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Coronavirus, porci(,) capitalisti e l’inizio del XXI secolo. Si inaugura un’altra epoca?

La significativa politica sanitaria, di fronte a un evento che coinvolge il popolo nel suo insieme (Pandemia), deve tentare un esercizio integrale che assorba (nella contingenza) le altre dimensioni della politica pubblica, il resto dei programmi sociali, di ridistribuzione e di salario politico. Nell’immediato lo sguardo va alla questione di come preservare vite umane, di attenuare il numero delle vittime, diventa prioritario, da un lato, come dare assistenza ai membri della società che passano alla condizione di “malati gravi”, che lancia una sfida a una miserabile infrastruttura ospedaliera di terzo livello.

Anno zero dell’era “dopo-Virus”?

di Lamberto Pignotti 

 

Peccato non aver potuto registrare una telefonata che ci siamo fatti, Bruno Montanari e io, dai rispettivi coatti domicili, a proposito di coronavirus, oggi e domani, se tutto dopo rimarrà come prima, insomma del futuro che ci aspetta. 

Sul finire del secolo scorso c’era una rivista,”Futuribili”, che ci dava con sicurezza le proiezioni e previsioni del tempo che avrebbe fatto. Tutte o quasi sballate. “Il corriere della sera” in quei tempi dava titoli a caratteri di scatola, tipo “Il 2000 sarà della petrolchimica”, cosa smentita di lì a poco dai fatti, alla stregua di Verne che si immaginava di arrivare sulla Luna sparando un proiettile da un gigantesco cannone. 

Io non credo che tutto sarà come prima, ma non credo neanche che tutto non sarà come prima. Gli ecologi auspicano peraltro che dopo, per acquisita consapevolezza, ci sarà meno inquinamento; io per ora mi limito a godere dell’aria buona che nel centro di Roma respiro come quella che respiravo un tempo a Vallombrosa. 

Gli anti-consumisti auspicano quel tanto di decrescita intelligente che la quarantena imposta dal virus ha suggerito: sfoltire guardaroba caotici, ridurre viaggi intasati e crociere affollate, rarefare prenotazioni di pasti dieteticamente pantagruelici… E quindi: quattro salti in padella casalinghi, e casalinghi quattro salti in casa anziché in palestra, e casalinghe acconciature anziché griffati coiffeurs… Beh, staremo – si spera – a vedere.

Da vedere ci sarà assai presumibilmente il passaggio, in qualche settore, dal planetario al locale, dal globalismo al glocalismo, insomma. La grande editoria internazionale che ci comunica ogni giorno la stessa notizia ben confezionata – Mc Luhan lo aveva detto per i giornali, Propp per le favole più o meno romanzate – verrà non soppiantata ma più verosimilmente affiancata dalla gazzetta di quartiere che sappia dire ai lettori cosa succede all’angolo di casa, e dall’opera di autori che sappiano interagire con i lettori, tramite linguaggi non omogeneizzati ma innovativi e sollecitanti. 

Ancora oggi, e da troppo tempo ormai, le fabbriche editoriali e la grande stampa –  i media pensionabili trainati da una decrepita politica – non fanno altro che affastellare storytelling e best-sellers e top-ten che sono venuti a noia financo a coloro che sono obbligati a commentarli per malcelato vassallaggio o per feriale compenso della pagnotta. La noia, l’insofferenza, l’Indigestione del già sentito dire e del già visto, darà modo di sentirne e di vederne delle belle… Occorre un linguaggio diverso, una grammatica da ri-creare, e intanto si sta affacciando un “Lessico resistente” come delinea con efficacia fin dal titolo, Antonio Cecere in  un libro (Edizioni Kappabit, 2019) in cui mi ha generosamente coinvolto.

Intanto il contesto è quello tratteggiato in questa sede da Bruno Montanari nel suo scritto a proposito di “Virus: una riflessione sconsolata”.

