben determinata e conferendo così al corpo del mondo una precisa e armonica struttura matematica. Inoltre, come Timeo spiega più avanti (53b-56c), i quattro elementi si riducono a quattro tipi di particelle elementari infinitamente piccole, dunque invisibili, indivisibili e indistruttibili, associate, rispettivamente, a quattro poliedri regolari: il tetraedro, l’esaedro, l’ottaedro e l’icosaedro; avanzando ulteriormente in questa progressiva riduzione geometrica, i primi tre dei quattro poliedri regolari hanno come base un triangolo equilatero, a sua volta composto da sei triangoli rettangoli scaleni, mentre il quarto ha come base un quadrato. Senza entrare nei dettagli tecnici di questo complesso schema geometrico-matematico, se ne possono tuttavia mettere in luce le ragioni e le finalità: la struttura corporea di tutte le cose acquista, in virtù della sua natura geometrico-matematica, una certa regolarità e un’evidente semplicità, che, a loro volta, garantiscono la bellezza e, nei limiti del possibile, l’ordine perfetto dell’universo, che, è bene ricordarlo, deve rispecchiare, secondo le intenzioni del demiurgo, l’assoluta bellezza e perfezione del modello intellegibile in base al quale esso è costituito. Per questo stesso motivo, il demiurgo attribuisce al corpo del mondo una forma sferica, completamente liscia all’esterno e priva di qualunque organo: non avendo bisogno di nulla, infatti, ed essendo pienamente autonomo, l’universo comprende in sé tutte le cose generate, nessuna di esse rimanendo al di fuori di lui, si nutre di se stesso, in virtù dei continui processi di generazione e di corruzione che coinvolgono le realtà che contiene al suo interno, e non ammette nessun vuoto, all’interno o all’esterno di sé, in quanto, per definizione, è tutte le cose. Tuttavia, per essere davvero perfetto, l’universo non può sussistere soltanto come un corpo, ma deve possedere anche un’anima che lo renda davvero un “vivente” completo. Ciò pone immediatamente, come i commentatori non hanno mancato di segnalare, il problema di capire perché l’universo debba essere concepito come un essere vivente dotato di anima e corpo, secondo uno stretto parallelismo con gli esseri umani e con i viventi individuali in genere. In prima battuta, si può pensare che, seguendo un ragionamento analogico che prende le mosse dall’esame del microcosmo che ogni essere vivente individuale dotato di anima e corpo costituisce, il Timeo sia portato a estendere un identico modello sul piano del macrocosmo che l’universo rappresenta. Su entrambi i piani, infatti, emergono una serie di caratteristiche ricorrenti (rispetto allo svolgimento di un ciclo vitale, rispetto all’insieme di mutamenti e di movimenti regolari che è possibile osservare e prevedere e così via) che sembrano presupporre l’intervento di un principio intelligente e ordinatore: se tale principio, nei viventi individuali, coincide con l’anima, sarà verosimile ammettere che, proiettando l’identico schema su ampia scala e applicandolo perciò all’intero universo, anche l’intero universo possieda un’anima e sia perciò un vivente, diverso dai viventi individuali solo rispetto alle sue dimensioni e alla sua complessità. D’altro canto, però, si può forse suggerire un’ipotesi più specifica, che dipende direttamente dalla stessa definizione delle funzioni proprie dell’anima del mondo, che, come vedremo fra breve, consistono essenzialmente nella produzione di movimento e di conoscenza. Ora, per quanto riguarda la conoscenza, è certo difficile pensare di attribuire all’universo, almeno a prima vista, una qualche capacità conoscitiva; ma che, invece, l’universo si muova, e che i suoi movimenti manifestino regolarità e ordine, appare a chiunque come un’indubitabile evidenza. E se non sussiste nessuna realtà ulteriore al di là dell’universo, che, ricordiamolo ancora, esaurisce la totalità di ciò che esiste sul piano sensibile, occorrerà credere che esso abbia in sé il principio del proprio movimento. Ma ciò che si muove di un movimento regolare e ha in sé il principio del proprio movimento deve necessariamente possedere, come principio del proprio movimento, un’anima ed essere dunque, in senso stretto, un “vivente”. Credo si possa insomma sostenere che la relazione fra movimento, vita e anima, termini che, non a caso, sono fra loro frequentemente accostati nei dialoghi platonici, appare talmente forte ed essenziale, da indurre Platone (e il pensiero greco in generale) a stabilire questa equivalenza: ciò che si muove vive, ma ciò che vive è dotato per necessità di un’anima; dunque, ciò che si muove possiede senza dubbio un’anima. E ancora, capovolgendo il ragionamento, ciò che è dotato di un’anima vive e la manifestazione prima della vita di ciò che è vivente consiste nel suo movimento. Volendo insistere su questa equivalenza, si può notare pure che alla triade “movimento-vita-anima” viene associata anche, come sua immediata implicazione, l’intelligenza, il che spiega probabilmente perché ciò che possiede un’anima, in questo caso l’universo, non solo viva e si muova, ma sia anche intelligente e dotato di una capacità conoscitiva.

Passiamo quindi a considerare la composizione, da parte del demiurgo, dell’anima del mondo. L’anima del mondo è costituita a partire da una mescolanza di essere, identico e diverso, le tre categorie fondamentali che devono necessariamente appartenere a ogni cosa esistente: ogni cosa esistente, infatti, per essere tale, deve “essere”, deve essere “identica” a se stessa e “diversa” da tutto ciò che è altro da essa. Non si tratta tuttavia delle idee dell’essere, dell’identico e del diverso, perché l’anima del mondo, pur non essendo certamente una realtà sensibile e corporea, non è neanche un’idea né si colloca interamente nell’intellegibile: essa adempie a una funzione intermedia, che è quella di mantenere nei limiti del possibile l’ordine che il demiurgo attribuisce al sensibile sulla base del modello intellegibile, e si situa perciò, costitutivamente, a metà strada fra l’intellegibile e il sensibile. Ecco perché l’essere, l’identico e il diverso di cui il demiurgo compone l’anima del mondo non sono elementi ideali né materiali, ma misti di entrambe le caratteristiche: in questo modo, solo negativamente, Timeo illustra la natura “intermedia” dell’anima del mondo e la sua collocazione “mediana” nella gerarchia del reale. Ma ancora una volta, come nel caso precedentemente esaminato del corpo del mondo, l’unione di essere, identico e diverso che il demiurgo mette in atto per dare forma all’anima del mondo non è affatto casuale, giacché segue una precisa disposizione matematica, stabilendo rigorose proporzioni numeriche per la combinazione dei tre elementi. Una volta realizzata così questa mescolanza, il demiurgo divide il materiale ottenuto in due strisce uguali, che prima sovrappone in forma di X, poi curva per far coincidere le estremità delle due strisce, ottenendo quindi due cerchi concentrici, l’uno inclinato rispetto all’altro come l’equatore rispetto all’eclittica, che si intersecano in due punti opposti: il primo, il cerchio dell’identico, ruota esternamente all’altro, il cerchio del diverso (34a-36b). Ciò introduce la questione ulteriore delle funzioni che competono all’anima del mondo così costituita: il demiurgo le attribuisce infatti, innanzitutto, una funzione motrice, da cui discende inoltre una funzione conoscitiva (36e-40d). Non è il caso di tornare nuovamente sullo statuto di essere “vivente” riconosciuto all’universo: si tenga presente, però, che è soltanto in una simile prospettiva che diviene in qualche modo comprensibile l’idea di dotare l’universo, o piuttosto la sua anima, di una capacità intellettuale e conoscitiva. Allo stesso modo, dunque, una singola ipotesi, quella dell’esistenza dell’anima del mondo, permette di spiegare due ordini di fenomeni: per un verso, in virtù dei movimenti circolari dei cerchi che la compongono, l’anima del mondo imprime e conserva il movimento regolare dei corpi celesti, ma anche il movimento dei corpi terrestri, che è un movimento irregolare che si può tuttavia, secondo il Timeo, ricondurre ai movimenti dell’anima del mondo, nella misura in cui, in gradi via via discendenti, la struttura geometrico-matematica che caratterizza l’anima del mondo corrisponde a quella che appartiene a tutte le entità, celesti e terrestri, dotate di anima e corpo; per altro verso, poiché la triade “anima-vita-movimento” finisce per implicare pure, come abbiamo visto sopra, l’intelletto e la conoscenza, alla capacità motrice dell’anima del mondo dovrà corrispondere una capacità conoscitiva: quando la sua conoscenza si realizza attraverso il movimento del cerchio dell’identico, l’anima del mondo conosce davvero gli oggetti intellegibili cui il cerchio dell’identico sempre si rivolge e con cui si trova in stretta relazione; quando, invece, si realizza attraverso il movimento del cerchio del diverso, l’anima del mondo opina soltanto, e percepisce, gli oggetti sensibili cui il cerchio del diverso sempre si rivolge e con cui si trova in stretta relazione. Controllando, in virtù di queste due sue funzioni fondamentali, l’ordine, il movimento e l’intelligenza del tutto, l’anima del mondo può realmente eseguire il suo compito fondamentale, cosmologico, etico e teleologico a un tempo, che è quello di assicurare la persistenza della bellezza e del buon funzionamento del tutto, assicurando al cosmo la perfetta condizione di un vivente eternamente felice.

Dall’esposizione del Timeo emerge infine un’immagine del cosmo concepito come un organismo vivente, perché dotato di anima e corpo, e assolutamente compiuto, in quanto esaurisce la totalità del reale comprendendo in sé tutte le specie viventi, animali e vegetali, e tutte le cose esistenti e riproducendo così, nella dimensione sensibile e vitale che gli è propria, l’assetto eterno e immutabile dei modelli intellegibili di cui è un’imitazione. Tale imitazione del modello assume inoltre i tratti di una disposizione geometrico-matematica, che conferisce all’universo un ordine, pur inferiore a quello intellegibile, almeno parzialmente stabile e comunque superiore al caos di un divenire perenne e inarrestabile. Così costruito, questo mondo, il nostro mondo unico e onnicomprensivo, appare pienamente autonomo e auto-referenziale ed è destinato a permanere per l’eternità, senza nessun intervento esterno, di carattere propriamente creativo o anche soltanto conservativo, senza chiamare in causa un disegno intelligente o provvidenziale che non sia semplicemente quello, oggettivamente ed eternamente dato, che dipende dai modelli eterni di cui esso appunto riproduce pur imperfettamente la disposizione. Si vede bene come, in relazione a ciascuna di queste pur generali conclusioni, che certo non ne restituiscono interamente la complessità, l’ampiezza e la ricchezza, il Timeo inauguri altrettante problematiche, tanto fondamentali quanto controverse, che attraversano la posteriore storia della filosofia e della scienza e fino all’età moderna.

 

Bibliografia essenziale

Edizioni
Platonis Opera, recognovit brevique adnotatione critica instruxit Ioannes Burnet, t. IV, Oxford Univ. Press, Oxford 1902.

Traduzioni italiane
F. Fronterotta, Platone, Timeo, a cura F. Fronterotta, Milano, Rizzoli 20113.

Studi
A.E. Taylor, A commentary on Plato’s Timaeus, Clarendon Press, Oxford 1928.
M. Cornford, Plato’s cosmology. The Timaeus of Plato translated with a running commentary, Routledge & Kegan Paul, London 1937.
L. Brisson, Le même et l’autre dans la structure ontologique du Timée de Platon. Un commentaire systématique du Timée de Platon, Academia Verlag, Sankt Augustin 19942.
T. Calvo & L. Brisson (a cura di), Interpreting the Timaeus-Critias. Proceedings of the IV Symposium Platonicum, selected papers, Academia Verlag, Sankt Augustin 1997.

Il Sofista di Platone

Il Sofista di Platone

di Francesco Fronterotta

[drop_cap style=”2″ bgcolor=”#dddddd” color=”#787882″]F[/drop_cap]ra i dialoghi platonici più celebri e filosoficamente più impegnativi, il Sofista, che appartiene all’avanzata maturità o alla vecchiaia del filosofo (circa 370-355 a.C,), è forse quello che ha a tal punto permeato la riflessione antica e tardo-antica da risultare quasi onnipresente e come affiorante, in forma esplicita o implicita, nei più diversi contesti teorici. Se infatti dialoghi come il Fedone, la Repubblica, il Parmenide o il Timeo hanno conosciuto grande fortuna in determinate epoche e correnti di pensiero e nell’ambito di certe specifiche aree problematiche, il Sofista, in virtù della profondità e della varietà dei suoi contenuti, risulta a diverso titolo e in diversi contesti fondativo: che si tratti della ricerca della definizione di qualcosa o dell’esigenza di un metodo, di una riflessione sulla natura della dialettica o dell’elaborazione di un’ontologia, del problema del criterio della verità o della falsità del discorso, della reciproca distinzione dell’identità e della diversità delle cose che sono, il Sofista presenta il primo tentativo articolato di una coerente sistemazione categoriale nella storia della filosofia. Diogene Laerzio dà forse voce a un’opinione antica quando considera il dialogo peri tou ontos (III 58), de ente, come traduce Marsilio Ficino. Ma questa delimitazione tematica è indubbiamente riduttiva: Aristotele, per esempio, ora vi si riferisce, forse, come peri ousias (Metafisica VII 1, 1028b2-7), ora lo qualifica peri tou me ontos (Metafisica XIV 2, 1089a1-6); ora sottolinea la sua indagine de divisione (Analitici Primi I 31 e Parti degli animali I 2-3), ora ricorda la sua analisi dello statuto del falso (Metafisica V 29).

Questo intreccio di valutazioni riflette obiettivamente la complessità argomentativa e tematica dello svolgimento di un’opera in cui è la stessa linea di ricerca programmaticamente introdotta da Socrate con la sua richiesta di un chiarimento relativamente alla tecnica sofistica a sollevare inizialmente – e a ribadire fino all’effettiva cattura del sofista, costantemente inseguito con il timore e il sospetto dovuti a un insidioso avversario della filosofia e di ogni sano e adeguato percorso formativo ed educativo – l’esigenza di una metodologia dialettica che, servendosi di procedure ben codificate, consenta di collocare l’indagine in un contesto teorico più ampio, entro il quale sciogliere attraverso una più generale ricomposizione concettuale alcune serie difficoltà sorte sul piano della delucidazione delle competenze proprie del sofista. È precisamente per tali motivazioni, e senza dover ricorrere a ulteriori artificiose giustificazioni, che la struttura e lo svolgimento del dialogo prendono la forma in certo senso “piramidale” che gli è caratteristica, muovendo agilmente dall’esame puntuale della natura e delle caratteristiche di una certa nozione o realtà, la “sofistica”, alla scansione della gerarchia delle cose che sono, al cui vertice si pone lo stesso essere, così tracciando una mappa di tutto ciò che è e ricostruendone esaustivamente la rete di relazioni, per tornare infine, su questa base, a ripercorrere a ritroso tale “piramide” dialettica fino alla determinazione delle condizioni di verità dell’indagine di partenza.

La discussione condotta nel Sofista è guidata da uno straniero di Elea, la città di Parmenide, il che suppone senza dubbio un esplicito riconoscimento, da parte di Platone, del debito intellettuale nei confronti del grande pensatore presocratico che lo induce a porre in ombra, come anche in altri dialoghi coevi, la figura di Socrate, che nella gran parte delle sue opere ha invece il ruolo di personaggio principale. L’esame prende avvio dalla richiesta di Socrate di apprendere dallo straniero come giudicare il sofista, il politico e il filosofo, se vadano considerati come un’unica figura, come due oppure tre diverse, in modo da distinguere tante figure quanti sono i nomi loro attribuiti (216d-217a). Ciò che dunque Socrate chiede allo straniero è, almeno in senso generale, una definizione del sofista, del politico e del filosofo, con l’illustrazione delle loro rispettive competenze: egli vuole che gli sia reso esplicito il significato dell’oggetto cui i tre nomi si riferiscono. Si può discutere naturalmente sul genere di definizione in questione e sul suo tasso di specializzazione o di tecnicismo, ma la natura e il senso della domanda formulata da Socrate non suscitano né dubbi né esitazioni nello straniero che ne intende perfettamente il significato. Riconosciuta l’esigenza di mettere alla prova il “metodo di caccia” su un oggetto di ricerca facile e privo di importanza, lo straniero si produce in una definizione del pescatore con la lenza (218d-221c). Proprio con l’introduzione di tale “metodo di caccia” ci troviamo di fronte alla prima, straordinaria, acquisizione teorica che il Sofista ci presenta, perché Platone prospetta una raffinata metodologia di ricerca, che più avanti verrà identificata con la dialettica, la scienza più alta che appartiene ai filosofi e li conduce alla verità intorno a ogni cosa esistente, che appare strutturata come segue: se si vuole definire un qualunque oggetto “X”, bisogna ricondurlo o ricollegarlo (sunagein) a un oggetto “A” di cui evidentemente partecipa; in seguito, è necessario tracciare una divisione (diairein) a partire da “A” distinguendo due oggetti “B” e “C”, che, pur partecipando entrambi di “A”, si differenziano tuttavia reciprocamente perché “C” possiede certe caratteristiche “c”, proprie di “X”, di cui invece “B” è privo. Lasciando da parte “B”, si procede allora da “C” secondo lo stesso criterio, finché non si giunga a un tracciato che conduce esclusivamente a “X”, perché mette in luce caratteristiche che “X” non condivide con altri oggetti e che costituiscono pertanto la sua definizione. Schematicamente:

Schema Sofista Platone

In base al procedimento messo in atto, la pesca con la lenza si rivela una tecnica di cattura di esseri animati che nuotano nell’acqua, che si realizza sferrando colpi con l’amo dal basso verso l’alto; infatti, una volta stabilita la generale appartenenza di questa pratica all’ambito delle tecniche, ossia la sua sicura partecipazione alla techne che permette di ricondurla a essa, diviene possibile distinguere, via via con maggiore precisione, la natura e le caratteristiche della particolare tecnica ricercata – appunto quella della pesca con la lenza – fino a ottenere per esclusione, cioè espungendo tutte le caratteristiche che qualificano le tecniche di cui essa non partecipa, un logos che la descrive esattamente in quanto, coincidendo propriamente con essa, la delimita e dunque la definisce. È quindi attenendosi a questo modello metodologico che lo straniero si dedicherà alla caccia del sofista. Ora, lasciando da parte lo sterminato dibattito critico che l’esame del metodo delle “divisioni” ha suscitato, come pure la sua applicazione concreta, nel dialogo, alla ricerca del sofista, conviene piuttosto tentare di stabilire quale sia l’obiettivo che a esso è assegnato. Non sembra plausibile ammettere, nonostante le indicazioni di Aristotele (nelle Parti degli animali I 2-4 e negli Analitici Primi I 31), che Platone affidi alla dialettica il compito di realizzare una classificazione dei viventi né tantomeno che la concepisca come un metodo dimostrativo dell’essenza delle cose, se non altro perché l’essenza di qualcosa può essere forse oggetto di intuizione da parte di qualcuno, o di ostensione a qualcuno, mentre, nel contesto logico-discorsivo che è proprio della diairesis, sarà possibile cogliere l’essenza di qualcosa soltanto nel senso di formulare il logos a esso relativo, che risulta dalla ricostruzione delle relazioni che intrattiene con le altre cose; né pare lecito intendere il carattere della dialettica come in qualche senso “dimostrativo”, se si conferisce a questa espressione il significato abituale di “assiomatico” o “deduttivo”. Ci si deve forse rassegnare a riconoscere la complessità irriducibile del metodo e l’assenza di un obiettivo univoco e ben definito, perché, se la dialettica fornisce nella sua applicazione (1) la mappa, parziale o totale, delle relazioni fra le cose che sono, con il fine di far emergere quali cose siano in relazione e quali non siano in relazione con quali altre, disegnando così (2) la rete di significati di cui sono intessuti il pensiero e il discorso, e perciò in generale il sapere e il giudizio, potremo anche ricavare per questa via (3) il logos definitorio relativo a ciascuna cosa e l’insieme di tali logoi avrà anche (4) un tratto indubbiamente classificatorio.

