In questo angolo ospitiamo interventi di importanti studiosi e liberi pensatori che arricchiscono il nostro dibattito.

VIDEO – Bergson e la “visione panoramica dei morenti”

La mente, nella cultura filosofico-scientifica occidentale, è stata per lungo tempo rappresentata come un sistema di specchi installati di fronte a una realtà in progressione dinamica. Come potrebbe uno specchio – costitutivamente estraneo alla realtà che fronteggia – riflettere di questa non solo immagini superficiali, ma anche configurazioni in grado di riprodurre fedelmente i processi interni, non visibili, della sua formazione? Guardando con coraggio nei fondali oceanici del moi profond, Bergson inaugura un originale percorso di riscoperta dell’assoluto nel limite spazio-temporale del moi social, attraverso un nuovo modo di vivere il tempo (mediante il concetto di durata) e il rapporto mente/corpo. Agli occhi di Bergson lettore della Revue philosophique di Ribot il fenomeno cognitivo anomalo della vision panoramique des mourants – discusso sulla Rivista dallo psicologo francese Victor Egger – acquista così la funzione di ricordare al soggetto morale che le proprie azioni devono essere prese sul serio, perché tutto ciò che ciascun moi è stato e che sarà si conserva fatalmente nel ricordo (secondo Bergson, infatti, percepire è un’occasione per ricordare…) fino all’ultimo istante di vita in cui la natura ha decretato la nostra fine.

 

Sull’attualità politica del Principe di Machiavelli

Sull’“attualità” politica del “Principe” di Machiavelli

di Mario Reale

La prima lezione del “Principe” consiste nella decisività della dimensione politica. Ma Machiavelli è anche cosciente che la politica è un’arte difficile, che incontra molti ostacoli, fra cui la durezza delle cose, la variazione dei tempi e la natura degli uomini. È per affrontare questi ostacoli, specie il terzo, che il principe deve far intervenire “estraordinaria” virtù. Il senso della complessa dialettica, svolta nel finale del “Principe”, fra virtù e fortuna.

[drop_cap style=”2″ bgcolor=”#dddddd” color=”#787882″]S[/drop_cap]i può parlare dell’“attualità” del Principe di Machiavelli, in occasione dei cinquecento anni dalla sua redazione, ma con molte cautele. Questo piccolo scritto, un “opusculo”, straordinario per i concetti e per la lingua, tra i più letti al mondo, rientra certamente nel novero dei “classici”. Ora le opere classiche, mentre hanno la straordinaria capacità di parlare a tutti, nella lunga durata, sono sempre anche figlie del loro tempo, ne recano tracce ineliminabili, e a volte la loro bellezza nasce proprio dalla commistione di tempo ed “eternità”.

Così, non c’è attualità che non si costituisca entro la consapevolezza della distanza, niente dei classici è trasferibile immediatamente nella realtà di oggi. Il filo di connessione è piuttosto costituito da quella che direi “lezione”, ossia la possibilità di ricavare liberamente dai classici temi e motivi che, in parte, vanno oltre il tempo e possono, più spesso in forma indiretta, farci da guida.

Il primo e centralissimo punto della lezione del Principe consiste nella decisività della dimensione politica. Certo, Machiavelli riteneva che la politica fosse il “tutto”, la priorità assoluta nella vita degli uomini, e tuttavia, col filtro della lezione, resta vero, in ogni caso, che la politica costituisce un essenziale punto di unitaria connessione per ogni comunità, che mai potrebbe farne a meno, per decidere le sue sorti collettive e anche individuali. Ma, al tempo stesso, Machiavelli insegna che la politica è un’arte tremendamente difficile, che incontra, sulla via della sua realizzazione, numerosi e gravi intralci. Il primo ostacolo che la politica trovi avanti a sé, è ciò che Machiavelli chiama “fortuna”. Fuori da ogni raffigurazione mitica, fortuna significa l’insieme delle condizioni, delle circostanze e delle situazioni, che, in un dato momento, costituiscono la realtà del mondo umano; sono i “tempi” della storia. Questa realtà è subito complicata da un secondo ostacolo, cui Machiavelli è particolarmente sensibile: le cose umane non sono mai “salde”, ma sempre in “moto”, i “tempi”, l’insieme delle situazioni date, sono soggetti a perenne “variazione”. Infine, gli uomini stessi costituiscono un decisivo ostacolo alla politica. L’uomo è costituito, per Machiavelli, da un fascio di potenzialità, che si attuano nella storia, non ha una natura fissa e immutabile, né segnata indelebilmente, come talvolta s’è detto, da una colpa originaria, di natura religiosa, o da una struttura metafisica che lo condanni al male; è anche un essere fragile e insicuro, bisognoso di “assicurarsi” delle forze ostili che lo minacciano, specie quando i tempi hanno una dura configurazione; dovrebbe avere la capacità di mutare se stesso, un precetto fondamentale della politica machiavelliana, e tuttavia è spesso attaccato, tenacemente, alle abitudini del suo modo di essere e di vivere, a specifici e determinati comportamenti.

La “fortuna” riassume nel suo ambito i primi due ostacoli, e specialmente il secondo, la variazione dei tempi, il quale comprende in sé anche il primo, la complessa durezza delle cose. Non è detto che la fortuna, questa dea capricciosa, sia sempre matrigna: può limitare l’azione umana e l’iniziativa politica, fino a “spegnerle”, ma può anche presentare un volto benevolo, ciò che Machiavelli chiama “occasione”. Se questi due primi ostacoli, compresi nella “fortuna”, costituiscono difficoltà a parte obiecti, riguardano l’oggettiva realtà data, spessa e mutevole, il terzo si colloca a parte subiecti; ed è, comprensibilmente, quello che preoccupa di più Machiavelli: la fortuna varia, le cose seguono il loro oggettivo corso, e solo l’azione umana può intervenire a mutarle. Alla decisività del terzo ostacolo, al pericolo estremo che esso può rappresentare per la politica, Machiavelli risponde con la “virtù”, che è l’insieme delle qualità che connotano l’azione del politico eccellente, capace di incidere sulle cose, per quanto siano resistenti e mutevoli.

Sarebbe ingenuo non riconoscere, nel quadro cui abbiamo accennato, il segno del tempo, in particolare circa la variazione, l’estrema mutevolezza della fortuna, e di quel che ciò ingenera nella vita degli uomini, La situazione storica dell’Italia, in cui il Principe nacque, era segnata da una durissima e miserevole crisi, che l’opera riflette e tenta di superare. Drammaticità delle cose, impazzimento nel girar della fortuna, fragile insicurezza degli uomini. L’Italia era divenuta, dalla fine del quattrocento, dalla discesa di Carlo VIII nel 1494, la “sedia”, dice Machiavelli, della “variazione”, e insomma costituiva il principale terreno di scontro e di conquista. E tuttavia, sarebbe anche difficile dire che gli ostacoli individuati da Machiavelli si chiudano in un cerchio remoto e interamente passato, senza entrare a far parte di una costante natura della politica, perciò anche di quella di oggi. La pesante inerzia delle condizioni date e il mutamento delle cose, non abbiano pure la gravità e l’accelerazione che Machiavelli soffre, costituiscono sempre dati elementari e oggettivi di ogni iniziativa politica. Quanto alla concezione dell’uomo di Machiavelli, cui s’è accennato, sebbene sia qui difficile parlarne distesamente, non è priva affatto d’interesse, per ogni età. Per il punto che ora interessa, la polivocità della natura umana viene espressa da Machiavelli attraverso una serie antinomica di qualità, come essere “impetuoso”, rapido di decisione e anche all’occorrenza violento, o “respettivo”, prudente e “temporeggiatore”; ma anche come essere buono o “non buono”. Il principe deve saper essere impetuoso e rispettivo, riuscendo ad alternare questi diversi comportamenti secondo la necessità; e poiché i tempi, e molti uomini, sono “tristi”, deve anche saper “intrare nel male”. La condizione è che l’atto sia necessitato, inferto senza compiacenza (“crudeltà bene intesa”), e, soprattutto, che, come la sua multiversa natura consente, il principe sappia tornare, subito dopo, alla “bontà”, riscattando, alla fine, le sue azioni “non buone” con la costruzione di uno stato che assicuri il “bene comune”. Ora, il problema è se l’uomo riuscirà a gestire queste potenzialità della sua natura, mutandole secondo quel che comandano la durezza dei tempi e i “venti della fortuna”. Varia e molteplice, la natura umana possiede altresì, come s’è detto, un fondo opaco, refrattario al mutamento di sé, ed è questo il problema che più angustia Machiavelli. In ogni caso, venendo all’oggi, anche a questo proposito ci aspettiamo sempre che un buon politico, dinanzi a una situazione nuova, sappia affrontarla vincendo la sua “natura”, i suoi consueti modi di essere.

Il problema del Principe è quello di costruire razionalmente una figura di principe che sappia sfidare l’inerzia delle cose, affrontare la variazione dei tempi, mutare la propria natura secondo le necessità, e, perciò, sappia realizzare il suo alto scopo, nonostante tutti i condizionamenti e le avversità. Ma sarà in grado il principe di vincere quest’insieme di difficoltà? Machiavelli procede, armato di una splendida lingua e di una mente acutissima, con speranza e timore, con sicurezza razionale e profondi dubbi. Il Principe consiste nella razionale costruzione di questa possibilità, nell’analisi delle condizioni e dei modi, attraverso cui l’azione politica possa affermarsi. La priorità essenziale è che il principe abbia una virtù “estraordinaria”, “eccessiva”; e i consigli di Machiavelli sono tesi a dar forma e contenuti al principio generalissimo della “virtù”, plasmando un esprit fort, un politico veramente capace, tanto nella consapevolezza dell’oggettiva realtà che nella soggettiva capacità di agire, di condurre a segno la sua “intenzione alta”. La politica non deve essere affatto pensata, per Machiavelli, come un’arte distaccata ed eterea. Bisogna sporcarsi le mani, scendere nel profondo della complessa realtà delle cose e dei suoi mutamenti, imparando a conoscere bene chi sono gli avversari della buona politica. Duro mestiere quello del politico, perché, conoscendo i suoi nemici, deve altresì passare attraverso i mezzi di cui essi si servono, i soli che conoscano; e, insomma, è costretto a “intrare nel male”, sebbene non debba mai farsene contagiare, fino a corrompere ’intera sua persona. Il male, ai tempi del Principe, era fatto di armi e violenza, tradimenti, pugnali e veleni. E Machiavelli, con la sua alta e dolorosa coscienza morale, è “necessitato” ad attraversare questa greve materia. Ma anche nei “tempi quieti”, come i nostri, la politica che volesse davvero cambiare le cose, dovrebbe egualmente esercitare giusta durezza, conoscere e cercar di neutralizzare i propri nemici, sporcarsi e trattare, entrando nella palude di complessi e purulenti poteri. La condizione di salvezza, dice Machiavelli, è solo che il politico sappia mantenere una fondamentale onestà di coscienza, e tenga ben fermo lo scopo da raggiungere.

Il principe di Machiavelli deve essere “egemone”. L’egemonia non coincide, semplicemente, con la politica “ordinaria”, perché ne costituisce una qualità aggiuntiva, una versione straordinaria e potenziata. Nell’accezione gramsciana, l’egemonia “politica” – un tema profondamente connesso, nei Quaderni, alle pagine su Machiavelli – si può riassumere (poiché la questione è alquanto complessa) nella formula di una politica che poggi, insieme, su egemonia (direzione, consenso) e dominio (forza, coercizione). Sebbene il dominio sia necessario in ogni stato, l’egemonia può esserci o no, come nel fascismo, dove la forza presumeva di essere nell’atto stesso consenso. Il principe nuovo di Machiavelli s’iscrive con precisione in questo quadro: esercita certamente dominio, ma deve in ogni caso governare con il consenso. Anche per giungere al potere, il principe deve dispiegare un’azione egemonica, nella strategia circa il modo di combattere i nemici, e, soprattutto, di stabilire alleanze. In sintesi, egemonica è una politica che sappia abbracciare più elementi e bisogni nel suo quadro, e riesca a prospettarli, con lunghezza di sguardo, nel futuro, mirando a modi di convivenza nuovi, o più avanzati, così come Machiavelli, dall’Italia, guardava a Francia e Spagna, ai primi due grandi stati moderni in via d’affermazione.

Il principe nuovo e “civile”, la figura più alta e “sicura” di principato, è fortunato nella sua genesi: non ha, propriamente, bisogno né di fortuna né di virtù, non deve compiere atti efferati, perché è chiamato al potere di uno stato da una delle due “classi” che lo compongono, dai “grandi” o dal “populo”: i due fondamentali soggetti collettivi, che sempre costituiscono, nella loro lotta o nella conflittuale collaborazione, il fondo ultimo della teoria politica di Machiavelli. Nel caso del principato “civile”, le forze sociali e politiche sono giunte a un’impasse nel loro conflitto, nessuna delle due può vincere sull’altra, e perciò devono ricorrere a un principe, a una figura “terza”. Assurto al potere, il principe deve in ogni caso mettere in atto una strategia egemonica: se ha già il favore del popolo, deve “mantenerselo amico” e assicurargli “protezione”. Ma poiché l’autorità, quale che sia la genesi del potere, deve essere in ogni caso esercitata nel segno dell’alleanza con il popolo, anche il principe che, da “privato cittadino”, sia divenuto tale con il “favore de’ grandi”, deve, “innanzi a ogni altra cosa, cercare di guadagnarsi el populo”. I grandi, cui il popolo non vuole assolutamente sottostare, devono in ogni caso essere repressi o “spenti” dal principe. Rispetto ai grandi, del resto, quando siano trattabili (“quelli che si obligano, e non sieno rapaci”), Machiavelli suggerisce anche una sottile strategia, un po’ al modo della nobiltà francese, rinserrata da Luigi XIV nella regia di Versailles. Del resto, il principe, di “grandi”, può “farne e disfarne ogni dì”.

Nel corso di un’azione egemonica, come si capisce, il principe deve innanzitutto pensare a se stesso e al suo potere, alla propria “gloria”; l’egemonia deve agire, contemporaneamente, a parte subiecti e a parte obiecti. L’appoggio al popolo non è “caritatevole”, ma risponde a una profonda logica politica. Machiavelli ha definito, in premessa, i due “umori”, la caratteristica natura e la passionalità più radicale delle due “classi”: “li grandi desiderano comandare e opprimere il populo”, il quale, a sua volta, “desidera non essere comandato né oppresso da’ grandi”. Da ciò discende la necessità per il principe di “fuggire” in ogni modo i grandi, che si riterrebbero “equali” a lui, e, non ubbidienti ai suoi comandi, si servirebbero di lui come di un fantoccio, “per potere, sotto la sua ombra, sfogare il loro appetito”; dotati di “più vedere e più astuzia”, i grandi costituirebbero insomma una minaccia interna, e anche esterna, quando, abbandonando il principe, tentassero di muovergli contro con le armi. Se dei “pochi” grandi, come nemici, il principe si può “assicurare”, il contrario avviene quando si “inimica” il popolo, che costituisce la stragrande maggioranza della popolazione, i polloi, che sono “troppi”. Poiché il popolo chiede, fondamentalmente, di non essere oppresso, è più “facile” mantenerselo amico, ove il principe “pigli la protezione sua”. E anche quando il principe provenga da un originario “favore de’ grandi”, voltosi alla protezione del popolo, ne riceve “amicizia”, perché gli uomini, “quando hanno bene da chi credevano avere male, si “obligano” al benificatore loro”, ancor più che se il principe fosse stato in origine chiamato dal popolo. Sebbene il ragionamento di Machiavelli sia retto da una ferma logica politica, in un punto dell’argomentazione compare anche un senso più largo di egemonia: non si può dare soddisfazione ai grandi “sanza iniuria d’altri”, sì invece al popolo, perché quello del popolo “è più onesto fine che quello de’ grandi, volendo questi opprimere, e quello non essere oppresso”.

Il principe nuovo, se non vuol farsi assoluto e crudele tiranno, uscendo così dalla stessa dimensione politica, può mantenere l’amicizia, il consenso del popolo, quando agisca con “grandezza e nobiltà d’animo”. Ciò vuol dire che ogni suddito deve essere sicuro di poter conservare il rispetto di sé e l’integrità della propria persona (l’”onore”); star tranquillo circa la protezione delle proprie donne, dei figli, e della sua “roba” (che è il terreno dove un principe “rapace” è più spesso tentato di opprimere); fiducioso che la giustizia sarà esercitata secondo le forme e le garanzie dovute (punire solo quando vi sia “iustificazione conveniente e causa manifesta”); certo che non sarà oppresso, vessatoriamente, dalle tasse di un principe “fiscale”, che, dilapidate le ricchezze dell’erario, venendo meno alla rigorosa distinzione machiavelliana di “publico” e privato, si volga di continuo a spremere il popolo per le guerre e le altre imprese. Scrive Gramsci, a proposito del principe di Machiavelli, che “le masse popolari dimenticano i mezzi impiegati per raggiungere un fine, se questo è storicamente progressivo e risolve i problemi essenziali dell’epoca”; il principe, difatti, “stabilisce un ordine in cui sia possibile muoversi, operare, lavorare tranquillamente”. Insomma, un popolo “sicuro”, “soddisfatto” e, come Machiavelli ripete spesso, “contento”. Si tratta, insomma, di un potere sempre accompagnato da egemonico consenso. Nei tempi che viviamo, in una situazione in cui la democrazia si riduce, non di rado, a garantire, in ultima istanza, un certo stato di diritto e i mercati, nemmeno ci si dovrebbe stupire troppo del quadro delineato da Machiavelli, di questa protezione personale, familiare, e, in senso largo, “sociale”.

Da ciò che si è detto, emerge, certo, una sostanziale passività del popolo; un qualche ruolo “attivo” si potrebbe tutt’al più scorgere solo nel fatto che il popolo, dopotutto, deve riconoscere e accettare l’offerta amicale del principe. Per la contraddizione che non lo consente, il principe non potrebbe mai “soddisfare” il popolo dal lato politico, rinunciando al suo potere monocratico, di modo che la soddisfazione sarà da ritrovare tutta sul piano dei bisogni essenziali e primari, di ciò che sta al di qua, o al di là, della politica. Si tratta, insomma, di una prima ed elementare forma di egemonia, riposante sulle necessità della vita. Ma la grandezza di Machiavelli sta nel fatto che egli conosce, insieme, una diversa e più alta forma di egemonia: quella esemplificata dalla repubblica romana, che è al centro dei Discorsi. Qui tutto il popolo, la “plebe”, è chiamato a un importantissimo, e, in un certo senso, decisivo ruolo politico: tutti i cittadini sono diventati “principi”. E si ha egemonia sia nella forma di una costituzione “mista”, di carattere “duale”, contro la monotonia degli stati “monoclasse”; sia nel determinante conflitto che oppone la plebe o popolo ai nobili o grandi, per la conquista di egemonia, sempre nel quadro delle istituzioni democratico-repubblicane, allo scopo di promuovere leggi “in favore della libertà”; sia infine negli effetti prodotti dal corpo politico così costituito, libertà interna e potenza esterna, con lo strepitoso esempio dell’”imperio” romano, che esercitò hegemonia, diceva Polibio, sull’intero mondo conosciuto, o almeno su una sua parte significativa. I Discorsi non dimenticano mai il Principe, e uno dei punti di forza di Machiavelli, è che, rifiutando ogni pensiero unico e definitivo, lavora su più “modelli”, principato e repubblica, incrociandoli tra loro, e facendo reagire l’uno sull’altro.

La politica, e specie quella d’egemonia, non è mai figlia di allegro ottimismo volontaristico, di spensierata sicurezza. Si nutre sì di ragione e passione, di fermo calcolo e di brucianti emozioni, ma li costituisce sul fondo, e con la perenne compagnia, dell’incertezza e del dubbio, dell’esperienza di passate e forse future delusioni. Il fatto è che non esiste una generale “scienza politica” capace di dare certezze, né Machiavelli ha mai cercato, contrariamente a quanto si continua pigramente a ripetere, di dar corpo a una simile scienza. Nulla è garantito, nulla è certo, in merito alla costruzione e all’effettiva riuscita di una buona politica. Ora, quasi alla fine di Principe XXV, in prossimità della sua conclusione, esplode in Machiavelli un dubbio radicale, “iperbolico e, per dir così, metafisico”, come avrebbe detto Cartesio. Non è più l’esitazione perplessa che aveva accompagnato tutta la stesura dell’opera, ma un dubbio devastante, capace di mettere in crisi, di “ruinare”, l’intera costruzione del Principe. No, forse non è vero che un principe, quand’anche fosse straordinariamente virtuoso, riesca a compiere l’impresa che ho preparato per lui. Lo smarrimento nasce nel punto più delicato: la fortuna è in perenne “variazione”, e questo è il dato della realtà, ma sarà l’uomo in grado di mutare se stesso, restando in sintonia con le cose, anche quando queste mutino rapidamente, ciò che Machiavelli dice “riscontro coi tempi”? Gli uomini, come hanno “diverso volto”, così posseggono pure diverso “ingegno et fantasia”, e, come esempio, Machiavelli riconduce questa disparità a due diversi tipi (prejunghiani), quello dell’”impetuoso” decisionista e quello del prudente “respettivo”. Gli esseri umani sono abituati a condursi in una certa maniera, secondo il loro temperamento, e magari sono stati fortunati nel comportarsi così; si capisce allora come siano riluttanti ad abbandonare il loro modo d’essere. Ma qui siamo ancora al dubbio “metodico”, non a quello “iperbolico”, che si ha quando si osserva che simili attitudini degli uomini non sono né scelte né revocabili, ma costituiscono un immutabile dato naturale. Così accade che, mentre i tempi variano impetuosamente, l’uomo non è in grado di mutare se stesso, non “potendo deviare da quello a che la natura lo inclina”. Si “felìcita” quando c’è un positivo “riscontro” con i tempi, una conformità tra il proprio carattere e quello di uno specifico momento storico, ma si “infelicita” quando il proprio “umore” è disforme dai tempi, sia esso impetuoso o rispettivo, ma nemmeno un uomo virtuoso come il principe nuovo può, uscendo dalla sua natura, secondare tutti i tempi. Può aver prosperato finché c’era un tempo congeniale alla sua natura, ma di necessità “rovina” quando, variando la fortuna, se ne sta “ostinato” nei suoi “modi”. Non c’è “uomo sì prudente” che sappia vincere questa sfida, un “savio” che sappia comandare “alle stelle et a’ fati”.

Per comprendere il punto di crisi, che rovinerebbe l’intero Principe, deprimendo ogni azione umana, è necessario guardare sommariamente la struttura del capitolo XXV, il più difficile, senza dubbio, dell’opera, che ospita quest’amara riflessione. Il titolo si chiede “quantum fortuna in rebus humanis possit”; è un tema del tutto nuovo rispetto al Principe, quale era stato fin qui svolto e presso che ultimato. Finora Machiavelli, pur fin troppo consapevole del peso della fortuna, aveva delineato l’eccezionale figura di un principe che sapesse duramente affermarsi sulla variazione dei tempi. Qui invece la riflessione assume un andamento filosofico, e, insomma, ci si interroga su quale sia “in universali” il potere della fortuna nelle cose umane. La premessa è molto significativa. Machiavelli riporta l’”opinione” di quanti sostengono che la “fortuna e Dio” abbiano così in mano il governo delle cose del mondo, che gli uomini, “con la “prudenzia loro, non possino correggerle, anzi non vi abbino remedio alcuno”. Una simile opinione è, certo, più facilmente credibile “ne’ nostri tempi”, quando si è vista e si vede una “variazione grande delle cose”, eventi “fuora di ogni umana coniettura”. Segue una confessione autobiografica: “a che pensando, io, qualche volta, mi sono in qualche parte inclinato nella opinione loro”. Ma (“nondimanco”) l’idea fatalistica è subito rigettata, “perché il nostro arbitrio non sia spento”. Il problema è quale sia, nella storia, il rispettivo peso della fortuna e delle azioni umane. Machiavelli giudica che, all’incirca (“o presso”), la “fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre”, e che l’altra metà spetti al governo umano. E’ una partizione di necessità approssimativa, quella che aveva guidato, più o meno, la costruzione del Principe. E, del resto, chi potrebbe mai rigorosamente risolvere, con astratta ricerca intellettuale, un simile problema? Importante è sapere, come accade nel Principe, che c’è un pesante condizionamento delle cose, una durezza volta a volta data, e una possibilità d’azione, sebbene ardua anch’essa. La metafora del fiume, notissima e stilisticamente stupenda, illustra questa situazione: il fiume straripa impetuoso perché, nei “tempi quieti”, non si sono fatti “argini” e “ripari”; e così, parimenti, la fortuna “dimostra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle”. Nessuno potrebbe dire che per questa via siamo giunti a una rigorosa soluzione del problema del peso della fortuna nelle cose umane. Machiavelli stesso oscilla, ora inclinando più verso la fortuna, ora più verso la virtù. Ma, come s’è detto, è il problema stesso che è insolubile, né si lascia razionalmente sciogliere.