Sconsolato è il quadro che ne viene fuori, un “panorama preoccupante” che è divulgato dai media e da una classe politica all’interno di un pensiero costruito attraverso una sorta di riduttivo gioco delle parti “per la gente” in cui l’informazione e la comunicazione risultano confezionate come dozzinali prodotti da supermercato.

Anche il coronavirus va fatto entrare in questo collaudato gioco. Gradatamente, per successivi maieutici spostamenti contestuali: c’era la crisi petrolifera? Noi si doveva parcheggiare l’auto la domenica. C’è l’inquinamento? Noi si deve andare a piedi per un giorno. C’è il coronavirus? E noi si sta a casa! “Insomma”, scrive Montanari, “ancora abitudine mentale alla superficialità e semplice immediatezza delle soluzioni. 

Siamo alla Replica Differente. Autoreferenziale, omologante e intenzionato a perpetuarsi gattopardescamente è il modello di sviluppo tratteggiato nel “panorama preoccupante” da Montanari. 

Che dunque tutto appaia nuovo, ma che di fatto tutto resti come prima? “Nihil sub sole novum”, titola qui il suo intervento Paolo Quintili. Il coronavirus entra prepotentemente in scena a turbare lo squilibrato stato in luogo di quel “modello di sviluppo capitalista iperliberista dell’ultimo trentennio” che ha prodotto proprio quello squilibrio nel rapporto fra le articolazioni che muovono cause naturali e strutture sociali.

Preso atto dell’emergenza virale, Quintili invita a “riattivare un’azione – non una semplice riflessione – critica nei riguardi del modello non più rinviabile. 

Tale invito prende slancio dal saggio di Alain Badiou incentrato “Sulla situazione epidemica”. Dove lo scarto di partenza appare subito fatto col piede sbagliato”. Ho sempre ritenuto che l’attuale situazione, segnata da un’epidemia virale, non aveva certo nulla di eccezionale”, esordisce l’autore; e più avanti, quando il soggetto evocato dal saggio è indubbiamente il “coronavirus”, conosciuto anche come COVID 19, o più esplicitamente denominato SARS 2: “Il vero nome dell’epidemia in corso dovrebbe indicare che esso dipende, in un certo senso, dal ‘niente di nuovo sotto il sole’ contemporaneo. Questo vero nome è SARS 2, ossia ‘Severe Acute Respiratory  Syndrom 2’, nome assegnato appunto all’attuale epidemia perché succeduta a quella del 2003, allora etichettata come 

SARS 1”. Tranquilli, insomma, anzi siccome proverbialmente sappiamo che non c’è due senza tre, chissà che sbadigli di noia faremo all’apparire del prossimo incomodo…

Nihil sub sole novum!, ma sì, per riprendere con piglio emblematico l’avvertito titolo dell’articolo di Quintili: vogliamo dimenticarci delle letterarie pesti di Boccaccio e Manzoni, non vogliamo dare uno sguardo retrodatato alla “spagnola”,  alla “asiatica”, al morbillo, alla tubercolosi, alla poliomielite, all’HIV, alla SARS 1?

Ma qualcosa di nuovo invece sta succedendo, quando si passa dalla astrazione numerica alla situazione individuale. Gli elenchi e i bollettini sorvolano, danno i numeri, anzi mentono, come per antifrasi mentiva il titolo del romanzo di Erich Maria Remarque  “Niente di nuovo sul fronte occidentale”. Elenchi e bollettini bellici o sanitari che siano sorvolano a proposito del caduto sul campo di battaglia o del defunto in corsia di ospedale.

Non lo dico per sentito dire, ma perché lo sento proprio io, hic et nunc, che le pestilenze di cui sopra si andava evocando ed enumerando –  da quelle mitiche e storiche e letterarie alla SARS 1 – o erano lontane nel tempo o erano distanti nello spazio. Però si dà proprio il caso che la SARS 2, o coronavirus, o Covid 19, lo sento io, qui e ora. Altro che pandemia abbastanza confortevole per il mondo occidentale,”fatto in se stesso privo di significato innovativo”. Qui, come altri, sto vivendo un’avventura da diluvio universale, da day after, mai vissuta prima dall’umanità.