Nel corso della caccia al sofista, lo straniero si imbatte nella difficoltà seguente (236c-237a): la sofistica si rivela a un tratto come una semplice e fittizia apparenza di sapere, ma ciò introduce una nozione ambigua, quella di un “apparire” o “sembrare” senza “essere”, che corrisponde a un “dire” qualcosa senza però “dire il vero”, ciò che suscita un’impasse che accompagna da sempre la riflessione filosofica nella sua storia. In effetti, se un’apparenza, in quanto tale, non è un essere reale e se, di conseguenza, essa rinvia a qualcosa che non è però vero, l’ambiguità dell’“apparire” e del “sembrare” darà immediatamente luogo a una nuova difficoltà, relativa alla possibilità e alla legittimità di dire o giudicare il falso, giacché il falso, conclude lo straniero, può venire all’essere solo a condizione che il non essere sia. È evidente che questo argomento implica e a un tempo dipende dalla stretta connessione fra il falso nel logos e il non essere, cioè dalla presunzione che, sfidando l’esplicito divieto di Parmenide, pronunciare il falso consista nel dire ciò che non è affatto: ma una semplice ricognizione delle ragioni di Parmenide mostra immediatamente che il non essere non può essere riferito a nessuna delle cose che sono, né a un “qualcosa”, comunque concepito, di qualunque numero o genere, sicché, paradossalmente, chi dice (o, piuttosto, presume di dire) “non essere” è come se, pur emettendo suoni, realmente non dicesse nulla o non esprimesse nulla di sensato, il che è formalmente impossibile (dire non dicendo alcunché) o semplicemente contraddittorio (esprimere senza significare alcunché). Ne segue inoltre che al non essere non potrà neanche essere congiunta nessuna delle cose che sono, per esempio il numero, in modo che non sarà né uno né molti né potrà essere altrimenti qualificato: il non essere risulterà perciò “impensabile, indicibile, impronunciabile e inesprimibile”, al punto che perfino chi tenti di respingerlo ne rimarrà prigioniero, se, anche soltanto per negarlo, lo porrà come “un” qualcosa che sia numericamente uno. È al termine di questo passaggio che viene evocato nuovamente il divieto opposto da Parmenide al non essere e annunciata l’esigenza di un parricidio: bisogna infatti costringere il non essere a essere, almeno in qualche misura eludendo il divieto parmenideo, per poter formulare un discorso falso (241c-d). L’impasse relativa al discorso falso che la ricerca ha incontrato nella caccia al sofista rinvia insomma al problema del non essere; attribuire alla sofistica una produzione di apparenze finisce per associare in essa i due ordini di difficoltà, il falso e il non essere, rispettivamente accostati e contrapposti al vero e all’essere, in un intreccio malsano che garantisce la vittoria del sofista, che, nascosto all’ombra del falso e del non essere, non potrà essere raggiunto e catturato. Per capovolgere questo esito negativo dell’indagine, occorre mostrare, contro Parmenide, che il non essere in qualche misura è e che, di conseguenza, si lascia congiungere in qualche misura all’essere, il che permetterà finalmente di ammettere come possibile, e dunque indagabile, il falso nel logos e il suo eventuale intreccio con il vero, così smascherando il sofista nel suo rifugio.

La delucidazione della nozione di “non essere” costituisce senza dubbio un altro nodo cruciale del dialogo. A questo fine, lo straniero rivolge la sua analisi alla natura dell’essere e ai più grandi fra i generi ideali (249d-253e): l’essere stesso, la quiete e il movimento, che sono tali nella misura in cui tutte le cose che sono si trovano necessariamente in quiete o in movimento, senza che, pertanto, l’essere coincida in modo esclusivo con l’uno o con l’altra. Pare dunque necessario supporre che vi sia fra i termini in questione una forma di comunicazione (koinonia), che consenta di stabilire che, «alcuni sì e altri no», comunicano reciprocamente. Se infatti «nulla possiede nessuna capacità di comunicare con nulla in nessun caso», non sarà possibile affermare neanche che il movimento o la quiete o qualunque altra cosa “siano”, perché, non comunicando con l’essere, appunto non “saranno”. In questa prospettiva, risulterà impossibile pensare stabilendo connessioni fra termini diversi e si dovranno utilizzare parole come “essere”, “separatamente”, “in sé” e così via sempre indipendentemente le une dalle altre, giacché la stessa possibilità dell’attribuzione di qualcosa all’altro da sé sarà contraddittoria. Viceversa, «se tutte le cose hanno la capacità di comunicare reciprocamente le une con le altre», si realizzerà l’assurda condizione di una generale e contemporanea comunicazione, con la paradossale conseguenza che «il movimento stesso starebbe assolutamente fermo, mentre la quiete a sua volta si muoverebbe». Resta allora esclusivamente l’opzione prospettata in partenza, cioè che le cose che sono comunichino e si accordino fra loro solo in parte e secondo certi criteri, come anche le lettere dell’alfabeto e le note musicali, che generano parole significative o melodie, soltanto se combinate in un ordine determinato. È in questa direzione che lo straniero avvia l’analisi, volgendosi direttamente alla ricostruzione della koinonia ton genon per stabilirne i criteri e fissarne i tracciati, un compito che appartiene alla dialettica. Sappiamo già che l’essere come tale non si identifica con la quiete né con il movimento, ma è tuttavia in comunicazione con entrambi, giacché entrambi “sono”. Ciascuno dei tre generi è inoltre identico a se stesso e diverso dagli altri due; “identico” e “diverso” si pongono dunque come due generi supplementari accanto ai primi tre, dal momento che non è possibile che si identifichino con nessuno di essi. Infatti, se movimento e quiete sono identici a se stessi ma ciascuno diverso dall’altro, in quanto comunicano con l’identico e con il diverso, affermando, per esempio, che il movimento si identifica con l’identico, avremmo che la quiete, che, essendo contraria del movimento, certo non ne partecipa, ne parteciperebbe tuttavia necessariamente per via della comunicazione con l’identico (con il quale, invece, senza dubbio comunica), che è stato assunto nel caso presente come identico al movimento. Ma l’identico e il diverso non si identificano neanche con l’essere: in primis, se l’essere e l’identico fossero la stessa cosa, movimento e quiete, in quanto entrambi “sono”, sarebbero pure “identici”, il che è per definizione impossibile. Più complessa l’argomentazione nel caso del diverso: premessa una generale distinzione, nell’ambito delle cose che sono, fra gli enti che sono “in sé” (auta kath’hauta) e quelli che sono “in relazione ad altro” (pros alla), bisogna riconoscere che alcuni generi, come l’essere, si dicono tanto in sé, quanto in relazione ad altro (ciascun genere “è” in sé, come pure “sono” più generi, gli uni rispetto agli altri e con le loro reciproche relazioni), altri, come il diverso, si dicono sempre ed esclusivamente in relazione ad altro (ciascun genere è “diverso da” tutti gli altri, ma di nessuno si può dire che sia diverso “in sé”). Ora, se il diverso si identificasse con l’essere, occorrerebbe perciò collocarlo non solo fra i pros alla, come appunto gli compete, ma anche, come l’essere con cui coincide, fra gli auta kath’hauta, e si verificherebbe dunque il caso di un genere, appunto il diverso, diverso non solo “in relazione ad altro”, ma anche “in sé” e pertanto “da sé”. Questa possibilità è però esclusa a priori se, per definizione, i generi sono identici a sé e non, come si dovrebbe concludere qui, diversi da sé. Anche il diverso, riconosciuto come genere indipendente, va collocato accanto all’essere, al movimento, alla quiete e all’identico, completando così la configurazione dei generi che lo straniero qualifica come “più grandi” (254d4-5).

Distinti l’uno dall’altro, ciascuno di cinque generi più grandi è identico solo a se stesso: il movimento, per esempio, è diverso dalla quiete e dall’identico e, tuttavia, “è” ed è identico (a sé), in quanto comunica con l’essere e con l’identico. Se ne deduce allora che «il movimento è identico e non identico», e ciò è possibile per il differente significato che si attribuisce alle due affermazioni contraddittorie: dicendolo “identico”, ci si riferisce alla partecipazione del movimento all’identico, che ne pone l’identità con sé; dicendolo “non identico”, ci si riferisce alla partecipazione del movimento al diverso, che ne pone l’alterità dall’identico. Allo stesso modo, il movimento sarà diverso, oltre che dall’identico e dalla quiete, anche dal genere del diverso, e perciò, analogamente a prima, lo si dovrà dire “diverso”, in virtù della partecipazione al diverso che lo rende diverso dagli altri generi, e “non diverso”, in virtù della partecipazione all’identico che lo rende identico a sé soltanto e a nessuno degli altri generi, quindi neanche al diverso. Ma il medesimo ragionamento sul rapporto del movimento con la quiete, l’identico e il diverso, va esteso anche all’essere (256d-257c). Ora, se il movimento è diverso dall’essere, ne segue che, in quanto partecipe dell’essere, esso “è”, mentre, in relazione alla sua diversità dall’essere, è realmente non essere. In tal caso, se un genere che “è” risulta davvero affetto dal non essere, sarà allora necessario che il non essere “sia” effettivamente; e del resto ciò che accade al movimento si applica all’intera realtà dell’essere, perché tutti i generi, in quanto partecipi dell’essere, “sono”, mentre invece, partecipando del diverso, si rivelano diversi dall’essere e, sotto questo rispetto, a giusto titolo “non sono”: il genere del diverso, producendo, come gli compete, la diversità fra i generi, suscita in ciascuno il non essere. Ma anche l’essere, giacché è diverso dagli altri generi, non è gli altri generi, sicché, mentre in sé è uno, rispetto a tutti gli altri generi che non è, che sono a loro volta «di numero senza limite», è affetto dal non essere «altrettante volte». Peraltro, precisa subito lo straniero, il non essere così introdotto non va inteso come il contrario dell’essere, bensì come, appunto, soltanto diverso (heteron) dall’essere. Come il sintagma “non grande” significa indifferentemente il “piccolo” e l’“uguale”, cioè il contrario e il diverso dal grande, così la negazione “non” non indica necessariamente la contrarietà, ma «una cosa diversa dalle parole che le seguono o piuttosto dalle cose alle quali si riferiscono le parole che seguono la negazione». La natura del diverso presenta infatti una certa somiglianza con la scienza (257c-258c): entrambe appaiono come frammentate o ridotte in parti, pur ponendosi certamente, l’una e l’altra, come un’unità. Come la scienza che, anche se solo in una certa misura, è unica, ma allo stesso tempo possiede delle parti con una denominazione specifica, così pure il diverso, pur essendo una realtà unica, pare trovarsi nella stessa condizione di molteplicità rispetto alle sue parti: ecco perché si può dire che, come le tecniche e le scienze sono molte, esistono molte parti raccolte sotto l’unico genere del diverso. Tali molteplici parti del diverso sono di numero uguale a quello degli altri generi, cui esse si oppongono e da cui esprimono così la propria diversità: avremo pertanto, per esempio, il non bello, il non giusto e il non grande, parti del diverso opposte al bello, al giusto e al grande e perciò da questi diverse, di cui devono necessariamente partecipare quei generi che si rivelano diversi dal bello, dal giusto e dal grande, giacché solo in virtù di tale partecipazione alle corrispondenti parti del diverso questi generi acquistano la propria diversità dal bello, dal giusto e dal grande. Ora, nell’ambito di questa «opposizione di essere a essere» che si pone fra realtà esistenti, ossia fra uno qualunque dei generi e una parte di un genere, emerge evidentemente il “non essere”, nel momento in cui tale opposizione viene stabilità fra l’essere stesso e la parte del diverso che gli si contrappone, una parte di cui necessariamente partecipano quei generi, cioè tutti gli altri, che, pur comunicando con l’essere, ne sono però diversi in quanto, semplicemente, “non sono” l’essere. Come già in precedenza, lo straniero si sofferma a segnalare che questo “non essere” non manifesta contrarietà all’essere, ma solo diversità da esso, sicché diviene lecito affermare che è realmente; e su tale conclusione egli insiste ancora (258d-259b), ribadendo nuovamente, con identiche parole, che il “non essere” di cui si parla non è in alcun modo il contrario dell’essere, l’assoluto nulla o la completa negazione di esistenza che la discussione ha da tempo abbandonato, giacché, in virtù della koinonia di essere e diverso, con tutti gli altri generi e reciprocamente, l’esame ha finalmente raggiunto il suo esito: la fondazione ontologica del genere del diverso, la differenza qua talis, e la sua rigorosa elaborazione hanno svelato fra gli esseri «la forma del non essere», dotata di una natura sua propria. Ciò non consente naturalmente di sostenere sic et simpliciter che il diverso è “non essere” o che, viceversa, il non essere coincide con la diversità; piuttosto, l’articolazione della differenza rende pensabile il non essere e la sua attribuzione ai generi che “sono”, perché, in virtù della distinzione delle parti del diverso, risulta che, rispetto a se stesso nel suo complesso, il diverso non è altro che “diverso”, mentre, rispetto a ciascuna delle sue parti, che sono differenti da ciascuno degli altri generi e, effettivamente, “non sono” gli altri generi, il diverso introduce, appunto nella relazione delle sue parti con i generi ai quali queste si oppongono, il non essere. Abbiamo visto insomma come la soluzione dell’aporia del non essere emerga nella relazione fra essere e diverso nell’ambito della koinonia dei generi; ma la koinonia esige, per essere stabilita, che i generi comunicanti siano tutti allo stesso titolo essenti e tutti l’uno dall’altro diversi, riconducendo nuovamente il ragionamento al presupposto di un’assoluta compenetrazione di essere e diverso.

Sciolta l’aporia del non essere, lo straniero torna al paradosso sorto nell’ambito della caccia al sofista, per valutare se l’analisi compiuta consenta di dissolvere anche la difficoltà relativa alla possibilità del falso nei logoi. La sezione del dialogo che si apre così contiene alcuni dei presupposti fondamentali di quella che a pieno titolo si configura come la filosofia del linguaggio di Platone (259e-264b). In primo luogo, lo straniero dichiara che il logos dipende dalla combinazione (sumploke) delle forme ideali, in quanto appunto la riproduce; infatti, un’assoluta separazione di tutte le cose sarebbe esiziale per la costruzione del pensiero e del discorso e perciò contraria alla filosofia, ma anche la combinazione dei nomi nel logos, che appunto riproduce l’intreccio delle forme, deve seguire determinati criteri, perché, come subito si precisa, solo alcuni nomi ammettono di collegarsi gli uni con gli altri, in modo da produrre logoi che significano qualcosa; altrimenti, in assenza di un reale collegamento, la successione dei nomi non significa nulla. Ma in base a quali criteri si realizza tale collegamento fra nomi in cui consiste il discorso significante – o, in modo più esatto e più esplicito, in cosa consiste effettivamente tale discorso? La risposta a questa domanda introduce il secondo assunto fondamentale che regola la filosofia del linguaggio di Platone. Fra i nomi, intesi in generale come elementi componenti del logos, potremmo dire come “termini linguistici”, vi sono due generi di “rivelatori vocali” (delomata), ossia due tipi di emissioni sonore che indicano qualcosa rispetto all’essere di un certo oggetto: si tratta dei “nomi”, questa volta intesi nel significato specifico di agenti o soggetti di un’azione, e dei “verbi”, che invece significano le “azioni” compiute da un soggetto o agente. Il logos, quindi, (1) collega un nome a un verbo, così connettendo un agente a un’azione, mentre le sequenze di nomi o di verbi soltanto, che lascino gli uni separati dagli altri, non producono nessuna connessione significativa; (2) parla necessariamente di qualcosa o, più precisamente, è “di” qualcosa (tinos einai) o “su” qualcosa, nel senso che si riferisce senza eccezioni a qualcosa che è, cioè a “esseri” collocati in posizione di nome o di verbo, di agente o di azione, insomma, in altre parole, di soggetto e predicato. Il quadro si completa, una volta chiarite le relazioni fra linguaggio e realtà e definiti i criteri di significatività del linguaggio, enunciando le condizioni della verità e della falsità dei logoi. Innanzitutto, poiché il logos è “di” o “su” qualcosa, in quanto si compone di nomi e verbi che sono appunto “rivelatori di essere” e la cui combinazione riflette la combinazione delle cose che sono, esso non può in nessun caso riguardare il non essere assoluto, l’impraticabile nulla che rimane infatti impensabile e indicibile. Se realmente “significa”, il discorso parla “di” qualcosa dicendo cose che sono, vale a dire che dice cose che sono “di” o “su” qualcosa che, anch’esso, è. Se ciò è vero, e se l’orizzonte del logos è necessariamente esaurito dalle cose che sono, sia il logos vero sia il logos falso dicono cose che sono, “di” o “su” qualcosa che, anch’esso, è; ma se, allora, non differiscono quanto alla natura dei termini di cui stabiliscono la connessione che, tutti indifferentemente, “sono”, né rispetto all’oggetto di cui parlano che, esso pure, “è”, il logos vero e il logos falso non potranno infine differire che rispetto alla struttura della connessione che stabiliscono fra i termini che li compongono: vero sarà dunque il logos che “dice le cose che sono come sono intorno a qualcosa”, dunque stabilendo una connessione fra i suoi componenti che riproduce correttamente l’effettiva sumploke delle cose che sono, falso invece il logos che “dice cose diverse da quelle che sono”, ossia “le cose che non sono, come se fossero, intorno a qualcosa”, quindi stabilendo una connessione fra i suoi componenti che, pur collegando termini che si riferiscono a cose che sono, tuttavia è diversa dall’effettiva sumploke delle cose che sono e pertanto non è l’effettiva sumploke delle cose che sono. Il logos, vero o falso, dice sempre e per necessità l’essere, ma, quando è vero, lo dice come è, mentre, quando è falso, lo dice diversamente da come è, cioè come non è, introducendo così un “non essere” che, senza nessuna contraddizione, “è”, in quanto consiste semplicemente in un “essere diverso” da ciò che “è”.