Nel breve finale del capitolo, Machiavelli si riprende dall’estremo dubbio, e avanza una dichiarazione del tutto contraddittoria, in apparenza, con l’analisi subito prima svolta: “io iudico bene questo: che sia meglio essere impetuoso che respettivo”. Può sembrare solo una passionale battuta, di fronte all’ oscura complessità del problema affrontato. Ma sarei portato a darle più ampio valore. Dalla depressione si esce con umori euforici, e tanto più la prima è stata acuta, tanto più i secondi sono eccitati e “veloci”. Con la preferenza accordata agli impetuosi, i più “decisionisti”, Machiavelli riprende, nella maniera più intensa, il tema, costante nel Principe, della volontà che agisce, della virtù che sa imprimere il suo segno sulle cose. E, implicitamente almeno, affiora qui un altro problema. La domanda sul peso rispettivo di fortuna e virtù, indecidibile sul terreno razionale, può essere affrontato e illuminato solo nell’ambito della praxis. Non si tratta in alcun modo di ergere bandiere di prometeico volontarismo, di azioni senza oggetto, contravvenendo a ogni lezione machiavelliana, ma è pur vero che il duro peso della fortuna si può sperimentare e misurare solo nel lavoro dell’azione, nel tentativo non di annullarlo, quanto di operarvi dentro per mutarlo, e lasciare nella “materia” delle cose la propria soggettiva “forma”. E’ qui che si vede quanto possa la fortuna nelle cose umane.

Se, prima del dubbio, sta l’intero Principe, e se nel finale del capitolo XXV Machiavelli si riallaccia ai suoi temi più caratteristici su virtù e fortuna, nel capitolo seguente e ultimo dell’opera, nella celebre Exhortatio a liberare l’Italia dai “barbari”, si ha una vistosa ripresa di tono circa la possibilità dell’azione politica, un timbro da grande orchestra, in qualche punto persino troppo sonora. Il superamento della profonda crisi intellettuale è segnato con nettezza: “Dio non vuole fare ogni cosa, per non ci torre el libero arbitrio e parte di quella gloria che tocca a noi”. La virtù deve riprendere il suo alto e difficile corso. La politica di Machiavelli è imprescindibile dal nesso con la storia; non teoriche e un po’ eteree dottrine devono guidare il politico, ma l’acuta consapevolezza e il senso della storia, di quella passata e, soprattutto, di quella in cui deve agire. Il Principe è “vissuto” di storia, come si conviene all’”antiteorico” Machiavelli, e nel nostro capitolo è di nuovo al centro la situazione italiana. Nel punto del dubbio radicale, era la virtù, la capacità di agire, la questione centrale, e, anzi, il solo vero problema. Ora, tornata la fiducia nella virtù, che certo deve essere sempre grande, “estraordinaria”, la prospettiva si sposta dalla parte della fortuna, del tempo della storia e della situazione delle cose. La condizione italiana, s’è detto, era pessima, è ciò è ribadito anche nell’ultimo capitolo del Principe: l’Italia è “battuta, spogliata, lacera, corsa”. Centrale è in Machiavelli, tra fortuna e virtù, l’”occasione”, un modo di presentarsi dei tempi e delle cose, che, se non trova virtù adeguata, trascorre vanamente, così come la virtù, grande quanto si voglia, deperisce e si spegne, se non trova l’opportunità di esercitarsi. Nel nostro capitolo, l’occasione sta proprio nella disperazione delle cose, quando si è toccato il fondo dell’abisso. C’è, certo, un tratto di biblico provvidenzialismo nel prospettare come “occasione” quella situazione italiana tenuta ferma, nella sua drammaticità, per tutto il corso del Principe: “el mare si è aperto; una nube vi ha scorto el cammino; la pietra ha versato acqua; qui è piovuta la manna”. Come dirà, in una sua “degnità”, Vico: “parevano traversie ed erano opportunità”. Ma. del resto, secondo il costante convincimento di Machiavelli, “tutte le cose degli uomini” sono sempre “in moto, e non potendo stare salde, conviene che le salghino o che le scendino”; giunte al punto più basso, le cose non possono che risalire. E si ha qui un’altra lezione di Machiavelli. Per quanto miserevole e sconsolata sia la situazione data, conviene sempre tentare una via d’uscita politica. Molte volte, e in vari modi, Machiavelli si sofferma sul fatto che, in condizioni disperate, quando non si ha più nulla da perdere, è sempre meglio affrontare la lotta, tentando, con decisione “impetuosa”, di rimontare la china. Ma per far ciò. le sole armi della ragione non bastano. Occorre saper mobilitare con tutti gli strumenti possibili, accendere gli animi, pur predisposti dalla loro condizione al mutamento, formulare un “manifesto politico” che esprima “fanatismo d’azione”, come diceva Gramsci. Machiavelli ricorre, tra altri esempi e motivi, alla biblica lezione di Mosè, di cui s’è già vista la presenza. L’occasione nasceva dal fatto che gli ebrei erano disperati e “stiavi”, e s’incontrò con la “virtù di Moisè”, il grande condottiero che mobilitò il suo popolo, traendolo fuori dalla schiavitù.

occamQuesto testo, originariamente pubblicato sul Rasoio di Occam, ha fatto da base all’intervento sullo stesso tema realizzato da Mario Reale per l’Osservatorio filosofico.

 

Un rinnovamento storiografico del Novecento: la scuola delle Annales

Un rinnovamento storiografico del Novecento: la scuola delle Annales

di Sonia Caporossi

Già apparso in due parti con licenza CC su criticaimpura.wordpress.com (prima parte, seconda parte), quindi in forma riveduta e corretta su www.storiaestorici.it e in ebook su “Un Anno Di Critica Impura”, di Sonia Caporossi e Antonella Pierangeli, Web-Press Edizioni Digitali, Milano, Gennaio 2013 – ISBN: 978-88-906285-97
 

Sommario:

  • La scuola della Annales
  • 1930-1968, una svolta della storiografia
  • La rinascita delle fonti e la decadenza del soggetto
  • Un sistema aperto e una storiografia eterodiretta dallo storico
  • Il tempo storico e la “lunga durata”
  • Un impianto possente e contradditorio
  • E il tempo che cosa è

 

La scuola della Annales

[drop_cap style=”2″ bgcolor=”#dddddd” color=”#787882″]Q[/drop_cap]uando la scuola storiografica delle Annales, com’è noto, sorse in Francia intorno alla rivista Annales d’histoire économique et sociale fondata nel 1929 da Marc Bloch e Lucièn Fevbre [ref]Il titolo della rivista variò poi nel 1946 in Annales. Economies. Sociétés. Civilisation e dal 1994 in Annales. Histoire et sciences sociales. Il movimento si articolò, com’è noto, in tre periodi fondamentali: 1929-1944, 1945-1968 e dal 1968 in poi, come specificato più avanti.[/ref], essa fu immediatamente caratterizzata da una considerazione fortemente innovativa della ricerca storiografica. Questo senso di ricerca ed innovazione, infatti, concedeva sostrato al significato, nella teoresi e nella prassi, dell’attenzione rivolta da Bloch e Febvre nei confronti di branche del sapere, come ad esempio l’economia e gli studi sociali, che tradizionalmente erano quasi del tutto rimaste ai margini della considerazione storiografica in senso finalmente scientifico, laddove avevano trovato un posizionamento strategico, nel lungo secolo della storiografia di ascendenza idealistico – romantica, come semplici forme dello sviluppo progressivo dello Spirito in generale, ovvero, come propugnavano più tardi i positivisti in polemica con le variopinte hegelianità, in un campo di dominio permeato della più bieca e gradassa metafisica.

La direzione intrapresa era quella dell’ampliamento delle problematiche da analizzare per affrontare i processi storici in senso strutturale, o per meglio dire strutturalista, come verrà meglio a delinearsi successivamente nel marasma culturale degli anni Sessanta  [ref]Cfr. I. Fazio, Nuova Storia Culturale, in Cultural Studies, rivista telematica dell’Università di Palermo, pp. 2-3: “Anche la scuola francese delle Annales, che già dai suoi inizi si era caratterizzata per la ricerca di insiemi sociali e di sviluppi di civiltà di lunga durata che oltrepassavano gli steccati della storia politica e religiosa, in una seconda fase, dal dopoguerra in poi, si è orientata verso temi culturali. Forme simboliche e pratiche materiali venivano documentate in modo dettagliato. L’eclettismo interdisciplinare delle Annales si inquadrava in una cornice teorico metodologica di strutturalismo storicista. Dallo strutturalismo francese, sia linguistico che antropologico, traeva la concezione della storia  come insieme di strutture – dalle  credenze alle  pratiche economiche – che funzionavano in modo organico. Esse si modificavano lentissimamente, lasciando spazio quindi a un’enfasi analitica sui fattori di permanenza e sulle interazioni reciproche tra gli elementi della struttura. È facile comprendere quindi il legame di questo modello analitico con l’antropologia strutturalista. Infine, un terzo elemento accanto al lavoro degli storici sociali e degli animatori delle Annales portava la cultura, e in particolare quella dei gruppi subalterni, in primo piano nella storia e nelle altre scienze sociali: i movimenti sociali, generazionali, controculturali e antiegemonici di fine anni Sessanta premevano nel senso dell’apertura a temi di ricerca relativi ai gruppi dominati, come i neri, le donne, i popoli del cosiddetto terzo mondo la cui vita veniva alla luce nell’ambito del processo di decolonizzazione. La ricerca sociologica soprattutto dava attenzione alla cultura popolare e alla controcultura; la ricerca femminista cominciava a legare mondi mentali e ambiti corporei; nascevano gli studi subalterni”.[/ref]; tuttavia, fin da subito i nuovi storici delle Annales operarono considerando parte integrante dell’indagine storica gli aspetti della produzione, della tecnologia, dei mezzi di lavoro, l’apertura a temi come le mentalità, la considerazione dei manufatti, la demografia, la vita quotidiana, la sessualità, l’alimentazione, le abitudini di consumo e chi più ne ha più ne metta, lanciando esche a cui abboccheranno le successive correnti psicosociostoricofilosofiche, in patria e fuori dai confini (prestabiliti). Campi di interesse nuovi divennero quindi ben presto anche le civiltà extraeuropee, in un ampliamento in senso globale e globalizzato, o forse meglio dire globalizzante, dei confini geopolitici, derivato dalla contemporanea intersezione con l’etnologia e l’antropologia culturale, ma soprattutto nel primo periodo delle Annales era viva la sollecitazione a colmare i ritardi rispetto alle scienze esatte e naturali: “ciò che premeva a Bloch […] era la rivendicazione della possibilità di una conoscenza critica, scientifica, dei singoli fatti storici”, laddove la figura con cui dialogare in tal senso, in primis e fin dal principio, era il Durkheim dell’Année sociologique. Mentre per il sociologo “la storiografia o non era scientifica, e allora rimaneva confinata, al limite, nell’aneddoto; o era scientifica, passibile cioè di comparazioni tali da condurre all’enunciazione di leggi, e allora si identificava con la sociologia”  [ref]Così scrive C. Ginzburg nella Prefazione a M. Bloch, I re taumaturghi, Torino 1973, p. XII. Del resto, come sostiene M. Mastrogregori in A. De Bernardi e S. Guarracino, Dizionario di Storiografia, Milano 1996, “la struttura della rivista riprende quella dell’Année sociologique (1879) di E. Durkheim, e si è ipotizzato che Bloch e Febvre volessero riprendere, a favore della storiografia, il disegno durkheimiano di un’egemonia della sociologia tra le scienze sociali, elaborato all’inizio del secolo proprio contro la storiografia”. Durkheim in effetti opponeva allo studio del fatto individuale, irripetibile, quello delle determinazioni sociali, cui si attribuiva un ruolo essenziale in tutto lo sviluppo della società, e questo, di fatto, è il punto di partenza del discorso storiografico delle Annales fin dalla fondazione.[/ref], per Bloch, al contrario, la scientificità del lavoro dello storico era una rivendicazione legittima senz’ombra di dubbio; ma proprio per questo, implicitamente, dava ragione allo stesso Durkheim: occorreva, per possederne un paradigma valido, uscire dal modello della storia dell’aneddoto.

Non consapevole di questa preliminare contraddizione nell’enunciato, il movimento delle Annales auspicava in questo senso il lavoro collegiale degli storici, i quali avrebbero dovuto avvalersi dei contributi interdisciplinari sulla base di una comune piattaforma interpretativa: si mirava insomma ad  ottenere una cooperazione internazionale a livello di ricerca, l’apertura all’attenzione di un vasto pubblico interessato ai problemi del presente e soprattutto il raggiungimento di “un lavoro comune con le scienze sociali, dalla geografia alla statistica, dall’economia politica alla psicologia e alla sociologia”, anche alla luce dell’importanza del fattore economico analizzato centralmente, per la prima volta, dalla storiografia marxista, caratterizzata dalla posizione di un problema, quello economico – sociale, di più vasto respiro  [ref]Fu J. Jaurès, coi suoi volumi sulla Storia socialista della rivoluzione francese (1900), che indusse gli storici francesi dei periodi successivi a prestare maggiore attenzione ai fatti socio-economici, influenzando per esempio storici del calibro di G. Lefebvre. A testimonianza dell’accresciuta importanza del fattore socio – economico nell’interpretazione storica basti pensare che nel 1927 (due anni prima della pubblicazione del primo numero delle Annales) Mathiez, il maggior storico della rivoluzione francese durante il primo trentennio del secolo, aveva pubblicato la sua migliore opera socio-economica: Il carovita e il movimento sociale sotto il Terrore.[/ref].

1930-1968, una svolta della storiografia

Gli anni Trenta segnano insomma l’inizio della fine della storiografia meramente politica o, come si sarebbe detto di lì a poco a mo’ di slogan, evenemenziale. La rivoluzione russa, la cavalcata spettrale del marxismo nei cieli d’Europa, i mutamenti sociali post-bellici, la presenza ossessiva dell’elemento economico a guidare la danza macabra durante e dopo la Prima guerra mondiale, in particolare la crisi economica nel ping pong planetario che ebbe inizio proprio nel 1929 e che finì per coinvolgere anche la Francia: tutto ciò comportò un avvicinamento fatale, un’attrazione ideocentrica degli storici francesi alle questioni economiche. Ad esempio, se pure i primi lavori di Bloch sono consacrati alla Francia capetingia con studi sui problemi della psicologia collettiva e delle mentalità  [ref]Stiamo parlando de I re taumaturghi , opera che venne pubblicata nel 1924 e all’interno della quale si fa strada un’idea di psicologia e sociologia storica incentrata sulla definizione delle “représentations collectives”. Il sostenitore più fervido della psicologia storica fu Febvre, a cominciare dal saggio del 1938 Une vue d’ensemble: historie et psychologie.[/ref], modalità di analisi e ricerca poi cadute nelle fauci impastoiate di ben più miserandi tuttologi e psicanalisti sessantottini, verso la metà degli anni Venti la sua attenzione si concentra sulla storia agraria medievale francese ed europea, tanto che nel 1931 insegna a Oslo storia agraria comparata e proprio in quel periodo pubblica l’opera che lo fa diventare il maggior storico-economista della Francia: I caratteri originali della storia rurale francese  [ref]Negli anni 1939-40 appare quello che può essere considerato il suo capolavoro: La società feudale.[/ref]. Ma le Annales conobbero anche altre linee di sviluppo, in cui le linee di demarcazione fra tendenze differenti si fanno abbastanza definite. Il secondo periodo delle Annales prende vita dopo la morte di Bloch nel 1944  [ref]Già cinquantenne, Bloch si arruolò doverosamente, col grado di capitano, contro i nazisti. Nel 1940 fu in quelle unità francesi che riuscirono a imbarcarsi a Dunkerque per l’Inghilterra, da dove poi rientrò in Francia, ma dopo la capitolazione non potette più insegnare alla Sorbona e per qualche tempo esercitò in provincia, contemporaneamente gettando su carta il manoscritto dell’Apologia della storia, che rimase incompiuta e fu pubblicata postuma da Febvre con alcuni ritocchi. L’autore aveva dovuto nascondersi, perché ebreo, sotto il regime di Vichy, e del resto era ben nota la sua avversione all’hitlerismo razzista. Divenuto nel 1943 uno dei comandanti della cintura lionese della Resistenza, fu arrestato dalla Gestapo nel 1944 e fucilato il 16 giugno. Come ricorda Le Goff nella sua Prefazione all’Apologia della storia, Bloch “Fu una delle vittime di Klaus Barbie”. Durante tutta la guerra Febvre, rimasto a Parigi, volle con tutti i mezzi possibili mantenere in vita le Annales, la cui periodicità era divenuta, per forza di cose, saltuaria. Come abbiamo già ricordato, nel 1946 i fascicoli ricominciarono ad apparire sotto un nuovo nome, Annales. Economies-Sociétés-Civilisations, redatti dal solo Febvre. Terminata la guerra, la storiografia francese riprese con nuovo vigore, tanto che la pubblicazione, nel 1949, del libro di F. Braudel, Il Mediterraneo e il mondo mediterraneo all’epoca di Filippo II, costituì allora un avvenimento eccezionale. Basti pensare che la sua elaborazione richiese circa quindici anni e che grazie a questo lavoro Braudel venne riconosciuto come uno degli storici più importanti d’Europa, a causa delle novità impellenti del suo lavoro, il quale invertiva volontariamente l’importanza dell’oggetto studiato, il Mediterraneo, a scapito della figura individuale di Filippo II, e per la scansione triadica del tempo storico, concetto problematico di cui si parlerà più avanti.[/ref] ruotando intorno alle figure di Febvre e Braudel e ad una grande istituzione di ricerca fondata nel 1947: la VI sezione dell’École pratique des hautes études, istituzione attraverso cui i due condirettori riescono ad affermare il movimento delle Annales anche in ambito accademico. Il terzo periodo invece ha inizio nel 1968 e ruota intorno alla figura di Jacques Le Goff il quale assume la direzione della rivista dando così inizio al periodo della cosiddetta antropologia storica.

Nonostante questa scansione in tre periodi caratterizzati da diversi indirizzi, giudicati solo apparentemente divergenti e in parte contraddittori, la Scuola delle Annales è stata considerata complessivamente una vera e propria svolta rispetto alla storiografia dell’Ottocento, la quale, a sua volta, declinava i propri parametri di analisi intorno a due grandi correnti contrapposte: lo storicismo romantico e idealista da una parte e il positivismo dall’altro, ambedue considerati mali profondamente radicati nel metodo d’indagine, da emendare con tutte le forze possibili. Nella storiografia ottocentesca il fenomeno storico era vissuto infatti come fare politico in senso pressoché esclusivo. Questa impostazione, probabilmente derivata dal sorgere, attraverso i moti rivoluzionari di ispirazione romantica, del concetto di nazione, permetteva ai nuovi storici di accusare la storiografia romantica di un certo descrittivismo astratto e sistematizzante: essa non faceva altro che scrivere la storia degli Stati  [ref]Chabod si occuperà del concetto di nazione in una serie di lezioni tenute all’università Statale di Milano nell’anno accademico 1943-1944 e poi raccolte e pubblicate a cura di A. Saitta e E. Sestan (L’idea di nazione, Roma – Bari 1961). Lo storico valdostano si era occupato, fin dal decennio precedente, dell’idea d’Europa dal punto di vista del divenire storico della coscienza europea e dello svolgersi dell’idea di nazione, proprio in quegli anni in cui la sua degenerazione in nazionalismo si era resa evidente in seguito al tragico accadimento delle due Guerre Mondiali.[/ref] e così si imperniava intorno a un individualismo particolaristico che non consentirebbe analisi di più vasto respiro. Dall’altra parte si ergeva tuttavia il possente muro del positivismo, contro la cui “metafisica del fatto” le Annales si opporranno sempre fermamente, nella concezione del fatto che permane inerte senza l’intervento interpretativo dello storico e nella convinzione che il lavoro dello storico consista nel porre delle domande alle testimonianze in una considerazione della storia come problema e ricerca. Il tentativo di superare il descrittivismo elencativo positivista e la semplice erudizione ottocentesca doveva, per gli annalisti, farsi forte della convinzione che “la storia […] avrà il diritto di rivendicare il suo posto fra le forme di conoscenza veramente degne di sforzo, soltanto se ci prometterà una classificazione razionale e una progressiva intelligibilità, anziché una semplice enumerazione senza nessi a quasi senza limiti”; per questo occorre considerare la storia come oggetto di un “lavoro ragionato di analisi” e non come mera “pratica erudita”; l’esigenza era quella di superare, pur riconoscendone il valore, una visione della storia come “scienza dell’evoluzione umana” sorretta da un “ideale pan – scientifico”, che però, contraddittoriamente, escludeva dai suoi orizzonti il residuo delle “numerose realtà umane che apparivano disperatamente ribelli a un sapere razionale” chiamandole sdegnosamente “l’avvenimento”: era questo, secondo Bloch,  l’orientamento della scuola sociologica di Durkheim da rigettare in pieno  [ref]M. Bloch, Apologia della storia, Torino 1970, pp. 28 – 31.[/ref].

La rinascita delle fonti e la decadenza del soggetto

Questa necessità finisce per indirizzare Bloch e Febvre verso un nuovo ruolo dello storico che si assume come compito l’analisi del dato concreto, la ricerca del quid strutturale, l’interpretazione delle fonti le quali però, senza quest’intervento attivo e quasi rabdomantico, rimarrebbero mute. Scriveva infatti Bloch nel 1929: “i documenti restano monotoni ed esangui fino al momento in cui il colpo di bacchetta dell’intuizione storica rende loro l’anima”. Al di là della considerazione di soppiatto che l’argomento dell’intuizione storica è di matrice idealistica, proprio una delle tendenze a cui Les Annales volevano di fatto contrapporsi; esso tuttavia possiede, di vitale e nuovo, questo suo innestarsi indefesso sul lavorio filologico documentario. I documenti che lo storico deve interrogare sono, in effetti, svariatissimi: scritti teologici, medici, giuridici, dissertazioni politiche, atti amministrativi, reperti del folklore, dipinti, incisioni, cronache, chansons de geste. Lo storico prende le fonti, le passa al microscopio, le esamina, rende loro una ragione organica di vasto respiro; una ragione, un ordine razionale che oserei chiamare cartesiano e che cambia semplicemente nome: interpretazione. E’ questa un’idea della storia come percorso articolato da ricostruire in tutta la sua complessità, impostazione di pensiero la cui base culturale e politica è stata senza dubbio la vittoria democratica sul nazifascismo, che ha per ciò attraversato l’intero l’arco della cultura democratica europea dell’inizio del Novecento.

Infatti, come ricorda Ludovico Gatto, “gli avvenimenti legati ai due conflitti mondiali hanno contribuito a sviluppare il cammino e l’evoluzione del pensiero storico europeo”  [ref]Ludovico Gatto (Prefazione a H. Pirenne, Storia d’Europa dalle invasioni al XVI secolo, Roma 1991, p. 8) ricorda il valore dell’impegno concreto dello storico e della sua immersione nel presente facendo un riferimento alla figura maestra del professore belga: “Pirenne […] per l’atteggiamento coraggioso e patriottico verso la sua università di cui volle difendere il patrimonio culturale e materiale, nel 1916 venne deportato in Germania. Così fu però anche per Fernand Braudel, durante il secondo conflitto mondiale, tradotto nei campi di prigionia tedeschi di Magonza e Lubecca”. Come si sa, ambedue gli studiosi, per alleviare le sofferenze della prigionia, organizzarono corsi di storia fra i detenuti e scrissero materiale, in quasi totale assenza di documenti e possibilità di ricerca, che sarebbe poi servito ai loro rispettivi capolavori Storia d’Europa dalle invasioni al XVI secolo e Civiltà e imperi nel Mediterraneo nell’età di Filippo II.[/ref]. Il mestiere di storico, insomma, comporta la dimensione dell’impegno in prima persona nell’intenzione votiva di studiare il passato essendo totalmente coinvolti nel presente, in quella circolarità ermeneutica di presente e passato che è una delle tensioni più forti di chi avverte fortemente il richiamo dell’identità storica; e lo è, aggiungiamo, fin dai tempi, appunto, del romanticismo. Paradosso? Contraddizione? Andiamo avanti. Lo storico, specie secondo Bloch, deve tenere ben presente anche il problema epistemologico della legittimità della storia  [ref]“Papà, spiegami a che serve la storia”. Così, pochi anni or sono, un ragazzo che mi è molto vicino, interrogava suo padre, uno storico. Vorrei poter dire che questo libro rappresenta la mia risposta, perché non credo ci sia lode migliore, per uno scrittore, che di saper parlare, con il medesimo tono, ai dotti e agli scolari. Ma una semplicità tanto elevata è privilegio di alcuni rari eletti. Tuttavia la domanda di quel fanciullo, di cui sul momento non riuscii gran che bene a soddisfare la sete di sapere, la conserverei volentieri qui, come epigrafe. […] Il problema ch’essa pone, con la sconcertante dirittura di quell’età inesorabile, è, né più né meno, quello della legittimità della storia. […] e tuttavia la storia, alla quale ci richiama un’attrattiva quasi universalmente sentita, non potesse dimostrare altrimenti la propria legittimità; se non fosse insomma che un piacevole passatempo, […] meriterebbe davvero la fatica che spendiamo per scriverla? […] O dovremo sconsigliare lo studio della storia agli ingegni suscettibili di un miglior impiego, oppure la storia dovrà dimostrare di avere le carte in regola come conoscenza” (M. Bloch, Apologia della storia, cit., pp. 23-27).[/ref]. Egli sorregge sulle spalle responsabilità morali e civiche nei confronti del percorso della civilizzazione (un percorso lineare? Circolare? Ricorsivo?), e la testimonianza storica stessa ha il ruolo fondamentale del mantenimento della memoria, prerogativa di ogni futura civilizzazione; per cui se è vero da una parte che “la storia non dà giudizi morali”, come afferma Bloch, dall’altra è il suo stesso ruolo nel mondo ad essere dotato di un’intrinseca eticità: la storia non è la scienza del passato, bensì, come scrive Febvre, “è una delle scienze umane” in quanto insieme agli stati, alle nazioni, alle tecniche, alle leggi, alle istituzioni “il suo oggetto è l’Uomo; o, se si preferisce, gli Uomini”  [ref]L. Febvre nel Profilo di Marc Bloch preposto all’edizione parigina dell’Apologia della storia del 1949 nell’ed. italiana a cura di G. Araldi , Torino 1970, p. 5.[/ref].