Non mi era successo finora di fare un “Viaggio intorno alla mia camera” come De Mestre, né guardare sotto casa una piazza metafisica di De Chirico, né di scrutare dala finestra il “Deserto dei tartari” di Buzzati. Dove i tartari sono sì invisibili, ma anche tangibili, e tutto il mio corpo è indifeso e penetrabile a loro piacimento.

L’eccezionalità della situazione virale mi da modo, forse per antitesi, di trovare nelle espressioni di Badiou, quella carica spigolosamente sollecitante che spinge a raffigurarmi nella scena di uno che si appresta a correre un rischio con quella rete di protezione che è la fatalità.

Mi succedeva quando davo un esame: “male male sarò bocciato”, pensavo; mi succede quando prendo un aereo: “male male muoio” … Tutti modi per esorcizzare un’evenienza negativa. Badiou è lì a dirci che la fine del mondo, l’aborrita pandemia, tutto sommato è cosa di ordinaria follia comportamentale. 

Magari ci sarà da fare qualche adattamento, un ritocco: ci sarà da passare dal corporeo al virtuale e dal tangibile al digitale, ci sarà da ripensare, magari per diradarli, a quei vecchi sudaticci prosastici baci e abbracci, per  ripristinare, olograficamente, per streaming, in double life, via skype…, le più antiche poetiche evocazioni stilnoviste. Noli me tangere e vade retro… Del resto le amatissime Beatrice, Laura e Fiammetta non risulta che siano state sfiorate dai rispettivi spasimanti. Quando nel 2016 ho pubblicato da “Empiria”  la mia “New vita nova”, non ho fatto che evidenziare a dismisura la virtualità della “Vita nova” di Dante.

Il progressivo passaggio dal corporeo al virtuale, dal tangibile al digitale, dal globale al locale, non potrà non incrinare, per le contraddizioni che presenta, quel modello di sviluppo capitalista di cui parlano Montanari e Quintili. E qui entra in gioco con violenza il coronavirus e tornano anche particolarmente incisive le rilevazioni di Badiou a proposito degli “Stati nazionali che tentano di far fronte alla situazione epidemica, rispettando, per quanto è possibile, i meccanismi del capitale, benché la natura del rischio li obblighi a modificare lo stile e gli atti del potere”. Quegli Stati dovranno  “imporre, non soltanto, certo alle masse popolari, ma ai borghesi stessi, delle costrizioni considerevoli, e questo per salvare il capitalismo locale”.

Questa appare implicitamente come una sorta di chiamata alle armi di intellettuali e artisti con la quale Badiou incita a non rispondere ai vari SOS lanciati dal modello capitalista, globale o locale che sia. Una incitazione parallela si proietta anche  nel finale dello scritto di Montanari: “Occorre tornare a ‘ragionare’ emancipandosi dalla abitudine a seguire in modo acritico quel mondo dei rumori verbali che il mondo dei media, nel loro insieme, diffonde ad un ritmo frenetico e incontrollato”.

Ne risultano nel complesso parole non più genericamente astratte, ma  fattualmente partecipi di una modalità critica in corso, di una articolazione agevole di pensiero, di una filosofia movimentata e protesa a  porre una rinnovata scorrevole segnaletica nel labirinto di quella “Comunicazione nella società ipercomplessa” (questo è il titolo del bel libro di Piero Dominici, pubblicato da Franco Angeli nel 2011, al quale  rimando) in cui dall’era “avanti-Virus” siamo condizionati, intrappolati e oppressi.

I lavori in corso avvisano che sono chiusi al traffico l’antico vicolo del Dernier Cri, la sconquassata scorciatoia del Revival e la dissestata bretella del Neo-post-modernismo. Evitando la rotatoria dell’ennesima Replica Differente, se riusciamo a scavalcare il prossimo dosso, aguzzando lo sguardo forse si potrà cominciare a scorgere in questo anno Zero, la nuova era, quella del “dopo-Virus”.