Se davvero il non essere assoluto è congedato e tolto come oggetto di analisi, in favore di una concezione relativa del non essere come “opposizione di essere a essere” in virtù della reciproca diversità fra gli esseri, se davvero il falso risulta svincolato dal non essere e collocato legittimamente nella connessione predicativa dei logoi, lo straniero potrà riprendere l’iniziativa e concludere vittoriosamente la sua caccia al sofista.

 

Bibliografia essenziale

Edizioni
Platonis Opera, recognoverunt brevique adnotatione critica instruxerunt E.A. Duke, W.F. Hicken, W.S.M. Nicoll, D.B. Robinson e J.C.G. Strachan, t. I, Oxford Univ. Press, Oxford 1995.

Traduzioni italiane
F. Fronterotta, Platone, Sofista, a cura F. Fronterotta, Milano, Rizzoli 2007.

Studi
G. Movia, Apparenze, essere e verità. Commentario storico-filosofico al Sofista di Platone, Vita e Pensiero, Milano 1991.
G. Sasso, L’essere e le differenze. Sul Sofista di Platone, Il Mulino, Bologna 1991.
D. O’Brien, Le non-être. Deux études sur le Sophiste de Platon, Accademia Verlag, Sankt Augustin 1995.
P. Crivelli, Plato’s Account of Falsehood. A Study of the Sophist, Cambridge Univ. Press, Cambridge 2012.

Aristotele, Etica Nicomachea

Aristotele, Etica Nicomachea

di Francesco Fronterotta

Lo statuto dell’etica, nella concezione aristotelica delle scienze, è ben preciso. Al di sotto delle scienze teoretiche (matematica, fisica e filosofia prima) si collocano infatti rispettivamente le scienze pratiche e le scienze poietiche, queste ultime dedicate espressamente a finalità produttive. Fra le scienze pratiche, che, in quanto “scienze”, possiedono una struttura dimostrativa e mirano, secondo la caratteristica concezione aristotelica, alla conoscenza delle cause delle cose, ma si indirizzano alla realizzazione di fini “pratici”, si collocano appunto l’etica e la politica, che assumono come fine le “cose degli uomini”, la prima in quanto individui, la seconda in quanto cittadini.

Dei tre trattati etici di Aristotele, l’Etica Nicomachea, l’Etica Eudemia e i Magna Moralia (su parti dei quali, specie nel caso dei Magna Moralia, pesano seri dubbi di autenticità), l’Etica Nicomachea è certamente il più importante. Anche per questa opera, che raccoglie materiali non destinati alla pubblicazione, ma all’indagine e alla discussione interna alla scuola di Aristotele, si pongono i consueti problemi relativi alla sua composizione, alla sua genesi, alla sua cronologia e alla sua unità, benché il suo svolgimento tematico sia, nell’insieme, sostanzialmente coerente. Prendiamo dunque in esame almeno alcune delle principali linee argomentative che caratterizzano i dieci libri di cui essa si compone.

Il problema centrale da cui l’analisi di Aristotele prende avvio nel primo capitolo del I libro dell’opera è quello della ricerca e della realizzazione della felicità. Ogni individuo tende infatti naturalmente al perseguimento e alla realizzazione di certi fini che sono, per chi li persegue, altrettanti beni: alcuni di essi, spiega Aristotele, sono fini, o beni, perseguiti in vista di altri fini e si presentano perciò come relativi e sostanzialmente strumentali, ossia piuttosto come mezzi che non come autentici fini. Ma l’intera gerarchia dei fini, o dei beni, va posta in relazione con un fine ultimo o con un bene supremo, che consisterà necessariamente nella felicità (eudaimonia). Questa posizione eudaimonistica non è nuova, naturalmente, nella storia dell’etica antica e non mancano fra i predecessori di Aristotele sostenitori della tesi secondo cui l’obiettivo di ogni vivente, e in primo luogo dell’uomo, risulta coincidente con la felicità: sarebbe anzi ben strano proporre un fine della vita diverso da questo. Ma al di là di una considerazione di carattere alquanto generale come questa, Aristotele è certamente il primo ad aver affermato con assoluta radicalità e nettezza l’esigenza di una piena realizzazione individuale come scopo di una disciplina etica e dello studio dei comportamenti e delle azioni degli uomini.

Che la felicità sia il fine ultimo di ogni ente e di ogni vivente, secondo Aristotele, è questione sulla quale tutti concordano; ma quale sia la sua natura è invece oggetto di controversia e dissenso. È a questo punto che viene introdotto, come di consueto, l’esame degli endoxa, delle opinioni comuni più diffuse o comunque delle più autorevoli, particolarmente dei predecessori: vi è infatti chi pone la felicità nel piacere, e si tratta dei più, ma Aristotele giudica questa forma di soddisfazione immediata degna delle bestie e degli schiavi, non certo degli uomini liberi; altri individuano piuttosto l’onore come fine ultimo, e si tratta in tal caso di un’opinione più evoluta e raffinata, che fa presa soprattutto fra coloro i quali si dedicano all’attività politica, ma Aristotele rileva ancora come l’onore non sia davvero perseguito di per sé, bensì per il riconoscimento che ne deriva a chi lo ottiene e in quanto è dunque segno di virtù: ciò implica allora che l’onore risulta subordinato alla virtù e soltanto strumentale rispetto a essa; a maggior ragione da respingere come fine della vita umana e come bene sommo è l’accumulazione delle ricchezze, che Aristotele considera senza mezzi termini come contro natura, perché le ricchezze possono fungere al più come mezzi che ampliano possibilità e potenzialità di chi le possiede, e non certo come fini in sé, neanche per chi è preso dalla brama di accumularne senza sosta né termine.

In questo contesto si inserisce la celebre critica che Aristotele rivolge alla concezione platonica del bene sommo, tratteggiata specialmente nei libri centrali della Repubblica, secondo la quale il bene si colloca in una dimensione radicalmente trascendente e oltremondana, come idea o forma intellegibile del bene, modello eterno, universale e separato, e perciò stesso paradigmaticamente valido in ogni possibile circostanza, di ogni valutazione, azione o comportamento. A una simile prospettiva Aristotele obietta intanto che una nozione così astratta e trascendente finisce per essere non solo praticamente irraggiungibile, ma anche in ultima analisi indesiderabile per gli uomini; inoltre, la concezione di Platone suppone evidentemente un significato univoco di “bene”, da intendere cioè come un concetto unico capace di definire allo stesso titolo il fine di ogni ente e di ogni vivente, ciò che Aristotele contesta vivacemente in favore di una nozione plurivoca del bene, al quale si deve riconoscere che possiede, per ogni ente e per ogni vivente, un significato proprio e specifico per quell’ente e per quel vivente.

Il bene sommo o il fine ultimo per l’uomo deve consistere allora nella realizzazione dell’opera che gli è propria, della sua attività naturale specifica. Ma qual è tale “opera” o “attività”? Anche su questo punto le opinioni divergono: non può trattarsi però del semplice “fatto” di vivere, che è comune anche alle piante; né del “percepire” o “sentire”, che è comune anche agli animali; dovrà trattarsi quindi dell’unica attività propria esclusivamente dell’anima umana, vale a dire del pensiero e dell’attività razionale. Ecco in cosa consiste la “virtù” (arete) dell’uomo, più esattamente quell’“eccellenza” piena che ne realizza la felicità. Occorre preliminarmente precisare che una simile concezione che fa coincidere la felicità con l’esercizio della facoltà razionale e del pensiero non presenta agli occhi di Aristotele nessun tratto ascetico né tantomeno astratto: egli sottolinea infatti che, per poter essere compiutamente dispiegata, l’attività razionale deve essere accompagnata da sufficienti beni materiali, la cui assenza ne comprometterebbe invece la realizzazione. A ciò bisogna aggiungere che tale attività, con la felicità che a essa è associata, non è neanche esente da piacere, giacché il piacere ne rappresenta anzi un’implicazione e un coronamento. Ciò suppone, pur se a determinate condizioni, un parziale accostamento di Aristotele alle concezioni edonistiche della felicità e un netto distacco dalle tesi anti-edonistiche più o meno radicali che dovevano avere un significativo sostegno all’interno dell’Accademia, anche se, forse, non necessariamente da parte di Platone.

Se dunque la felicità dell’uomo consiste nell’attività della sua anima secondo “virtù” o “eccellenza” (arete), ciò consente di transitare verso un secondo tema cruciale dell’Etica Nicomachea, appunto quello della natura e della classificazione delle virtù. Quali sono infatti le virtù propriamente e specificamente umane? Non quelle che appartengono all’anima vegetativa, comune a tutti i viventi; piuttosto all’anima sensitiva che, pur essendo propria di tutti gli animali, si pone in certa misura in rapporto con la facoltà razionale; e soprattutto, come era facile attendersi, all’anima razionale, la sola esclusivamente umana. Aristotele parla, nel caso della funzione sensitiva dell’anima, di virtù “etiche”; mentre, al livello dell’anima razionale, parla di virtù “dianoetiche”. Per quanto riguarda le virtù etiche, ne vanno stabiliti caratteri e natura. Nel libro II, Aristotele fa derivare le virtù etiche dall’abitudine o habitus, dall’esercizio del controllo degli impulsi immediati: compiendo atti giusti, si diviene giusti, cioè si acquisisce un habitus peculiare, quello della giustizia; agendo moderatamente , si apprende il modus operandi o l’habitus della moderazione, e così via. Tali comportamenti, ciascuno con il relativo habitus, in cui consistono le virtù etiche, si trovano in qualche modo unificati dalla comune definizione del loro statuto. La virtù etica consiste infatti in generale nella giusta proporzione, o via mediana, fra due estremi. La definizione è celebre: per ogni habitus comportamentale, o etico, la virtù si situa nella posizione intermedia fra eccesso e difetto, in un esercizio di controllo e moderazione dell’impulso sensibile corrispondente, purché si intenda tale posizione intermedia non come una sintesi immediata fra eccesso e difetto, ma come una posizione che supera eccesso e difetto e ne neutralizza gli aspetti negativi e irrazionali.

Nell’esame fitto e dettagliato delle virtù etiche, dal II al V libro, spicca il caso della giustizia, che Aristotele considera come la principale, e a cui dedica l’intero libro V, definendola come in qualche modo capace di ricapitolare tutte le virtù etiche: essa consiste in senso proprio nella giusta e proporzionata ripartizione tanto dei beni quanto dei mali, mentre l’ingiustizia si colloca in relazione a entrambi gli estremi, quando cioè prevale una ripartizione squilibrata dei beni e dei mali.

Alle virtù dianoetiche, proprie della sola anima umana e della sua facoltà razionale, è dedicato l’intero libro VI dell’opera. Anche qui Aristotele distingue fra due funzioni dell’anima razionale, una con competenze pratiche, che presiede alla conoscenza delle cose contingenti e mutevoli, come i comportamenti umani, e una con competenze teoretiche, che si rivolge alla conoscenza delle cose necessarie e immutabili, cioè dei principi delle scienze e delle scienze stesse. A entrambe queste funzioni, seguendo la logica già nota dell’indagine di Aristotele, corrisponde una “virtù” o “eccellenza” (arete) specifica, rispettivamente la phronesis, o saggezza, e la sophia, o sapienza.

La phronesis è la disposizione virtuosa che permette di dirigere la condotta umana, discriminando fra bene e male e adottando i comportamenti che consentono di realizzare i fini ultimi, ossia il bene, dell’uomo. Ciò che la phronesis indica sono dunque criteri e fine dell’agire umano, ma tale fine si persegue concretamente attraverso l’esercizio delle virtù etiche. Queste ultime, a loro volta, sarebbero come “cieche” senza la phronesis che ne fornisce l’indirizzo. Al culmine della gerarchia delle virtù si pone la sophia, che deve il suo statuto supremo al fatto che suo oggetto non sono l’uomo e i suoi comportamenti e fini, ma le cose “più divine”, cioè i principi di tutte le cose. Senza addentrarci nell’esame complesso e articolato che Aristotele dedica alla sophia e alle sue forme, possiamo comprendere come egli giunga così a stabilire, parallelamente alla gerarchia delle virtù, un’analoga gerarchia dei gradi di felicità realizzabile per l’uomo – ciò che costituiva l’obiettivo fissato all’inizio dell’Etica Nicomachea.

Il terzo e ultimo fondamentale asse teorico dell’opera da me evocato qui, che è oggetto dell’analisi condotta nei capp. 7-9 del libro X, è dunque rappresentato dall’indicazione della vita “contemplativa”, cioè dedita all’esercizio della ragione nella conoscenza dei principi delle scienze, come condizione suprema e massimamente desiderabile, quella cui presiede appunto la virtù della sophia. Solo in via secondaria si potrà considerare felice la vita “pratica”, regolata dalla phronesis e dalle virtù etiche. La contemplazione avvicina l’uomo alla condizione divina, quella della contemplazione permanente ed eterna cui l’uomo, o alcuni fra gli uomini, accedono a tratti.

Questa celebre prospettiva della felicità umana, cui Aristotele assegna, come già detto, un indubbio quoziente di piacere, è destinata ad assumere un ruolo fondamentale nella storia della filosofia posteriore, classica e non solo.

 

Bibliografia essenziale

Edizioni
Aristotelis Ethica Nicomachea, recognovit F. Susemihl, editio tertia curavit O. Apelt, Teubner, Leipzig 1912.

Traduzioni italiane
Aristotele, Etica Nicomachea, traduzione, introduzione e note di C. Natali, Laterza, Roma 201410.

Studi
C. Natali, La saggezza di Aristotele, Bibliopolis, Napoli 1989.
M. Nussbaum, The Fragility of Goodness, Cambridge Univ. Press, Cambridge 1986.
M. Vegetti, L’etica degli antichi, Laterza, Roma 200611.
E. Berti (a cura di), Guida ad Aristotele, Laterza, Roma 20125.

Aristotele, De anima

Aristotele, De anima

di Francesco Fronterotta

[drop_cap style=”2″ bgcolor=”#dddddd” color=”#787882″]A[/drop_cap]nche per il De anima vale in generale quanto detto per la Metafisica rispetto ai noti problemi che riguardano il titolo dell’opera, la sua struttura, la sua composizione e la sua cronologia. Basti ricordare però, a mo’ di premessa, che il titolo peri psuches è usato da Aristotele per riferirsi a questa opera in altri suoi scritti; che, rispetto alla Metafisica, il De anima appare dotato di un’assai maggiore compattezza e continuità; e che, anche in questo caso, si è creduto di poter rinvenire un mix di spunti teorici di matrice platonica, che spingerebbero a una datazione giovanile dell’opera, e di spunti più decisamente anti-platonici, che invece suggerirebbero una datazione più tarda. Ma tutto ciò, come già ricordato in relazione alla Metafisica, rimane molto controverso ed è impossibile discuterne a fondo in questa sede.

Il De anima si compone di tre libri. Il libro I esamina innanzitutto le teoria psicologiche dei predecessori. Se Aristotele condivide la tesi generale dei presocratici e di Platone, che fa dell’anima un principio di movimento, sensazione e conoscenza, egli rivendica però per sé il merito di aver introdotto uno studio e una disciplina dell’anima “nuovi” e “originali”. L’anima va considerata infatti phusikos, da un punto di vista “fisico”, cioè esaminando scientificamente, tramite l’osservazione e la dimostrazione, cosa e come essa “operi” e “funzioni”. Attraverso una rassegna delle principali aporie intorno all’anima e delle opinioni dei predecessori, Aristotele giunge a definire l’anima, nei primi due capitoli del libro II, come «forma e atto primo di un corpo naturale che sia strumentalmente disposto alla vita», cioè come il principio vitale che realizza e attua le funzioni potenziali di un corpo. Con un esempio: non basta possedere gli occhi per “vedere”: gli occhi di per sé sono soltanto strumenti della vista, mentre occorre, per “vedere”, un principio che realizzi e attui la vista. E così pure per tutte le funzioni vitali e biologiche, primarie e secondarie, semplici e complesse. Ne segue che, in quanto tale, nella sua dimensione funzionale di forma del corpo materiale, l’anima non è separabile dal corpo e non sussiste indipendentemente dal corpo. Si tratta del celebre “ilemorfismo” aristotelico, per cui l’anima è appunto la morphe, la forma, della hule, della materia, corporea. Nessun dualismo di sostanze è quindi possibile nella psicologia di Aristotele né dell’anima si può dare una descrizione “materiale” o “sostanziale” autonoma, cioè come qualcosa che si generi o sussista di per sé, ossia autonomamente dal corpo.