Ora: sfortunatamente, si evince come la scuola delle Annales abbia voluto porsi, onorevolmente, da una parte a sostegno della presenza dell’Uomo nel pensiero contemporaneo: d’altra parte, tuttavia, in quel suo definirlo come “oggetto”, ben lungi dal restituirgli uno statuto ontologico come motore della storia, ha gettato il cemento su cui si sarebbero impiantate, di lì a poco, le maglie castranti dell’antiumanismo posteriore e dell’archeologia del sapere foucaultiana, così disumanizzante e reificante, con quella pretesa di cogliere i rantoli agonizzanti dell’Uomo morente o gli echi umoristici di un Soggetto storico già deceduto. Di fatto, le cose sono andate così: per la Scuola delle Annales, specialmente da Braudel in poi, gli uomini, i singoli, gli individui, sono cominciati a scomparire, volatizzati, liquefatti in una sorta di dissipatio humani generis, annacquati nella salamoia della storia come “lunga durata” e “larghissimo spazio”: vedremo ora come e perché.

Un sistema aperto e una storiografia eterodiretta dallo storico

Accanto alle preoccupazioni epistemologiche e morali, disattese, di conservazione del ruolo umanistico della disciplina storica, le Annales si facevano anche portavoce della concezione della storia come scienza  [ref]Tuttavia nel 1941 Febvre preferiva una definizione più restrittiva: “qualifico la storia come studio condotto scientificamente e non come scienza” (in J. Le Goff, Storia e memoria, Torino 1982, p. 90).[/ref]: ma, beninteso, nella totale assenza di distinzione di ciò che è storia e ciò che non lo è. Lo storico pone nuove domande alle fonti partendo sempre da un’ipotesi: è la stessa istanza ipotetica a garantire la scientificità dell’indagine storica, una scientificità rinnovata perché messa in discussione dal sorgere del probabilismo scientifico e filosofico di inizio secolo  [ref]Stiamo parlando di tutta la rivoluzione di pensiero recata da Einstein, Heisenberg, Goedel, dalla  fisica quantistica, dalle geometrie non euclidee. Questa rivoluzione relativista comportò una nuova concezione di scientificità non più assiomatico – descrittivo – elencativa in senso aristotelico, bensì fondata sul metodo analitico e sulla logica dei sistemi aperti.  Queste tematiche si possono approfondire da un punto di vista logico – matematico e logico – formale in C. Cellucci, Le ragioni della logica, Roma – Bari 2000.[/ref], ma riaffermata fortemente dal richiamo al metodo analitico e alla concezione della storia come sistema aperto: la sostituzione del “certo” con l’“infinitamente probabile”, del “rigorosamente misurabile” con l’“eterna relatività della misura” porta anche lo storico a “concepire la certezza e l’universalità come un problema di gradi”  [ref]M. Bloch, op. cit. p. 33.[/ref].

L’assunto, come si vede, lungi dal superare le istanze positivistiche, ne accoglieva in pieno la metodologia, rigettandone solo la concezione lineare del progresso, per intortarla, avvitarla, aggrovigliarla in un nesso wittgensteiniano di somiglianze e differenze, dove ogni particolare si imparenta con qualsiasi altro e pertiene, in qualche modo,  all’interpretazione storica del tutto globale. Quest’intortamento, quest’avvitamento, questo critico e criteriale scriteriamento del concetto positivista di progresso lineare, in virtù della messa in dubbio e dell’epoké scientifica del principio di Heinsenberg, fa sì che tutto faccia brodo nel calderone della storia. Ma ne mette in dubbio, a ben vedere, la stessa osservabilità dei fenomeni storici, la loro non più intrinseca possibilità d’essere analizzati con fondamenti scientifici certi. E tuttavia, l’apoditticità di qualsiasi assunto definitorio preliminare, pur tuttavia come sempre necessario per rendere intellegibile il “che cos’è” delle vicende storiche e la loro stessa interpretazione dal di fuori, evidenza la sinuosità di un circolo vizioso, il modus operandi di un’epistemologia storica in cui ci si trova a giustificare l’ipotesi parziale assunta piegando il fatto stesso alla sua conferma; se ciò non può essere fatto a priori, lo si faccia almeno a posteriori.

La metodologia ermeneutica delle Annales potrebbe in questo senso venire definita come una storiografia eterodiretta dallo storico in quanto tale, rabdomante e demiurgico semiologo della forma e della sostanza delle fonti, sezionate ed analizzate per rivelare verità che solo lui sa leggere. Quest’ermeneutica del fatto inerte e dello Spirito Santo che scende a ravvivarlo avvia così lo studio di tutto ciò che risulti in qualche modo passibile di essere storicizzato: dalle tecniche, dalle credenze alle mentalità affiancate fin dagli esordi da una forte istanza comparatista  [ref]Fondamentale in tal senso è l’articolo di M. Bloch pubblicato nel 1928 sulla Revue de synthèse historique dal titolo Pour une historie comparée des sociétés européennes.[/ref]. La scientificità della storiografia delle Annales è anche riaffermata dai suoi mentori nei suoi nessi stretti con alcune delle nuove scienze di inizio secolo: lo strutturalismo determina la concezione che il significato di un evento storico sia dato dai rapporti reciproci strutturali con gli eventi coevi  [ref]Se problematico è il rapporto con lo strutturalismo di Lévi – Strauss, accusato spesso di a – storicismo, tuttavia, come scrive Le Goff, Storia e memoria, cit., p. 124: “lo strutturalismo genetico e dinamico dell’epistemologo e psicologo svizzero Jean Piaget, secondo il quale le strutture sono intrinsecamente evolutive” si presta bene ad appoggiare la concezione storiografica delle Annales.[/ref]; la psicanalisi influenza la ricerca sulle mentalità collettive e sugli archetipi, nella riflessione della memoria come fondata su una comune identità, impostazione già tipica del Berr, fondatore della psicologia storica. Infine, la concezione del tempo storico viene rivoluzionata soprattutto da Fernand Braudel, il quale polemizza con la storia tradizionale di superficie, la cosiddetta storia événementielle, basata sugli avvenimenti politici più esteriori e visibili, la quale d’ora in poi viene confinata definitivamente in un ruolo subalterno a vantaggio di un modello di ricerca strutturale e funzionale fondato su uno stretto rapporto fra storia e tempo. “La storiografia tradizionale”, dirà Braudel, “interessata ai ritmi brevi del tempo, all’individuo, all’évenement, ci ha abituati da tempo al suo racconto frettoloso, drammatico, di breve respiro. La nuova storiografia economica e sociale pone invece al primo posto le oscillazioni cicliche e punta sulla validità delle loro durate”  [ref]F. Braudel, La storia e altre scienze sociali, Bari, 1973.[/ref].

Il tempo storico e la “lunga durata”

Quando Braudel, nel suo famoso articolo del 1958 sulla “lunga durata”, delinea la scomposizione della storia in tre piani digradanti, il “tempo geografico”, il “tempo sociale”, il “tempo individuale” (all’interno del quale viene relegato l’évenémentiel), diviene evidente il nesso con la filosofia di Henri Bergson. Infatti “per la meccanica, il tempo è puramente una serie di istanti che si susseguono in un ben determinato ordine lineare: passato, presente e futuro; per la realtà della coscienza, il tempo è invece qualcosa di irriducibile a una successione di istanti, è durata, è un flusso continuo i cui momenti si compenetrano a vicenda, senza poter venire separati l’uno dall’altro”  [ref]L. Geymonat, Immagini dell’uomo, Milano 1990, pp. 464 – 465.[/ref]. La concezione meccanicistica del tempo è sicuramente, per Bergson, fornita di un certo grado di verità pratica, nel permettere lo studio dei fenomeni del mondo inorganico tramite una sorta di “esteriorizzazione del tempo”. Tuttavia, è solo il tempo della coscienza, esclusivamente all’interno della quale esistono passato e futuro, a recare in sé il senso della durata o tempo vissuto, e solo al suo interno è possibile una considerazione globale e veramente razionale degli eventi. L’idea bergsoniana della durata rielaborata e ripresa da Braudel ha dei riflessi metodologici, etici ed epistemologici di importanza fondamentale. L’idea catastrofista, a quel tempo dominante, espressa nel famoso libro di O. Spengler Il declino dell’occidente, apparso all’indomani della disfatta tedesca del 1918, fu contrastata da Braudel proprio attraverso la sua concezione della “lunga durata”, dimostrando insomma che dalle crisi più acute, quelle degli imperi mediterranei analizzati in Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II,  quasi sempre sorgono nuove imponenti civiltà. L’allargamento non solo alla lunga durata ma anche al largo spazio fu lo spirito del suo secondo importante libro, Civilizzazione materiale e capitalismo, il cui primo volume apparve nel 1967, e all’interno del quale l’autore “descrive la maniera con la quale i grandi equilibri economici, i circuiti di scambi creavano e modificavano la trama della vita biologica e sociale, la maniera con la quale, per esempio, il gusto si abituava ad un prodotto alimentare nuovo”  [ref]Burguière cit. in J. Le Goff, op. cit., p. 116.[/ref]. Braudel aveva speso progressivamente quasi sessant’anni di vita studiando una mole infinita di dati sulla vita quotidiana, materiale, degli uomini, dall’alimentazione all’abitazione, dalle fonti energetiche alle vie di comunicazione, dai mezzi di trasporto alla circolazione del denaro, abbandonando giocoforza l’europocentrismo ottocentesco ed allargando il perimetro geografico dell’indagine storiografica anche a continenti tematicamente quasi inesplorati: l’Asia, l’Africa, l’America. Tuttavia, in Civilizzazione materiale e capitalismo, si rende evidente anche un limite di fondo della concezione braudeliana della “lunga durata”, la quale resta troppo vaga e indeterminata, inapplicabile come è al contesto storico se prelevata dall’assunto bergsoniano, che prendeva a sua volta le mosse da un basamento percettivo individualistico ed affettivo, rischiando così di condannare a una semi-paralisi la storia dell’uomo in rapporto al suo ambiente specifico. Per superare l’empasse, Braudel avrebbe dovuto fare, in base alla sua ottica, di peggio: volendo tenere fermo un genuino bergsonismo, avrebbe dovuto relegare la storia dell’uomo nell’angusta cella di uno psicologismo individualistico già precedentemente rinnegato e dato per morto, particolarismo che nulla avrebbe a che fare, secondo gli annalisti, con la Storia in quanto tale  [ref]Come si legge in un interessante saggio sulla storiografia francese del Novecento pubblicato sulla rivista telematica Homolaicus. Materiali di Umanesimo Laico e Socialismo Democratico a cura di Enrico Galavotti, “anzitutto Braudel separa la civilizzazione materiale dalla vita economica produttiva e dal capitalismo. La prima, a suo giudizio, è fatto di routine, è una vita elementare, vegetativa, che non si presta, se non con molta difficoltà, al mutamento, è dunque una realtà di “lunga durata”. La vita economica invece gli appare come uno stadio superiore, privilegiato, della vita quotidiana. Il capitalismo poi è uno stadio ancora più elevato, più sofisticato. In sostanza sfuggiva a Braudel il fatto che il capitalismo s’afferma proprio sulla base delle forme più elementari dei rapporti mercantili, giungendo in diretto antagonismo con altri tipi dominanti di economia”. Questa prerogativa affidata alla lunga durata porterebbe insomma Braudel ad una incomprensione dei fenomeni localizzati in spazi e tempi circoscritti, causando l’inapplicabilità degli stessi agli eventi di spessore superiore.[/ref]. Ma non lo fece.

Uno dei punti deboli della concezione storiografica del secondo periodo delle Annales, insomma, è questo suo guardare i fenomeni di lunga persistenza tramite l’analisi della ripetitività e ciclicità degli eventi ma trascurando i particolari storici, la cosiddetta microstoria, che tuttavia incalzava per avere nuova voce in capitolo. La concezione della “lunga durata” si fondò anche sul richiamo all’etnologia e all’antropologia culturale, ad una specie di metafisica umanistica strutturale e sovrastrutturale insomma, dando vita ad una storia “più analitica, dedita a rintracciare l’itinerario e i progressi della civiltà”, non deterministicamente bensì interessandosi “ai destini collettivi più che agli individui, all’evoluzione delle società più che alle istituzioni, agli usi più che agli avvenimenti” contro l’altra concezione “più narrativa, più vicina ai luoghi del potere politico”, che abbraccia i grandi cronisti medievali come anche gli eruditi del XVII secolo e “la storia événementielle e positivista che trionfa alla fine del secolo XIX”  [ref]J. Le Goff, op. cit., p. 116, cita un articolo di Burguière pubblicato all’interno del supplemento del 1980 alla Encyclopaedia Universalis.[/ref]. Prendono così piede altri campi di indagine come la storia dell’alimentazione, della sessualità e della famiglia, delle donne, la demografia storica (anche tramite l’utilizzo di fonti massicce come i registri parrocchiali), e con essa la storia dell’infanzia, la storia della morte come campo maggiormente fecondo all’interno dell’indagine già avviata da Bloch sulle mentalità: moltiplicazione dei pani e dei pesci di cui si ciberanno gli strutturalisti e i post – strutturalisti francesi del Novecento, in una frantumazione prismatica di temi e problemi che non permette alcuna visione sistematica se non nell’astraente sguardo esterno dello scienziato – interprete e che, proprio per questo, ricade in quel sostrato narrativo, unico modus unificante possibile al discorso storico, sebbene precedentemente rinnegato, il quale si instaura sul fondale scientifico della ricerca filologica.

Un impianto possente e contradditorio

A questo punto è d’obbligo tirare brevemente le somme sulle grandi avversioni, sui grandi rifiuti operati dalla Scuola delle Annales. Tale possente e contraddittorio impianto di indagine storiografica, attraverso le sue varie fasi e i suoi percorsi decennali, porta in sé il messaggio del rifiuto di una storia idealista in cui le idee si genererebbero per partenogenesi come nelle vecchie e muffite impostazioni delle varie filosofie della storia, ed anche l’avversione alla concezione della storia come semplice progresso lineare oppure, in tertiis, di una storia che interpreterebbe il passato sulla base esclusiva dei valori del presente a rischio di incomprensioni profonde del fatto storico; atteggiamento presentista, quest’ultimo, che peraltro non può essere assolutamente evitato dagli stessi annalisti, proprio ed in quanto si pongono ipotesi preliminari, le quali, inevitabilmente, pertengono sempre all’ottica e alla forma mentis di colui che, qui ed ora, si pone il problema, formulandone la domanda. Accanto a queste difficoltà  ermeneutiche ed epistemologiche di fondo, che spesso inficiano il momento stesso dell’approccio storiografico e la sua validità metodologica, l’apertura alla considerazione quantitativa delle fonti, che oggi ha fornito lo storiografo di un nuovo capitale strumento di comparazione e di indagine (il computer) ma che era già implicita nell’uso già blochiano della scienza statistica a fini storici, può essere considerata come un’altra delle eredità piuttosto valide che la Scuola delle Annales ha lasciato a chi voglia oggi occuparsi di storia e storiografia. La parte migliore della prospettiva storiografica delle Annales risiede infatti in quell’istanza critica che si sforza di comprendere, nonostante ed oltre i rigetti, l’avvenimento e il grande evento, la dimensione collettiva e la storia dell’individuo, attraverso l’utilizzo di tutti i materiali possibili (anche la massa immensa delle testimonianze non scritte, in primis quelle archeologiche). In fondo, ai fini della comprensione storica, non è stato tanto importante il rifiuto dell’individuo come base d’indagine, ed anzi, da alcuni storiografi pietosi, egli è stato poi riammesso benevolmente a corte.

Il vero inghippo del sistema analitico ed interpretativo delle Annales, invece, sta nel considerare logicamente veri, oltre che validi, due assunti di per sé perfettamente legittimi: il primo, che i documenti “non parlano se non quando si sa interrogarli”; il secondo, che “ogni ricerca storica suppone che, fin dai primi passi, l’inchiesta abbia una direzione”. Bloch ricalca qui l’istanza scientifica di Henri Poincaré, sostenitore in tempi moderni del metodo analitico, perfettamente funzionante nelle scienze matematiche e sperimentali, in base al quale ogni scoperta scientifica si produce a partire da un’ipotesi preliminare. Ma tale metodo può essere applicato ad una dimensione come quella storica, non riproducibile in laboratorio a piacimento e, dunque, non soggetta ad indici di verificabilità o falsificabilità? Ma allora, chi può dirsi investito della capacità medianica dell’interpretazione corretta ed univoca delle fonti storiche? Non si corre continuamente il pericolo, esso sì, non storiografico, bensì filosofico, di piegare le fonti stesse alla conferma eterodiretta di questa stessa interpretazione? Ciò che di fatto è accaduto, relativamente alle Annales, è stato lo strutturarsi di un metodo storiografico scandito nelle sue quattro fasi fondamentali che ricalcano la pratica professionale quotidiana: “l’osservazione storica”, “la critica”, “l’esperienza storica” e “la spiegazione in storia”  [ref]Si tratta dei titoli di quattro fondamentali capitoli dell’Apologia della storia di Bloch, carichi di una forte istanza metodologica e sottoposti di recente ai dovuti rimaneggiamenti della nuova edizione filologica curata dal figlio Etienne.[/ref]. La metodologia di ricerca delle Annales concepisce la storia non come storia del passato, bensì come scelta, ed ogni scelta presuppone un’ipotesi ed una linea di indagine nel tempo, all’interno della quale bandire l’errore metafisico della “causa unica”; empasse che tuttavia, a discapito di qualsiasi previsione, non fa che riprodursi all’infinito, individuando non più “la causa”, ma “le cause”, ipoteticamente enunciate, di un sistema problematico di eventi da verificare o falsificare. Per questo la storia è soprattutto “storia degli uomini nel tempo”. Ma gli uomini che cosa sono? Ed il tempo, soprattutto, che cosa è?

E il tempo che cosa è?

Succede, ben presto, che nella Scuola delle Annales il tempo della storia venga ricompreso fra la “lunga durata” di Braudel e quella sorta di cristallizzazione temporale che Bloch invece chiamerà “il momento” piuttosto che l’avvenimento, nella convinzione che il tempo della storia sfugga ad ogni uniformità. Scrive infatti Bloch: “il tempo umano […] sarà sempre ribelle sia all’implacabile uniformità che alla rigida ripartizione del tempo dell’orologio. Gli occorrono misure che siano adeguate alla variabilità del suo ritmo e che accettino spesso di non riconoscere come limiti, poiché la realtà vuole così, che zone marginali. Solo a prezzo di questa plasticità la storia può sperare di adattare, secondo il detto di Bergson, le proprie classificazioni alle “linee stesse del reale”: il che è, propriamente, il fine ultimo di ogni scienza”  [ref]M. Bloch, Apologia, cit., p. 137.[/ref]. Questa concezione del tempo rinnega l’ “idolo delle origini” e l’ “ossessione embriogenetica”: si tratta sia di superare la prospettiva antiquaria, totalmente chiusa al presente, sia di strutturare un’istanza critica che viva sulla base dell’avversione al filosofismo storico a tutti i costi, in senso hegeliano quanto comtiano: non per niente Bloch confesserà nell’Apologia di non avere la testa del filosofo avvertendo umilmente in questo “una lacuna nella sua formazione di base”. Tutt’al più, quanto a filosofia, la Scuola delle Annales preferisce di gran lunga la tradizione scettico – critica del discorso sul metodo alla sistematicità ordinatrice della filosofia della storia. Un discorso sul metodo su come condurre rettamente la Ragione, e ricercare la Verità nelle scienze: non per niente è nata in Francia. Sembra una discesa all’inferno, un regressus ad finitum, dal Sistema hegeliano a ritroso verso Cartesio, verso le ipostasi della ragione contemporanea, bypassando, e per questo salvando molto di buono nel proprio impianto epistemologico, il nichilismo nietzscheano, che invece ammorberà parecchi compatrioti afflitti dalla morte dell’Homme; entità edulcorata dall’idea di se stessa, forse, ma che per Bloch, almeno, aveva ancora una propria validità e verità in carne ed ossa, anche se oggettuale, anche se già corporeizzata ante – litteram. Infatti, come negarlo: i  pericoli del  nuovo nichilismo di lì a poco sarebbero comparsi all’orizzonte, ignorando che l’uomo non è ancora un cadavere sul tavolo del vivisezionatore strutturalista o del becchino decostruzionista: egli è, forse, una bestia che si presta al macello, ma ancora viva e vegeta, bella grassa e, soprattutto, in salute.

Io, non io, perché proprio io?

Io, non io, perché proprio io?

Il problema della conoscenza di sé dal razionalismo all’idealismo

di Sonia Caporossi

Articolo precedentemente apparso su criticaimpura.wordpress.com e  in ebook su “Un Anno Di Critica Impura”, di Sonia Caporossi e Antonella Pierangeli, Web-Press Edizioni Digitali, Milano, Gennaio 2013 – ISBN: 978-88-906285-97

[drop_cap style=”2″ bgcolor=”#dddddd” color=”#787882″]L[/drop_cap]a conoscenza di sé, si dà per certo, è un impulso fra i più vivi dello schietto philosophein, fin dallo gnòthi s’autòn socratico o pseudosocratico. Ex abrupto, problema non facile, corruccio umano che specialmente dal Seicento all’Ottocento ha preso le variegate forme di un raziocinare in generale sul raziocinio in particolare, o anche, kantianamente, si è definito come indagine preferenziale sulla primigenia istanza della possibilità di conoscenza in genere. La posizione criticista di Kant a questo riguardo identificava, nella sua esigenza di analisi del sapere, l’anelito all’autoconoscenza a partire dal dato fondamentale della sua “rivoluzione copernicana” applicata all’Io, per cui esso, finalmente e per la prima volta, com’è sempre stato detto con enunciati solenni e squilli di trombe, si trova al centro del complesso sistema conoscitivo, come conoscente che non deve più adattarsi all’oggetto ma, al contrario, è quest’ultimo a doversi adattare agli schemi conoscitivi del soggetto percipiente. Per il processarsi indefesso dello schematismo, che lavora per categorie e per giudizi, Kant definisce chiaramente il presupposto fondamentale dell’atto conoscitivo: nessuna esperienza potrà mai essere elaborata, attraverso le medesime categorie e giudizi, dalla nostra mente, se i dati che compongono la conoscenza sensibile non si trovano già predisposti, prima in senso logico e quindi, anche, in senso cronologico, in essa.

Per risolvere il difficile problema di che cosa sia, o in che cosa consista, questo fondamentale basamento di senso assicurato, questo principio di determinazione cosciente che conforta il crogiuolo dei nostri sensi percipienti dalla frammentazione schizofrenica della conoscenza del circostanziale circostante e, conseguentemente, dall’impietosa perdita di senso, Kant ricorre all’ “Io Penso”, ovvero alla coscienza e consapevolezza dell’atto conoscitivo; l’appercezione trascendentale è questa coscienza garantita dal marchio di fabbrica del criticismo kantiano, che rende possibile la conoscenza ed il suo ordine intrinseco. E qui cominciano i primi dubbi. A parte l’ovvia obiezione di ascendenza aristotelica, per la quale, se Kant mi dà un fondamento di “io penso” come base della coscienza, quell’“io penso” a sua volta dovrebbe poggiare, per avere validità, su un altro pavimento, cotto o crudo che sia, come dire: su un altro “io penso”, aut aliud, e così via all’infinito, in un regresso poco economico e, sinceramente, scomodo. Ma poi e per giunta, a ben vedere, sotto il sole di Königsberg non c’è neanche davvero nulla di nuovo.