All’ombra del Coronavirus

di Francesco Correggia
Siamo in una specie di regime tecno burocratico della comunicazione dove si continua a far finta di niente sulla povertà, la disperazione, l’accentramento della ricchezza, il mondo dominato dall’ingiustizia. Con il Coronavirus i vecchi mali non sono spariti anzi sono resi ancora più tragici e irrisolvibili da una specie di controllo delle nostre esistenze imposto dalla situazione attuale, dalla confusione istituzionale, dalla mancanza di una solidarietà europea. Il pericolo della sparizione di diritti individuali e costituzionali si fa consistente.

Sulla situazione epidemica

Nihil sub sole novum

La novità «antidiluviana» di una pandemia  mondiale

di Paolo Quintili

Il saggio di Alain Badiou che qui offriamo al pubblico, offre una serie di importanti riflessioni filosofiche che collocano l’evento emergenziale che stiamo vivendo in una dimensione al tempo stesso storica e critica. L’esperienza in corso dell’evento, nei diversi paesi dell’Occidente, in Europa in particolare, è stata affidata a tre «corpi» sociali che ne stanno gestendo l’emergenza: il corpo politico, il corpo medico e il corpo mediatico delle nostre società.

Ora, una parola che venga dal «corpo filosofico» è di grande utilità in quanto ci permette di coglierne la dimensione reale, al di là delle pur necessarie misure prese per arginare il pericolo epidemico. Anzitutto, la sua presunta «novità»: appare tale per la sola ragione che il flagello sta colpendo il pacifico e opulento Occidente capitalista, fino ad oggi al riparo (illusorio) da questi fenomeni. Niente di nuovo sotto il sole (Qoelet, I, 9), sono decenni oramai, che a partire dal virus Ebola, passando per numerosi altri agenti patogeni, influenzali e virali, diversi organismi viventi ostili, generati dall’azione (politico-economica) umana, han fatto strage fuori dell’Europa, e non nel solo Terzo Mondo. Ora si stanno diffondendo nel pianeta intero. Agenti patogeni originati dal mondo animale non-umano, passati e trasmessi all’uomo. La ragione di fondo del fenomeno è ­– non si può più ignorarlo, né nasconderlo – ecologica (vedi il saggio di Sonia Shah, Da dove vengono i coronavirus? Contro le pandemie, l’ecologia, in «Le Monde Diplomatique», n.3 anno XXVII, marzo 2020, pp. 1 e 21).

Per la prima volta nella storia, si sta vivendo sulla propria pelle, in Europa, una realtà nuova che investe la comunità mondiale intera, dopo che il genere di agente patogeno in questione ha iniziato da gran tempo la sua avanzata per le rotte della mondializzazione. Ci credevamo al sicuro, la reazione autoimmunitaria sembrava infrangibile e ora testiamo manifestamente che le cose non stanno così. L’origine del fenomeno di fragilizzazione del mondo (cui vanno aggiunte le altre «emergenze», climatica ed energetica) è legata al concorso, come spiega bene Badiou, di determinazioni naturali e determinazioni storico-economiche. Al di là delle diverse facce risorgenti di una caccia all’untore di medievale memoria, camuffata sotto apparenze diverse (il dilagare dell’irrazionale si fa inquietante), è il modello di sviluppo capitalista iperliberista dell’ultimo trentennio (almeno) ad aver prodotto un tale squilibrio nel rapporto tra le due determinazioni. L’effetto risultante rende, è evidente, tale «modello» del tutto insostenibile. Al di là dell’emergenza contingente, dunque, occorre riattivare un’azione – non una semplice riflessione– critica nei riguardi del «modello», non più rinviabile.

Le chiare, semplici, «cartesiane» considerazioni di Badiou aiutano a ripensare criticamente i fatti e orientare, si spera, diversamente, la nostra azione collettiva. Mai questa filosofia critica è stata ed è, oggi, tanto necessaria. Il dibattito è aperto.