Queste, per dirle semplicemente, sono le principali critiche rivolte ai predecessori e a Platone soprattutto: l’anima non è una realtà composta di elementi fisici o naturali (come vogliono i presocratici) né una realtà dotata di statuto e capacità psichiche distinti, capaci di tradursi in azioni fisiche nel corpo (come vuole Platone), perché il vivente è un’unità indissolubile di cui anima e corpo manifestano l’aspetto funzionale, cioè formale, e strumentale, cioè materiale. Si noterà per quale motivo, ed entro quali limiti, il filosofo della mente Hilary Putnam abbia potuto vedere in Aristotele il lontano progenitore della sua spiegazione “funzionalista” del rapporto anima-corpo.

Il libro II prosegue con l’esame delle facoltà dell’anima, che coincidono con altrettante funzioni biologiche, muovendo dalle prime due. L’anima esercita infatti, in primo luogo, una funzione nutritiva o vegetativa, che è propria di tutti i viventi, comprese le piante, e che presiede alla nutrizione e alla riproduzione; quindi una funzione sensitiva, che appartiene a tutti gli animali, e che ha a che fare con la percezione sensibile, ma anche con gli appetiti e con gli impulsi al movimento e all’azione. Nel contesto dell’indagine sulla facoltà sensitiva, Aristotele passa in rassegna natura e modi dei cinque sensi, giungendo ad alcune importanti acquisizioni. Innanzitutto, viene negato il carattere “passivo” della sensazione, perché il percepire implica l’attività dell’organo di senso nella percezione: non si tratta pertanto esclusivamente di subire il contatto con un oggetto esterno, perché tale contatto “attiva” l’organo di senso che, solo quando è in atto, “sente” propriamente e percepisce. Un altro esito importante di questa sezione dell’opera consiste nella distinzione fra sensibili “ propri”, cioè quelli percepibili solo da un senso specifico (come il colore è il “sensibile” proprio soltanto della vista), e sensibili “comuni”, ossia quelli che possono essere percepiti da più sensi (come il movimento, che può essere percepito sia dalla vista sia dal tatto). Sui primi, secondo Aristotele, non è possibile nessun errore percettivo; sui secondi, invece, l’errore è certamente possibile.

Il libro III del De anima esamina infine la facoltà più alta dell’anima, che appartiene solo agli uomini, quella intellettuale. Aristotele prende le mosse dalla transizione dalla sensibilità all’intelletto, considerandone i diversi passaggi. Egli si interroga dapprima sulla possibilità che esista un “sesto” senso oltre i cinque, un senso “comune”, capace di “unificare” l’esito della percezione dei primi cinque. Ma la risposta è negativa: non esiste nessun “sesto” senso, ma ognuno dei cinque sensi percepisce e ha coscienza della percezione compiuta, sicché non occorre un “senso” superiore che raccolga e unifichi le percezioni. L’unità delle percezioni deriva dal fatto che essa riguarda i già citati sensibili “comuni”, ossia quelli percepiti da più sensi contemporaneamente: è da questa percezione integrata, o appunto “comune”, che dipende la possibilità di acquisire una prospettiva unificata e plurale dell’atto percettivo.

Ma il passaggio dalla sensazione al pensiero e all’intelletto è ancora mediato dalla presenza di una facoltà intermedia, la phantasia. Normalmente resa con “immaginazione”, la phantasia adempie alla funzione di produrre phantasmata, cioè immagini derivate da una precedente sensazione in atto che a loro volta costituiscono l’insieme di materiali su cui si esercita l’azione dell’intelletto. Siamo giunti così al nous, all’intelletto o facoltà intellettuale. Si tratta di un questione assai complessa e sostanzialmente concentrata nei capp. 4-5 del libro III. Aristotele formula una premessa per questa parte della sua trattazione: come nell’intera natura, anche nell’anima e rispetto alle sue facoltà, conviene distinguere una dimensione formale e una materiale. Vi sarà perciò un intelletto analogo alla materia e un intelletto analogo alla forma. O meglio: vi saranno una dimensione o uno stato dell’intelletto analogo alla materia e uno analogo alla forma. L’intelletto analogo alla materia è concepito come pura potenza ricettiva degli intellegibili, vale a dire dei contenuti della conoscenza intellettuale – degli oggetti dell’intelletto –, e non potrà coincidere con nessuno di essi prima di pensarli effettivamente. Su questo piano vi è una certa analogia fra il “pensare” e il “percepire”, in entrambi i casi avendo luogo un “subire” l’azione dell’oggetto pensato o percepito da parte della corrispondente funzione dell’anima. Ma questa analogia ha naturalmente un limite, perché, mentre la facoltà sensitiva è connessa ai sensi, cioè a organi corporei, la facoltà intellettiva non è “mescolata” al corpo né dispone di un organo fisico specifico. Ciò giustifica il dubbio che Aristotele esprime, se cioè l’indagine di questa facoltà spetti alla psicologia oppure alla disciplina più alta, la filosofia prima, che si occupa degli enti immateriali.

Ma questo intelletto analogo alla materia, questo intelletto in potenza, che è in potenza, prima di pensarli, tutti i suoi oggetti, cioè gli intelligibili, come giunge a pensare? In altre parole, come passa dalla sua condizione potenziale alla conoscenza in atto, al pensiero degli intellegibili, al loro effettivo possesso? Siamo qui di fronte, nel cap. 5 del libro III, alla principale e più nota difficoltà dell’opera, su cui sono stati versati fiumi di inchiostro e suggerite le interpretazioni più divergenti. L’intelletto “agente” o “attivo” è paragonato a una sorta di luce che rende i colori in potenza colori in atto e permette perciò di coglierli, come pure a una causa efficiente che “produce” i propri effetti; esso è tuttavia “nell’anima”, come suo stato o condizione. E’ importante precisare questo punto perché, notoriamente, alcune importanti interpretazioni antiche hanno voluto concepire l’intelletto agente come un principio esterno, un intelletto divino, perfino coincidente con il primo motore immobile di cui parla il libro XII della Metafisica, che sarebbe responsabile della produzione delle forme intellegibili e della loro trasmissione all’intelletto umano solo passivo o in potenza.

Per quanto ingegnosa, questa interpretazione non trova chiaro fondamento nel testo aristotelico, se la conclusione del cap. 5 insiste sul carattere divino dell’intelletto agente e sulla sua separabilità dal corpo prevalentemente nel senso che si tratta di un’attività intellettuale “pura”, che non si esercita tramite il corpo, e che, come tale, attinge in qualche modo all’immortalità. Ma “quale” immortalità? Anche questo punto è controverso: mi limiterei personalmente a constatare, concludendo su tale aspetto, che Aristotele ripete qui che la conoscenza in atto, cioè il pensiero che pensa, cioè ancora l’attività intellettuale realizzata, è identica al suo oggetto, il che implica necessariamente che consiste nell’identificarsi con il proprio oggetto. L’intelletto in atto, l’intelletto che pensa, è dunque forse soltanto da intendersi come quella funzione intellettuale che, pensando gli intellegibili, si rende identica a essi, differenziandosi così dalla sua condizione solo potenziale, che consiste invece nella disposizione non ancora realizzata ad accogliere gli intellegibili.

Se le cose stessero in questi termini, la separazione, l’eternità e l’immortalità dell’intelletto agente o in atto si rivelerebbero semplicemente come tratti che appartengono agli oggetti intellegibili con cui del resto esso si identifica. In tale ottica sarebbe allora legittimo sostenere che «esso soltanto è ciò che è veramente», anche se, come Aristotele aggiunge, «noi non ricordiamo», appunto nella misura in cui non vi sarebbe nessun “noi” al livello di questo intelletto che è in atto i suoi oggetti, di questa attività intellettuale considerata di per sé, che è ricondotta, senza residui, alla dimensione oggettiva dei suoi contenuti.

 

Bibliografia essenziale

Edizioni
Aristotle De anima, edited with introduction and commentary by W.D. Ross, Clarendon Press, Oxford 1961.

Traduzioni italiane
Movia, Aristotele, L’anima, a cura di G. Movia, Loffredo, Napoli 19912.

Studi
M. Nussbaum e A.M. Rorty (a cura di), Essays on Aristotle’s De anima, Clarendon Press, Oxford 1992.
G. Cambiano e L. Repici (a cura di), Aristotele e la conoscenza, LED, Milano 1993.
E. Berti (a cura di), Guida ad Aristotele, Laterza, Roma 20125.

Il rifiuto e l’oltrepassamento: la Seinsfrage e la passione per la libertà

di
Francesca Brencio

 

Non si raggiunge la cosa del pensiero mettendo in giro una serie di chiacchiere sulla “verità dell’essere” e sulla “storia dell’essere”. […]
Anche se non sono destinate all’eternità, le cose che hanno importanza arrivano ancora in tempo anche se arrivano all’ultima ora.
M. Heidegger

 

I. La domanda sul senso dell’essere e l’ostinazione heideggeriana

Nel 1962 Heidegger scrive:

Nietzsche sapeva bene che cos’è la filosofia. Questo sapere è raro. Solo i grandi pensatori lo posseggono nel modo più puro, nella forma di un costante domandare. La domanda fondamentale, in quanto domanda che fonda in modo autentico, in quanto domanda sull’essenza dell’essere, non è sviluppata come tale nella storia della filosofia. […] La domanda posta chiede che cos’è l’ente. Chiamiamo questa tradizionale “domanda capitale” [Hauptfrage] della filosofia occidentale la domanda guida [Leitfrage].Ma essa è soltanto la penultima domanda. Quella ultima, e cioè la prima, chiede: che cosa è l’essere stesso? Chiamiamo questa domanda, da sviluppare e da fondare per prima, la domanda fondamentale [Grundfrage] della filosofia, perché in essa soltanto la filosofia domanda del fondamento dell’essere in quanto fondamento e al tempo stesso cerca di ottenere, domandando, il proprio fondamento e si sfonda. Prima che questa domanda sia posta espressamente, la filosofia, se vuole fondarsi, deve sempre mettersi al sicuro percorrendo la via di una teoria della conoscenza o della coscienza, deve sempre restare su un cammino che, per così dire, si muove nello spazio antistante la filosofia e non gira al suo centro. La domanda fondamentale rimane estranea a Nietzsche come alla storia del pensiero a lui precedente[ref]M. Heidegger, Nietzsche, trad. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1994, pp. 31-77.[/ref].

La domanda fondamentale è la domanda sul senso dell’essere, è «il pensiero più grave della filosofia perché è il suo pensiero più intimo e più esteriore allo stesso tempo. È il pensiero con il quale essa sta e cade»[ref]Ibidemp. 34.[/ref]. Lo scopo dichiarato di Essere e tempo è quello di «riproporre il problema sul senso dell’essere (Die frage nach dem Sinn von Sein)»[ref]M. Heidegger,, Essere e tempo, trad. it. a cura di P. Chiodi, Longanesi, Milano 1976, p. 14.[/ref], problema che compare come un filo d’Arianna in tutta la meditazione del filosofo tedesco e che appare come l’unica domanda fondamentale della filosofia. Sein und Zeit inizia con una epigrafe che Heidegger prende a prestito dal Sofista di Platone, in cui Socrate dice ad un sofista: «È chiaro infatti che voi da tempo siete familiari con ciò che intendete quando usate l’espressione essente; anche noi credemmo un giorno di comprenderlo senz’altro, ma ora siamo caduti nella perplessità»[ref]Ivi.[/ref]. Heidegger scrive subito dopo:

È dunque necessario riproporre il problema sul senso dell’essere […]. Lo scopo del presente lavoro è quello dell’elaborazione del problema del senso dell’ “essere”. Il suo traguardo provvisorio è l’interpretazione del tempo come orizzonte possibile di ogni comprensione dell’essere in generale[ref]Ivi.[/ref].

Il problema sul senso dell’essere si inscrive nel pensiero heideggeriano non come un problema filosofico tra molteplici problemi filosofici, ma come il problema per eccellenza della filosofia. Riproporre la Seinsfrage significa riformulare il problema della comprensione dell’essere stesso, oltrepassando la metafisica ed il suo pensare rappresentazionalistico che ha contribuito ad obliare la domanda fondamentale della filosofia.

La centralità di questo domandare, che solo l’esserci (il Dasein) riesce a porre in atto, chiama in causa tutta la storia della filosofia occidentale e della metafisica, la quale deve essere oltrepassata perché incapace di rispondere alla domanda fondamentale: che cos’è l’essere? Tale incapacità non è soltanto la caratteristica più propria del pensiero filosofico occidentale, ma si accompagna all’oblio dell’essere da parte della metafisica stessa, in modo destinale. E’ proprio il destino dell’essere che annovera, fra le sue molteplici figure, quella dell’oblio, creando una vera e propria fenomenologia dell’essere che progressivamente, nel corso della storia, manifesta ed occulta se stesso, facendo sì che «la questione dell’essere rimane sempre la questione dell’ente»[ref]M. Heidegger, Lettera sull’umanesimo, in Segnavia, trad. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, p. 284.[/ref].

Già in Essere e tempo Heidegger scriveva:

Benché la rinascita della metafisica sia un vanto del nostro tempo, il problema dell’essere è oggi dimenticato. Si crede infatti di potersi sottrarre ad una rinnovata γιγαντομαχία περί τῆς οὐσίας. Eppure non si tratta di un problema qualsiasi[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 53.[/ref].

La metafisica occidentale oblia la differenza ontologica e crea una sovrapposizione fra essere ed ente. Il tratto della semplice presenza, come caratteristica tipica con cui la metafisica pensa l’essere, è la grande impasse in cui tutta la filosofia è incappata.

L’interpretazione antica dell’essere dell’ente trae il suo orientamento dal “mondo” e dalla “natura” nel senso più ampio e che, di fatto, essa ricava dal “tempo” la sua comprensione dell’essere. La prova (…) di ciò è la determinazione del senso dell’essere come παρουσία, o di ουσία, che ha il significato ontologico-temporale di “presenzialità”. L’ente è concepito nel suo essere come “presenzialità”, cioè viene compreso in riferimento ad un determinato modo del tempo, il presente[ref]Ibidem, p. 44.[/ref].

Concependo l’essere come semplice presenza[ref]Cfr. M. Heidegger, Seminario di Zäringhen (1973)in Seminari, trad. it. a cura di M. Bonola, Adelphi, Milano 1992, p. 176.[/ref], la filosofia occidentale si ostina nel suo ambito con l’intenzione di spiegarlo senza capire che l’essere non si lascia rappresentare come un oggetto:

Finché la filosofia non fa che precludersi costantemente la possibilità di accedere alla cosa del pensiero, cioè alla verità dell’essere, essa è assicurata contro il pericolo di infrangersi sulla durezza della sua cosa. Per questo c’è un abisso tra il “filosofare” sul naufragio e un pensiero che davvero naufraga[ref]M. Heidegger, Lettera sull’umanesimo, in Segnavia, trad. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, p. 296.[/ref].

Tesa a questa comprensione oggettivata di ciò che l’essere “rappresenta”, la metafisica occidentale oblia la differenza ontologica che la domanda sul senso dell’essere reclama, impedendo la reale comprensione di ciò che l’essere è; infatti, «l’essere stesso può illuminare – aprire la differenza in esso custodita di essere ed essente nella sua verità solo quando la differenza stessa espressamente accade»[ref]M. Heidegger, L’oltrepassamento della metafisica (1946), in Saggi e discorsi, trad. it. a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976, p. 50.[/ref].

II. L’essere ed i “pensatori iniziali” 

Che cos’è l’essere di cui Heidegger parla?

Esso è se stesso […]. L’essere non è né un Dio né un fondamento del mondo[ref]M. Heidegger, Lettera sull’umanesimo, in Segnavia, cit., p. 284.[/ref].

Come si legge nei verbali del seminario di Zurigo (1951)[ref]Cfr. M. Heidegger, Seminario di Zurigo, in Seminari, cit., pp. 206-207.[/ref], essere e Dio non sono identici; in Proscritto a “Che cos’è metafisica?” Heidegger dice che l’essere non è un prodotto del pensiero, ma il pensiero essenziale è un evento dell’essere[ref]M. Heidegger, Proscritto a “Che cos’è metafisica?”, in Segnavia, ed. cit., p. 262.[/ref], e nella Lettera sull’umanesimo Heidegger continua affermando che «in quanto tale l’essere è misterioso, la semplice vicinanza di un dominare non invadente»[ref]M. Heidegger, Lettera sull’umanesimo, in Segnavia, ed. cit., p. 286.[/ref].

È molto difficile trovare delle definizioni positive dell’essere nell’opera heideggeriana, poiché esso è per lo più definito attraverso via negationis. Ciò che colpisce della definizione che Heidegger dà dell’essere è la sua non concettualizzabilità, la sua inoggettivabilità, cioè il suo non ridursi ad oggetto, ad ente, a semplice-presenza[ref]Cfr. M. Marassi, Presenza e differenza. Heidegger e l’unità originaria, in AA. VV., La differenza e l’origine, Centro di Ricerche di Metafisica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Milano 1987, pp. 302-351.[/ref]. E proprio questo non ridursi a semplice-presenza fa dell’essere il fondamento infondato del discorso heideggeriano. Tuttavia tale non ridursi a concetto (di ciò che l’essere rappresenta) e il suo non ridursi ad oggetto non sono sinonimo di una insignificanza dal momento che non occorre confondere il senso [Sinn] con il significato [Bedeutung], cioè con ciò che è articolabile in una definizione.

La riflessione che Heidegger compie sul senso dell’essere conduce ad una via verso i pensatori iniziali dal momento che nelle loro parole è celato il senso più profondo della domanda: «La parola del pensiero iniziale custodisce “ciò che è oscuro”»[ref]M. Heidegger, Eraclito, trad. it. a cura di F. Camera, Mursia, Milano 1993, p. 26.[/ref]. In questa parola è contenuto, pensato e nominato l’essere, sebbene essa rimanga per l’uomo contemporaneo, figlio della tecnica e della metafisica occidentali, la parola più estranea ed inascoltata.