Già per Renato Delle Carte, come sarebbe più opportuno traslitterare l’illustre geometra dell’intelletto francese, l’autocoscienza del cogito, ergo sum ci rendeva immediatamente certi dell’esistenza dell’io cosciente, la res cogitans, ed in Cartesio l’anima cosciente era realtà diversa dal suo contenuto, cioè dai processi che in essa hanno luogo. Inoltre, si potrebbe e dovrebbe notare l’insignificante particolare del fatto che, all’interno della formula cogito, ergo sum, la congiunzione esplicativa ha un valore ben più profondo di quello semplicemente argomentativo – retorico. Essa in realtà, per il valore semantico, per il senso del periodo insomma, potrebbe anche venire tranquillamente omessa. Nell’affermazione di una res cogitans che annuisce, che nega, che condensa percezioni in forma disvelata, che, in un verbo solo, pensa, anche l’attività del sentire è ricondotta giocoforza al pensiero stesso. In sostanza, per Des Cartes, la certezza della propria esistenza era riportata alla consapevolezza dell’atto del pensare, proprio di ciascun soggetto individuale ed indipendente. Naturalmente, era ancora netta la distinzione tra soggetto e oggetto, tra pensiero e corpo, tra abstrahens e abstractum, e questa divisione manteneva bellamente in vita tutte le difficoltà, logiche e teoretiche, su come costruire un ponte che, attraversandole da parte a parte, ne collegasse le essenze e le esistenze, altrimenti puramente e apoditticamente enunciate. Eulero dimostrò non essere possibile passeggiare sui sette ponti di Königsberg passando una ed una sola volta per ognuno di essi. Problema ozioso, quello dei ponti della irridente cittadina russa, eppure evocatore, esemplificatore e simbolo di una ben peggiore ed impedente paradossalità. Quale sorta di ponte pontificato ed astratto avrebbe mai potuto indirizzare l’intelletto a sgranchirsi le gambe andando incontro alla sua incorporea corporeità? Quale medium nevralgico occorreva per uscire dall’empasse? E poi, diciamocelo in sordina, quel regressus ad infinitum di aristotelica movenza, lo stesso che avvelenava l’“io penso” di Kant, metteva indiscutibilmente in crisi, come si vedrà poco avanti, anche l’irascibile francese.

Quindi, tanto per esser chiari, in una veloce panoramica dei primi filosofi che hanno fornito un ordine metodico all’analisi della conoscenza nel pensiero moderno, Kant si trovava a dover superare la staticità dell’immobile e crogiolatorio dubbio cartesiano, che scadeva ben presto nell’indefesso scetticismo di Hume, o in un dogmatismo che mutilava il fecondo campo del conoscere falciandone le messi con enunciati castranti come quello, a mo’ di exemplum, in base al quale “causa adeguata all’idea di Dio è solo Dio, quindi Dio esiste”. Per Hume, come la palla da biliardo non colpisce il boccino per necessità, neanche è necessario che esista un io sovrastante ed astrattamente condensato in un uno, se non in forma di amalgama di sensazioni delle quali non si può dire altro che, tolte impietosamente ad una ad una, alla fine di quell’io tanto paventato non rimane un bel nulla. Inutile dire che il nulla, in quanto tale, è pur sempre qualcosa di per sé, perché in tal caso, bisognerebbe argomentare per chi potrebbe mai rimanere pur tale. Sbucciato il carciofo dell’io, per usare una metafora gaddiana, al centro c’è solo un’ultima foglia: tolta quella, tolto l’io. E non in senso hegeliano, come auf – gehoben, bensì tolto come eliminato, et voilà, punto e basta. Del resto, anche con Berkeley, il problema non era stato di certo superato. Secondo il suo esse est percipi, noi non potremmo assolutamente dimostrare l’esistenza di una sostanza materiale indipendente dalle nostre percezioni. Egli affermava infatti l’esistenza di un intelletto autocosciente, consapevole di esistere e di percepire; ma, per garantire l’oggettività della conoscenza, Berkeley faceva risalire le idee a Dio, superiore entità extracosciente, sovratemporale ed ultraspaziale, che invierebbe queste idee di origine divina a tutti. Forse per e – mail. Forse tramite piccione viaggiatore. Chi lo sa.

A questo punto, si rende evidente una cosa: il problema principale, al succedersi dei filosofi, continuava ad essere, come anche per Spinoza, quello lasciato insoluto da Cartesio nei vari tentativi di risoluzione dell’improbabile nesso tra res cogitans e res extensa, per risolvere il quale il gallico in fuga aveva tirato in ballo la ghiandolina pineale che risiede, quieta quieta in quanto ipofisi, alla base del cervelletto. Ma, e l’obiezione è ovvia e risibile: come poteva e come può un grumo di carne, per sua natura di sostanza materiale, fungere da ponte e medium tra anima e corpo, facendo lei stessa parte del campo semantico e concreto di una delle due medesime res? Anche Spinoza confermava bel bello che noi possiamo conoscere soltanto due cose: pensiero ed estensione. E dico per l’appunto cose, in quanto esse, riguardo al loro statuto ontologico, non risiedono più neanche in noi, bensì sono attributi di Dio, ambedue modi di essere di quell’unica sostanza, che concede forma alla materia ed alla forma, alla prassi e alla teoresi, nella più perfetta, ed estraniante, identità con la sostanza divina in quanto tale. Ma siccome tutto è Dio, si deve arguire che allora stanno anche in noi. Altro che tutto è Dio, altro che Deus sive natura! Se tutto è Dio, allora niente è Dio, allora niente è Io. Non si risolve delegando al Titano l’unificazione del becco del rapace metafisico e della carnea materialità del fegato. Ma c’è di più.

Se Dio è questa totalità unificata, se Dio è l’unica sostanza razionalizzata in attributi che si modificano, lo è, appunto, in quanto c’è qualcuno dal di fuori che razionalizza questo modificarsi, che individua con la mente questo incessante divino unificarsi. Il pensiero è un attributo di Dio, ergo a pensar non sono io, ergo è Dio che pensa se stesso; allora io, che pure penso, sono Dio o vi partecipo? Se sono Dio, sto da capo a dodici, perché non mi spiego un bel nulla: cambio solo prospettiva ontologica, ma devo comunque poter essere in grado di argomentarmi come io conosca alcunché. Sono un Dio individuato, e ciò non mi esenta dal ricercare il modo del mio conoscere. E se invece partecipo semplicemente della sostanza divina, non sono, daccapo e a maggior ragione, proprio per questo mio parteciparvi, di per me, un individuo individuato, non foss’altro che da me stesso? Comunque, si dirà, sono pur sempre un Io, perché penso tutto questo. L’io sembra quasi appropriarsi dell’ontologia fenomenologica di un Dio senza dentale sonora. Ma in tutto questo carnascialesco altalenarsi di consonanti e vocali, il due, numero del perenne conflitto insoluto, marito e moglie che litigano senza pace, senza posa, senza fluire dinamico tra l’uno e l’altra, permane a impedimento, persiste a paradosso. Nessuna risoluzione, nemmeno un divorzio definitivo. Anima e corpo come Sandra e Raimondo. All’infinito.

Occorre notare, per tornare a Kant, che la sua concezione della conoscenza di sé, creata per superare l’empasse secolare del diviso e del diverso, non è, per la verità, né eccessivamente originale, in quanto appunto deriva da una rielaborazione in chiave criticistica di tutta la letteratura precedente sull’argomento, almeno da Cartesio in poi; né tantomeno risolutiva, poiché, volendo anche partire da essa come presupposto fondamentale a tutta la possibilità di conoscenza in genere, non risolve affatto, come non lo risolveva Spinoza, il problema della divisione tra soggetto e cosa in sé. Persiste in Kant, infatti, un seppur brevissimo, in senso logico, istante passivo del soggetto in cui esso subisce l’influsso dell’oggetto quando questo si fa conoscere. Perciò, si può tranquillamente porre in discussione anche l’apparentemente certa conoscenza di sé di ascendenza kantiana. Il boccoluto vince, ma non convince. E non convince, occorre ribadirlo, per il pensiero filosofico dell’idealismo tedesco successivo, da Fichte a Schelling, che tesero a superare in varie forme lo scoglio insopprimibile della cosa in sé, la quale, ad occhi attenti, riduceva ad un palese dualismo cartesiano, semplicemente mutato di segno, l’intera critica della Ragion Pura; e tentavano di ovviare all’empasse, gli idealisti, vestendo di un nuovo significato la stessa autoconsapevolezza, traendola fuori dal suo costume sterile ed irrancidito, infarcendone la grazia e la compostezza di un Io rinnovato e antistatico, che si scrollava di dosso la polvere e l’ombra di quel dualismo cartesiano, spinoziano e kantiano, imbalsamato ed irrisolto.

Per Fichte, ad esempio, la cosa in sé non è affatto al di fuori dell’Io. Nel rapporto fra Io conoscente e oggetto, l’Io si pone di fronte ad esso, percependo ogni oggetto al di fuori di sé e qualificandolo come non – io. Fichte pone così una distinzione idealistica tra io empirico, ovvero la conoscenza individuale, ed io assoluto, id est, lo spirito in generale; essi, eureka!, hanno la stessa identica natura spirituale. Nel processo conoscitivo che porta alla determinazione, da parte dell’io, della natura come non – io, in un rapporto di opposizione apparentemente ancora una volta ravvolto dal sudario intristente del dualismo, necessario e fondamentale è il primo passo: l’Io che pone se stesso ed, in quanto tale, in seconda istanza logica, pone il mondo fuori di sé. Quest’io si delinea così come attività fondante la conoscenza stessa, ed in sé unità di coscienza ed autocoscienza: atto puro, come avrebbe detto poi il fascistissimo Gentile, che in Fichte è colorato a tinte forti dalla tavolozza protoromantica della fiducia riposta nell’attività stessa, come indipendenza dell’autocoscienza di fronte al mondo del freddo oggettualismo ostentato; streben umano, affatto sovrumano!; sforzo dell’Io a trovare se stesso come Io che pone fiduciosamente il mondo, un ripostiglio cosmico non spiritualizzato, spirituale, spiritato d’attivismo quasi tantrico, senza infamia e senza lode. La condanna indirizzata dal teutonico verso qualsiasi dogmatismo è evidente: Fichte accusa questa corrente ricolma di spifferi sinistri di far risalire alla cosa l’origine stessa del pensiero il quale, in questa maniera, non sarebbe altro che una cosa esso stesso. Il pensiero, per Fichte, è invece per se stesso, e l’oggetto è, invece, per il pensiero. Successivamente l’io, attraverso un percorso metodologico antitetico, svilupperà la conoscenza, partendo sempre, pur tuttavia, dal principio basilare di identità. Anche nella concezione politica fichtiana ha peso questa concezione di identità ed autocoscienza. I popoli si riconoscono infatti come realtà spirituali; gli io empirici, cioè i singoli uomini, gli individui presi di per sé insomma, conoscendosi e riconoscendosi, decidono di collaborare e di dare forma e luogo alla struttura statale, la quale diviene per l’umanità ciò che l’Io Assoluto è per l’io empirico. Fichte dunque, avvia la contestazione del criticismo, ma per una carrellata romanticamente soggettivistica, storicistica e naturalistica, avremmo dovuto aspettare all’orizzonte la comparsa della figura di Schelling come primo attore.

Allo stesso modo in cui Fichte sostiene, novello Atlante, la teoria fenomenologica del soggettivismo come unica via da tollere sulle forti spalle, così Schelling teorizza il naturalismo come soluzione finale. Ed è tutto un gioco di punti di vista differenziati, di rimproveri e di ritorsioni, come sempre accade nell’aia in cui troppi galli beccano il miglio dallo stesso scifo. Schelling rimprovera a Fichte, com’era prevedibile, la sussistenza della divisione tra soggetto e cosa in sé nell’opposizione mantenuta tra io e non – io. Per Schelling, tale rapporto deve essere di profonda affinità, immersa in una realtà assoluta di concetti filosofici fin troppo astratti. Soggetto ed oggetto assumono così la stessa valenza; viene determinata ulteriormente l’unità di spirito e natura, ma, beninteso, diversamente da Spinoza il quale, com’è stato detto, aveva categorizzato una realtà in definitiva statica nella quale tutto è in Dio; e pure diversamente da Hegel, che darà luogo ad un unicum logico, Assoluto – Infinito – Reale – Idea, in cui la concretezza della sfera razionale e la razionalità della sfera concreta si chiuderanno in circolo virtuoso dinamico e non mai impedente, dove la riduzione a dialettica è elevazione a potenza della possibilità della conoscenza stessa dell’umanità in quanto Spirito. In Schelling, tanto per tornare a monte, al contrario l’io ha consapevolmente un grado di spiritualità differente ed in qualche modo più, come dire… Sveglio, rispetto allo spirito addormentato e silente della natura. Nella concezione della filosofia come scienza dell’Assoluto, l’autocoscienza si identifica con una conciliazione perfetta dell’aspetto realistico e di quello idealistico del pensiero. Nasce così la concezione dell’idealrealismo che dovrà ricostruire la storia ideale dell’Assoluto. L’uomo, in questa visione, risulta essere una manifestazione dell’Assoluto stesso, non morale, bensì in quanto unità di io e non – io, per cui, riconoscendo questa medesima identità, l’uomo non deve far altro che lasciarsi vivere contemplativamente: egli è l’artista, colui che è supremamente consapevole, giacché l’arte viene interpretata da Schelling come capacità d’intuizione dell’unità tra spirito e materia. Non v’è chi conosce se stesso più dell’artista, anzi, meglio ancora: è solo l’artista a conoscere veramente se stesso. E gli altri, i contadini, i manovali, i metallurgici, le casalinghe di Voghera, che fine fanno? Rinascono, dissoluti e dissolti nel soggetto, come aforismi di Minima Moralia, qualche brutto tempo dopo.

Kant, Fichte e Schelling, per continuare l’andazzo, sono ben lontani dal teorizzare un semplicistico innatismo virtuale alla maniera di Leibniz, per il quale la mente è già predisposta alla conoscenza per fatti suoi. Il problema insoluto dei tre, tuttavia, continua ad essere l’esistenza di Dio, che non viene sufficientemente giustificata da Kant e risulta così essere tirata in ballo in modo esteriore, confusionario e contraddittorio da Fichte e da Schelling. Questo problemaccio epocale, a ben vedere, c’entra con l’io, c’entra molto, talmente tanto che finisce per compromettere la validità della concezione della conoscenza di sé in tutti e tre i casi. Non solo perché si è ricorso troppo spesso all’idea di Dio come ponte fra anima e corpo, fra io e non – io, fra spirito e materia. Ma anche perché, come dovrei potere e sapere parlare di Dio, se ammetto anche solo la possibilità di questa stessa esistenza, in quanto parlarne è, in qualche modo, un conoscerne pur qualche modo od attributo, alla stessa maniera dovrei poter conoscere me stesso. Conoscere l’io e conoscere Dio sono processi intellettivi che si fondano sulla medesima struttura fondante. Ma come e perché?

Kant aveva inserito nella conoscenza di sé anche la rigida sfera morale, basata sulla ritrovata validità di una metafisica non in quanto scienza, ma in quanto regolamentazione della condotta umana nel suo dipanarsi pratico ed attivo. L’uomo deve infatti rendersi conto di essere contemporaneamente empirico, cioè condizionato dalla causalità temporale, e libero, intendendo la libertà, sui generis, come obbedienza al Grande Fratello dell’imperativo categorico. Anche al di qua della ragion pratica, però, Kant dà l’impressione di ambire ad un perfetto equilibrio di pensiero. Ad esempio, nella concezione di spazio e tempo come dimensioni fondamentali per l’esistenza e la conoscenza dei fenomeni, egli tende a rifiutare una tesi estremistica come quella di Locke. Secondo l’autore del Saggio sull’Intelletto Umano, se Dio è infinito, dove l’idea di infinito si ottiene estendendo al massimo grado le idee di spazio e di tempo, ne consegue che possiamo con i nostri soli mezzi pensare l’infinito; di conseguenza, una prova ontologica di Dio non occorre, nel senso che si esclude la considerazione stessa, il concetto dell’esistenza necessaria o, peggio, dell’idea innata di Dio. Sensazione e riflessione che cosa c’entrano con l’idea di Dio? Egli è un’idea complessa ed in quanto tale oscura, a cui non corrisponde nulla nel reale, e di cui non possiamo identificare conoscitivamente la sostanza. L’uomo non può andare a trovare il luogo di residenza dell’essenza, può affidarsi solo alla mappatura topografica delle idee chiare, può conoscere con certezza soltanto i fenomeni. Un bel colpaccio contro la metafisica, calibrato con estrema perizia balistica fra capo e collo. Maxima theoretica, di nuovo, e minima moralia. La parola d’ordine in Inghilterra è: empiria. Ma allora, come può l’uomo conoscere se stesso? Possiede forse di sé idee chiare e distinte, e basterebbero i sensi a farcele in qualche modo avere?

Del resto, Kant si rifiuta anche di scendere a patti con il leibnizianesimo selvaggio in base al quale Dio può essere dimostrato a priori o a posteriori, in quanto unico essere in cui l’essenza richiede necessariamente l’esistenza. Gaunilone, in questo senso, ancora ride in faccia ad Anselmo d’Aosta: non si passa così facilmente dal dominio logico, tout court, a quello ontologico, essendo questi due campi ben distinti, anche riguardo il campo di applicazione. Per Kant è evidentemente una sciocchezza affermare, come Leibniz sembra pago di fare, che Dio è possibile a livello logico – razionale, quindi esiste. Salvo poi intortarsi da solo, il fine criticista, rigettando al centro della pista da ballo, nella sfera morale stroboscopica da discoteca in cui ci si agita sulle note di ricorrenti oldies but goldies, quella stessa metafisica derisa nella fisica, derisa dalla fisica. La sua ricerca dell’equilibrio del pensiero crolla poco spavaldamente di fronte alle critiche successive. In Kant l’imperfezione consiste nella persistenza del noumeno. Inutile negarlo o tentarne un postmoderno recupero. Come giustificare, infatti, una perfetta e fenomenica conoscenza di sé, se a rigor di logica non si può affermare una conoscenza del mondo, certissima perché dichiarata tale, ovvero dei fenomeni stessi, giacché nulla a rigore vieta al noumeno stesso di essere, esso stesso, il mondo, o anche solo una porzione di esso? Noi cosa siamo? Anzi, io stesso cosa sono: fenomeno o noumeno? L’ombra nefanda e nefasta del gran genio di Hume oscurava di nuovo il sole opacizzato della razionalità, proprio quando Fichte e Schelling facevano la loro comparsa sulla scena del dramma filosofico moderno e, nei ripensamenti successivi, anche contemporaneo.

Per Fichte e Schelling, il problema, di ascendenza platonica, è la convivenza millenaria dell’uno e del molteplice. Ed è stato molto comodo per i due, nella fase finale della loro filosofia, affidarsi all’atto creativo di Dio per giustificare la metexis, il passaggio, il ponteggio comunicativo dell’io monadico e del reale multiforme fenomenico. Ma insomma, ovunque risieda una soluzione pur sperata, o meglio una semplice e semplicistica risoluzione di natura religiosa, non si vede dove sia la reale possibilità di una piena conoscenza di sé, laddove noi stessi, in quanto individui, risultiamo essere figli di una creazione superiore ed imposta che ci domina dall’alto. Logicissimo si rivela essere, invece, il ragionamento comune di Cartesio e di Hobbes, in questo convergenti nonostante le opposte e lontanissime concezioni filosofiche: essi vedevano nella matematica la necessaria base della loro filosofia. Opportuno appariva, ora come allora, ricercare una perfetta conoscenza, possibile ed effettiva, nonché effettuale, in ciò che è la mente stessa a creare, nella pura mathesis astratta ed astraente, la quale, in quanto fervido parto dell’intelletto umano, senza impurità di sorta dall’esterno, consiste in quell’armonia di coscienza e conoscenza, eternamente auspicata e mai raggiunta, che l’uomo tutt’oggi ricerca ancora per se stesso fuori di sé, e che non troverà mai al proprio interno, non solo se fosse vero che Dio esiste, ma anche, e proprio in quanto, di fatto, Egli sussiste, nella mente che pure unicamente lo pensa, come terza persona singolare, pensandolo essa fuori, in alio, in alteris, in Natura non sicut in Deo, sed sicut Deus ipse. L’esistenza dell’idea di Dio o, diciamo, l’invenzione di essa da parte della mente umana che le rende ragione nella coscienza, determina in definitiva il senso di angoscia kierkegaardiano e di oppressione in cui versa l’umanità da millenni; uno stato di prostrazione, psicologico in senso filosofico, filosofico in senso psicologico, proprio di chi trova ostacoli sul proprio cammino, e poi si accorge, o si ricorda, di averceli disposti accuratamente egli stesso, per darsi il suo daffare, per occupare un po’ di tempo. Dio non è né conforto né salvezza, bensì un ostacolo etico, deliberatamente creato dalla mente del singolo individuo per trascorrere i nostri settant’anni medi immersi in una qualche occupazione che fornisca un senso alle ore che passano, come accade ai bambini quando di notte, nel buio dell’insonnia, inventano un mostro preferito con cui fantasticare.

Si potrebbe obiettare che, se fosse valido il caso in cui è la mente stessa a creare Dio, Egli, in quanto idea, sarebbe perfettamente conoscibile come i principi matematici, e, di conseguenza, avremmo anche una perfetta conoscenza di noi stessi; basterebbe a tale scopo, come nel caso di Dio, porsi. Ebbene, mefistofelicamente, noi poniamo di fatto noi stessi, e perciò ci conosciamo alla perfezione; ma ci poniamo in quanto imperfetti, così come, e il caso non è fuori di realtà, noi abbiamo posto coscientemente l’idea di Dio come di un inconoscibile, ed in quanto tale, tutto ciò che se ne può sapere è, per l’appunto, il fatto stesso che Dio è inconoscibile: e questo, per l’appunto, ribadisco se non fosse chiaro, è tutto ciò che se ne può sapere; quindi, e proprio per ciò, ne sappiamo tutto! Ergo, dov’è il problema?

La vita del pensiero, il percorso fuorviante ed astruso della conoscenza di sé è, probabilmente, solo questo lungo ed inenarrabile processo fatigante, che consiste nel conficcare, filosoficamente e nel concreto della prassi, una lunga fila di chiodi nel muro dell’intelletto; una parete così specialmente sottile che, passando attraverso, un chiodo da una parte scaccia l’altro dalla parte opposta, tale che, nella storia della filosofia, appendere quadri non è mai stato il reale scopo, consistendo questo stesso, bensì, nel continuare a martellare e a fare buchi, nel sudare dietro al proprio indaffararsi: nel lavorare allargando il vuoto.