Sulla situazione epidemica

di Alain Badiou

Ho sempre ritenuto che l’attuale situazione, segnata da un’epidemia virale, non aveva certo nulla d’eccezionale. Dalla pandemia (anch’essa virale) dell’HIV, passando per l’influenza aviaria, il virus Ebola, il virus SARS 1, per non parlare di diversi tipi d’influenze, persino del ritorno del morbillo o delle tubercolosi, che gli antibiotici non guariscono più, sappiamo ormai che il mercato mondiale, combinato con l’esistenza di vaste zone sotto-medicalizzate del pianeta e con l’insufficienza della disciplina mondiale nelle necessarie vaccinazioni, produce inevitabilmente delle epidemie serie e devastanti (nel caso dell’HIV, diversi milioni di morti). Messo da parte il fatto che la situazione dell’attuale pandemia colpisce, stavolta, l’abbastanza confortevole mondo detto occidentale – fatto in sé stesso privo di significato innovativo, e che chiama in causa sospette deplorazioni e asinerie rivoltanti sui social network – non avevo visto che, al di là delle ovvie misure protettive e del tempo che il virus impiegherà a scomparire in assenza di nuovi obiettivi, si debba andare su tutte le furie.

Del resto, il vero nome dell’epidemia in corso dovrebbe indicare che essa dipende, in un certo senso, dal «niente di nuovo sotto il sole» contemporaneo. Questo vero nome è SARS 2, ossia «Severe Acute Respiratory Syndrom 2» denominazione che tiene inscritta, infatti, un’identificazione «in secondo tempo», dopo l’epidemia di SARS 1, che s’era manifestata nel mondo durante la primavera del 2003. Questa malattia era stata denominata, all’epoca, «la prima malattia sconosciuta del XXI secolo». È dunque chiaro che l’epidemia attuale non è in alcun modo il sorgere di qualcosa di radicalmente nuovo o d’inaudito. È la seconda del secolo, nel suo genere, ed è situabile nella sua filiazione. Al punto stesso che la sola critica seria rivolta oggi alle autorità, in materia predittiva, è di non aver sostenuto seriamente, dopo la SARS 1, la ricerca che avrebbe messo a disposizione del mondo medico dei veri mezzi d’azione efficace contro la SARS 2.

Non ho trovato dunque nient’altro da fare che provare, come tutti, a sequestrarmi in casa mia, e nient’altro da dire se non esortare tutti a fare altrettanto. Rispettare, su questo punto, una rigida disciplina è tanto più necessario in quanto è un sostegno e una protezione fondamentale per tutti coloro che sono più esposti: certo, tutto il personale medico curante, che è direttamente sul fronte, e che deve poter contare su una ferma disciplina, ivi comprese le persone infette; ma anche i più deboli, come le persone anziane, in particolare quelle in EPAD (European Prevention of Alzheimer’s Dementia) o immunodepresse; e inoltre tutti coloro che vanno al lavoro e corrono così il rischio di un contagio. Questa disciplina per coloro che possono obbedire all’imperativo «restate a casa!» deve anche trovare e proporre i mezzi affinché coloro che non hanno affatto un «a casa» dove «restare», possano comunque trovare un rifugio sicuro. Qui si può pensare a una requisizione generalizzata degli hotel.

Queste obbligazioni sono, è vero, sempre più imperiose, ma non comportano in sé, almeno a un primo esame, grandi sforzi di analisi o di costituzione di un pensiero nuovo.

Ma ecco che veramente leggo troppe cose, sento troppe cose, ivi compreso nella mia cerchia, che mi sconcertano, per il turbamento che manifestano e per il loro carattere del tutto inappropriato rispetto alla situazione, a dire il vero semplice, nella quale ci troviamo.