Heidegger inizia proprio dal pensiero greco. A tal proposito Gadamer ha osservato che, pur avendo il pensiero greco svolto sempre un ruolo privilegiato di confronto con la filosofia tedesca, tuttavia egli osserva che «con Heidegger viene introdotto qualcosa di nuovo, una nuova prossimità e una nuova interrogazione critica degli esordi greci del filosofare»[ref]H. G. Gadamer, I sentieri di Heidegger, traduzione italiana a cura di R. Cristin e (solo per il cap. VIII) di G. Moretto, Marietti, Casale Monferrato 1987, p. 125.[/ref]. L’insistenza heideggeriana sulla necessità di tornare ai pensatori dell’inizio non va intesa come un ritorno sic et simpliciter ai Greci o ai presocratici, bensì deve essere compreso come un ritrovare nelle loro parole ciò che caratterizza la storia dell’essere entro cui noi ci inscriviamo, come “l’impensato”.

Cos’è questo impensato?

Nel corso del seminario tenuto a Friburgo nel semestre inverale del 1966/67, in collaborazione con Eugen Fink, Heidegger disse: «Faccio una proposta: l’impensato è l’ ἀλεθήια. Sull’ ἀλεθήια in quanto ἀλεθήια in tutta la storia greca non c’è nulla»[ref]M. Heidegger/ E. Fink, Colloquio intorno ad Eraclito (1977), trad. it. a cura di M. Nobile, Coliseum, Milano 1992, p. 301.[/ref]. L’ ἀλεθήια è forse la dimensione più propria con cui definire l’essere: essa è la svelatezza che si occulta, il non nascondimento (Unverborgenheit), l’apparizione fugace e nascosta; è il mostrarsi-occultarsi di ciò che l’essere è. L’ ἀλεθήια non ha nulla a che fare con il concetto di verità: piuttosto si configura come ciò che abbraccia convenientemente τἀ εόντα, non è una vuota apertura, ma il disvelamento che circonda l’εόν. L’ ἀλεθήια attesta che prima della verità del giudizio vi è quella delle cose, della loro presenza e del loro essere accanto all’uomo[ref]Cfr. C. Fabro, Ontologia dell’arte nell’ultimo Heidegger, in “Giornale critico della filosofia italiana”, n. 31, 1952, p. 345 e s.[/ref].

Nel § 44b di Sein und Zeit, in relazione all’ ἀλεθήια si dice: «La traduzione con la parola verità, e più ancora le definizioni concettuali teoretiche di questa espressione, velano il senso di ciò che i greci, come comprensione prefilosofica, posero ovviamente a base dell’uso terminologico di ἀλεθήια. ἀλεθήια, pensata in quanto ἀλεθήια, non ha nulla a che fare con “verità”, ma significa disvelamento. Ciò che ho detto allora in Sein und Zeit va già in questa direzione. L’ ἀλεθήια come disvelamento mi ha sempre tenuto occupato, ma si frapponeva sempre la “verità”. L’ ἀλεθήια come disvelamento va nella direzione di ciò che è la Lichtung»[ref]M. Heidegger / E. Fink,  Dialogo intorno Eraclito, cit., p. 301.[/ref].

In una prima fase del suo pensiero (fino agli anni ’30), in questo contesto interpretativo, il pensiero greco è interpretato in maniera monolitica: Parmenide è chiamato in causa da Heidegger come l’iniziatore del predominio della considerazione ontica su quella ontologica, inaugurando la strada della soggettività, ed Aristotele come colui che porterà a termine questo predominio con l’ ουσία. Tuttavia, intorno agli anni ’30 l’interpretazione della grecità muta di segno in Heidegger tanto che egli non parlerà più di pensiero dell’inizio in termini uniformi bensì leggerà in esso delle dicotomie, arrivando ad individuare alcuni filosofi che hanno pensato l’origine (l’essere) ed altri che hanno aperto la strada alla metafisica come oblio dell’essere. In questa nuova cornice interpretativa, tra i pensatori dell’origine capaci di aver pensato l’essere,  ora Heidegger annovera proprio Parmenide nei termini di colui che ha custodito l’essere nella enigmaticità delle sue parole. È da qui che egli attingerà per formulare il discorso sull’ ἀλεθήια. Tra coloro, invece, che hanno inaugurato la strada della metafisica come oblio dell’essere Heidegger pone Platone ed Aristotele[ref]Cfr. L. Ruggiu, Heidegger e Parmenide, in AA. VV., Heidegger e la metafisica, Marietti, Casale Monferrato 1991, pp. 49-81.[/ref].

A tal proposito Gadamer dice: «Tutte le successive pubblicazioni di Heidegger concernenti il suo rapporto con i Greci, iniziate con il saggio su Anassimandro apparso in Sentieri interrotti, non condividono più nella stessa misura la fusione di orizzonti che negli studi precedenti era stata spinta fin quasi all’identificazione»[ref]H. G.Gadamer, I sentieri di Heidegger, cit., pp. 126-127.[/ref]. Heidegger intese il rapporto con i Greci non solo come un ripercorrere la storia della filosofia compresa nei termini di apparizione ed oblio dell’essere, ma anche (e soprattutto) come un colloquio profondo ed intimo. Egli «nei Greci trovò fin dall’inizio i suoi veri interlocutori. Essi richiedevano a lui costantemente di pensare in modo ancora più greco e di trovare e “ripetere” in loro il suo proprio interrogare»[ref]Ibidem, p. 126.[/ref]. Se è vero che Heidegger usava i testi presocratici con una certa violenza[ref]Ibidem, p. 128.[/ref], è altresì vero che fu dallo studio di Aristotele[ref]Ivi.[/ref] che l’esperienza iniziale del pensiero greco gli si rivelò in tutta la sua portata; proprio Aristotele gli servì come alleato contro Platone e contro le sue posizioni[ref]Cfr. H. G.Gadamer, I sentieri di Heidegger, cit., pp. 71-82.[/ref]:

Hegel dice della filosofia dei Greci: “In essa si può trovare soddisfazione solo fino a un certo grado” e cioè la soddisfazione dell’impulso dello spirito alla certezza assoluta. Questo giudizio di Hegel su ciò che è insoddisfacente della filosofia greca è pronunciato a partire dal compimento della filosofia. Nell’orizzonte dell’idealismo speculativo, la filosofia dei greci rimane nel “non ancora” del compimento. Se però ora prestiamo attenzione all’enigma dell’ ἀλεθήια che domina sull’inizio della filosofia greca e sul corso dell’intera filosofia, allora anche al nostro pensiero la filosofia dei greci si mostra in un “non ancora”. Solo che questo “non ancora” è il “non ancora” dell’impensato, non un “non ancora” che non ci soddisfa, ma un “non ancora” al quale noi non bastiamo e che non soddisfiamo[ref]M. Heidegger, Hegel e i Greci, in Segnavia, cit., p. 391.[/ref].

Un altro termine attraverso il quale Heidegger tenta di spiegare l’essere è offerto dalla φύσις. Essa indica “ciò che sboccia da sé”, esprimendo la spontaneità dell’aprirsi, della presenza indipendente della soggettività. La φύσις è una delle figure dominanti del weg heideggeriano:

Nella Fisica, Aristotele concepisce la φύσις come l’enticità di un particolare ambito dell’ente, quello degli enti naturali […]. Se non che il trattato che compare nel libro G della Metafisica […] dice esattamente il contrario: la φύσις (l’essere dell’ente come tale nella sua totalità) è φύσις τις – una certa qual φύσις […]. in questo inizio l’essere è pensato come φύσις [ref]M. Heidegger, Sull’essenza e sul concetto della φύσις, in Segnavia, cit., p. 253 e s.[/ref].

 Se la φύσις ha qualche possibilità di nominare l’essere nei termini di “la presenza di ciò che appare”[ref]Cfr. M. Heidegger, Che cosa significa pensare? (1952), trad. it. a cura di U. M. Ugazio e G. Vattimo, Sugarco, Milano 1972, vol. II, pp. 93 e ss.[/ref], il suo “sbocciare” genera la molteplicità degli enti – attraverso quello stesso procedimento che Eraclito chiamava πόλεμος – e tramite questi appare entificata. La φύσις porta l’essere al di là della metafisica; la sua caratteristica è duplice: essa è l’Aufgehen, il dispiegarsi, e la Beraubung, il trattenere in sé.

III. Dal non-nascondimento alla correttezza, verso il fondamento

La riduzione metafisica dell’essenzialità dell’essere è fatta risalire ai pensatori successivi ai presocratici, a coloro che hanno interpretato la verità come conformità tra la sintesi del conoscere e la sintesi dell’ente. Platone, secondo Heidegger, ha interpretato il concetto di svelatezza, di non nascondimento, cioè il concetto di ἀλεθήια, come “correttezza” (ὀρθότης), attribuendo così al non nascondimento una dimensione ontica, oggettiva[ref]Cfr. M. Heidegger, Domande fondamentali della filosofia. Sezione di “Problemi della Logica” (1984), trad. it. a cura di U. M. Ugazio, Mursia, Milano 1988, pp. 48-51.[/ref]. Se la svelatezza si fa correttezza, essa è spinta tra la molteplicità degli enti e la verità non è più la manifestazione di ciò che si nasconde, ma il corretto riferimento tra ciò che nel mondo sensibile si percepisce e l’idea corrispondente nell’Iperuranio; è così che la verità si pone sotto il giogo dell’idea – e con essa anche il linguaggio[ref]Cfr. U Galimberti, Linguaggio e civiltà. Il linguaggio occidentale nella lettura di Heidegger e Jaspers, Mursia, Milano 1977, pp. 125 e ss.[/ref] – e l’essere sotto quello del dover essere, cioè dei valori che ne determinano la bontà. Ma la verità così intesa non fa altro che trascrivere in termini di semplice-presenza ciò che in realtà non lo è, facendo diventare l’essere una παρουσία dell’ente stesso.

Anche Aristotele e Tommaso d’Aquino sono da Heidegger considerati come interpreti della verità nei termini di ὀμοίωσις; è stato Aristotele a dire che «il vero e il falso non sono nelle cose […] ma solo nel pensiero»[ref]Aristotele, Metafisica, trad. it. a cura di G. Reale, Rusconi, Milano 1993, E4, 1027b, 25-27, p. 281.[/ref] aprendo la strada al principio dell’adeguatio intellectus et rei, che nel medioevo ha trovato tanta fortuna e che ha avuto la sua formulazione più compiuta con Tommaso[ref]Cfr. Tommaso d’Aquino, Liber de veritate catholicae fidei contra errorem infidelium, in Summa contra gentiles, Marietti, Casale Monferrato 1961, vol. II, libro I, cap. 4, pp. 5 e ss.[/ref]. Questo principio, che ormai ha totalmente dimenticato e abbandonato l’originarietà dell’ ἀλεθήια, nel pensiero moderno sarà preso da Cartesio come incipit della Regula VIII nell’opera Regulae; lì si legge: «Veritatem proprie vel falsitatem non nisi in solo intellectum esse posse»[ref]R. Descartes, Regulae ad directionem ingenii, in Discorso sul metodo. Regole per la ricerca della verità, trad. it. a cura di G. Galli, Laterza, Bari 1968, p. 33.[/ref]. E’ così che il non nascondimento della verità viene smarrito lungo la via del pensiero occidentale, delineando la verità nei termini di conformità (Übereinstimmung) del conoscere, cioè di rapporto fra l’atto predicativo con l’oggetto del giudizio. La cosa, per essere detta vera, deve uscire allo scoperto, deve venir fuori dal nascondimento e porsi nella sintesi di soggetto e predicato. Così concepita, la verità diventa una specie di aggiunta dell’essere in ambito logico (nei termini di conformità del giudizio) o in ambito metafisico (nei termini di conformità alle idee separate o in Dio).

Su questa via, fatta di sovrapposizioni e smarrimenti, si pone anche la definizione del pensare non più come νοεῖν o come λέγειν, ma come l’attività sintetica a priori del soggetto, che in Kant trova il suo magistrale compimento come con-cepire. A pensiero diventato ormai rappresentazione e giudizio è conforme il principio omne ens habet rationem; nihil est sine ratione: nessun ente si sottrae alla legge del fondamento. Proprio la riflessione sul fondamento conduce Heidegger a tornare a Leibniz e lo conduce a porsi una domanda: il principio di ragion sufficiente ha una ragione? Il principio di ragione parla della totalità dell’essente: esso dice omne ens, quindi parla dell’essente nella sua totalità, dunque dell’essere.

Bisogna ora veder il fatto che, e il senso in cui, qualcosa come il fondamento appartiene all’essenza dell’essere. Essere e fondamento si coappartanegono. Dalla sua appartenenza all’essere in quanto essere, il fondamento riceve la sua essenza. Viceversa, è dall’essenza del fondamento che l’essere domina in quanto essere. Fondamento ed essere sono lo stesso, ma non l’identico, come indica già la differenza tra i termini “essere” e “fondamento”. L’essere è nella sua essenza fondamento. Per questo l’essere non può avere ancora un ulteriore fondamento che dovrebbe fondarlo. Quindi il fondamento rimane via (Weg, ab) dall’essere. Nel senso di un tale rimanere-via (Ab-bleiben) del fondamento dall’essere, l’essere “è” il fondo abissale, l’Ab-grund. In quanto l’essere come tale è in sé fondante, rimane esso stesso privo di fondamento. L’essere non rientra nel dominio della tesi del fondamento, bensì solo l’ente[ref]M. Heidegger, Il principio di ragione (1957), trad. it. a cura di F. Volpi e G. Gurisatti, Adelphi, Milano 1991, p. 94.[/ref].

 Heidegger insiste costantemente sulla differenza che separa il versante logico del principium rationis da quello ontico del medesimo e fa discendere la logica dalla metafisica, conferendo a quest’ultima un primato sulla prima. Come lo aveva pensato Leibniz, il principio di ragione aveva una topologia tale da caratterizzarsi in tre livelli: quello della soggettività, quello gnoseologico e quello divino (Dio), fondamento infinito dei primi due. Secondo Heidegger tra il principium rationis e Dio esiste una circolarità: il principio è valido in quanto esiste Dio che lo conferma e lo concretizza; e Dio esiste proprio perché il principio è valido. Si è in presenza di un principio che si muove in circolo ed il cui orizzonte di rimando è quello ontico-teologico, ma non ontologico.

Il principio di ragione costituisce per Heidegger il primo pilastro della metafisica e altresì la prima formulazione della differenza ontologica. Il principio di ragione rimane fuori dal luogo originario di indagine: esso sta sulla soglia, non al suo interno, facendo sì che il problema dell’essere rimane è senza fondamento. Tuttavia, c’è anche un senso ulteriore per il quale l’essere è senza fondamento e, se si vuole, tale senso è quello che più da vicino caratterizza la meditazione heideggeriana:  l’essere in quanto tale è senza fondamento, cioè Ab-Grund, in quanto non fondato. L’essere è detto Ab-Grund invece proprio mentre si predica (nel senso di predicato) il suo essere la stessa cosa con il Grund. Il principio di ragion sufficiente non vale per l’essere perché l’essere stesso è la ragione di se medesimo: esso è co-originario al fondamento e nello stesso tempo come radicalmente differente ad esso. L’essere è un abisso senza fondo che la metafisica non è riuscita a pensare.

IV. Il fondamento – ovvero della libertà

Il problema del principio di ragion sufficiente è strettamente legato al tema del fondamento, che tanto spazio ha occupato nella speculazione heideggeriana, e alla questione del rapporto tra essere ed ente, con il conseguente accento sulla libertà dell’uomo – cioè sulla libertà del Dasein. Il fondamento secondo Heidegger non va trovato nel principio di ragione, poiché esso è pre-logico:

Il “principio di ragione”, come “principio supremo”, sembra escludere fin dall’inizio che vi sia un problema del fondamento. Ma il “principio di ragione” dice qualcosa sul fondamento come tale? Come principio supremo, svela forse l’essenza del fondamento? Nella sua formulazione più comune e più breve, il principio dice: nihil est sine ratione, niente è senza fondamento, mentre nella sua formulazione positiva: omne ens habet rationem, ogni ente ha un fondamento. Il principio fa un’asserzione sull’ente, e precisamente in riferimento a qualcosa come il suo “fondamento”. Ma in che cosa consista l’essenza del fondamento, in questo principio non è specificato. Anzi per questo principio, l’essenza del fondamento è presupposta come una “rappresentazione” per sé evidente. Ma anche per un altro verso il “supremo” principio di ragione fa uso dell’essenza non chiarita del fondamento; infatti il carattere specifico di principio di questo principio in quanto principio “fondamentale”, principium grande (Leibniz), può essere determinato in modo originario soltanto in riferimento all’essenza del fondamento. Occorre pertanto mettere in questione il “principio di ragione” sia per il modo in cui si pone, sia per il “contenuto” che pone, se si vuole che, al di là di una “rappresentazione” indeterminata e generica, l’essenza del fondamento diventi un problema […]. Anche se non getta alcuna luce sul fondamento come tale, il principio di ragione può tuttavia servire come punto di partenza per una prima connotazione del problema del fondamento[ref]M. Heidegger, L’essenza del fondamento, in Segnavia, cit., pp. 82-84[/ref].