Il Marx di David Harvey

 

Il Marx di David Harvey

di Giorgio Cesarale

Capitolo 6 di Giorgio Cesarale, Filosofia e capitalismo. Hegel, Marx e le teorie contemporanee, manifestolibri, Roma 2012, pp. 95-106

Urbanesimo e capitalismo

[drop_cap style=”2″ bgcolor=”#dddddd” color=”#787882″]D[/drop_cap]ella ampia e stratificata opera di David Harvey, di questa singolare figura che si colloca a metà fra urbanistica e teoria sociale, si conosce ormai molto, vista la larga circolazione ottenuta da libri come La crisi della modernità, La guerra perpetua e Breve storia del neoliberismo. Meno conosciuta, tuttavia, è la sua attenta e proficua ricerca sul Capitale marxiano; ricerca che è, peraltro, alla base delle tesi sostenute nelle opere appena menzionate. Ciò che in prima battuta ci proponiamo in questo articolo è di esporre le linee fondamentali di questa ricerca, valutandone meriti e specificità. In conclusione, cercheremo di dire in quale direzione la rilettura del Capitale compiuta da Harvey ha influenzato il corso delle sue più recenti indagini teoriche.
Della ermeneutica marxiana di Harvey si può dire che è peculiare anzitutto l’ispirazione generale: nessun autore, fra coloro i quali hanno recentemente provato a riattivare il contenuto problematico della critica marxiana dell’economia politica, è stato più fermo di lui nel rivendicare l’esigenza che sia sul terreno della analisi della crisi e delle “contraddizioni” del capitalismo che debba essere verificata la validità teorica di tale critica. Si tratta di un approccio che, pur comportando una certa riduzione della molteplicità di temi e “aperture” problematiche che Marx è venuto promuovendo nella sua matura critica dell’economia politica, non determina una incongrua dogmatizzazione del dettato testuale marxiano: il Capitale è anzi considerato come una sorta di cantiere a cielo aperto, come un testo pieno di “empty boxes”, che occorre riempire di significati e contenuti. Una operazione di questo tipo non è peraltro rara nell’ambito del pensiero marxista contemporaneo: anche il filosofo francese Jacques Bidet, per esempio in Explication et reconstruction du Capital (PUF, Paris 2007), muove dall’ obiettivo di ripensare il Capitale a muovere dai “vuoti” del Capitale stesso. Tuttavia, mentre Bidet prova a riformulare il passaggio dalla sfera della circolazione a quella della produzione, quindi opera quasi esclusivamente all’interno del I libro del Capitale, Harvey lavora soprattutto sul raccordo fra I, II e III libro della stessa opera. La questione centrale è cioè quella della ricostruzione del nesso fra l’analisi del processo di produzione, contenuta nel I libro, e quelle del processo di circolazione (II libro) e di distribuzione del plusvalore fra le diverse classi sociali (III libro). Se si vuole ricollegare Marx con il paesaggio sociale e politico novecentesco e post-novecentesco – questo il proposito di Harvey – il contenuto del I libro non è sufficiente, ed ha anzi esiti fuorvianti.
Non è, in linea generale, una posizione di poco conto all’interno della storia del pensiero marxista. Già Rosa Luxemburg si era levata contro la tendenza di larga parte del pensiero marxista, alimentata da ragioni “politiche”, a concentrarsi sui contenuti del I libro del Capitale – che sembrava contenere tutto quanto fosse necessario a fondare l’azione delle organizzazioni del movimento operaio – trascurando il resto dell’opera. Per Luxemburg questa rimozione, soprattutto del II libro, aveva recato notevole nocumento al marxismo: il fenomeno del colonialismo, e cioè la ricerca di una domanda estera supplementare, era comprensibile solo alla luce del venir meno di una clausola restrittiva assunta da Marx nel I libro, e cioè la perfetta trasformazione, all’interno del ciclo di capitale, del valore della merce in capitale-denaro. Poiché nel capitalismo “reale”, non in quello ritratto nel I libro, la trasformazione del valore delle merci in denaro non è, per varie ragioni, affatto assicurata, continuare a lavorare con l’impianto analitico del I libro avrebbe significato condannarsi all’impotenza.
Sebbene di taglio più “accademico”, la critica – inaugurata dal padre degli economisti “austriaci”, Eugen Böhm Bawerk, e poi lungamente dibattuta in tutto il corso del Novecento – alla cosiddetta trasformazione marxiana dei “valori” del I libro nei “prezzi” del III libro, ha focalizzato al fondo il medesimo problema, l’impossibilità di superare le tensioni teoriche esistenti fra i diversi libri del Capitale. Sono tensioni, come appare sempre più in virtù della nuova edizione storico-critica delle opere di Marx, la MEGA2, ineliminabili, anche perché legate all’incompiutezza del Capitale, a quella circostanza per cui la maggior parte dei manoscritti rifluiti nel II e nel III libro sono stati redatti prima ancora che Marx pubblicasse nel 1867 la prima edizione del I libro.
Ma come è arrivato Harvey alla comprensione della centralità del II e del III libro del Capitale per la più piena valorizzazione della critica marxiana della economia politica? Harvey, intanto, si avvicina al Capitale, e più in generale al marxismo sul finire degli anni ’60, grazie a una esperienza tipica del mondo anglo-americano, quella dei Capital Reading Group. La lettura del Capitale e le lezioni universitarie che su di esso Harvey inizia a tenere con regolarità lo inducono a riconsiderare la sua originaria impostazione teorica, che era piuttosto segnata dall’epistemologia popperiana: il frutto di questo cambiamento di rotta è Social Justice and City (Johns Hopkins University Press, Baltimore 1973), intelligente confronto fra il paradigma liberale e quello socialista rispetto alla natura dei problemi urbanistici, che si conclude con un tentativo di operare una sintesi dell’uno e dell’altro. Ma Social Justice and City appare quasi subito ad Harvey non pienamente soddisfacente: le urban issues affrontate nel libro sono trattate senza aver previamente studiato a un più alto grado di generalità teorica le categorie di “capitale fisso”, “capitale finanziario” (fondamentale per comprendere il mercato immobiliare) e “rendita fondiaria”; categorie che in Marx sono collocate nel II e nel III libro del Capitale.
Dunque è per comprendere i problemi dell’urbanizzazione, uno dei fenomeni più decisivi della vita moderna, che Harvey si trova costretto ad affrontare direttamente i libri del Capitale meno frequentati nella storia del marxismo. La scelta è teoricamente onerosa e ha, in qualche modo, implicato una profonda ritessitura della trama concettuale del Capitale, i cui risultati vedranno la luce molti anni più tardi, nel 1982, con la pubblicazione dell’imponente The Limits to Capital. È a questo libro, il meno letto ma anche il più importante di Harvey, che faremo di seguito riferimento per spiegare la natura della sua riappropriazione di Marx. Su Marx, in verità, Harvey è tornato successivamente molte volte, da ultimo con un accurato commentario del I libro del Capitale, pubblicato per Verso nel 2010. Ma i risultati conseguiti da Limits non sono mai revocati in dubbio, semmai solo diversamente articolati.

Il “punto di vista” della circolazione di capitale

Limits comincia con una rapida rassegna – più rapida delle ricostruzioni standard – delle categorie fondamentali del I libro del Capitale (valore d’uso, valore, plusvalore ecc.). Se, tuttavia, la ricchezza in forma di valore è prodotta nel processo di produzione, la sua distribuzione è dettata dalla regola della competizione intercapitalistica. Tale competizione porterà a un prezzo medio di produzione, che dovrà tenere conto non solo della diversa grandezza dei singoli capitali investiti, ma dei differenti tempi di rotazione del capitale. Qui vi è la prima innovazione di Limits: mentre Marx aveva nel III libro calcolato il prezzo di produzione tenendo conto solo della diversa grandezza del capitale investito, con il capitale più grande a sottrarre ricchezza in forma di valore al capitale più piccolo, in Harvey la competizione che conduce alla fissazione del prezzo medio di produzione è anche quella fra capitali con differenti tempi di rotazione. Nei settori in cui il capitale riaffluisce più lentamente nelle mani dei suoi iniziali possessori, il volume dei profitti sarà, in una data unità temporale, minore. Per questa ragione, fino a quando non si formerà un prezzo medio di produzione, i capitali tenderanno ad addensarsi nei settori in cui si verifica un tempo di rotazione più veloce.
Se tuttavia, come indicato dal II libro del Capitale, il capitale con il più alto tasso di redditività è il capitale che ha un tasso più alto di “ritorni” in una data unità temporale, allora sarà fondamentale:
1) assicurarsi la realizzazione del valore della merce, e cioè la sua vendita effettiva;
2) abbattere i costi e i tempi di circolazione (i costi e i tempi di trasporto, di transazione, di marketing ecc.).
Il punto 1) ci immette direttamente nella questione delle condizioni di realizzazione del valore della merce, e cioè dell’esistenza di una domanda effettiva. Nel I libro non solo Marx non si preoccupa di determinare le condizioni di domanda, ma dischiude uno scenario teorico, caratterizzato dall’immiserimento relativo progressivo del proletariato e dalla crescita delle disuguaglianze di classe, che impedisce propriamente che quelle condizioni siano soddisfatte: come sperare di convertire merce in denaro (la vendita), se una fonte essenziale di domanda, quella costituita dai redditi della classe lavoratrice, viene, a causa del procedere del meccanismo accumulativo, progressivamente inaridita? Sennonché, e su ciò Harvey insiste lungamente in Limits, il diagramma dello sviluppo capitalistico schizzato soprattutto alla fine del I libro è subito smentito dal II libro, e in particolare dai suoi famosi “schemi di riproduzione”: questi presuppongono, infatti, una economia capitalistica divisa in due settori (beni di consumo e mezzi di produzione), fra i quali si stabilisce, pur in mezzo a molte tensioni e scosse di assestamento, un certo grado di equilibrio. E questo equilibrio comporta anche che le condizioni di domanda siano se non proporzionate almeno non disallineate dalla forma di movimento del processo di accumulazione. Il che significa che se ci si trasferisce sul terreno della circolazione capitalistica complessiva, dell’equilibrio fra i due settori principali della vita economica, le conseguenze (immiserimento e disuguaglianze), analizzate nel I libro, della spasmodica ricerca di plusvalore effettuata da ogni singolo capitalista attraverso i metodi del plusvalore relativo e assoluto, devono essere temperate. Il consumo della classe lavoratrice, insomma, dovrà crescere anch’esso.
Per Harvey nel II libro sono, quindi, poste le condizioni della “stabilizzazione automatica” del capitalismo cui abbiamo assistito, attraverso fordismo e keynesismo, nel Novecento. Con la giornata di lavoro di 8 ore pagata 5 dollari decisa da Henry Ford nel 1914 e i deficit spending keynesiani, ciò che viene seppellito è il capitalismo manchesteriano del I libro del Capitale. D’altro canto, ed è un punto su cui Harvey si è intrattenuto soprattutto nei suoi ultimi libri, la fase economica e sociale che si è aperta negli anni ’70 sembra aver ripristinato un modello di sviluppo capitalistico esemplato sullo schema teorico del I libro: il neoliberismo si caratterizza, infatti, a giudizio di Harvey, per aver smantellato del “patto socialdemocratico” del secondo dopoguerra tanto i meccanismi di “sostegno alla domanda” quanto le regolazioni istituzionali (economiche e politiche) della competizione intercapitalistica. Sono la debolezza della domanda e l’intensificazione della concorrenza a rendere oggi la circolazione capitalistica complessiva sempre meno equilibrata e soggetta a sbalzi e rotture.
Naturalmente, Harvey sa bene che la crescita dei consumi finali della classe lavoratrice o dei consumi collettivi non basta a risolvere il problema della “realizzazione”, della conversione della merce in denaro. Devono intervenire altri fattori: il consumo dei beni di lusso, da parte dei detentori di grandi ricchezze, e, soprattutto, l’acquisto di mezzi di produzione da parte di altri capitalisti per l’allargamento della propria base produttiva. Affinché tale acquisto sia eseguito, però, il capitalista deve anticipare un capitale o farselo anticipare: per diverse ragioni (perché strumento di centralizzazione dei capitali, di lubrificazione della circolazione ecc.) nel capitalismo questa operazione è, ed è stata, mediata dal sistema del credito. Il sistema del credito crea cioè moneta, la moneta di credito, prestandola al capitalista industriale per consentirgli di acquistare quel pacchetto aggiuntivo di mezzi di produzione funzionali all’allargamento del processo produttivo. Citando Marx, Harvey ricorda che questa creazione di moneta è un atto di fede “protestante”: se si tratta di un buon prestito, coronato dal pagamento dei dovuti interessi, si vedrà solo al termine del processo produttivo, quando si verificherà sul mercato se le nuove merci prodotte si sono trasformate in denaro oppure no.
Ma al di là della funzione giocata dal sistema del credito nella riproduzione sociale capitalistica, su cui a breve si ritornerà, questo ragionamento è decisivo anche sotto il profilo della “realizzazione”: se per il conseguimento di un qualche equilibrio fra offerta aggregata di beni e domanda aggregata risulta determinante l’acquisto di un nuovo contingente di mezzi di produzione, questo significherà che, in ultima analisi, la stabilizzazione del capitalismo è ottenibile soltanto attraverso il progresso dell’accumulazione. Solo l’accumulazione può stabilizzare l’accumulazione. Da un altro versante, ci viene riconsegnata l’immagine di un capitalismo che o è pura dinamicità o non è. Tutto ciò, peraltro – e qui crediamo che sia difficile non consentire con Harvey –, è in linea con l’esperienza storica: l’epoca di più forte stabilità del capitalismo, la meno punteggiata da crisi, crack ecc., è stata quella in cui il capitalismo è cresciuto di più, la cosiddetta golden age (1945-1975).
La centralizzazione creditizia e la mediazione dello Stato sono fondamentali anche in ordine alla realizzazione di quanto indicato nel punto 2), e cioè la necessità, per accelerare il tempo di rotazione del capitale, di abbattere i costi e i tempi di circolazione. Le grandi rivoluzioni nei mezzi di trasporto e di comunicazione, che rendono ciò possibile, sono indisgiungibili – dice qui Harvey ricollegandosi alle analoghe osservazioni di Marx intorno alle ferrovie nel capitolo XXIII del I libro del Capitale – dalla capacità del sistema del credito e dei pubblici poteri di radunare a questo scopo una ingente massa di capitale.
A livello teorico, le grandi rivoluzioni nei sistemi di trasporto e comunicazione sono richieste, per Harvey, da una necessità intrinseca al capitale stesso, il quale, per dirla con il Marx dei Grundrisse, “tende per sua natura a superare ogni limite nello spazio. La creazione delle condizioni fisiche dello scambio – ossia mezzi di comunicazione e di trasporto – per esso diventa necessaria in tutt’altra misura – diventa l’annullamento dello spazio mediante il tempo”. Lo spazio, la sussistenza autonoma dei momenti dell’essere, è un ostacolo da rimuovere per qualcosa, come il capitale, la cui più intima natura è di essere processo, pura temporalità ascensiva. In quanto tale, il capitale non “circola” soltanto quando, ultimato il processo di produzione, occorre scambiare la merce con altre merci. Esso è, per essenza, circolazione, fluida unità di momenti, ciascuno dei quali non può sospendere la sua continuazione nell’altro. Che cosa vuol dire questo, scendendo sul terreno economico-sociale? Vuol dire – dice Harvey in Limits ma anche, e con particolare energia, nel suo ultimo libro, L’enigma del capitale – che il capitale non può tollerare di giacere più del dovuto in ciascuna delle sue stazioni di sviluppo. Se ciò accade, e per esempio il capitale rimane “ozioso” nelle mani dei finanzieri, oppure dà vita a un processo produttivo più lungo della media, oppure si incorpora in merci che tardano a convertirsi in denaro, allora la conseguenza è la svalorizzazione del capitale stesso: è la crisi.
Finora abbiamo detto qualcosa sul resoconto che Harvey fornisce della prima e della terza delle stazioni di sviluppo del ciclo di capitale, lasciando da parte la seconda, quella propriamente produttiva. Sebbene quello di Harvey sia, a differenza di buona parte del marxismo novecentesco, più un marxismo della “circolazione” che della “produzione”, ciò non vuol dire che la sua attenzione per l’analisi del processo produttivo sia ridotta. Il punto focale della sua impostazione riguarda, tuttavia, di nuovo il “tempo”, in questo caso del processo produttivo. L’idea è che non sia vero che l’organizzazione del processo produttivo debba tendere immancabilmente verso l’integrazione verticale, verso la costituzione di unità di impresa di carattere monopolistico. È certamente conveniente, dice Harvey, fondere diverse unità di capitale sì da utilizzare, a parità di prodotto, una quota minore di capitale costante (di macchinari ecc.) rispetto al capitale variabile, al lavoro vivo. Al contrario, più imprese vi sono e più linee di produzione, con i mezzi di produzione ad esse collegati, vi saranno, rendendo impossibile le economie di scala. Ma il fatto è che la concentrazione monopolistica allunga il tempo di rotazione del capitale, perché i processi produttivi saranno necessariamente più complessi e rigidi. Il capitale di una grande impresa ritorna, maggiorato, al punto di partenza, dopo aver attraversato la fase della produzione e della circolazione, con più fatica rispetto al capitale di una impresa più piccola, la quale, facendo “circolare” più velocemente lo stesso, otterrà, sotto questo riguardo, una percentuale di profitti sul capitale anticipato più alta.
Il mix tecnologico-organizzativo che si installa all’interno di un processo produttivo sarà quindi l’esito di un “compromesso” fra la tendenza alla integrazione verticale e quella alla scomposizione orizzontale. Con ciò, Harvey batte in breccia uno dei topoi della cultura marxista novecentesca: la inevitabilità della concentrazione monopolistica. Di più: in Limits vi è la precisa consapevolezza che il grado di integrazione verticale raggiunto dalle imprese nel secondo dopoguerra fosse divenuto un freno per la ripresa del processo accumulativo e che perciò il capitale avrebbe dovuto selezionare un mix tecnologico-organizzativo più aperto alle spinte verso la scomposizione orizzontale (crescita del subappalto, delle subforniture etc.). Il libro è del 1982, e non si può dire che manchi di un suo carattere “profetico”: la discussione sulla cosiddetta “specializzazione flessibile” divamperà di lì a poco (con il libro di Piore e Sabel, The Second Industrial Divide, che è del 1984, i lavori di Zeitlin, Porter ecc.).

Assorbimento del surplus e postmodernismo

L’attenzione verso il piano della circolazione capitalistica complessiva comanda, tuttavia, anche un ulteriore passaggio d’analisi, che ci conduce alla novità più rilevante di Limits rispetto al punto di partenza marxiano. La novità è la seguente: la competizione intercapitalistica per la distribuzione del surplus, cui abbiamo già accennato, determina un aumento del capitale costante, ma anche, e progressivamente, un aumento della massa di surplus disponibile (è la dinamica che Marx inscrive sotto la categoria di “plusvalore relativo”); ma se così è, si porrà con sempre più urgenza la necessità di trovare per questo surplus crescente sbocchi adeguati e remunerativi. Se ciò non accade, il destino sarà quello della svalorizzazione del capitale, e cioè, di nuovo, la crisi. Riecheggiando, ci pare, i Baran e Sweezy di Capitale monopolistico, Harvey definisce tale questione come quella dell’“assorbimento del surplus”. Harvey ritiene che siano stati tre, essenzialmente, i modi che il capitalismo ha adottato per rispondere a questa sfida:
1) investimenti in capitale fisso sociale (infrastrutture, porti, autostrade, ecc.);
2) sviluppo delle attività finanziarie (che comprende anche la trasformazione della rendita immobiliare in titolo finanziario);
3) sviluppo della divisione geografica del lavoro oltre che di quella tecnica e sociale.
Se, empiricamente, i modi sono essenzialmente tre, concettualmente sono due: si tratta infatti di una ridislocazione spaziale (punto 1 e 3) e temporale (punto 2) della massa di surplus crescente.
Lo spazio, che il capitale vuole, in linea di principio, annullare, torna quindi a giocare un ruolo di una certa rilevanza allorché si tratta di impiegare in modo redditizio il surplus. Capire di ciò le ragioni, dice Harvey, non è difficile: gli investimenti in capitale fisso sociale o nel ridisegno degli assetti urbanistici e geografici (dalla gentrification allo sviluppo improvviso di nuove città, da ultimo quelle cinesi come Shenzen ecc.) comportano, per definizione, la mobilitazione di un ampio quantitativo di risorse. Ma lo stesso accade alle attività finanziarie: la scommessa sul valore futuro (ecco la ridislocazione temporale) dei titoli accende una corsa ai rendimenti più alti che attrae a sé un gran volume di risorse monetarie.
Non sono queste, tuttavia, “soluzioni”, in ultima battuta, pacificatrici. Si apre, anzi, un nuovo campo di tensioni, complesso e arduo da governare. La crescita delle attività finanziarie offrirà certo un sollievo agli investitori, visti gli alti tassi di redditività che usualmente vi si connettono, ma avrà pure la conseguenza di acuire la gravità delle crisi economiche (attraverso lo scoppio delle bolle, e quindi la necessità di riallineare i valori pretesi con quelli reali delle attività economiche). E gli investimenti in capitale fisso sociale offriranno, certo, all’abbondante surplus uno spatial fix vasto e ramificato, ma avranno pure la spiacevole conseguenza di estendere i tempi di rotazione del capitale, considerata la lunghezza dei processi produttivi che ne stanno alla base. Un’analoga contraddizione investe i processi di urbanizzazione o il city management: per un verso, la valorizzazione della città, attraverso lo sfruttamento di tutti i possibili vantaggi competitivi che essa può garantire, implica il benefico impiego di quote crescenti di surplus; per altro verso, la specifica vischiosità degli investimenti urbani – la necessità di attendere molto tempo prima che i loro costi siano “ammortizzati” – impedisce di mettere in atto una politica urbana spregiudicata e più “volatile”.
L’integrazione dello “spazio”, degli aspetti geografici e urbani, nell’analisi del processo accumulativo rappresenta il merito principale del disegno di Harvey. Prima di lui, solo Henri Lefebvre e, in modo minore, Gerald Cohen avevano provato a ritagliare nel pensiero marxista una finestra dedicata ai problemi posti dallo “spazio”. Questa sensibilità – e del resto Harvey non ha mai smesso di essere anzitutto un geografo e un urbanista – gli ha permesso poi di scrivere La crisi della modernità, una delle più celebri ricostruzioni della condizione postmoderna, di quella condizione, cioè, il cui concetto nasce, come è largamente noto, proprio nel contesto del dibattito e della pratica architettonica. Sennonché ciò che qui è importante sottolineare è che la tesi portante de La crisi della modernità – e cioè che il postmodernismo rappresenti soltanto un prolungamento del modernismo e non una sua smentita, risolvendosi in una alterazione dell’equilibrio faticosamente stabilitosi nel modernismo fra valori “eterni” e “universali” e valori legati alla “contingenza”, a tutto vantaggio di quest’ultimi – non sarebbe mai venuta alla luce senza la preliminare ripresa della lettura di Marx avvenuta in Limits. Senza i nuovi attrezzi concettuali forgiati in Limits a contatto con il Marx del II e del III libro del Capitale, e senza in particolare la valorizzazione del concetto di “tempo di rotazione del capitale”, sarebbe infatti risultato più difficile ad Harvey osservare la trasformazione economica, politica e culturale realizzatasi nel corpo dei paesi occidentali a muovere dai primi anni ’70. Una trasformazione avvenuta nel segno della “compressione spazio-temporale”, della rinnovata sottomissione all’inquieto principio di determinazione del tempo delle compatte forme di mediazione sociali e culturali “moderniste”.

Le lezioni di Giovanni Arrighi

Le lezioni di Giovanni Arrighi

di Giorgio Cesarale

“Introduzione” a Giovanni Arrighi, Capitalismo e (dis)ordine mondiale, a cura di Giorgio Cesarale e Mario Pianta, manifestolibri, Roma 2010, pp. 6-27

[drop_cap style=”2″ bgcolor=”#dddddd” color=”#787882″]N[/drop_cap]el dibattito sulla attuale crisi economica globale è diventato ormai quasi senso comune la critica all’incapacità della scienza economica dominante di indicare e interpretare adeguatamente le cause di questa crisi, e in particolare di uno dei suoi fenomeni più abbaglianti, e cioè il processo di finanziarizzazione. Che legami ha questo processo con ciò che, peraltro impropriamente, si chiama “economia reale”? Che nesso vi è fra questo processo e la vorticosa espansione economica di intere regioni del pianeta (il Sud-est asiatico delle quattro “tigri”, della Cina, del Vietnam ecc.)? Quale ruolo giocano in esso gli Stati, da quelli in ascesa a quelli in più evidente difficoltà? Sono domande cruciali, che obbligano a fornire una risposta alta e convincente. D’altro canto, per rispondere a queste domande è necessario collocare l’attuale crisi e la turbolenza globale che l’accompagna entro un orizzonte storico e geografico più largo. Uno “sguardo corto” sulla crisi è precisamente ciò che può impedire di comprenderla in tutta la sua complessità. E tuttavia è proprio da questo “sguardo corto” che la maggior parte degli osservatori e degli studiosi appare caratterizzata. Le eccezioni sono rare: tra queste c’è Giovanni Arrighi (1937-2009), una delle figure più rilevanti, insieme ad Andre Gunder Frank, Immanuel Wallerstein e Terence Hopkins, dell’approccio “sistemico” allo studio della storia e della struttura del capitalismo globale, dei movimenti sociali anticapitalistici, delle disuguaglianze mondiali di reddito e dei processi di modernizzazione. Nel discorso di Arrighi l’attuale crisi e l’inarrestabile processo di finanziarizzazione che le si collega sono interpretati alla luce dell’intera traiettoria di sviluppo del capitalismo mondiale, dalle città-Stato italiane rinascimentali all’ascesa degli Stati uniti alla guida del sistema economico internazionale. In questa prospettiva, il processo di finanziarizzazione che segna la nostra epoca deve essere inteso sia come sintomo della decadenza dello Stato attualmente egemone a livello internazionale, gli Stati uniti, sia come condizione della riapertura, in un diverso contesto geografico, di un nuovo ciclo di espansione economica “materiale” (industriale e commerciale).
L’eccezionalità della figura di Arrighi, il quale, e non solo ai nostri occhi, appare come uno dei massimi studiosi dell’economia-mondo capitalistica della seconda metà del Novecento, ci fa ritenere che siano ormai giunti i tempi per avviare una riflessione a tutto tondo sulla sua opera. È un compito, questo, di cui anche altrove si è espressa l’importanza, e di cui urge preparare le condizioni di realizzazione. È anche a tale scopo che è stata concepita la presente iniziativa editoriale: essa infatti contiene materiali – dall’intervista autobiografica concessa quasi in punto di morte a David Harvey (uno dei più insigni teorici marxisti contemporanei, autore de La crisi della modernità e Breve storia del neoliberismo) ad alcuni dei più importanti, e ancora inediti in italiano, saggi di teoria sociale e di interpretazione storica scritti da Arrighi – che possono aiutare a ricostruire meglio il suo profilo intellettuale complessivo, il senso della sua operazione teorica.
Su questi scritti e sulle ragioni che ci hanno condotto a proporne la traduzione in italiano diremo qualcosa al termine dell’introduzione. In via preliminare, tuttavia, vorremmo provare a offrire al lettore il nostro punto di vista sia sull’itinerario intellettuale percorso da Arrighi sia sul significato della sua opera.