Queste dichiarazioni perentorie, questi appelli patetici, queste accuse enfatiche, sono di diverse specie, ma hanno tutte in comune un curioso disprezzo della temibile semplicità, e dell’assenza di novità, dell’attuale situazione epidemica. O sono inutilmente servili nei confronti dei poteri costituiti, i quali di fatto non fanno altro che ciò a cui sono costretti, per la natura del fenomeno. Oppure ci tirano fuori la retorica del Pianeta e la sua mistica, il che non ci fa avanzare di un passo. Oppure, ancora, scaricano tutto sulle spalle del povero Macron, che fa unicamente, e non peggio di un altro, il suo lavoro di capo di Stato in tempo di guerra o di epidemia. Oppure gridano all’evento fondatore di un’inaudita rivoluzione, che non si vede quale rapporto potrebbe intrattenere con lo sterminio di un virus, e per la quale, del resto, i nostri «rivoluzionari» non hanno il minimo mezzo nuovo. O ancora, sprofondano in un pessimismo da fine del mondo. O si vedono portati all’esasperazione al punto che il «me stesso innanzitutto», regola d’oro dell’ideologia contemporanea, in questa circostanza, non sia di alcun interesse, di alcun aiuto, e possa addirittura apparire come complice di una continuazione indefinita del male.

Si direbbe che la prova epidemica dissolva dappertutto l’attività intrinseca della Ragione, e obblighi i soggetti a ritornare ai tristi effetti – misticismo, affabulazioni, preghiere, profezie, maledizioni ecc. – a cui il Medioevo era consueto addivenire quando la peste devastava i territori.

Di conseguenza, mi sento in certa misura costretto a raccogliere alcune idee semplici. Direi volentieri: cartesiane.

Per iniziare, conveniamo pure col definire il problema, peraltro così mal definito e, dunque, così mal trattato.

Un’epidemia ha questo di complesso, che è, sempre, un punto di articolazione tra le sue determinazioni naturali e le determinazioni sociali. La sua analisi completa è trasversale: bisogna afferrare i punti in cui le due determinazioni s’incrociano, e trarne le conseguenze.

Ad esempio, il punto iniziale dell’attuale epidemia si situa, con molta probabilità, nei mercati della provincia di Wuhan. I mercati cinesi sono ancora oggi noti per la loro pericolosa sporcizia, e il loro insopprimibile gusto della vendita all’aria aperta di ogni specie di animali vivi ammucchiati l’uno sull’altro. Da ciò, il fatto che il virus s’è trovato, in un certo momento presente, sotto una forma animale, essa stessa ereditata dai pipistrelli, in un ambiente popolare molto denso e a un ridotto tasso d’igiene.

La spinta naturale del virus da una specie a un’altra transita allora verso la specie umana. Come esattamente? Non lo sappiamo ancora, e solo delle procedure scientifiche ce lo insegneranno. Di passaggio, stigmatizziamo qui tutti coloro che lanciano, sulle reti sociali di Internet, delle favole tipicamente razziste fondate su immagini truccate, secondo le quali tutto proviene dal fatto che i Cinesi mangiano i pipistrelli quasi crudi, vivi…

Questa transizione locale tra specie animali, fino all’uomo, costituisce il punto originario di tutta la faccenda. Soltanto dopo ciò, opera un dato fondamentale del mondo contemporaneo: l’accesso del capitalismo di Stato cinese a un rango imperiale, ovvero una sua presenza intensa e universale sul mercato mondale. Da qui, le innumerevoli reti di diffusione, prima, evidentemente, che il governo cinese fosse in grado di confinare totalmente il punto d’origine – di fatto, un’intera provincia, quaranta milioni di persone – cosa che il governo finirà per riuscire a fare con successo, ma troppo tardi affinché all’epidemia venga impedito di partire sulle rotte – con gli aerei, e con le navi – dell’esistenza mondiale.

Un dettaglio rivelatore di quella che chiamo la doppia articolazione di un’epidemia: oggi, la SARS 2 è arginata a Wuhan, ma ci sono numerosi casi a Shanghai dovuti per la gran parte a delle persone, cinesi in generale, che ritornano dall’estero. La Cina è dunque un luogo in cui si osserva il legame stretto, per una ragione arcaica, poi moderna, tra un incrocio natura-società su dei mercati mal tenuti, di forma antica, causa dell’apparizione dell’infezione, e una diffusione planetaria di questo punto d’origine, trasmessa, questa, dal mercato mondiale capitalista e dai suoi spostamenti tanto rapidi quanto incessanti.