 Sull’essenza del fondamento fu pubblicato due anni dopo Essere e Tempo (quindi nel 1929, lo stesso anno in cui egli pronunciò il discorso d’apertura per quell’anno accademico all’Università di Freiburg, la prolusione Che cos’è metafisica?), e in quell’opera Heidegger partì dall’analisi del principio di ragion sufficiente di Leibniz, o se si vuole, dal principio di causalità, per discutere nuovamente della differenza ontologica. Prendendo le distanze dalla tradizione filosofica per la quale il vero sapere si configura come sapere di cause (vere scire est per causas scire), Heidegger si interessa del fondamento della differenza ontologica chiamando in causa la trascendenza dell’esserci: «Il problema dell’essenza del fondamento diventa il problema della trascendenza»[ref]Ibidem, p. 91.[/ref]. La trascendenza indica, in questo contesto, ciò che vi è di più proprio dell’essere umano, come ciò che lo costituisce e fonda ogni possibile comportamento e atteggiamento. La trascendenza è, in altre parole, ciò che costituisce l’ipseità (Selbstheit)[ref]Cfr. Ibidem, p. 95[/ref], ciò che pone l’esserci nella condizione di oltrepassare costantemente la natura[ref]Cfr. Ibidem, p. 95-97[/ref], gli enti intramondani e il mondo[ref]Cfr. Ibidem, p. 99-118, con particolare attenzione alla nota 59 presente nell’edizione Adelphi (p. 118).[/ref] (che Heidegger chiama “l’in vista di”) per affermare la propria libertà.
Scrive Heidegger:

L’oltrepassamento verso il mondo è la libertà stessa. Ne consegue che la trascendenza non si imbatte nell’ “in vista di” (il mondo – n.d.a.) come in un valore o in un fine per sé sussistenti, ma è la libertà, proprio in quanto libertà, a pro[ref]Corsivo di Heidegger nell’edizione Adelphi.[/ref]-porre a se stessa l’ “in vista di” […]. Solo la libertà può lasciare che all’esserci  un mondo si imponga (walten) e si faccia mondo (welten)[ref]Anche qui corsivo di Heidegger, come nella riga seguente.[/ref]. Il mondo, infatti, non è mai, ma si fa mondo[ref]Ibidem, p 120.[/ref].

L’esserci non è fondato né autofondato: non è un Io alla maniera idealistica capace di concepire e porre il non-io e la realtà tutta. Piuttosto, l’esserci è la trascendenza stessa che si manifesta attraverso il suo superamento e, per mezzo di essa, fa il mondo, lo rende possibile.  Come Sein und Zeit aveva già chiarito, allorquando Heidegger spiegava la deiezione, l’essere-per-la-morte e la progettualità, l’esserci  reclama una libertà appassionata ed affrancata dal mondo la quale, solo e proprio in virtù di tale affrancamento, permette al mondo di essere possibile. La libertà dell’esserci (cioè dell’uomo), corre costantemente il rischio di essere smarrita e di far vacillare l’esserci nelle sue scelte, di imprigionare il mondo in una realtà che esautori la possibilità della sua esistenza, una libertà che ammette al suo interno lo smarrimento e l’errore. In antitesi con la tesi sartriana per la quale l’uomo è condannato alla libertà, Heidegger afferma che è la libertà ad avere l’uomo. Come già indicato in Sein und Zeit insegna, l’uomo  è un esserci che “ha da essere”, l’unico ente capace di progettarsi e di farsi carico del proprio “poter essere”, cioè della propria libertà, parola che nello scritto del ’27 è prudentemente evitata e sostituita con sinonimi: «apertura», «risolutezza» o «progetto». Solo con il confronto con Kant e con Schelling (durante il corso tenuto nel 1936) Heidegger maturerà un’interpretazione della libertà nei termini di un fenomeno generato dalla coappartenenza di essere e uomo, sia nei termini di  «libertà da» ma anche di «libertà per».

In tal senso, la libertà quale emerge dallo scritto del ’29, è ancora più originaria di ogni decisione che spetta al Dasein poiché il suo Grund è nell’Abgrund, cioè nello stesso fondamento che le viene tolto. La libertà dell’esserci può essere esperita e compresa nella sua autentica abissalità:

La libertà come trascendenza non è tuttavia solo una particolare “specie” di fondamento, ma l’origine del fondamento in generale. La libertà è libertà di fondamento (Freiheit zum Grunde)[ref] Ibidem, p. 121 – corsivo di Heidegger.[/ref].

In questo senso l’ontologia si fa strumento di conoscenza della finitezza dell’uomo e si flette in direzione di una nuova soggettività che fa del trascendentale kantiano un momento da superare[ref]Cfr. F. Brencio, Scritti su Heidegger, Aracne, Roma 2013.[/ref]. La citazione contenuta in Sein und Zeit che recita “Più in alto della realtà si trova la possibilità” (Höher als die Wirklichkeit steht die Möglichkeit) sembra indicare proprio l’apertura ad una dimensione della soggettività ancora più radicalmente libera di quanto la Daseinsanalyse indichi; forse questo è quanto due anni dopo, nel Kantbuch, egli affiderà al primato dell’immaginazione trascendentale sull’intelletto.

Il Kantbuch di Heidegger, infatti, ripropone la domanda sull’essere al fine di comprendere correttamente il suo rapporto con il tempo, ripensando radicalmente la finitezza dell’essere dell’esserci e mettendo in questione questa stessa in quanto possibilità per lo svelamento della finitezza dell’essere stesso. Heidegger intende andare oltre Kant: questo significa concretamente radicalizzare la struttura trascendentale della soggettività, piegandola alle esigenze speculative del suo pensiero. In Kant e il problema della metafisica (1929) Heidegger vuole liberare i germi potenziali che costituiscono la possibilità della conoscenza ontologica, cioè la trascendenza dell’esserci. Come è noto, con questa sua impostazione speculativa egli critica la posizione postkantiana della scuola di Marburgo e più in generale la tendenza a far confluire e dissolvere l’estetica trascendentale nella logica trascendentale. Heidegger legge la Critica della ragione pura come una tematizzazione della ragione umana finita: questo significa contrapporre alla lettura dei marburghesi un ripensamento fenomenologico. Per riassumere, si può affermare che tra pensiero ed intuizione occorre che ci sia una intrinseca affinità affinché il pensiero possa unirsi all’intuizione stessa, quindi una sintesi che permetta all’oggetto di divenire manifesto; Heidegger nomina questo processo sintetico “sintesi veritativa” (veritative Synthesis): una sintesi capace di integrare al suo interno la sintesi predicativa e la sintesi apofantica. La sintesi veritativa è il rendere manifesto in qualità di oggetto l’ente incontrato, mostrarlo nella sua verità: l’oggetto, in quanto Gegen-stand, può darsi esclusivamente per la conoscenza finita. Conoscere ciò che si mostra significa nella lettura hiedeggeriana conoscere il fenomeno, ovvero conoscere l’ente stesso, la cosa in sé.

Questa lettura fenomenologica del fenomeno implica una rielaborazione mutata del concetto stesso di fenomeno: in esso non si conosce solo l’oggetto ma l’ente stesso, o meglio, in generale la finitezza. L’esserci, in quanto finito, comprende il suo proprio essere progettandolo nell’orizzonte temporale di trascendenza e in questa progettualità si rivela la stessa finitezza irradiandosi nella libertà. Proprio a partire da questa finitezza, il Dasein ridesta l’originaria domanda metafisica producendo un’inversione nell’algebra della conoscenza: l’ontologia si manifesta come ratio cognoscendi della finitezza e la finitezza come la ratio essendi dell’ontologia.

V. La soggettività moderna: il rifiuto e lo smarrimento

Nel pensiero metafisico accade la riflessione sull’ente e sulla sua conoscibilità: il pensiero diventa quindi un pensiero dell’ente e non più dell’essere. Questa caratteristica è ancora più accentuata nell’epoca moderna dove la certezza del rappresentare l’ente costituisce la verità intorno all’ente. È con Cartesio che inizia l’interpretazione dell’uomo come subjectum[ref]Cfr. M. Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, in Sentieri Interrotti, cit., pp. 84 e ss.; inoltre, M. Heidegger, Essere e tempo, cit., pp. 129 e ss.[/ref], la quale  crea un’antropologia del pensiero in base a cui sull’uomo – inteso come soggetto (subjectum) e non come oggetto (ὑποκείμενον) – si fonda ogni altro ente e da esso trae il proprio principio di legittimazione. La parola subjectum pretende di tradurre il greco ὑποκείμενον ma in realtà tradisce il senso più profondo contenuto in questa parola. Per il greci, ὑποκείμενον indicava

ciò che sta al fondo e che precede ogni determinazione […]. L’interpretazione occidentale dell’essere dell’ente comincia con l’assunzione di termini greci nel pensiero romano-latino; ὑποκείμενον diviene subjectum, ὑποστάσις diviene substantia, συμβεβηκός diviene accidens. Questa traduzione latina dei termini greci non è per nulla quel processo “innocuo” che è ancor oggi ritenuto. Dietro questa traduzione letterale si nasconde il tradursi in un modo di pensare diverso dalla sperimentazione greca dell’essere […], la mancanza di base del pensiero occidentale incomincia proprio con questo genere di traduzione[ref]M. Heidegger, L’origini dell’opera d’arte, in Sentieri Interrotti, cit., p. 8 e s.[/ref]

Il subjectum, la certezza fondamentale, è l’oggettività; l’essere soggetto dell’uomo, in quanto essere pensante è posta al servizio del subjectum:

In quanto subjectum l’uomo è la co-agitatio dell’ego. L’uomo fonda se stesso come criterio di ogni misura con cui viene misurato e commisurato (calcolato) ciò che deve valere come certo […], come vero […], come essente[ref]M. Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, in Sentieri Interrotti, cit., p. 92.[/ref].

La co-agitatio dell’io è la coscientia, che però è già in se stessa un volere, un velle; la co-agitatio rappresenta la volontà nella sua essenza. Nell’opera del 1962, il Nietzsche, si legge:

Nella metafisica moderna ciò si manifesta nel fatto che la certezza di tutto l’essere e tutta la verità viene fondata sull’autocoscienza del singolo io: ego cogito ergo sum. Il trovarsi lì nel proprio stato, il cogito me cogitare, dà luogo anche al primo “oggetto” assicurato nel suo essere. Io stesso e i miei stati siamo l’ente primo e autentico[ref]Ivi, p. 91 e s.[/ref].

La metafisica moderna inizia a concepire l’io, il soggetto, come la certezza fondamentale su cui si articola tutto il discorso filosofico; l’io diventa così il nucleo tematico che garantisce la fondazione autentica di ogni discorso teoretico; l’antropologia pretende di trascrivere in termini di ad essa consoni (il cogito di Cartesio, l’Io penso di Kant, la volontà di Schelling e Schopenhauer, la volontà di potenza di Nietzsche) tutto il discorso ontologico.

La filosofia è diventata antropologia, e su questa via si è trasformata in una preda per la discendenza della metafisica, cioè per la fisica intesa nel suo senso più vasto, che comprende la fisica della vita e dell’uomo, la biologia e la psicologia. Divenuta antropologia, la filosofia stessa perisce a causa della metafisica[ref]M. Heidegger, L’oltrepassamento della metafisica, in Saggi e discorsi, cit., p. 56.[/ref].

Sin dagli anni ’30 Heidegger sviluppa nei suoi corsi universitari un lavoro storiografico volto a delineare la storia della metafisica come storia dell’oblio dell’essere; passando attraverso Cartesio, Leibniz, Kant, l’idealismo tedesco (Schelling ed Hegel) e Nietzsche, Heidegger legge tutta la storia della filosofia occidentale come storia della metafisica, cioè come storia del lungo oblio dell’essere. È con lo studio di Schelling e con la sua metafisica della volontà che Heidegger legge la filosofia a seguire come uno sviluppo del passaggio dalla co-agitatio dell’io alla volontà di potenza nietzscheana. Proprio Nietzsche è considerato da Heidegger come colui che porta a compimento la metafisica occidentale rimanendo tuttavia anche egli inscritto all’interno di questa storia.

            E’ su queste preliminari considerazioni interpretative che va compresa anche la questione dell’umanesimo. Nel 1946 Heidegger scrisse una lettera all’amico Jean Beaufret, pubblicata l’anno successivo (1947) e conosciuta come Lettera sull’umanesimo. Questa lettera è considerata da molti come una specie di riabilitazione teoretica della figura di Heidegger dopo i fatti inerenti al rettorato del 1933 ed è ricca di riflessioni su molteplici temi. La lettera nasce da una domanda posta ad Heidegger dall’amico Beaufret su come fosse ancora possibile trovare un senso del termine umanesimo. La risposta a questa domanda inizia con una presa di posizione da parte di Heidegger nei riguardi della tecnica e dell’agire, per poi arrivare a domandare se sia necessario ancora attribuire una qualche valenza al termine umanesimo. Heidegger è dell’avviso che la tradizione latina e quella umanistica in particolare abbiano solo accentuato il carattere di povertà della Seinsfrage, cioè abbiano ancora una volta posto la domanda sull’ente e non sull’essere, ponendo al centro della riflessione filosofica la moderna antropologia.
Scrive Heidegger:

Ogni umanesimo o si fonda su una metafisica o pone se stesso a fondamento di una metafisica del genere. È metafisica ogni determinazione dell’essenza dell’uomo che già presuppone, sapendolo o non sapendolo, l’interpretazione dell’ente, senza porre il problema della verità dell’essere[ref]M. Heidegger, Lettera sull’umanesimo, in Segnavia, cit., p. 275.[/ref].

Heidegger critica senza indugio ogni sorta di umanesimo poiché in esso ciò che il pensiero domanda è ancora l’essere dell’ente e non l’essere tout court, facendo sì che l’umanesimo si inscriva ancora all’interno della metafisica e come tale sia degno di essere oltrepassato.

L’oblio dell’essere e della differenza ontologica, che anche nella Lettera viene nominato, rimane interno all’essere stesso e destinale alla sua storia, poiché l’oblio dell’essere è un momento della storia dell’essere stesso. In tal senso Heidegger insiste sul fatto che lo scandalo della filosofia moderna non sia tanto nel fatto che essa non pensi l’essere nella modalità che più le appartiene – dal momento che l’oblio stesso è una modalità della storia dell’essere – ma che essa non rammenti questi oblio. In tal senso, la filosofia moderna dimentica la propria dimenticanza, dimentica cioè di dimenticare, ed il dimenticato (in questo caso la differenza ontologica) non viene richiesto come contenuto del dimenticare, ma rimane al di là della stessa dimenticanza. È in virtù dell’oblio dell’oblio, della dimenticanza della dimenticanza che il pensiero dell’essere diventa il pensiero più sconosciuto della filosofia moderna[ref]Si vedano a tal proposito i preziosi volumi Überlegungen II-VIÜberlegungen VII-XI e Überlegungen XII-XV, a cura di P. Trawny, Klostermann, Frankfurt a. M., 2014, in cui Heidegger torna con insistenza sul tema dell’oblio dell’essere, del destino della filosofia occidentale, della necessità di una filosofia inattuale, della centralità della Seinsfrage ed argomenti simili, con ampi passaggi su Nietzsche, Leibniz, Aristotele, Husserl, ed altri ancora. L’importanza di questi tre testi eccede di gran lunga il tema dell’antisemitismo e dell’adesione al nazismo, che sembrano essere i soli ad aver catalizzato l’attenzione degli interpreti di Heidegger. La loro ricchezza e complessità dovrebbe configurarsi come la fonte principale su cui insistere per capire il pensiero di Heidegger nel corso della sua formazione. Sui temi sovra menzionati – l’adesione al nazionalsocialismo da parte di Heidegger, il suo antisemitismo, e la politica – se ne renderà ragione nelle prossime uscite. [/ref].

L’ultima figura attraverso la quale Heidegger penserà l’essere è quella dell’Ereignis ma di essa si tratterà altrove.

 

Bibliografia delle opere citate

Opere di Martin Heidegger:
Essere e tempo, trad. it. a cura di P. Chiodi, Longanesi, Milano 1976;
Nietzsche, trad. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1994;
Segnavia, trad. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987;
Saggi e discorsi, trad. it. a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976;
Seminari, trad. it. a cura di M. Bonola, Adelphi, Milano 1992;
Eraclito, trad. it. a cura di F. Camera, Mursia, Milano 1993;
Che cosa significa pensare? (1952), trad. it. a cura di U. M. Ugazio e G. Vattimo, Sugarco, Milano 1972, vol. II
Domande fondamentali della filosofia. Sezione di “Problemi della Logica” (1984), trad. it. a cura di U. M. Ugazio, Mursia, Milano 1988;
Il principio di ragione, trad. it. a cura di F. Volpi e G. Gurisatti, Adelphi, Milano 1991;
Sentieri Interrotti, trad. it. a cura di P. Chiodo, La Nuova Italia, Firenze 1997;
Überlegungen II-VI, Überlegungen VII-XI e Überlegungen XII-XV, a cura di P. Trawny, Klostermann, Frankfurt a. M., 2014;
M. Heidegger/E. Fink, Colloquio intorno ad Eraclito (1977), trad. it. a cura di M. Nobile, Coliseum, Milano 1992, p. 301.