L’economia politica dell’Africa

In relazione ai “fatti” che hanno costellato la sua biografia vi è, in verità, poco o nulla da aggiungere a quanto è detto da Arrighi stesso nella intervista ad Harvey. Proveniente dai ranghi di una famiglia borghese antifascista, Arrighi compie gli studi universitari di economia alla Bocconi con l’intenzione di procurarsi le competenze necessarie a dirigere l’azienda del padre, nel frattempo deceduto. Ma, come capo d’azienda, Arrighi si accorge subito di non riuscire: decide perciò di cambiare ambiente di lavoro e di proseguire la carriera accademica, diventando assistente volontario. È un’occupazione, però, che non gli fornisce di che mantenersi: Arrighi è perciò costretto prima ad accettare un impiego come apprendista manager presso la multinazionale anglo-olandese Unilever e poi a candidarsi per un posto di docente di economia presso una sede distaccata in Rhodesia (l’odierno Zimbabwe) dell’Università di Londra. Sono gli anni in Africa della “decolonizzazione”, delle lotte di liberazione nazionale e della formazione di nuove entità statali autonome. Arrighi si fa da subito intellettualmente e anche politicamente partecipe di questa atmosfera: il suo primo e importante saggio, The Political Economy of Rhodesia (da noi tradotto poi con il titolo Struttura di classe e sovrastrutture in Rhodesia), è scritto proprio nel 1965, e cioè nell’anno in cui di solito si fa cadere la fine del processo di decolonizzazione.
Arrighi fin dal suo arrivo in Rhodesia non nutre illusioni sulla possibilità di trasformare il riscatto nazionale dei popoli africani in un riscatto economico e sociale: la struttura polarizzata del capitalismo mondiale, per la riproduzione della quale vi è la necessità da parte dei “centri” del sistema di drenare dividendi e profitti dagli investimenti compiuti nei paesi africani e di realizzarli in modo molto “selettivo” (tutti ad alta intensità di capitale e non indirizzati alla produzione di beni strumentali), è un serio ostacolo a un decollo, in particolare industriale, di questi paesi. La Rhodesia rappresenta peraltro, da questo punto di vista, una sorta di case study privilegiato: è infatti uno dei pochi paesi africani in cui sia esistita, per uno strano scherzo del destino – i sovrainvestimenti nel settore minerario, causati da un errore di valutazione, della British South Africa Company, e il tentativo, da parte di quest’ultima, di recuperarli stimolando uno sviluppo del paese e delle sue forze sociali –, una borghesia agraria nazionale in qualche modo interessata a puntare sulla crescita del paese. Non solo: è uno dei pochi paesi dell’Africa sub-sahariana ad aver ospitato un compiuto processo di proletarizzazione della propria forza-lavoro agricola, soprattutto a causa del crollo della produttività subito, tra gli anni Trenta e Sessanta, dai terreni posseduti dai produttori agricoli indipendenti. Esistendone le condizioni sociali (la presenza, da un lato, di una borghesia interessata all’allargamento della base produttiva e, dall’altro, di una riserva di forza lavoro disponibile a vendersi sul mercato), sembra offrirsi uno scenario ideale per una transizione compiuta al capitalismo; eppure tale transizione non si dà. E non si dà per ragioni che successivamente Arrighi chiamerà “sistemiche”: ciò che conta in ultima istanza è la struttura del capitalismo a livello mondiale, non la particolare configurazione produttiva e sociale all’interno di un determinato Stato-nazione. Se il sistema capitalistico mondiale poggia sulla costante riproduzione dell’asimmetria fra regioni forti e deboli del pianeta, provare a guidare un paese “arretrato” verso lo “sviluppo” è un’impresa senza possibilità di successo. A meno che, dice qui Arrighi ispirato da Samir Amin, non si lavori sulla déconnexion, sullo sganciamento, dai paesi capitalistici sviluppati, e si provveda a rompere con forza il cordone ombelicale che lega quest’ultimi ai paesi del Terzo mondo.
Si apre, con ciò, il versante più politico della riflessione di Arrighi sull’Africa tropicale; versante che trova la sua più ampia esplicitazione nei saggi scritti dopo che il governo allora in carica in Rhodesia lo espelle dal paese per attività sovversive, costringendolo a trovare riparo in Tanzania, all’università di Dar es Salaam. In questi saggi (L’offerta di lavoro in una prospettiva storica, Società multinazionali, aristocrazie del lavoro e sviluppo economico nell’Africa tropicale, Socialismo e sviluppo economico nell’Africa tropicale, Nazionalismo e rivoluzione nell’Africa sub-sahariana) e, in specie negli ultimi due, scritti con John Saul, Arrighi radicalizza la propria posizione, contestando i luoghi comuni del socialismo africano e del marxismo più volgare. Gli obiettivi critici sono, in particolare, due:
1) l’idea che occorra, per garantire lo “sviluppo”, “scendere a patti” con il grande capitale internazionale;
2) l’idea che non sia economicamente e politicamente produttivo intervenire sulla distribuzione del reddito di questi paesi, malgrado questa consegni nelle mani delle burocrazie statali e degli scaglioni medi e superiori dei lavoratori, anche formalmente proletarizzati, delle grandi imprese private una quota della ricchezza sociale nazionale assolutamente sproporzionata.
Su quest’ultimo punto, e sulla sua importanza anche negli sviluppi successivi del continente africano, Arrighi non ha peraltro mai smesso di insistere: nel suo ultimo, corposo, saggio sulle vicende africane, The African Crisis, apparso nel 2002 sulle pagine della “New Left Review”, la stessa involuzione autoritaria degli Stati africani, che li ha resi facile preda dei golpe militari, è fatta risalire alla tendenza delle burocrazie, pubbliche e private, di conservare a ogni costo i privilegi garantiti loro dalla esistente distribuzione del reddito.

Crisi ed egemonia nell’Italia degli anni Settanta

In Tanzania Arrighi rimane tre anni, dal 1966 al 1969, fino a quando non è richiamato in Italia a insegnare presso uno degli epicentri del movimento del ’68, la nuova Facoltà di Sociologia dell’Università di Trento. Qui il suo insegnamento riscuote un successo quasi immediato. Gli studenti del movimento, infatti, pur con qualche rilevante dissenso interno – che Arrighi nell’intervista ad Harvey rievoca in modo sapido – affluiscono copiosi alle sue lezioni, attratti dalla fama di studioso “terzomondista” e “radicale” che Arrighi si è fatto in virtù della pubblicazione, nell’estate del 1969 presso la casa editrice Einaudi, del suo primo libro, Sviluppo economico e sovrastrutture in Africa, che raccoglie tutti i suoi saggi redatti nel periodo africano.
Il periodo italiano dura dal 1969 al 1979, ed è a sua volta suddiviso in due parti: nella prima, che va dal 1969 al 1973, l’azione di Arrighi si svolge sull’asse Milano-Torino, e cioè tra la sinistra extraparlamentare e, per dirla con Raniero Panzieri, le lotte operaie nello sviluppo capitalistico; nella seconda, invece, che va dal 1973 al 1979, Arrighi, trasferitosi a insegnare a Cosenza, all’Università della Calabria, abbandona di nuovo il terreno dello “sviluppo”, per reimmergersi nello studio dei processi di proletarizzazione degli immigrati, questa volta calabresi.
Nelle ricerche condotte nella fase calabrese Arrighi porta a nuova verifica il risultato cui era già giunto negli studi sul reclutamento della forza-lavoro in Rhodesia: la proletarizzazione, la creazione di grandi riserve di forza lavoro prive dell’accesso ai mezzi di produzione, non è, contro Marx e il marxismo, la conditio sine qua non dello sviluppo capitalistico. E non lo è perché, sia per i rhodesiani migrati dalla campagna alla città sia per i calabresi spostatisi in Nord Italia, la proletarizzazione coincide con la richiesta di alti salari, i quali abbassano il saggio di profitto – e quindi la convenienza a investire dei capitalisti – e procurano al proletario quelle risorse monetarie che possono aiutarlo a ritrasformarsi in soggetto economico indipendente. Come si può agevolmente constatare, Arrighi viene qui articolando una tesi che già lo colloca nei fatti dal lato della scuola sistemica di Wallerstein, Frank e Hopkins, che, come è noto, ha largamente insistito sulla non centralità del lavoro salariato per la nascita e la promozione dello sviluppo capitalistico. In forme diverse, è una tesi che emergerà anche dai suoi più recenti lavori sulla Cina, riassunti nel capitolo 5 di questo volume.
Sennonché, per quanto importante, a noi non pare che la fase calabrese aggiunga molto di più a quanto già maturato da Arrighi in Africa. Più determinante ci pare il corpo di esperienze teorico-pratiche acquisite da Arrighi a contatto con la fase ascendente del ciclo delle lotte operaie italiane degli anni Settanta, quella che va dall’autunno caldo del 1969 alla stagione contrattuale del 1973. In questa postazione, Arrighi avverte in presa diretta i primi effetti dello scatenarsi della crisi capitalistica mondiale nel quinquennio 1968-1973, dall’apparizione delle prime vampate inflazionistiche negli Stati uniti allo shock petrolifero, passando per la fine, sancita da Nixon nel 1971, della convertibilità fra dollaro e oro. E subito avverte l’importanza di questa crisi: come interpretarla? Che cosa ne sarà dell’ordine mondiale a egemonia statunitense stabilitosi dopo la fine della Seconda guerra mondiale? Che conseguenze avrà tutto ciò per i movimenti sociali anticapitalistici?
Al di là dei molteplici e apparentemente divergenti interessi tematici che Arrighi ha coltivato lungo il resto della sua vita, a noi pare che questo sia stato il fuoco principale della sua attività teorica dopo il 1973. Non a caso, uno dei testi più rilevanti di Arrighi negli anni Settanta è il saggio Verso una teoria della crisi capitalistica. In questo saggio, Arrighi comincia ad articolare una distinzione teorica cui terrà fede fino al suo ultimo libro, Adam Smith a Pechino, e cioè quella fra una crisi capitalistica causata dalla caduta del saggio di profitto e una crisi capitalistica causata dalla sovrapproduzione, dall’assenza di domanda di merci. Entrambe sono determinate dal livello di remunerazione della forza-lavoro salariata: solo che in un caso, il primo, la crisi è determinata dall’alto livello di remunerazione (e di potere in fabbrica) del lavoro salariato, che diminuisce la quota dei profitti disponibili ai capitalisti; nell’altro, il secondo, la crisi è determinata dal basso livello di remunerazione (e di potere in fabbrica) del lavoro salariato, che, poiché sul mercato ha poco da spendere, lascia invenduto un grande quantitativo di merci. Arrighi era – e lo è in parte rimasto fino alla fine – dell’idea che la crisi mondiale scatenatasi negli anni Settanta fosse del primo tipo, in virtù dell’elevato potere contrattuale e politico conquistato nella golden age dalle organizzazioni sindacali e politiche della classe operaia. Questo provvedeva, contro il parere a riguardo di buona parte della sinistra marxista e non, a differenziare la crisi degli anni Settanta da quella degli anni Trenta, che era stata, invece, una crisi del secondo tipo, una crisi da sovrapproduzione.
Pur non priva di interesse e di un certo grado di utilità euristica, questa distinzione non ci sembra tuttavia “tenere”: tutto il peso, nella eziologia delle crisi capitalistiche, è fatto ricadere sulla forza, contrattuale e politica, della classe operaia, dimenticando il nesso, altrettanto fondamentale nella genesi delle crisi capitalistiche, fra le rivoluzioni tecnologiche e la crescita delle pressioni competitive. Insomma, senza considerazione della crescita del quoziente tecnologico della produzione e della concorrenza, un adeguato schema interpretativo della crisi non è articolabile. Arrighi di questo in qualche modo si è venuto progressivamente rendendo conto, tant’è che sia in Lungo XX secolo, il suo opus magnum, sia in Adam Smith a Pechino, è venuto rettificando il suo schema iniziale di interpretazione dell’origine della crisi degli anni Settanta, facendo adeguato spazio alla questione della intensificazione, negli anni immediatamente precedenti al suo scoppio, della concorrenza intercapitalistica.
V’è da dire, peraltro, che la fedeltà all’idea che fosse stato l’elevato tasso di conflittualità operaia a determinare lo scoppio della crisi non ha sempre reso ad Arrighi un buon servizio in termini analitici: fino ad anni ’80 inoltrati, infatti, Arrighi ha ritenuto irrevocabile la forza conquistata dalla classe operaia nei paesi del centro, con la conseguenza di sottovalutare, forse più del dovuto, gli effetti sociali della rivoluzione monetarista e neoliberale di Reagan e della Thatcher.
In ogni caso, anche se per altri motivi, lo schema elaborato con Verso una teoria della crisi capitalistica comincia ad apparirgli non pienamente soddisfacente già a metà degli anni Settanta, allorché inizia la redazione di Geometria dell’imperialismo. Ciò che in quello schema non trovava posto erano essenzialmente due punti:
1) lo sviluppo ineguale del capitalismo a livello mondiale;
2) la composizione etnica e culturale della forza-lavoro a livello mondiale.
Sono due punti caratteristicamente “leniniani”, due pilastri della teoria leniniana dell’imperialismo. Ma ad Arrighi la teoria leniniana dell’imperialismo, contrariamente a gran parte della sinistra rivoluzionaria del tempo, appariva, ed è sempre più apparsa dopo, largamente inservibile. A renderla tale era stato lo sviluppo dei rapporti economici e politici dopo la Seconda guerra mondiale: la fase della acuta conflittualità interimperialistica, quella nella quale Lenin aveva forgiato la sua teoria, era terminata e al suo posto era subentrato l’impero informale statunitense, la “pacifica” ricostruzione dell’ordine del mercato mondiale sotto l’egida delle agenzie economiche e politiche internazionali a guida statunitense (Onu, Fmi, Banca mondiale ecc.). La categoria di “imperialismo” era quindi diventata senza referente oggettivo. Per dissiparne fino in fondo l’indeterminatezza, Arrighi in Geometria dell’imperialismo allestisce una raffinata analisi, basata su una matrice teorica ricavata da Imperialism di Hobson: vi sono quattro diversi tipi di relazioni interstatali in epoca moderna (colonialismo, impero formale, impero informale, imperialismo), e l’errore di Lenin è stato di pensare che l’imperialismo segnasse, all’interno del sistema capitalistico, la fase “suprema” di sviluppo delle relazioni interstatali.
Si tratta di un punto cui Arrighi non rinuncerà più, e che anzi troverà ulteriore esplicitazione nella sua più matura teoria sistemica. Certo, una critica della categoria leniniana di “imperialismo” che fa a meno di indagare quello che a noi appare come il suo nocciolo teorico (l’imperialismo come fase contrassegnata dal dominio del capitale finanziario inteso come unità di capitale bancario e industriale) non si può dire propriamente riuscita. Se si vuole, questa è la spia di un problema che, in qualche modo, Arrighi si è, fin da allora, trascinato dietro. Il problema è il seguente: Arrighi diventerà in seguito famoso come uno dei più acuti teorici della centralità, entro l’assetto capitalistico contemporaneo, del processo di finanziarizzazione. E tuttavia, come hanno notato eminenti critici (Peter Gowan, Robert Pollin, Richard Walker), non è mai chiaro in Arrighi che cosa la categoria di “finanza” celi dentro di sé. Le operazioni finanziarie saranno sempre analizzate a un grado troppo alto di generalità teorica, non saranno mai indagate nella loro concretezza. Il sospetto che questi critici hanno avanzato è che l’incapacità di Arrighi di svolgere una analisi concreta della finanza nasconda una fondamentale indeterminatezza concettuale, analoga a quella da egli rimproverata all’imperialismo leniniano.
Comunque sia, ad Arrighi va riconosciuto il merito di aver colto fin dall’inizio, e di averlo ribadito anche in seguito, che l’aprirsi della crisi capitalistica mondiale non avrebbe coinciso con il riaccendersi di rivalità di tipo “mercantilistico” e con la ripresa di politiche protezionistiche. Come è soprattutto argomentato in un saggio di grande densità teorica, Una crisi di egemonia, a impedire la resurrezione di queste rivalità e di queste politiche erano, in particolare, due caratteristiche apparse nell’ordine economico mondiale soprattutto a muovere dalla fine della Seconda guerra mondiale:
1) il prevalere dell’investimento diretto all’estero sul “semplice” commercio internazionale;
2) una competizione oligopolistica giocata non sui prezzi ma sulla innovazione di prodotto.
Entrambe queste caratteristiche hanno a che fare con il nuovo tipo di impresa insediatosi sulla scena economica mondiale nel Novecento: la multinazionale o transnazionale, integrata verticalmente e governata tramite una robusta burocrazia manageriale. Ora, dice Arrighi riferendosi alla prima caratteristica, elevare barriere all’investimento diretto all’estero di questo tipo di impresa o potrebbe risultare inutile – estendendosi queste imprese non attraverso transazioni, ma attraverso apertura di filiali nei paesi in cui si effettua l’investimento – o potrebbe essere controproducente, perché impedirebbe, suscitando reazioni omologhe nei paesi concorrenti, alle imprese transnazionali del paese “mercantilista” o “protezionista” di compiere le medesime operazioni di espansione. La competizione, invece, giocata non sui “prezzi” ma sulle innovazioni di “prodotto” impedisce, più semplicemente, che si scatenino “guerre di prezzo”, capaci di minacciare seriamente per ciascuna impresa transnazionale il livello dato di domanda delle merci.
La vera posta in gioco della crisi degli anni Settanta – e con ciò ci siamo approssimati a uno dei punti più qualificanti del discorso di Arrighi – era costituita dalla capacità degli Stati uniti di continuare a fungere da regolatore del mercato mondiale. Questa capacità, dice Arrighi a cavallo fra anni Settanta e anni Ottanta, era stata definitivamente mandata in frantumi. Gli Stati uniti, infatti, soprattutto dopo aver sancito nel 1971 la fine della convertibilità fra dollaro e oro, avevano rinunciato a rappresentare gli interessi generali della intera classe capitalistica mondiale, per badare solo alla crescita delle attività capitalistiche localizzate entro i propri confini. Gli Stati uniti avevano smesso, cioè, di essere gramscianamente “egemonici”, abbandonando il mercato mondiale all’instabilità e all’anarchia. Oggi è diventato abbastanza comune, anche presso gli studiosi di relazioni internazionali, fare ricorso, per indagare le dinamiche di potere mondiali, alla categoria gramsciana di “egemonia”. Ma non bisognerebbe dimenticare di rendere merito a coloro, e Arrighi è fra questi, che per primi hanno reso ciò possibile, esplorando le potenzialità in termini di interpretazione delle relazioni internazionali contenute nel concetto gramsciano di “egemonia”.
In un certo senso, il saggio Una crisi di egemonia si colloca teoricamente – pur essendo stato pubblicato qualche anno più tardi della sua conclusione – al margine estremo del periodo italiano. Questo perché ci pare che qui Arrighi tenda a ragionare sulla crisi degli anni Settanta in termini più strettamente marxisti di quanto farà in seguito. L’idea che soggiace al saggio è ancora, infatti, quella tipica di molte delle interpretazioni marxiste della crisi: dopo un trentennio di matrimonio felice fra Stato e capitale, quest’ultimo, per fuoriuscire dalla crisi di redditività che lo investe a partire dagli inizi degli anni Settanta, avrebbe rotto questo matrimonio, e le regole scritte e non scritte che lo avevano suggellato. Il capitale, cioè, per dare piena soddisfazione ai suoi impulsi accumulativi avrebbe riguadagnato completa libertà d’azione, soprattutto rispetto ai vincoli imposti dai compromessi sociali e politici stipulati nella fase precedente, quella del boom.

L’incontro con la scuola sistemica

Nel 1979, con il suo trasferimento a Binghamton, alla State University di New York e al Fernand Braudel Center, si apre il periodo americano di Arrighi, che è durato fino alla morte nel 2009. Questo periodo coincide con una più piena inscrizione della sua operazione concettuale sotto le insegne della teoria sistemica di Wallerstein, Frank e Hopkins e con una riformulazione dello schema di interpretazione della crisi fino ad allora adottato. In realtà, come abbiamo già anticipato, i legami di Arrighi con i sistemici sono stati profondi fin dagli inizi: Wallerstein e Frank sono citati con molto favore per le loro tesi avverse allo “sviluppo” e alla “modernizzazione” fin da Sviluppo economico e sovrastrutture in Africa. Per ricapitolare, quattro ci paiono anzitutto gli elementi sistemici dell’Arrighi del periodo africano e italiano:
1) la superiorità di un approccio analitico che indaghi il capitalismo su scala mondiale e non su scala nazionale;
2) l’articolazione gerarchica del sistema capitalistico mondiale, la sua divisione in zone centrali e periferiche;
3) la disgiungibilità di proletariato e capitalismo;
4) l’importanza dei gruppi di status (le identità di razza, nazione e genere) nella composizione sociale e politica della forza-lavoro mondiale.
Sennonché, malgrado l’ispirazione sistemica abbia avvolto Arrighi fin dagli inizi, non si deve sottovalutare l’impatto avuto sul suo pensiero dal trasferimento negli Stati uniti e dal rafforzamento della sua collaborazione con i principali esponenti della scuola sistemica. A noi, in particolare, pare che i sistemici siano stati decisivi nello sviluppo intellettuale di Arrighi soprattutto per averlo indirizzato verso l’apprezzamento della centralità dell’insegnamento di Fernand Braudel per la comprensione del capitalismo moderno. Fino agli ultimi scritti del periodo italiano, Braudel è pressoché assente; la sua figura comincia appunto a stagliarsi con nettezza dopo l’apertura della collaborazione con i sistemici.
Braudel rappresenta per Arrighi un punto di svolta perché gli fornisce le basi per comprendere il nesso fra capitalismo e ciò che Polanyi ha chiamato haute finance. Dicevamo in precedenza che nell’indagine sulla categoria di ‘imperialismo” Arrighi aveva mancato il terreno del capitalismo finanziario. L’esclusione, o poco più avanti la sottovalutazione, nella considerazione analitica di questa categoria del ruolo giocato nella sua elaborazione da Hilferding ne erano state manifestazioni eloquenti. Eppure, fin dagli anni Settanta Arrighi non aveva trascurato di osservare la crescente propensione del capitale a effettuare, per sfuggire alla compressione dei profitti sul terreno produttivo, investimenti di tipo finanziario. La tendenza si era poi rafforzata decisamente a partire dal ’79, con il repentino e vertiginoso rialzo dei tassi di interesse deciso dalla Federal Reserve a guida Volcker, con la nuova politica economica di Reagan e la crisi messicana del debito nel 1982. Come interpretare, però, questo revival della finanziarizzazione, posto che la posizione leniniana, che fa della finanziarizzazione lo stadio “supremo” del capitalismo, era per Arrighi ormai irrimediabilmente compromessa?
È qui che sopraggiunge Braudel: questi infatti aveva osservato in Civiltà materiale, economia e capitalismo, che, da un lato, la finanziarizzazione è una caratteristica ricorrente dello sviluppo capitalistico fin dal XVI secolo , e che, dall’altro lato, quando questa finanziarizzazione si dà, essa è sintomo dell’“autunno”, della decadenza, di un certo ciclo egemonico. Di colpo, ad Arrighi venivano offerti i mezzi per interpretare il nesso fra crisi e finanziarizzazione, emerso negli anni Settanta, fuori dallo schema leniniano: tale nesso poteva ora essere interpretato su uno sfondo storico più largo e complesso, quello costituito dal capitalismo nella sua intera traiettoria di sviluppo, e, soprattutto, poteva ora essere compreso come indice dell’obsolescenza di una egemonia. L’esplosione negli anni ’80 della finanziarizzazione all’interno della cittadella capitalistica statunitense era perciò sintomo dell’avanzamento del processo di decadenza di quest’ultima, anziché, come argomentato da più parti, della sua rinascita.
Con ciò, anche i legami di Arrighi con la scuola sistemica diventano più intimi. Arrighi accetta ora dei sistemici le seguenti tesi:
1) il capitalismo è un modo di accumulazione di ricchezza e non, come in Marx, un modo di produzione;
2) come tale, il capitalismo ha una storia più lunga di quella tradizionalmente assegnatagli dai marxisti. Non nasce nel XVIII secolo, con la “rivoluzione industriale”, ma alla fine del Medioevo;
3) in questa storia, il capitalismo è stato contrassegnato dal succedersi di diversi cicli egemonici, ovvero dalla nascita, dallo sviluppo e dal tramonto di diverse egemonie.
4) queste egemonie si esercitano sull’insieme, gerarchicamente articolato, dell’economia-mondo capitalistica, e cioè su quella combinazione funzionale, tipica della modernità, fra unità del mercato mondiale, divisione internazionale del lavoro e sistema interstatale.
5) i soggetti egemonici sono nell’economia-mondo capitalistica gli Stati, i quali esercitano una leadership sia sul sistema-mondo nel suo complesso, regolandolo e ordinandolo a loro immagine e somiglianza, sia sugli altri singoli Stati.
Nella versione di Arrighi, consegnata soprattutto al Lungo XX secolo, i cicli egemonici sono quattro:
1) il ciclo genovese-iberico, dal XV secolo agli inizi del XVII;
2) il ciclo olandese, dalla fine del XVI secolo alla metà del XVIII;
3) il ciclo britannico, dalla seconda metà del XVIII secolo agli inizi del XX;
4) il ciclo statunitense, dalla fine del XIX secolo fino ad oggi.

Egemonia e ciclo sistemico di accumulazione

Ma che cosa regola il ritmo vitale delle egemonie, la loro ascensione e poi il loro tramonto? È qui che Arrighi introduce la sua idea forse più originale – che gli garantisce un posto di assoluta preminenza entro la scuola sistemica contemporanea – e cioè quella di “ciclo sistemico di accumulazione”. Wallerstein aveva detto che uno Stato era da considerarsi in posizione egemonica all’interno dell’economia-mondo capitalistica quando le imprese che in esso risiedono operano in modo più efficiente delle altre in tutte e tre le “maggiori arene economiche – produzione agro-industriale, commercio, e finanza. Il margine di efficienza di cui parliamo deve essere così grande da consentire a queste imprese di mettere fuori gioco le imprese che risiedono in altre grandi potenze, non solo nel mercato mondiale in generale, ma anche in particolar modo all’interno dei mercati interni delle stesse potenze rivali”. Arrighi fa un passo innanzi: tenta di descrivere la logica interna di ogni ciclo egemonico. E questa logica è rinvenuta nella marxiana formula generale del capitale (D-M-D’), nell’accrescimento di valore (D’) del capitale originario anticipato (D) tramite l’acquisto e poi il consumo produttivo di M, dei fattori produttivi soggettivi (il lavoro) e oggettivi (le macchine). Solo che, mentre in Marx D-M-D’ descrive lo schema generale di ogni singolo investimento capitalistico, in Arrighi descrive lo schema di sviluppo di ogni blocco egemonico: questo si afferma prima attraverso una fase di espansione materiale, di crescita delle sue operazioni industriali e commerciali – fase rappresentata dal primo segmento del ciclo, da D-M – e poi, esauritesi, a causa della crescita dei salari e della concorrenza intercapitalistica, le opportunità di investimento redditizio nella sfera materiale dell’attività economica, attraverso una fase di espansione finanziaria – rappresentata dal secondo segmento del ciclo, da M-D’. La fase di espansione finanziaria è, tuttavia, in quanto chiusura dell’intero ciclo, il momento dell’“autunno” del blocco egemonico in questione. Gli succederà un nuovo blocco egemonico, che compirà il medesimo percorso.
In Arrighi è cruciale lo sguardo sui meccanismi che regolano i rapporti fra lo Stato egemonico in declino con quello in ascesa. Anche qui è Marx a fornire la giusta chiave teorica: attraverso il sistema del debito e del credito internazionale, dice Marx nel Capitale, si trasferisce capitale da un paese, in declino, che ne ha in sovrappiù a uno, in ascesa, che ne ha bisogno per avviare la sua espansione produttiva. Nella storia dell’accumulazione originaria moderna, tutti i centri capitalistici già affermati (Venezia, Olanda, Inghilterra) si sono comportati in questo modo nei confronti dei centri capitalistici emergenti (Olanda, Inghilterra, Stati uniti). Sennonché per Arrighi l’idea di Marx diventa pienamente fruibile scientificamente solo quando la si sottragga al contesto in cui è fissata, quello costituito dal discorso sull’accumulazione originaria. Questa tipologia di trasferimento di ricchezza ha infatti interessato tutte le transizioni egemoniche, e non solo quelle collocate agli albori del capitalismo. Tutte, tranne una, l’ultima, quella che, a giudizio di Arrighi, noi staremmo vivendo: la transizione dall’egemonia americana a qualcosa d’altro, di cui ancora non è possibile individuare compiutamente il profilo. In quest’ultimo caso, infatti, è l’egemonia declinante che, anziché investire all’estero, si fa prestare capitali da tutto il mondo.
Le ragioni per cui ciò sta accadendo costituiscono in particolare il tema delle ultime fatiche teoriche di Arrighi, Caos e governo del mondo (pubblicato in collaborazione con Beverly J. Silver) e Adam Smith a Pechino, e sono ben sintetizzate nel capitolo 4 di questo volume. La risposta di Arrighi si concentra sul divorzio che, nell’ultimo ciclo egemonico, si sarebbe verificato fra capacità militari e capacità finanziarie: il possesso di un ineguagliabile arsenale militare garantirebbe agli Stati uniti la possibilità di esercitare una continua pressione sulle potenze emergenti, per sottrarre loro risorse finanziarie.
Le transizioni egemoniche non sono però processi fluidi e uniformi. In genere, sono accompagnate dall’esplosione dell’anarchia nei rapporti interstatali e dell’instabilità nei rapporti economico-sociali interni e internazionali, in breve da ciò che Arrighi chiama “caos sistemico”. Le potenze emergenti si dimostrano così davvero capaci di assumere entro di sé funzioni egemoniche solo se, oltre a essere in grado di assorbire i capitali in eccesso della potenza egemonica declinante, si mostrano anche in grado di domare il caos sistemico. Per farlo, i paesi emergenti devono essere rispetto alla potenza in declino:
1) più larghi e diversificati geograficamente;
2) più efficienti economicamente e organizzativamente;
3) più capaci di governare, tramite appropriate agenzie, mercato mondiale e sistema interstatale;
4) più inclusivi socialmente all’interno;
5) più capaci di rappresentare gli interessi sociali generali presenti nel sistema-mondo, da quelli più direttamente borghesi a quelli delle forze organizzate del lavoro subalterno.
Sono punti che pur investendo tutti i processi di transizione egemonica, vengono meglio esemplificati dall’ultima delle transizioni verificatesi, quella dalla Gran Bretagna agli Stati uniti. In questo caso, gli Stati uniti hanno offerto al processo accumulativo:
1) un territorio, uno spatial fix per dirla con Harvey, più vasto e vario, senza perdere il carattere insulare di quello inglese;
2) un modello di impresa, la multinazionale, più profittevole economicamente e più efficiente organizzativamente della manifattura inglese;
3) un quadro di agenzie di regolazione del mercato e del sistema interstatale più complesso e stratificato (dall’Fmi all’Onu) di quello inglese, basato su gold standard e concerto europeo;
4) un patto sociale, il New Deal, più aperto di quello inglese alla soddisfazione degli interessi dei lavoratori;
5) un New Deal globale, non fondato sul colonialismo e sulla conservazione degli equilibri dati fra i diversi paesi capitalistici, ma capace di elevare il livello di ricchezza di tutte le classi capitalistiche e di porzioni significative del proletariato mondiale.
Al caos sistemico che accompagna le transizioni egemoniche succede quindi una riorganizzazione sistemica, che è storicamente ogni volta diversa per ciascuna transizione egemonica. Nel caso del passaggio egemonico fra Gran Bretagna e Stati uniti vi è, per esempio, una differenza storica relativa al rapporto fra egemonia e classi subalterne. Gli Stati uniti hanno pacificato le loro relazioni sociali interne prima della loro ascesa egemonica; la Gran Bretagna dopo.
La logica sistemica che soggiace alla sequenza che va dalle città-Stato italiane agli Stati uniti non è priva di una sua necessità: alla crescita delle sfide ambientali, alla crescente difficoltà di ripristinare ogni volta le migliori condizioni possibili del processo di accumulazione, si deve rispondere, da parte delle potenze egemoniche in ascesa, mobilitando più risorse (territoriali, organizzative ecc.) e maggiori capacità di governo e di regolazione. A essere modificata da questa logica è la stessa visione del capitalismo, ormai costretto a muoversi entro un fitto reticolo di determinazioni geografiche e storiche.

I movimenti antisistemici

Il capitale in cerca di accumulazione e gli Stati alla ricerca del potere non sono tuttavia gli unici protagonisti sulla scena mondiale. Lo sviluppo del capitale crea i propri antagonisti, un movimento operaio che dalla “rivoluzione mondiale” del 1848 si è dato strutture organizzative stabili – sindacati e partiti, sia nella variante socialdemocratica sia nella variante comunista. Analogamente, la gerarchia del sistema-mondo crea i propri antagonisti nei movimenti di liberazione nazionale e nelle forme di resistenza al dominio della potenza egemonica – gli imperi coloniali europei prima, la superpotenza americana poi. Entrambe queste risposte antisistemiche, come si sostiene nel libro Antisystemic movements, si sono sviluppate soprattutto entro un orizzonte nazionale con l’obiettivo di conquistare il potere dello Stato.
Questo ha portato a una istituzionalizzazione e burocratizzazione dei movimenti antisistemici – sia nel caso delle socialdemocrazie occidentali, sia nei paesi del “socialismo reale” e di quelli del Terzo mondo dopo la decolonizzazione – che li ha allontanati dalle richieste della loro base sociale, integrandole nell’ordine internazionale definito dall’egemonia degli Stati uniti.
La protesta contro quest’ordine sociale e mondiale è venuta con la “rivoluzione mondiale” del 1968, destinata ad alimentare ondate successive di mobilitazioni sociali che hanno avuto per protagonisti soggetti diversi – le categorie più deboli dei lavoratori salariati e gruppi di status individuati sulla base di identità e condizioni sociali eterogenee, dagli studenti alle donne, dalle minoranze etniche e religiose agli immigrati ecc. Il loro obiettivo non è più la presa del potere statale o la costruzione di stabili organizzazioni politiche, ma, da un lato, la soddisfazione di immediate rivendicazioni “locali” per migliorare le condizioni di vita e di lavoro e, dall’altro lato, la costruzione di campagne su temi globali che aprono la via a legami internazionali tra i movimenti. In questo modo, la sfida che i movimenti pongono al potere del capitale e degli Stati è destinata ad influenzare l’evoluzione del sistema mondiale, indirizzandone il cambiamento.

L’ultima grande crisi e l’ascesa della Cina

Allorché abbiamo parlato del passaggio di Arrighi dal periodo italiano a quello americano, dicevamo che il suo schema di interpretazione della crisi cambia. La redazione di Lungo XX secolo a questo avrebbe dovuto servire, a rendere, vale a dire, più chiara la sua nuova lettura della crisi apertasi negli anni Settanta. La sproporzione quantitativa esistente nel libro fra le parti dedicate alla descrizione dei quattro cicli egemonici del capitalismo storico e le parti più determinatamente indirizzate ad affrontare il nuovo scenario dischiusosi con la crisi dell’egemonia statunitense non deve ingannare: l’obiettivo rimane quello di offrire una analisi della crisi più credibile di quelle disponibili nel panorama intellettuale odierno (dalle letture regolazioniste a quelle basate sulla decisività del passaggio dal “capitalismo organizzato” al “capitalismo flessibile”). In parte, è già evidente, dopo quanto abbiamo detto in precedenza, dove Arrighi è intervenuto per modificare il suo schema originario di interpretazione: l’ultima crisi, con il suo inevitabile corollario costituito dal processo di finanziarizzazione, non è che la riproduzione, per limitarci alla penultima transizione egemonica, della Grande depressione del 1873-1896 che colpì l’egemonia britannica. E tuttavia, le cose sono ancora più complesse: nel precedente schema veniva adombrata l’idea, dicevamo più marxista, di una liberazione del capitale dai vincoli che gli Stati, in virtù del “patto socialdemocratico” stipulato nell’immediato secondo dopoguerra, gli avevano imposto. Era una posizione, per alcuni versi, anche più vicina a quella che si è venuta consolidando successivamente in alcune aree del dibattito sulla cosiddetta “globalizzazione”. Ma Arrighi soprattutto a partire da Lungo XX secolo respinge fermamente questa posizione: a suo giudizio parlare di “egemonia dei mercati globali” o di “neoliberismo” senza ulteriore specificazione non ha senso alcuno. Perché questo ri-orientamento teorico?
A nostro giudizio la risposta, o almeno parte di essa, sta di nuovo in Braudel (ripreso su questo punto anche dagli altri sistemici): questi differenzia nettamente fra mercato e capitalismo sulla base della presenza o meno della concorrenza. Il mercato, poiché è attraversato dalla concorrenza, è il luogo dei bassi profitti, mentre il capitalismo, poiché è popolato dai monopoli, è il luogo degli alti profitti. I capitalisti naturalmente, visto che sono marxianamente pervasi dal demone dell’accumulazione, preferiscono installarsi sul terreno capitalistico piuttosto che su quello del mercato. Ma come vi riescono? Vi riescono stabilendo una relazione simbiotica con il potere dello Stato, facendosi promuovere da esso. Ai piani alti del capitalismo, cioè, capitale e Stato sono inestricabilmente connessi. Ma ai piani alti vi è anche, e diremmo soprattutto, la haute finance. La simbiosi è quindi soprattutto fra capitale finanziario e Stato.
Per stabilire questa connessione organica fra capitale e Stato, Arrighi ricorre anche a un altro argomento, tratto da Weber: per avviare i processi di espansione materiale e poi, ancora di più, quelli di espansione finanziaria, occorre vincere la concorrenza per attrarre a sé il capitale mobile, la liquidità che fluisce a livello mondiale. Ma questa concorrenza è di solito attuata e vinta solo dagli Stati, anzi da Stati che dispongano di una sufficiente concentrazione di potenza. Anche a questo livello, quindi, pensare il capitale senza lo Stato non è per Arrighi teoricamente possibile.
Da tutto ciò scaturiscono due conseguenze, una più particolare e l’altra più generale. La più particolare è relativa alla crisi apertasi negli anni Settanta: questa non può essere collegata all’“egemonia dei mercati globali” o al neoliberismo, perché finanziarizzazione e industrializzazione di nuovi paesi (dalle quattro “tigri” asiatiche alla Cina) sono concepibili solo sulla base di una intensa e prolungata attività statale. La più generale è relativa, invece, al “ciclo sistemico di accumulazione”: poiché l’espansione, materiale e finanziaria, del capitalismo è inscindibilmente legata allo Stato, a ricoprire il ruolo di soggetto del ciclo è un blocco organico e articolato di agenzie governative e imprenditoriali. Su questo punto, sul necessario impasto di capitale e Stato che governa i cicli di accumulazione, la distanza da Marx e dal marxismo – anche da un marxismo, per altri versi, molto vicino alle sue posizioni, come quello di Harvey – ci sembra molto ampia.

Tutto ciò il lettore può trovarlo più ampiamente svolto in quello che ci sembra il libro migliore di Arrighi, il già menzionato Lungo XX secolo (“lungo”, come il XVI secolo in Braudel e Wallerstein, proprio perché cominciato con la Grande depressione del 1873-1896 e, in fondo, non ancora terminato) e anche nel capitolo 4 di questo volume. Rimane da fare, all’interno del nostro viaggio interpretativo, un’ultima fermata, quella relativa ad Adam Smith a Pechino. Qui, dentro uno scenario teorico in cui rifluiscono molti dei temi già trattati nei libri precedenti (l’interpretazione, in un dibattito serrato e appassionante con Robert Brenner, della crisi apertasi negli anni Settanta, il ciclo sistemico di accumulazione, il rapporto fra logica territoriale e statuale e logica capitalistica), appare un nuovo asse problematico: l’interpretazione di ciò che Kenneth Pomeranz ha chiamato la “grande divergenza”, la divaricazione, dopo la fine del XVIII secolo, dei sentieri di sviluppo fra Occidente e Cina. È una divaricazione, allo stesso tempo, fra Marx e Smith, fra uno sviluppo capitalistico trainato dai massicci investimenti labour-saving e dalle trasformazioni tecnologiche e uno sviluppo di mercato trainato da una rivoluzione industriosa ad alta intensità di lavoro, fra un percorso “innaturale” di crescita economica, che comincia dal commercio, passa per l’industria e finisce con l’agricoltura, e un percorso “naturale”, che comincia dall’agricoltura, passa per l’industria e termina con il commercio. Questa divaricazione ha permesso all’Occidente, prima, di recuperare il gap di ricchezza e benessere che ancora lo divideva dalla Cina nel secolo XVIII secolo, e, poi, di superarla, anche grazie alla superiorità militare garantita dallo sviluppo tecnologico accelerato. Ma l’epoca della “grande divergenza” è ormai finita: il Partito comunista cinese, quasi ispirandosi alle raccomandazioni di Adam Smith (donde il titolo del libro), ha sapientemente puntato su un efficace mix di “buona” concorrenza intercapitalistica, promozione della divisione sociale e non tecnica del lavoro, investimento nelle tecnologie capital-saving, valorizzazione di nuovi modelli di impresa (le cosiddette “imprese di municipalità e di villaggio”), governo “centralizzato” degli strumenti creditizi e monetari, che ormai quasi consente alla Cina di attestarsi sui livelli di ricchezza occidentali. Chiusa la “grande divergenza” che cosa ne seguirà? Un caos sistemico generalizzato, una nuova transizione egemonica, con la Cina a prendere il posto degli Stati uniti, o la realizzazione dell’“utopia” smithiana, un riequilibrio, cementato dal mercato, di potere e ricchezza fra tutte le aree in cui il mondo è diviso? La risposta è per Arrighi aperta, e affidata al libero corso degli avvenimenti.

Uno dei meriti più duraturi di Arrighi, e della scuola sistemica nel suo complesso, è quello di aver scompaginato le frontiere disciplinari che si sono fissate nelle scienze storico-sociali: la divisione fra scienze nomotetiche (sociologia, economia) e idiografiche (storia) non ha alcun fondamento. Peraltro, Arrighi questo lo ha affermato fin da Sviluppo economico e sovrastrutture in Africa, dove si protesta energicamente contro la tendenza dell’economia neoclassica a separare rigidamente il “fatto” economico dalla storia e dalla società. Il capitalismo è un oggetto complesso, per comprendere il quale occorre guadagnare profondità storica, affinare lo sguardo sociologico e saper utilizzare il metro geografico. È anche da qui che derivano gli altri meriti della ricerca di Arrighi: l’aver indagato le dinamiche globali prima della globalizzazione, l’aver capito la centralità del processo di finanziarizzazione, l’aver intuito l’importanza del nesso fra capitale e potere statale dentro i cicli mondiali di accumulazione. E tuttavia non sono pochi neanche i punti in cui Arrighi pare non riuscire pienamente convincente: la sottovalutazione, che tocca il suo picco proprio in Adam Smith a Pechino, della “rivoluzione industriale”, l’indeterminatezza in cui è avvolto il nesso fra produzione della ricchezza e finanza, l’indebita “spazializzazione”, nel ciclo sistemico di accumulazione, del rapporto fra primo e secondo segmento del ciclo (fra D-M, produzione e commercio, e M-D’, la finanza), un nesso fra capitale e forma-Stato che lascia scoperto il piano delle forme di governo o auto-governo della società (che nesso vi è, cioè, fra cicli sistemici di accumulazione e politica democratica e non?), la scarsa attenzione per una sfida globale come quella ecologica (appena riscattata dalle pagine finali di Adam Smith a Pechino), un legame fra necessità delle riorganizzazioni sistemiche e contingenza della storia che è contingente anch’esso (è un elemento, questo, su cui non a caso anche Harvey insiste nell’intervista ad Arrighi). È anche su questi punti che la discussione deve proseguire.

I saggi del volume

Qualche parola, infine, sui saggi qui proposti. Ciascuno di essi integra tematicamente, da una diversa prospettiva, il materiale testuale di Arrighi già disponibile sul mercato editoriale. Dell’intervista ad Harvey si è detto, e non vi ritorneremo sopra. Il secondo saggio, Secolo marxista, secolo americano. La formazione del movimento operaio nel mondo, si occupa, invece, di una questione di cui Arrighi si era ripromesso di parlare in Lungo XX secolo e che invece non riuscì, da ultimo, a introdurre nel libro: la storia del movimento operaio novecentesco letta alla luce della teoria sistemica. Il saggio è, infatti, incardinato attorno alla polarità fra riformismo socialdemocratico bernsteiniano (il modello vincente di movimento operaio nei paesi del centro) e leninismo (il modello vincente di movimento operaio nei paesi della periferia). In chiusura, ci si diffonde sulle possibilità del movimento operaio nel futuro: queste sono del tutto affidate alla costruzione di quei “movimenti antisistemici” su cui ci siamo trattenuti poco sopra.
Nel terzo saggio, Le disuguaglianze mondiali, invece Arrighi riflette, sempre in modo sistemico, sulla questione delle disuguaglianze mondiali. Il risultato teorico principale del saggio è duplice: all’affermazione della chiusura, nel secondo dopoguerra, del differenziale di reddito fra i paesi europei e quelli del Nord America – quindi fra i paesi del centro – si contrappone la constatazione del mantenimento del differenziale pregresso di reddito fra i paesi del centro e quelli della periferia (ex blocco sovietico e paesi del Sud del mondo). In chiusura, la riflessione si concentra sulle potenzialità del socialismo in un tale contesto. Va detto che le conclusioni analitiche del testo, come registrato anche da Harvey nell’intervista, andrebbero aggiornate, vista la crescita del reddito nei paesi del Sud-est asiatico. Ma Arrighi è rimasto fino all’ultimo convinto della loro bontà: grazie, in particolare, alla Cina si sono ridotte le sperequazioni internazionali di reddito, ma grazie alla Cina è anche aumentato il tasso di disuguaglianza all’interno degli Stati.
Il quarto saggio, Capitalismo e (dis)ordine mondiale, è una limpida e riuscita sistematizzazione delle tesi sostenute da Arrighi in Lungo XX secolo e dallo stesso insieme a Beverly Silver in Caos e governo del mondo. Importa qui soprattutto sottolineare come in questo saggio Arrighi e Silver insistano sul carattere effimero della New Economy e della politica estera “unilateralista” inaugurata dagli Stati uniti all’alba degli anni Duemila. Nel poscritto, allegato a questo testo, Arrighi e Silver confermano, a cinque anni di distanza, la validità delle proposizioni analitiche del loro saggio.
Nel quinto e ultimo saggio, Dopo il neoliberismo. Il nuovo ruolo del Sud del mondo, qui pubblicato in contemporanea con la versione inglese, si avvalorano le possibilità, con l’inasprirsi della crisi delle politiche neoliberiste dettate dal centro e l’assestamento della crescita cinese, che sorga una nuova Bandung, un nuovo patto fra i paesi che una volta venivano chiamati “in via di sviluppo”. Una Bandung tuttavia diversa dalla prima, quella nata negli anni Cinquanta e subito dopo fallita, perché fondata non su una solidarietà di tipo puramente politico, ma sulla più solida roccia della progressiva convergenza, fra i paesi del Sud del mondo, dei rispettivi interessi economici.

Rituali della compagnia dei galantomeni

(i calici piccoli dei convenuti sono preventivamente riempiti di vino in vista del brindisi finale)

Pantalone (il Sommo Simposiarca) – Affinché sia strumento di felicità e fortuna… Brighella (il Segretario) – Istituiamo una società socratica Pantalone (il Sommo Simposiarca) – Fiorisca la filosofia Balanzone (l’Oratore) – Con le arti liberali Pantalone (il Sommo Simposiarca) – Tacete. Questa riunione, e tutto ciò che in essa sarà pensato, detto e fatto, sia consacrata alla Verità, alla Libertà, alla Ragione, secondo il triplice voto dei saggi. Brighella (il Segretario) – Ora e sempre Pantalone (il Sommo Simposiarca) – Chiamiamoci uguali e fratelli Balanzone (l’Oratore) – Come pure compagni ed amici Pantalone – Siano lontani la contesa, l’odio, l’ostinazione Brighella – Siano presenti la mitezza, la sapienza, l’amicizia Pantalone – Siano graditi gli scherzi e il riso Balanzone – Siano propizie le muse e le Grazie Pantalone – Non bisogna giurare sulla parola di nessuno Balanzone – Neppure su quella di Socrate Pantalone – Ma per procedere secondo le regole ascoltate, carissimi Galantomeni, le parole di Catone. Siamo soggetti alla verità e alla libertà, così da essere liberati dalla tirannide e dalla superstizione. «Prima di tutto», dice Catone, «ho avuto sempre dei compagni di sodalizio. Partecipavo ai conviti insieme ai sodali con grande moderazione. Non apprezzavo tanto la gioia di tali conviti per i piaceri del corpo, ma per la compagnia degli amici e la conversazione. I nostri antenati hanno giustamente chiamato “convivio” lo stare a tavola insieme agli amici, in quanto comporta una comunanza di vita; meglio dei Greci, che lo chiamano “bevuta in Comune”, o “cena in Comune”, poiché sembra che apprezzino di più quello che è meno importante per questo genere di riunioni». Brighella – Siano lodati Socrate e Platone, Marco Catone e Marco Cicerone Pantalone – Qualunque sia il tema delle nostre discussioni serie, facciamo frequenti pause per conversare Balanzone – In modo elegante, modesto, spiritoso Pantalone – «In verità», prosegue Catone, «mi piacciono l’organizzazione dei banchetti istituiti dagli antenati; e quei discorsi che, secondo l’uso degli antichi, si fanno tra i bicchieri a cominciare da colui che presiede; e i bicchieri piccoli e da centellinare goccia a goccia, come nel Simposio di Senofonte, e la frescura d’estate, il calore o il fuoco d’inverno. Queste cose le cerco di solito anche in Sabina e tutti i giorni riempio di vicini il convito, prolungandolo quanto più possibile fino a tarda notte, con varia conversazione. Brighella – È degno di lode Senofonte, e vanno imitati i rustici Sabini. Pantalone – Saziamo dunque soprattutto la mente, e con moderazione il corpo Balanzone – Tutti in piedi e con il calice in mano Pantalone – Brindo in onore della Compagnia de Galantomeni Brighella – Beviamo nei calici piccoli

CHIUSURA DI AGAPE

DELLA COMPAGNIA DE GALANTOMENI

Dal Formulario per la celebrazione della società socratica,

contenente le usanze e i principi della società

(Londra, 1720)

(i calici grandi dei convenuti sono preventivamente riempiti di vino in vista del brindisi finale)