Altre opere citate e studi sul tema:

AA. VV., Heidegger e la phénoménologie, Vrin, Paris 1990
Aristotele, Metafisica, trad. it. a cura di G. Reale, Rusconi, Milano 1993
F. Brencio, Scritti su Heidegger, Aracne, Roma 2013
F. Chiereghin, Einführung, Ueberwindung, Verwindung: tre modi di rapportarsi alla metafisica in Heidegger, in AA. VV., La metafisica e il problema del suo superamento, a cura di Scuola di Perfezionamento in Filosofia dell’Università degli Studi di Padova, Libreria Gregoriana, Padova 1985
P. Chiodi, L’ultimo Heidegger, Taylor, Torino 1960
G. Chiurazzi, Hegel, Heidegger e la grammatica dell’essere, Laterza, Roma-Bari 1996
A. Colombo, Martin Heidegger. Il ritorno all’essere, Il Mulino, Bologna 1964
R. Descartes, Regulae ad directionem ingenii, in Discorso sul metodo. Regole per la ricerca della verità, trad. it. a cura di G. Galli, Laterza, Bari 1968
C. Fabro, Ontologia dell’arte nell’ultimo Heidegger, in “Giornale critico della filosofia italiana”, n. 31, 1952
Id., Dell’essere, dell’ente, del nulla, in Tomismo e pensiero moderno, Libreria Editrice della Pontificia Università Lateranense, Roma 1969
G. FIGAL, Martin Heidegger. Fenomenologia della libertà, Il Melangolo, Genova 2007
U. Galimberti, Linguaggio e civiltà. Il linguaggio occidentale nella lettura di Heidegger e Jaspers, Mursia, Milano 1977
H. G. Gadamer, I sentieri di Heidegger (1983), trad. it. a cura di R. Cristin e (solo per il cap. VIII) di G. Moretto, Marietti, Casale Monferrato 1987
J. B. Lotz, Identità e differenza in un confronto critico con Heidegger, in AA. VV., La differenza e l’origine, Edizioni del Centro di Ricerche di Metafisica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Milano 1987
J. Malpas, The Trascendental Heidegger, Stanford Univ. Press 2007;
M. Marassi, Presenza e differenza. Heidegger e l’unità originaria, in AA. VV., La differenza e l’origine, Centro di Ricerche di Metafisica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Milano 1987
J. L. Marion, L’essere e la rivendicazione, in AA. VV., Heidegger e la metafisica, a cura di M. Ruggenini, Marietti, Casale Monferrato 1991
A. Massolo, Heidegger e la fondazione kantiana, in Ricerche sulla logica hegeliana, Marzocco, Firenze 1950
R. Morani, Essere, fondamento e abisso. Heidegger e la questione del nulla, Mimesis Edizioni, Milano 2010
L. Pareyson, Heidegger: la libertà e il nulla, in “Annuario filosofico”, n. 5, 1989
P. Rebernik, Heidegger interprete di Kant. Finitezza e fondazione della metafisica, ETS, Pisa 2006
M. Ruggenini, L’uomo e la differenza, in “Archivio di Filosofia”, n°. 1-3, 1989
L. Ruggiu, Heidegger e Parmenide, in AA. VV., Heidegger e la metafisica, Marietti, Casale Monferrato 1991
Tommaso d’Aquino, Liber de veritate catholicae fidei contra errorem infidelium, in Summa contra gentiles, Marietti, Casale Monferrato 1961, vol. II.
G. Vattimo, Essere, storia e linguaggio in Heidegger, Marietti, Casale Monferrato 1989
C. Vigna, Sulla metafisica di Heidegger, in AA. VV., Heidegger e la metafisica, a cura di M. Ruggenini, Marietti, Casale Monferrato 1991
P. Vinci, Soggetto e tempo. Heidegger interprete di Kant, Bagatto Editore, 1988
V. Vitiello, Heidegger: il nulla e la fondazione della storicità. Dalla Überwindung der Metaphysik alla Daseinsanalyse, Argalia, Urbino 1976
F. Volpi, Alle origini della concezione heideggeriana dell’essere: il trattato Vom Sein di Carl Braig, in “Rivista critica di storia della filosofia”, n. 35, 1980

Possibilità e finitezza

di

Francesca Brencio

 

L’esserci è sempre in qualche modo diretto verso…in cammino
M. Heidegger

Sein und Zeit inizia con una dichiarazione di intenti: subito dopo l’epigrafe tratta dal Sofista di Platone, Heidegger scrive:

È dunque necessario riproporre il problema sul senso dell’essere (die Frage nach dem Sinn von Sein) […]. Lo scopo del presente lavoro è quello dell’elaborazione del problema del senso dell’“essere”. Il suo traguardo provvisorio è l’interpretazione del tempo come orizzonte possibile di ogni comprensione dell’essere in generale[ref]M. Heidegger, Essere e tempo (1927), trad. it. a cura di P. Chiodi, Longanesi, Milano 1976, p. 14.[/ref].

 Se l’intento dell’opera del ’27 è quello di proporre una ricerca sul senso dell’essere, tuttavia in quella sede Heidegger analizza la struttura dell’esserci in quanto unico ente in grado di porsi la domanda sul senso dell’essere. Il tentativo di auto comprensione dell’esserci – e quindi tutta l’analitica esistenziale  –  si iscrive all’interno di quella fatticità dell’esserci che determina in modo originario la soggettività.
Il corso di lezioni tenute nel semestre estivo del 1923 fu intitolato da Heidegger proprio Ermeneutica della fatticità ed in questo corso egli fornì il primo orizzonte per la comprensione dell’essere, cioè l’effettività, la quale si configura come «la denominazione per il carattere di essere del “nostro” “proprio” esserci»[ref]M. Heidegger, Ontologia. Ermeneutica dell’effettività, trad. it. a cura di G. Auletta, Guida, Napoli 1998, p.17.[/ref]. L’ermeneutica della fatticità è l’autointerpretazione della fatticità dell’esserci, cioè l’interpretazione – ma anche comunicazione – del carattere ontologico dell’esserci. Questa comprensione, è il passo preliminare e fondamentale per la comprensione dell’essere. Eppure, come nota Gadamer a proposito dell’espressione “ermeneutica della fatticità”,

bisogna rendersi conto che è come dire un ferro di legno, una contraddizione in termini. Infatti la parola fatticità significa proprio la resistenza irremovibile opposta dal fattuale a qualsiasi afferrare e comprendere […]. La comprensione dell’essere che contraddistingue l’esserci umano, in quanto egli si interroga circa il senso dell’essere, è anche in sommo grado un paradosso […]. L’esserci umano, interrogandosi sul senso del proprio essere, si vede piuttosto confrontato con l’inconcettualizzabilità della sua propria esistenza[ref]H. G. Gadamer, I sentieri di Heidegger, cit., p. 48 e s.[/ref].

La fatticità, così come Heidegger la pone, non può essere scissa in alcun modo dalla storicità dell’esserci, in quanto costituzione ontologica della temporalizzazione dell’esserci stesso. Il comprendersi nel proprio essere è per l’esserci, cioè per l’uomo, un sapere, nella propria autocomprensione, di non essere padrone di se stesso, di «ritrovarsi in mezzo all’essente e di doversi accettare come si ritrova»[ref]H. G. Gadamer, I sentieri di Heidegger, cit., p. 87.[/ref].

 Dunque, per rispondere alla domanda “che cos’è l’essere?”, Heidegger parte dalla domanda di che cosa (e non chi)[ref]«Il termine “Esserci” […] esprime l’essere e non il che cosa, come accade invece quando si dice pane, casa, albero», M. Heidegger, Essere e tempo cit., p. 64 e s.[/ref] sia l’esserci; parte, in altri termini, dalla riproposizione della domanda kantiana, chi è l’uomo?, tentando di oltrepassare il versante gnoseologico in vista di un orizzonte più ampio. Il primo passo in direzione dell’ontologia è dunque una chiarificazione del senso dell’esistenza, cioè del modo d’essere dell’esserci:

Quell’essere stesso verso cui l’Esserci può comportarsi in un modo o nell’altro e verso cui sempre in qualche modo si comporta, noi lo chiamiamo esistenza. e poiché la determinazione dell’essenza di questo ente non può non avere luogo mediante l’indicazione della quiddità di un contenuto reale, in quanto la sua essenza consiste piuttosto nell’aver sempre da essere il suo essere in quanto suo, è stato scelto il termine Esserci, quale pura espressione di essere, per designare questo ente[ref]M. Heidegger, Essere e tempo cit., p. 28 e s.[/ref].

L’esserci ha sempre da essere il suo essere, cioè deve autodeterminarsi:

L’essenza di questo ente consiste nel suo aver-da-essere. L’essenza (essentia) di questo ente, per quanto in generale si può parlare di essa, deve essere intesa a partire dal suo essere (existentia). Ecco perché l’ontologia ha il compito di mostrare che, se noi scegliamo per l’essere di questo ente la designazione di esistenza, questo termine non ha e non può avere il significato ontologico del termine tradizionale existentia […].L’Esserci è sempre la sua possibilità, ed esso non l’ “ha” semplicemente a titolo di proprietà posseduta da parte di una semplice presenza […]. L’essenza dell’Esserci consiste nella sua esistenza. Questo ente può, nel suo essere, o “scegliersi”, conquistarsi, oppure perdersi e non conquistarsi affatto o conquistarsi solo “apparentemente”[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 64 e s.[/ref].

È nella Lettera sull’umanesimo che Heidegger puntualizza come l’esistenza di cui si parla in Essere e tempo «non si identifica con il concetto tradizionale di existentia, che significa realtà a differenza di essentia intesa come possibilità»[ref]M. Heidegger, Lettera sull’umanesimo, in Segnavia, cit., p. 278.[/ref]. L’esserci è dunque sempre la sua possibilità in quanto poter essere (Seinkönnen).

Il termine Dasein usato da Heidegger indica, quindi,  l’uomo nella sua singolarità come problema aperto per la sua stessa comprensione. Questo termine riscatta l’usura linguistica di cui la parola “uomo” è stata inficiata. «Allorchè parlò di “esserci”, Heidegger non usò semplicemente un vocabolo nuovo e di elementare potenza denominativa, con il quale sostituire i concetti di soggettività, autocoscienza ed ego trascendentale»[ref]H. G. Gadamer, I sentieri di Heidegger, cit., p. 109.[/ref], ma si spinse oltre la metafisica greca per la comprensione dell’essere.

L’uomo dispiega la sua essenza in modo da essere il “ci” (Da), cioè la radura dell’essere. Questo “essere” del “ci”, e solo questo, ha il carattere fondamentale dell’e-sistenza, cioè dell’e-statico stare-dentro (das ek-statische Innestehen) nella verità dell’essere[ref]M. Heidegger, Lettera sull’umanesimo, in Segnavia, cit., p. 278 s.[/ref].

Dasein significa essere-il-Da, cioè essere-il-Ci. Tale Ci è la consapevolezza che il possibile è sempre tale in relazione a qualcosa che va oltrepassato. Nel Ci, futuro e passato  sono sempre la propria storia, il proprio essere, il proprio progetto; il Ci è l’accadere stesso della realizzazione della possibilità che l’esserci sceglie; il Ci traduce in termini ontici per il Dasein ciò che la Lichtung traduce per l’essere: la “radura”.

La realizzazione autentica che l’assunzione del compito di essere il proprio Ci impone è la decisione anticipatrice: l’essere-per-la-morte. Il Dasein è anche già sempre la sua morte; essa è la possibilità più autentica attraverso la quale il Dasein sovrasta se stesso; la morte non è una semplice-presenza, ma una possibilità dell’essere dell’esserci. La decisione anticipatrice dischiude davanti al Dasein l’angoscia: essa pone l’Esserci davanti all’angoscia. «L’essere-per-la-morte è essenzialmente angoscia»[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 323.[/ref]. Ma davanti a questa angoscia, la quale si configura come la determinazione della situazione emotiva più propria dell’Esserci, come lo sguardo disincantato di fronte all’inautenticità dell’esistenza, il Dasein concede a se stesso la possibilità di una «libertà appassionata, affrancata dalle illusioni del Si, effettiva, certa di se stessa e piena di angoscia: LA LIBERTA’ PER LA MORTE»[ref]Ibidem.[/ref]. La decisione anticipatrice rappresenta così, al tempo stesso, il punto di contatto tra il livello esistenziale e quello esistentivo: attraverso la comprensione ontologica della propria fine, l’Esserci può realizzare consapevolmente l’esistenza autentica.

L’essere-per-la-morte riesce a rovesciare l’ordine della temporalità quotidiana, scandito dalla tripartizione presente, passato, futuro. Tale rovesciamento si realizza in un duplice movimento, quello dell’anticipazione e quello del ritorno al presente fondando un nuovo margine di temporalità: quella autentica, all’interno della quale esperire la progettualità, la libertà e la storicità dell’Esserci stesso. Solo attraverso la decisione anticipatrice il Dasein si appropria della cifra ontologica che lo costituisce: la finitudine[ref]Cfr. su questo tema G. Strummiello, L’altro inizio del pensiero. I Beiträge zur Philosophie di M. Heidegger, Levante, Bari 1995, pp. 182 ss.[/ref]. Per Heidegger la libertà per la morte non è negatività[ref]Cfr. F. Chiereghin, Dialettica dell’assoluto e ontologia della soggettività in Hegel. Dall’ideale giovanile alla Fenomenologia dello spirito, Edizioni di Verifiche, Trento 1980, pp. 94 ss.[/ref],  al pari di quanto invece è ad esempio per Hegel, piuttosto è la libertà dell’Esserci esperita a partire dalla finitezza che trascende se stessa verso l’essere; per Heidegger la morte addita verso una trascendenza che abbraccia la totalità del finito e che nel finito vuole rimanere ancorata. La declinazione heideggeriana del tema della morte la connota all’interno della finitezza, del regno esclusivo dell’Esserci, rifuggendo ogni tentativo dialettico[ref]Sul problema della morte in Heidegger Cfr. U. M. Ugazio, Il problema della morte nella filosofia di Heidegger, Mursia, Milano 1976; V. Vitiello, Heidegger. Il nulla e la fondazione della storicità. Dalla Überwindung der Mataphysik alla Daseinsanalyse, Argalia, Urbino 1976, pp. 398 ss.; G. Morpurgo Tagliabue, Le strutture del trascendentale, Bocca, Milano 1951, in particolare pp. 251 ss. [/ref].

Il Ci manifesta la sua cooriginaria apertura al “non” dell’ente e al “non” del non essere iscritto in esso nell’angoscia. Proprio nella percezione dell’angoscia, quale situazione emotiva fondamentale e primaria dell’Esserci, quest’ultimo sperimenta il davanti-a-che del proprio essere nel mondo come tale; nello spaesamento che segue all’angoscia, quel “non sentirsi a casa propria in nessun luogo” «si rivela il niente»[ref]M. Heidegger, Che cos’è metafisica? in Segnavia, cit., p. 67.[/ref], ma «non come ente, e tanto meno come oggetto»[ref]M. Heidegger, Che cos’è metafisica? in Segnavia, cit., p. 69. Cfr. a tal proposito G. Agamben, Il linguaggio e la morte. Un seminario sul luogo della negatività, Einaudi, Torino 1982.[/ref]. Se questo Ci dell’esserci è ciò che, come Heidegger afferma, permette all’esserci di abitare presso la radura dell’essere, è altresì ciò che lo conduce verso l’appropriazione della sua negatività, cioè della negatività di cui l’esserci è cifra vivente. Questa è la negatività radicale riposta al fondo dell’esistenza: fondo, poiché essa è il Grund dell’essere dell’esserci.

La riflessione intorno alla negazione (il “non”) ed al vasto problema del nulla è introdotta nell’opera del 1927 attraverso il concetto di colpevolezza dell’esserci. «L’idea di “colpevole” porta con sé il carattere del non»[ref] M. Heidegger, Essere e tempo cit., p. 343.[/ref]: cioè, tale idea è determinata da un “non”, l’ «essere fondamento di una nullità»[ref]M. Heidegger, Essere e tempo cit., p. 343.[/ref]. Questo originario “non” ravvisato da Heidegger è il segno della costitutiva esistenziale gettatezza dell’esserci, per la quale «l’Esserci […] è, come tale, una nullità di se stesso. Ma “nullità” non significa affatto non esser-presente, insussistenza; essa concerne un “non” che è costitutivo dell’essere dell’Esserci, del suo essere gettato»[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 345.[/ref]. La deiezione (Verfallen) costituisce la prova più lampante dell’esistenzialità dell’esserci e ne rivela la quotidiana relazione con il mondo.

Il “non” quale costitutivo dell’essere dell’esserci è ciò che indica come il fondamento di questo stesso essere non è riposto nell’esserci, ma altrove. Il non essere fondamento del proprio essere consente all’esserci la sua specifica progettualità, cioè la “non” fondatezza dell’essere dell’esserci fa sperimentare a questo esserci la nullità del suo essere e del suo progetto, senza con ciò indicare un’assenza di valore o un’insignificanza interna all’esserci stesso ed alla propria progettualità. Piuttosto, la «nullità […] fa parte dell’essere-libero dell’Esserci per le sue possibilità esistentive. Ma la libertà è solo nella scelta di una possibilità, cioè nel sopportare di non-aver-scelto e di non-poter-scegliere le altre»[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 345.[/ref]. La nullità di cui parla Heidegger è una nullità esistenziale che permette lo sviluppo della libertà autentica; questa nullità non ha il carattere della privazione o della manchevolezza, ma costituisce una positività il cui valore ontologico essenziale «resta ancora oscuro»[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 346.[/ref].

Da questa critica all’ontologia tradizionale emerge in filigrana uno dei tratti più caratteristici della heideggeriana Daseinsanalyse: l’esserci ha in sé il negativo, un “non” originario che si costituisce come potenziale positività in quanto permette la determinazione dell’effettivo realizzarsi della libertà esistenziale. Come scriverà più tardi nei Beiträge zur Philosophie, l’esserci è “abissale”, poiché il fondo di negatività che gli è proprio e che lo costituisce è ciò che assegna il compito di «mantener fermo l’abisso e con ciò l’essenza dell’essere. Questo mantenere fermo l’abisso appartiene all’essenza dell’Esserci, in quanto fondazione della verità dell’essere»[ref]«[Das nichtendgültige Wissen] hält den Abgrund una damit das Wesen des Seyns gerade fest. Dieses Festhalten des Abgrundes gehört zum Wesen des Das-seins als der Gründung der Wahreit des Seyns» (M. Heidegger, Beiträge zur Philosophie (vom Ereignis), Klostermann, Frankfurt am Main, 1989, p. 460, trad. mia).[/ref]. Considerando l’essenziale fenditura negativa che abita la struttura dell’esserci Heidegger pensa quest’ultimo come “pastore dell’essere e luogotenente del nulla”, come rimando alla reciproca verità che permette la coappartenenza di essere e niente.

È nell’ampia indagine sulla Befindlinchkeit[ref]Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, cit., pp. 172 ss. In particolar modo si ricordi quanto afferma Heidegger: «La tonalità emotiva porta l’Esserci dinanzi al “che” del suo “Ci”, che gli sta di fronte come un enigma impenetrabile» (M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 174).[/ref] che emerge l’apertura esistentiva del Ci dell’esserci, rivelando l’ente nella sua totalità e che quindi permette di sperimentare cosa il nulla sia davanti all’esserci: non un qualcosa determinato, ma il progressivo dileguare della determinabilità dell’essere presente. Così, nell’angoscia la totalità dell’ente vacilla: in questo suo vacillare, l’ente nella totalità del suo essere si dilegua. Questo dileguare dell’ente è l’essenza del niente: la nientificazione (Nichtung).

Essa non è un annientamento dell’ente, e neppure scaturisce da una negazione. La nientificazione non è nemmeno commisurabile all’annientamento o alla negazione. È il niente stesso che nientifica. Il nientificare non è un’occorrenza qualsiasi, ma in quanto è un rinviare, respingendolo, all’ente nella sua totalità che si dilegua, esso rivela questo ente, nella sua piena e fino allora nascosta estraneità, come l’assolutamente altro – rispetto al niente[ref]M. Heidegger, Che cos’è metafisica? in Segnavia, cit., p. 70.[/ref].

Il niente di cui fa esperienza l’esserci non è un mero nulla, ma piuttosto una potenza che lascia l’esserci «tenuto immerso nel niente»[ref]M. Heidegger, Che cos’è metafisica? in Segnavia, cit., p. 70.[/ref]. Il nulla è originario rispetto alla costituzione dell’esserci, più originario dell’essere stesso e permette a questo sia il suo puro essere sia la sua propria libertà[ref]Cfr. M. Heidegger, Che cos’è metafisica? in Segnavia, cit., p. 71.[/ref].

La libertà dell’esserci è il suo abisso senza fondo: nella sua essenziale natura trascendente, la libertà dell’esserci pone questo essere nella possibilità più ampia e lo reclama alla scelta del proprio progetto autentico. Nel Denkweg heideggeriano sono il confronto con Kant e con Schelling (nel corso del 1936) a permettere l’approfondimento della speculazione sulla libertà, già inaugurata con Essere e tempo. La «libertà da» e la «libertà per» sono le due determinazioni con cui Heidegger pensa alla libertà come fondo abissale della possibilità dell’esserci di avere da essere.

L’unità dei tre elementi – la fatticità, l’esistenzialità e la deiezione – è rappresentata dalla cura (die Sorge), la quale rivela l’essere dell’esserci:

L’esistere è sempre effettivo. L’esistenzialità è sempre determinata in modo essenziale dalla effettività […]. L’esistere effettivo dell’Esserci non è soltanto […] un gettato poter-essere-nel-mondo, ma è anche già sempre immedesimato con un mondo di cui si prende cura […]. La Cura non caratterizza però la sola esistenzialità, separata dalla effettività e dalla deiezione, ma abbraccia l’unità di queste determinazioni d’essere[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 240 e s.[/ref].

Tra gli interpreti di Heidegger, c’è stato chi ha sottolineato la derivazione husserliana del concetto di cura, evidenziando come essa traduca, a partire dal terreno dell’affettività, l’intenzionalità di Husserl, come ad esempio De Waelhens[ref]Cfr. A. De Waelhens, La philosophie de Martin Heidegger, Publications Universitaires, Lovanio 1955.[/ref]. Nel corso del 1927 intitolato Die Grundprobleme der Phanomenologie, effettivamente si viene definendo il concetto heideggeriano di cura a partire dal concreto soggetto dell’esistenza, il Dasein, e non da un qualsiasi soggetto logico. Già in questo corso emerge come la soggettività sia essenzialmente cura e lo sia nella dimensione tipica dell’esistenza: il “fatto della vita umana” è il trascendersi da parte del Dasein nel mondo, cioè il essere già presso le cose e il suo prendersene cura. L’esistenza del Dasein assume il segno dell’affettività e non più di una funzione logica, bensì di un essere che vive, sente, è attraversato dal mondo perché nel mondo trova il proprio posto. «Heidegger ritiene di aver riportato l’intenzionalità dall’immanenza dell’astratta idealità riflessiva […] alla trascendenza del fattuale esistere immediato, la quale invece è assoluta perché è originaria»[ref]A. Masullo, La “cura” in Heidegger e la riforma della intenzionalità husserliana, in “Archivio di filosofia”, a. XVII, 1989, p. 384.[/ref].

Non solo: nel corso svolto nel 1925, Prolegomena zur Geschichte des Zeitbegriffs,  Heidegger, definendo la cura come accesso alla concreta pienezza dell’esser-ci, ovvero del fenomeno l’uomo , pronuncia un giudizio di insufficienza nei riguardi dell’intenzionalità husserliana, la quale solo “frammentariamente” e da un punto di vista “esterno”, rende ragione del fenomeno dell’esistenza del Dasein. Il punto in cui le due prospettive – quella husserliana e quella heideggeriana – si scontrano è la nozione di l’esistenza a partire dall’ “ek”: esso allude all’essere dell’uomo come uno stare-fuori-di-sé, un essere pienamente esposto – o arrischiato, parafrasando Rilke – che gli consente di stare-fuori nella verità dell’Essere. «La attualità dell’esser-ci, concepita da Heidegger, è segnata dall’ “ek” nel senso che l’umanità dell’uomo vi è pensata come l’uscita dall’insignificanza della contingenza ontica e l’ingresso nella pienezza significativa della necessità ontologica»[ref]A. Masullo, La “cura” in Heidegger e la riforma della intenzionalità husserliana, cit., p. 385 e s.[/ref]. Nella comprensione della radice “ek” si gioca la comprensione della soggettività nella speculazione del maestro Husserl e del giovane assistente Heidegger. Con il passaggio dall’intenzionalità alla cura, l’orizzonte trascendentale lascia il posto a quello affettivo quale cifra originaria della soggettività.

Questo passaggio non solo conduce a soppiantare la fenomenologia a favore di un’ermeneutica della fatticità che comprenda l’esistenza come un continuo uscir-fuori di sé – uscire fuori di sé che non ambisce a soggiornare presso l’essere per rimanervi, quanto un continuo movimento di uscita del sé – ma anche a fare della possibilità del soggiornare nel mondo il versante ontico in cui si dispiega la cura.

Bibliografia delle opere citate

M. Heidegger, Essere e tempo, trad. it. a cura di P. Chiodi, Longanesi, Milano 1976;
Id., Ontologia. Ermeneutica dell’effettività, trad. it. a cura di G. Auletta, Guida, Napoli 1998;
Id., Segnavia, traduzione italiana a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987;
Id., Beiträge zur Philosophie (vom Ereignis), Klostermann, Frankfurt am Main, 1989;
Chiereghin F., Dialettica dell’assoluto e ontologia della soggettività in Hegel. Dall’ideale giovanile alla Fenomenologia dello spirito, Edizioni di Verifiche, Trento 1980;
De Waelhens A., La philosophie de Martin Heidegger, Publications Universitaires, Lovanio 1955.
Gadamer H. G., I sentieri di Heidegger,
Masullo A., La “cura” in Heidegger e la riforma della intenzionalità husserliana, in “Archivio di filosofia”, XVII, 1989.
Morpurgo Tagliabue G., Le strutture del trascendentale, Bocca, Milano 1951;
Strummiello G., L’altro inizio del pensiero. I Beiträge zur Philosophie di M. Heidegger, Levante, Bari 1995;
Ugazio U. M., Il problema della morte nella filosofia di Heidegger, Mursia, Milano 1976;
Vitiello V., Heidegger. Il nulla e la fondazione della storicità. Dalla Überwindung der Mataphysik alla Daseinsanalyse, Argalia, Urbino 1976.

La filosofia e il suo inizio

Si inaugura l’uscita di Pagine Heideggeriane con un estratto da “Che cos’è la Filosofia?” di Martin Heidegger, nell’edizione citata in nota.

 

Che cos’è la filosofia? [ref]M. Heidegger, Che cos’è la filosofia?, trad. it. a cura di C. Angelino, Il Melangolo, Genova 1997[/ref]

M. Heidegger

 

Con questa domanda tocchiamo un tema molto vasto, cioè esteso. Perché vasto, sembra destinato a restare indeterminato. Perché indeterminato, può essere trattato dai punti di vista più diversi. In ogni caso giungeremo comunque a qualche risultato. Tuttavia, dal momento che nella trattazione di questo tema tanto ampio tutte le considerazioni possibili si intrecciano vicendevolmente, possiamo incorrere nel rischio che il nostro colloquio non attinga il raccoglimento meditativo che la questione richiede.

Dobbiamo perciò cercare di determinare in modo più preciso la domanda. Così facendo daremo una direzione stabile al nostro colloquio; lo porremo perciò stesso su un cammino. Dico: su un cammino. Infatti diamo per scontato che non si tratta certamente dell’unico cammino. Un problema resta comunque aperto, se il cammino che io qui di seguito indicherò è in verità tale da consentirci di porre la domanda e di darle una risposta.

Se diamo per scontato di poter trovare un cammino per determinare  con maggior esattezza la domanda, sorge immediatamente, contro il tema del nostro colloquio, un”obiezione difficilmente evitabile. Domandandoci infatti: che cos’è la filosofia, noi parliamo sulla filosofia. Ponendo la domanda in questi termini, ci collochiamo in una zona che si trova al di sopra e quindi al di fuori della filosofia. Ma lo scopo della nostra domanda è piuttosto quello di penetrare nella filosofia, di prendervi dimora e di comportarci nel modo che le è proprio, vale a dire di filosofare. Il cammino del nostro colloquio non deve perciò avere soltanto una direzione chiara, ma deve al tempo stesso far si che tale direzione ci dia la certezza di muoverci all’interno della filosofia e non di girarvi intorno restandone fuori.

Il cammino che dobbiamo percorrere deve perciò essere di tal natura e muoversi in una direzione siffatta che ciò di cui la filosofia tratta ci riguardi direttamente, ci tocchi e in verità ci tocchi nella nostra essenza.

Ma in tal guisa non diventa la filosofia qualcosa che ha a che fare con il mondo degli affetti e dei sentimenti?

«Con i buoni sentimenti si fa la cattiva letteratura ››. «C’est avec les beaux sentiments que l’on fait la mauvaise littérature ››[ref]André Gide, Dostoevskij, tr. it. di Maria Marocchin, Milano 1946.[/ref]. Questo  motto di André Gide non vale solo per la letteratura ma anche, a maggior ragione, per la filosofia. I sentimenti, anche i più belli, non appartengono alla filosofia. Dei sentimenti si suol dire che sono qualcosa di irrazionale. La filosofia, per contro, non solo è qualcosa di razionale ma rivendica a sé per sua natura il governo della ragione. Con questa affermazione abbiamo già in qualche modo inavvertitamente deciso su ciò che la filosofia è. Abbiamo sopravanzato con una risposta la nostra domanda. Del resto, chiunque considera giusta l’affermazione che la filosofia è una questione della ragione. Ma forse tale affermazione è una risposta affrettata e precipitosa alla domanda: che cos’è la filosofia? Poiché infatti ad essa possiamo  contrapporre nuove domande. Che cos’è la ratio, la ragione? Dove e grazie a chi si è deciso che cos’è la ragione? Non è la ragione stessa ad aver affermato la propria signoria sulla filosofia? Se “ si “, con quale diritto? Se “ no ”, da dove riceve la sua missione e il suo ruolo? Se ciò che s’intende per ragione è stato determinato inizialmente ed esclusivamente dalla filosofia e all’interno del suo processo storico, non vi è alcun valido motivo per spacciare in partenza la filosofia come una questione esclusiva della ragione. Nel momento stesso in cui mettiamo in dubbio la caratterizzazione della filosofia come comportamento razionale, allo stesso modo dobbiamo anche dubitare dell’altra affermazione secondo cui la filosofia apparterrebbe al dominio dell’irrazionale. Infatti chi pretende di determinare la filosofia come irrazionale,  assume il razionale a norma della sua definizione e lo fa in modo tale da presupporre nuovamente come di per sé evidente ciò che la ragione è.

Se al contrario ci richiamiamo alla possibilità che ciò a cui si riferisce la filosofia riguarda noi uomini nella nostra essenza e ci tocca, allora potrebbe verificarsi il caso che un modo siffatto di essere toccati non abbia nulla a che fare con ciò che abitualmente s’intende per affetti e sentimenti, in breve, per irrazionale.

Da quanto si è detto, possiamo innanzitutto desumere questo solo punto: è necessaria un’attenzione più scrupolosa se vogliamo arrìschiarci ad iniziare un colloquio che ha per titolo «che cos’è la filosofia?››.

Per prima cosa dobbiamo cercare di porre la questione su un cammino chiaramente orientato, per non vagabondare fra rappresentazioni della filosofia arbitrarie ed occasionali. Ma come trovare un cammino siffatto, su cui poter determinare la nostra domanda senza correre rischi?

Il cammino cui vorrei ora accennare ci sta  immediatamente davanti. E solo perché è il più vicino lo troviamo con tanta difficoltà e, una volta trovatolo, ci muoviamo pur sempre in esso in modo maldestro. Ci chiediamo: che cos’è la filosofia? Abbiamo già pronunciato a sufficienza la parola filosofia. Ma se non utilizziamo più tale parola come un termine scontato, se invece ascoltiamo la parola “ filosofia ” a partire dalla sua origine, allora essa suona φιλοσοφία. A questo punto la parola “ filosofia ” parla greco. La parola greca, in quanto greca, è un cammino. Questo cammino, per un verso, ci sta di fronte poiché la parola da lungo tempo si è rivolta a noi precedendoci; ma si trova, per altro verso, già alle nostre spalle poiché da sempre abbiamo associato e pronunciato tale parola. La parola greca φιλοσοφία è perciò un cammino su cui camminiamo. Eppure conosciamo molto confusamente questo cammino, anche se sulla filosofia greca possediamo e possiamo divulgare innumerevoli conoscenze storiografiche. La parola φιλοσοφία ci dice che la filosofia è qualcosa che innanzitutto determina l’esistenza del mondo greco. Non solo. La φιλοσοφία determina anche l’intimo fondamento della nostra storia europea occidentale. Questo modo di dire sovente ripetuto, “ filosofia eu-ropea occidentale “, è in verità una tautologia. Perché? Perché la “ filosofia “, nella sua essenza, è greca – e greco significa qui: la filosofia è, quanto all’origine della sua essenza, di tale natura che per dispiegarsi ha fatto innanzitutto appello al mondo greco e di esso si è valsa.

Ma l’essenza originariamente greca della filosofia nell’epoca della sua signoria moderna ed europea è stata guidata e dominata da rappresentazioni provenienti dal cristianesimo. Il predominio di tali rappresentazioni ha nel Medioevo il suo terreno di mediazione. Tuttavia non si può dire che grazie a ciò la filosofia sia divenuta cristiana, cioè una questione propria della fede nella rivelazione e nell’autorità della Chiesa. L’affermazione: la filosofia è greca nella sua essenza non dice nient’altro che questo: l’occidente e l’Europa, e solo essi, sono nel loro più intimo processo storico, originariamente “ filosofici ”. Questo fatto è attestato e dimostrato dal sorgere e dal predominare delle scienze. Se esse sono oggi in grado di dare la propria impronta specifica alla storia dell’uomo sull’intero pianeta, ciò accade perché traggono origine dal più intimo processo storico europeo occidentale, cioè da quello filosofico.

Riflettiamo per un attimo su ciò che significa caratterizzare un’epoca della storia umana come “ era atomica ”. L’energia atomica, scoperta e liberata dalle scienze, viene presentata come la potenza che deve determinare il cammino della storia. Eppure non ci sarebbero mai state scienze se la filosofia non le avesse precedute e anticipate. Ma la filosofia è: ἡ φιλοσοφία Questa parola greca vincola il nostro colloquio ad una tradizione storica. Poiché questa tradizione resta unica, è anche perciò stesso univoca. La tradizione che il nome (φιλοσοφία ci comunica, quella tradizione che la parola storica φιλοσοφία nomina, rende per noi libera la direzione di un cammino percorrendo il quale ci domandiamo: che cos’è la filosofia? La tradizione non ci consegna ad una potenza coercitiva, proveniente dal passato e dall’irrevocabile. Tramandare, délivrer, significa mettere in li-bertà cioè porre nella libertà del dialogo con ciò-che-è-stato. Se ascoltiamo veramente la parola filosofia, e altrettanto veramente meditiamo ciò che abbiamo ascoltato, essa ci convoca nella storia dell’origine greca della filosofia. La parola φιλοσοφία viene per cosi  dire a coincidere con l’atto di nascita della nostra storia, possiamo aggiungere: con l’atto di nascita dell’epoca presente della storia universale che si suole chiamare era atomica. Conseguentemente non possiamo porre la domanda: che cos’è la filosofia, senza affidarci a un dialogo col pensiero del mondo greco.

Ma non solo è greco, quanto alla sua origine, l’oggetto della nostra domanda, la filosofia; è greco altresì il modo in cui la domanda è posta, il modo in cui ancor oggi, in generale, si pongono domande.

Domandiamo: che cos’è ciò…? Questo in greco suona τί ἐστιν? Tuttavia la domanda che si chiede che cosa sia qualcosa pare destinata a restare polisensa. Possiamo chiederci: che cos’è quella cosa laggiù nella lontananza? Riceviamo una risposta: un albero. La risposta consiste nell’assegnare il suo nome ad una cosa che non conosciamo esattamente.

Possiamo porre la domanda in modo ancora più ampio: che cos’è ciò che chiamiamo “albero”? Con questa domanda ci avviciniamo già al greco τί ἐστιν. Si tratta di quella forma del domandare che Socrate, Platone e Aristotele hanno sviluppato. Essi domandano per esempio: che cos’è ciò – il bello? Che cos’è ciò – la conoscenza? Che cos’è ciò – la natura? Che cos’è ciò – il movimento?

Dobbiamo ora concentrare la nostra attenzione sul fatto che nelle domande sopra citate non viene cercata soltanto una più esatta delimitazione di ciò che è natura, movimento, bellezza, ma viene contemporaneamente data un’interpretazione di ciò che significa il “ che cosa “, del senso in cui va compreso il τί. Il significato del “ che cosa “, del quid est, del τὸ quid, viene indicato col termine quidditas, in tedesco die Washeit. Tuttavia la quidditas è stata determinata in modi diversi nelle diverse epoche della filosofia.

 

Letteratura critica di riferimento sul tema “Heidegger e la filosofia”

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