Pantalone (il Sommo Simposiarca) – Bisogna sempre augurarsi di avere una mente sana in un corpo sano; e come non si deve rinunciare alla vita con leggerezza, così non si deve mai temere la morte Brighella – Nulla va desiderato di più: e bisogna adoperarsi affinché accada sempre Pantalone – Per i sapienti la gioia è preferibile al guadagno Balanzone – La letizia è propria dell’uomo libero; la tristezza è segno di schiavitù Pantalone – È meglio non comandare nessuno che servire qualcuno Brighella – Senza un servo infatti non si può vivere onestamente, ma in nessun modo si può vivere con un padrone Pantalone – È necessario tuttavia obbedire alle leggi, poiché senza di queste non esiste né proprietà né sicurezza Balanzone – Siamo dunque sottomessi alle leggi per poter essere liberi Pantalone – La libertà è infatti tanto lontana dalla licenza… Brighella – Quanto la schiavitù dalla libertà Pantalone – Ascoltate dunque, Galantomeni nobilissimi, ricevete nell’animo e confermate sempre con le azioni la norma più sicura per vivere bene, morire contenti e comportarsi sempre in modo retto; ossia la regola infallibile e la legge inviolabile, che ora vi sarà comunicata negli stessi termini con cui un tempo è stata esposta in modo inimitabile da Marco Tullio Balanzone – Ascolteremo con attenzione, elevando i nostri cuori Pantalone – La retta ragione è una vera legge, conforme alla natura, diffusa in tutti, costante ed eterna; essa vincola gli uomini ai doveri con i suoi comandi e li allontana dal male con i suoi divieti; non comanda né ammonisce invano i virtuosi, sebbene i malvagi non siano toccati dalle sue minacce o imposizioni. Di questa legge nulla può essere mutato, né alcuna parte può essere abrogata, né può essere abolita nella sua totalità: non possiamo essere esentati dalla sua osservanza dall’autorità del senato o del popolo. Non bisogna cercare altro commentatore o interprete; non ve n’è una Roma, una ad Atene, una in quest’epoca e un’altra in seguito; ma la stessa legge, eterna ed immortale, è destinata a governare tutti i popoli e in tutti i tempi. Brighella – Vogliamo essere diretti e governati da questa legge: e non dalle menzogne di uomini superstizioni Pantalone – Le leggi inventate non sono chiare, né universali; non sono sempre le stesse, né sempre efficaci. La superstizione, diffusa tra i popoli, oppresse gli animi di quasi tutti, dice giustamente Tullio, e prese il sopravvento sulla debolezza umana. Ci sembrò utile per noi stessi estirparla dalle radici. Ma in verità eliminando la superstizione non si abolisce la religione: infatti da un lato è proprio del sapiente custodire le istituzioni degli antenati e mantenere le cerimonie sacre; dall’altro la bellezza del mondo e l’ordine delle cose celesti inducono ad ammettere l’esistenza di una qualche natura eterna suprema e la necessità che sia contemplata e venerata dal genere umano. Perciò come va propagata la religione che è unita alla conoscenza della natura, così tutte le radici della superstizione vanno divelte Balanzone – Il superstizioso non veglia e non dorme tranquillo; non vive felice né muore sereno; sia da vivo che da morto si fa vittima dei preti Pantalone – Di quanto tempo è concesso a ciascuno di vivere nella natura… Brighella – … di tanto deve essere contento Pantalone – Chi ha paura di ciò che non può evitare, non può mai vivere con animo tranquillo Balanzone – Ma chi non teme la morte, in quanto necessaria, si procura la garanzia di una vita felice Pantalone – Come la vita ci ha portato l’inizio di tutte le cose, così la morte ci porterà la fine Brighella – Come nessuna di queste ci riguardava prima della nascita, così nulla ci riguarderà dopo la morte Pantalone – Ed è sciocco chi piange perché non può vivere mille anni Balanzone – Come colui che piangesse per non essere vissuto mille anni prima Pantalone – Solo alla fama e alla consuetudine vanno attribuite le cerimonie funebri e le esequie Brighella – Perciò tali usanze vanno disprezzate fra noi, ma non trascurate per i nostri cari Pantalone – Brindiamo Balanzone – Così sia Brighella – Tutti in piedi e con i calici grandi in mano Pantalone – Brindo in onore della Compagnia de Galantomeni

Logoanalisi e Biblioterapia

1. La Filosofia o è pratica oppure non è

La filosofia nasce pratica. Chiariamoci subito su questo. È vero tutto quello che vi pare, è vero che Gerd Achenbach ha avuto per primo l’idea di aprire uno studio di Consulenza filosofica, è vero che Lou Marinoff sull’idea che Platone sia meglio del Prozac ha venduto milioni di copie, è vero che Ran Lahav per citare il più conosciuto, si sta dando da fare da tempo per cercare strade originali all’interno del counseling. Ed è vero, come spesso provocatoriamente sottolineo, che la Consulenza filosofica nasce in realtà in Italia. Non con Umberto Galimberti, ma con Edoardo De Filippo che ne L’Oro di Napoli interpreta negli anni cinquanta un consulente filosofico ante litteram, don Ersilio Miccio, da cui si reca tutto il quartiere per consigli di ogni genere.

Dobbiamo subito sottolineare però che la Filosofia non è astratta e teorica. Non lo è mai stata e continua a non esserlo. Aristotele nella Metafisica ci dice che la filosofia nasce dallo ‘zauma’, termine spesso tradotto in senso debole con ‘meraviglia’, ma che Emanuele Severino invita a tradurre piuttosto con ‘paura’. La Filosofia da subito è chiamata a dare risposte, universali e di ragione, a una esigenza naturale dell’uomo, che è quella del senso. Tutto quell’ambito disciplinare che oggi chiamiamo Filosofia teoretica, ma anche l’Ontologia, la Filosofia della Religione non è altro che questo: come la saggezza dell’umanità ha risposto a quei problemi, da Platone a Heidegger. Non solo. La Filosofia politica è una filosofia pratica, il suo scopo è quello di fornire modelli di interpretazione, di critica del reale. Nelle sue forme più forti e complesse come è noto questo reale non lo si doveva solo pensare o capire, ma addirittura trasformare. Ancora, la filosofia morale. Anche qui la Filosofia è ben lontana dall’essere una disciplina difficile e algida, avvolta nelle torri d’avorio del sapere. Ultimo esempio: la Logica. Ora, la Logica ha probabilmente fallito il suo compito più titanico, quello di descrivere la realtà, il modo di pensarla, come i dati si organizzano nella nostra memoria, come vengono trattati dalla nostra coscienza. Ma il suo contributo, da Aristotele, alla Logica Formale, a Godel, è tutt’altro che estrinseco dalla quotidianità, perché si è evoluta nei linguaggi di programmazione. Oggi le App dei nostri iPhone e iPad vengono programmate in C++; ma la parentela è ancora più stretta nei linguaggi di programmazione per così dire più didattici, come il Basic o il Pascal. C’è addirittura un linguaggio di programmazione che si chiama ProLog (dal francese ‘Programmation en Logique’), che tenta di formulare il problema (e quindi la sua soluzione) in forma logica, e non sotto la forma tradizionale di un algoritmo. La piantiamo qui, anche se potremmo continuare con la Filosofia della Scienza, l’epistemologia, e così quasi all’infinito.

La Filosofia non è quella disciplina “con la quale o senza la quale tutto rimane tale e quale”. In 2500 anni di storia è riuscita a dare contributi concreti. Quali sono i suoi limiti oggi? Probabilmente la specializzazione, la Filosofia tramonta nel momento in cui perde di vista il tutto. “Con il Dio che muore, scomparendo dall’orizzonte ultimo della pensabilità, la verità s’inabissa nell’immanenza e si frantuma nel puro scenario della temporalità e dalla finitezza, privando così la filosofia del suo compito originario: la ricerca del fondamento primigenio e del senso ultimo di tutte le cose” (Giannatiempo Quinzio A., 1999, p. I). Questo impoverimento del pensare può però predisporre l’uomo all’attesa e alla ricerca. Magra consolazione.

C’è un’altra questione invece, che è la Torre d’Avorio. L’Università, l’Accademia. Che ha il grande merito di non aver mai banalizzato la Filosofia, di averla preservata da “contaminazioni”. E l’altrettanto grande merito di averci formati. Ma spesso si è pensato, e lo si pensa ancora, che la Filosofia la si possa fare solo lì, o nei Licei. Il Filosofo è come un contabile, e lo diceva già Hegel, che mette ordine al pensiero altrui. È un ragioniere dello Spirito. Le Pratiche filosofiche vanno contro questa idea. Il Filosofo si confronta con la società, e non con l’Accademia. La Consulenza filosofica va a portare ai suoi clienti, agli “ospiti” per dirla con Achenbach, 2500 anni di sapienzialità, con i suoi temi, i suoi sgambetti, le sue discese vertiginose verso l’abisso e la follia, le sue risalite verso quelle vette che gli altri non riusciranno nemmeno a seguire con lo sguardo.

2. La Filosofia può curare?

Fatte queste (doverose) premesse possiamo rispondere alla domanda: la filosofia può curare? La filosofia non interviene in ambiti patologici, per cui se per cura si intende: diagnosi e terapia, la risposta è sicuramente no. Ma la filosofia può intervenire con la sua autorevolezza per percorsi di chiarificazione e sostegno nel disagio diffuso e quotidiano, cioè nei tanti problemi che un uomo può incontrare nella sua vita. Perché la Filosofia è sempre stato questo: un raffinato ragionare intorno ai problemi, a partire dal principale che è quello esistenziale.

Si tratta di confrontarci su come la Filosofia possa intervenire in una Consulenza filosofica. La bibliografia è molto lacunosa e tocca darci da fare, sia nell’elaborazione di metodi, per esempio. Quello che dobbiamo fare secondo me è evitare che la Consulenza filosofica sia figlia minore come professione d’aiuto delle psicoterapie. La Filosofia deve scendere in campo senza crisi di identità né (ingiustificabili) complessi di inferiorità. Ci sono cose che mi piacciono poco, e che secondo me poco hanno a che fare con l’aggettivo filosofico che qualcuno pone accanto al sostantivo counseling.

Cosa mi piace? C’è uno strumento dell’epoché – il Consulente nei processi di ricondizionamento autonomo non interviene con giudizi – che a me sembra molto convincente. Ed è la Logoanalisi Coscienziale, uno strumento dell’Antropologia esistenziale, il cui papà non è don Ersilio Miccio, ma è un altro napoletano, uno psicologo, laureato anche in Filosofia, Ferdinando Brancaleone. Ce ne fossero. Con Gianfranco Buffardi, che è uno psichiatra, hanno preso spunto dal modello esistenziale della logoterapia di Viktor Frankl e dal pensiero antropologico di Jaspers e quindi creato una scuola Antropologica esistenziale che è quella dell’Isue, l’Istituto di Scienze Umane ed Esistenziali. Aiutare un uomo a ritornare alla propria esistenza, significa aiutarlo a percepire il campo vasto delle possibilità che gli si offrono da realizzare e che costituiscono in effetti una sfida. Dal momento che ogni esistenza è sempre specifica, unica e irripetibile anche la Consulenza non è qualcosa di generale, di valido per tutti e per ognuno, di permanente in ogni tempo, non inquadra in una patologia, o in disturbo del DSM, il Manuale Diagnostico degli psicologi, perché si modella all’unicità e all’individualità di ciascuno. L’uomo di Frankl è unione ed interazione di tre parti: quella somatica, le cui patologie sono di pertinenza della psichiatria, quella psicologica e quella noetica. Brancaleone è riuscito a ritagliare uno spazio tutto filosofico. Innanzitutto lo sfondo filosofico è l’esistenzialismo, la traduzione filosofica di quanto abbiamo accennato è la progettualità dell’esserci-nel-mondo, con un pantheon di filosofi che va almeno da Kierkegaard ad Heidegger passando per Nietzsche, ma che include anche Sartre, Unamuno, Camus. Ma anche la Logoanalisi ha una genesi tutta filosofica, essendo il lessico mutuato dalla Grammatica Generativo -Trasformazionale di Noam Chomsky. E la Logoanalisi Coscienziale è una metodica comunicativa volta a rendere sempre maggiormente chiara ed esplicita la “struttura profonda” di una comunicazione, sottesa ad una struttura superficiale attraverso cui ha luogo la comunicazione tra il consulente e il cliente.

Apriamo una parentesi sul rapporto con le psicoterapie. La Consulenza filosofica, è chiaro da quanto abbiamo detto, non si pone in contrapposizione né teorica (è altro il campo di intervento), né pratico. Va detto che quella del DSM è una situazione davvero paradossale: nel 1952 indicava complessivamente 112 turbe, nel 1968 il DSM II ne elencava 163. Nel 1980 il DSM III riportava 224 turbe e l’ultima edizione ne elenca 374. Negli anni Ottanta si riteneva che un cittadino americano su dieci fosse ammalato. Negli anni Novanta lo era uno su due. Non si può non condividere l’opinione di Marinoff e cioè che tra un po’, psicologi e psichiatri a parte, saremo tutti malati. Oppure funziona alla rovescia, e cioè che la malattia sta in chi vede malattie. Psicoterapeuti e psichiatri hanno interesse a patologizzare l’esistente per questioni di bottega e di mercato e per questo, in assenza di mercato, possono tendere a crearselo ad hoc. Un po’ per calcolo un po’ anche in buona fede perché come ha giustamente fatto notare Abraham Masslow se l’unico arnese nella tua cassetta è un martello, molte cose cominceranno ad apparire simili ai chiodi. La Consulenza filosofica parte da questo bisogno: che nella nostra società c’è bisogno di dialogo e non solo di diagnosi. E che la Filosofia può offrire sia un percorso di Bildung, di formazione, di crescita critica, di consapevolezza che non è né sterile citazionismo, né salotto. Altrimenti finiremo tutti per credere che la massima forma di manifestazione del nostro pensiero sia quella di mettere Mi Piace su uno stato altrui su Facebook.

3. La Biblioterapia a sostegno della Logoanalisi esistenziale

Può la Logoanalisi, da sola, sostanziare un intero ciclo di consulenze? Probabilmente no. Ed ecco il motivo per cui studio da qualche tempo la possibilità di affiancare la Logoanalisi con la Biblioterapia, cioè l’utilizzo nei processi di chiarificazione di alcuni testi (di alcuni brani in realtà) tratti dalla letteratura filosofica. Non è questa la sede per una articolata analisi dei testi in relazione ai problemi portati. Basta solo accennare a quanto utili possono essere riflessioni condotte attorno al De Anima di Aristotele o al Fedone di Platone in problemi di ambito esistenziale. O in ambito morale alcune pagine di Kant, o di Hegel, o di Nietzsche in problemi generati tra l’identità tra colpa e pena. Ma molta letteratura stoica è funzionale al tipo di lavoro che dovremmo fare. Molto interessante il lavoro che sta proponendo da tempo Ferdinando Testa, sull’utilizzo dei Miti. O il lavoro di Giancarlo Marinelli su Dostojevksij, o di Arcangela Miceli su Cartesio e Pascal. C’è un saggio che non si può non citare ed è quello di Pierre Hadot, tutto dedicato all’utilità pratica della filosofia antica: Epicuro, Seneca, Epitteto, Marco Aurelio. Insomma, secondo me siamo chiamati a fare filosofia così. Il filosofo non è soltanto chi è dotato di un’anima bella che il volgo non avrà mai, ma deve mettere in gioco il proprio sapere. Parafrasando Nietzsche oggi sono i poveri che fraintendono la loro povertà. Non hanno perso tutto. Hanno gettato tutto. La Consulenza filosofica possiamo leggerla alla voce del verbo trovare.

4. L’Idraulico e la consulenza filosofica

Ci sono quelle giornate un po’ così, in cui un po’ ti gira e un po’ no. Magari ti arriva un assegno della casa editrice, pochi spiccioli, e ti sembra che spunti il sole. A me capita di essere meteopatico alla rovescia. Poi arrivi a casa, vai per lavarti le mani, e una vitina scema del telefonino che tieni nella tasca della camicia ti cade dentro il lavandino. In queste giornate un po’ così ti senti un cartone animato, mentre, maldestro, tenti di recuperarla prima che ti cada giù nello scarico. Lei ti prende in giro, e per prenderti in giro non trova meglio da fare che girare, girare, girare. E poi ploff, quel buco se lo infila svelta. E ti sembra persino che prima di andarsene ti faccia marameo. In queste giornate un po’ così ti viene l’intuizione del genio. Sviti il sifone e recuperi la preziosissima vite dal raccordo sotto lo scarico. Sulla carta l’idea non è male. La teoria ha un suo aspetto nobile che poi la pratica smentisce. Infatti svitare il dado non è tra le operazioni più agevoli per chi scrive libri e fa il filosofo. Intanto non riesci a fare un giro completo con la pinza, perché ci sono le piastrelle. E se ti scivola, nel mezzo giro di cui ti devi accontentare, tra la pinza e la piastrella ci resta il tuo dito. Un colpo secco. Tac. E fa un po’ male. Appena hai finito ti resta in mano la guarnizione e tre anelli, che metti via non immaginando che non sarai più in grado di ricomporli insieme nell’esatta sequenza. Tu pensi solo alla vite. È la vite che fissa l’antenna al telefonino, mica una vite qualsiasi. Ti pare sia facile trovarla? Inclini il tubo e viene giù? Ma beato te! Te la devi guadagnare, mentre sei lì in ginocchio, sudaticcio, a rovistare con le dita tra fango, capelli, grasso, sapone. Quando la trovi sei pure contento. Non sai che il peggio deve ancora arrivare. Perché smontare è stato facile. Montare mica tanto. Oltretutto il tubo era pure un po’ arrugginito e se ne è spezzata una parte. Gli anelli e la guarnizione sono l’enigma del giorno, il rompicapo che non ti aspetti. Manco il cubo di Rubik. Morale della giornata un po’ così: hai fatto l’eroe per una vite, roba che a momenti la Nintendo ti scrittura per la versione sfigata di Super Mario, e per risparmiare 10 centesimi hai combinato una catastrofe da 200 euro. Di viti te ne compravi 2000. Non ti resta che chiamare l’idraulico, quello vero. Dei dieci minuti che se ne sta nel tuo bagno, due lavora, gli altri otto ti prende per il culo. Per due minuti ti chiede, per l’appunto, 200 euro. Più Iva. Sei fortunato che almeno per il culo ti ci ha preso gratis. Per pagarlo l’assegno del giorno manco ti basta. Devi pure aggiungerci dei contanti.

È in questi giorni un po’ così che pensi: nella vita dovevo fare l’idraulico. Infatti adesso non so, quando mio figlio prende un bel voto a scuola, se devo premiarlo o punirlo. Prendi ottimo a storia? E io ti tolgo la paghetta settimanale. La professoressa mi dice che sei bravissimo ad Epica? Ti riempio di botte, così impari. Sei impreparato a spagnolo? Ti porto un fine settimana a Disneyland.

Pier Aldo Rovatti ha un’idea diversa. Lui è di quelli che si spende per un esercizio pratico ed una concretezza della filosofia e della cultura umanistica in genere. La Consulenza filosofica, appunto, che per lui ha due compiti fondamentali: uno, istituzionale, che è quello di affiancarsi alle terapie del disagio diffuso, anzi di sostituirle con un rapporto non medicalizzato e dunque non terapeutico della filosofia, facendo pesare il suo prestigio anche nella casa di Psiche; l’altro quello di dotare i giovani laureati di una possibilità lavorativa ed economica in più. Almeno per guardare dritto in faccia un idraulico, con dignità, senza abbassare lo sguardo. «L’ibridazione nelle Università dissimula una lotta di modelli culturali, assai più di quanto contribuisca a una sintesi sensata. Il modello tecnico (apparentato a quello aziendale) vi gioca la sua partita, con pretese di leadership, nei confronti di quello umanistico, il quale non sembra oggi capace di un rilancio o di una positiva metamorfosi delle sue motivazioni di fondo». Il rischio è quello di una banalizzazione della filosofia stessa. Ma è un rischio che darà all’uomo di cultura in genere la piena padronanza del suo lavandino.

 

*Rielaborazione degli interventi tenuti all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofi per il convegno «Esistere per essere. L’antropologia clinica esistenziale: sviluppo futuri nelle professioni d’aiuto»» a cura dell’Isue il 19 aprile del 2013 e al Palazzo Pretorio di Certaldo in occasione del convegno «La filosofia può curare?» organizzato dall’Associazione Nazionale Pratiche Filosofiche.

 

Bibliografia

Achenbach G. (2009), La consulenza filosofica, Feltrinelli, Milano

Brancaleone F. (2004), Existentia, Ofb Editing, Curti (Caserta)

Brancaleone F. (2004), Logodinamica generativo-trasformazionale, Ofb Editing, Curti (Caserta)

Brancaleone F. Buffardi R., Traversa G (2008), Helping, La Melagrana, San Felice a Cancello

Cascio M. (2013), Al divino dall’umano, Bastogi, Foggia

Cascio M. (2007), L’Autocoscienza, Bastogi, Foggia

Frankl V. (2004), Alla ricerca di un significato della vita, Mursia, Milano

Hadot P. (2005), Esercizi spirituali e filosofia antica, Einaudi

Galimberti U. (2005), La casa di Psiche, Feltrinelli, Milano

Lahav R. (2010), Oltre la filosofia, Apogeo, Milano

Marinelli G, Miceli A. (2010), Le polifonie dell’anima, Bonanno, Catania

Marinoff L. (2007), Platone è meglio del Prozac, Piemme, Milano

Rovatti P.A. (2006), La filosofia può curare?, Cortina Raffaello, Milano

Testa F. (2012), Le idee dell’anima. Jung e la visione del mondo, Bonanno, Catania

de Unamuno M. (2007), Inquietudini e meditazioni, Rubbettino, Soveria Mannelli

I mass-media, Gramsci e la costruzione dell’uomo eterodiretto

L’articolo si propone di recuperare alcune categorie fondamentali del pensiero gramsciano,
e nel metterne in evidenza la portata innovativa rispetto al marxismo ortodosso, utilizzarle per
comprendere adeguatamente un fenomeno che accomuna gli anni fra le due guerre mondiali
e il nostro tempo. Ossia la costruzione dell’uomo eterodiretto.

Searle e la filosofia del Novecento

[drop_cap style=”2″ bgcolor=”#dddddd” color=”#787882″]I[/drop_cap]l percorso filosofico di J. Searle rappresenta sicuramente una felice coniugazione tra la tradizione cosiddetta “continentale” e lo stesso terreno di gestazione del suo pensiero, ossia la filosofia analitica americana. Nato a Denver nel 1931, Searle si è formato inizialmente ad Oxford in Gran Bretagna sotto la guida del suo maestro J. Austin per sviluppare nel corso degli anni 60 del secolo scorso la teoria degli Atti Linguistici il cui libro è uscito nel 1969. In questa importante opera Searle evidenziava come il nostro linguaggio non è solo un strumento di rappresentazione della realtà ma un “agente” diretto, un “fare”. In sostanza con le parole o le frasi non ci limitiamo a dare un Significato al mondo, bensì facciano cose. Il linguaggio, dunque, è uno strumento di comunicazione in cui “parlare”, è sempre un impegno in una forma di comportamento. In questo senso Searle distingue 4 atti linguistici diversi , così riassumibili:

1) Atti linguistici che proferiscono;
2) Atti proposizionali;
3) Atti illocutivi;
4) Atti perlocutivi;

Tra questi, di cui Searle in questa opera studia il secondo e terzo tipo, è veramente centrale il terzo, ossia gli atti illocutivi. Solo questi indicano la completezza dell’atto linguistico stesso. In altre parole solo gli atti illocutivi nel dire “fanno”.

Un atto linguistico illocutivo è il solo che ci fornisce una vera e propria cognizione di ciò che significa comunicare. Il caso della promessa che un parlante A fa nei confronti di un parlante B viene utilizzata da Searle come “paradigma” di riferimento della sua teoria degli atti illocutivi. A Searle interessa dunque ciò che si fa mentre parliamo. Come filosofo del linguaggio Searle ha avuto una certa influenza sulla linguistica contemporanea proprio nel dare una priorità concettuale alla completezza di quegli atti linguistici che chiamiamo “illocutivi” (locutivo ed illocutivo è una distinzione di Austin, solo in parte accettata da Searle), come sono dare ordini, fare promesse, affermare, domandare.

Ben presto però la teoria degli atti linguistici sarà ritenuta non sufficiente a spiegare una cognizione fondamentale della filosofia contemporanea, ossia il concetto di intenzionalità, rimesso in auge da Brentano a fine ottocento e ritenuto in seguito dalla stessa fenomenologia un suo asse portante. Proprio perché l’Intenzionalità rappresenta la possibilità di discriminare il mondo fisico dal mondo psichico era necessario individuare una cornice teorica più ampia per giustificare le scoperte della linguistica novecentesca, che avevano denotato la prima fase del lavoro di Searle. Dunque, fin dal 1983 con l’opera dal titolo “Dell’intenzionalità”, e poi in seguito nel 1992 con l’opera “La riscoperta della mente”, Searle estende il suo impegno epistemologico concentrando i suoi interessi filosofici nella critica al cognitivismo e alle scienze cognitive che avevano “ridotto” gli studi sul rapporto mente-cervello ad un modello computazionale.

Con la teoria della Stanza Cinese Searle critica fortemente la possibilità di descrivere il funzionamento della mente come un sistema di calcolo, distinguendo tra le giuste conquiste delle scienze neurobiologiche e il permanere di un’ontologia in prima persona e cioè di una soggettività irriducibile a processi neurocomputazionali. La sua teoria della coscienza rappresenta il modello attuale più originale di confluenza tra gli studi neurobiologici e il mantenimento di una visione “fenomenologica” della mente che dia conto dell’esperienza cosciente soggettiva.