Dopo di che, si entra nella fase in cui gli Stati tentano, a livello locale, di arginare tale diffusione. Notiamo di passaggio che questa determinazione resta fondamentalmente locale, anche quando l’epidemia, essa, è trasversale. A dispetto dell’esistenza di alcune autorità transnazionali, è chiaro che sono gli Stati borghesi locali a essere in trincea.

Tocchiamo qui una contraddizione maggiore del mondo contemporaneo: l’economia, ivi compreso il processo di produzione di massa degli oggetti manifatturieri, dipende dal mercato globale. Si sa che la semplice fabbricazione di un telefono cellulare mette in moto del lavoro e delle risorse, comprese anche quelle minerarie, in almeno sette stati diversi. Ma d’altro canto, i poteri politici restano essenzialmente nazionali. E la rivalità degli imperialismi vecchi (Europa, USA) e nuovi (Cina, Giappone…) impediscono ogni processo di formazione di uno Stato capitalista mondiale. L’epidemia è anche un momento in cui questa contraddizione tra economia e politica si fa patente. Anche i paesi europei non riescono ad adattare in tempo le loro politiche di fronte al virus.

Essi stessi preda di questa contraddizione, gli Stati nazionali tentano di far fronte alla situazione epidemica, rispettando, per quanto è possibile, i meccanismi del Capitale, benché la natura del rischio li obblighi a modificare lo stile e gli atti del potere.

Si sa da gran tempo che in caso di guerra tra paesi, lo Stato deve imporre, non soltanto, certo, alle masse popolari, ma ai borghesi stessi, delle costrizioni considerevoli, e questo per salvare il capitalismo locale. Alcune industrie sono quasi nazionalizzate, a profitto di una produzione di armamenti intensiva, ma che sul momento non produce alcun plusvalore monetizzabile. Una gran quantità di borghesi sono mobilitati come ufficiali e esposti alla morte. Gli scienziati cercano, notte e giorno, d’inventare nuove armi. Gran numero di intellettuali e di artisti sono chiamati ad alimentare la propaganda nazionale ecc.

Dinanzi a un’epidemia, questa specie di riflesso statale è inevitabile. Ecco perché, contrariamente a quanto si dice, le dichiarazioni di Macron o di Edouard Philippe riguardanti lo Stato, ridiventato improvvisamente «Provvidenza», una spesa pubblica di sostegno alle persone che hanno perso il lavoro, o ai lavoratori autonomi a cui si chiude il negozio, che impegna cento e duecento miliardi di denaro pubblico, lo stesso annuncio di «nazionalizzazioni»: tutto questo non ha nulla di sbalorditivo o di paradossale. E ne consegue che la metafora di Macron, «siamo in guerra», è corretta. Guerra o epidemia, lo Stato è costretto – oltrepassando talvolta il corso normale della sua natura di classe – di mettere all’opera delle pratiche insieme più autoritarie e a destinazione più globale, per evitare una catastrofe strategica.

È una conseguenza del tutto logica della situazione, il cui scopo è di arginare l’epidemia – di vincere la guerra, per riprendere la metafora di Macron – con la maggiore sicurezza possibile, restando purtuttavia dentro l’ordine sociale stabilito. Non è per nulla una commedia, è una necessità imposta dalla diffusione di un processo mortale che sta all’incrocio tra la natura (da ciò il ruolo eminente degli scienziati, in questa faccenda) e l’ordine sociale (da cui l’intervento autoritario, e non può essere altrimenti, dello Stato).

Che in questo sforzo appaiano grandi carenze è inevitabile. Come nel caso della mancanza di maschere di protezione, o l’impreparazione riguardo l’estensione del confinamento ospedaliero. Ma chi può dunque vantarsi di avere «previsto» questo genere di cose? Per certi aspetti, lo Stato non aveva previsto la situazione attuale, è del tutto vero. Si può anche dire che indebolendo, da decenni, l’apparato del servizio sanitario nazionale, e in verità tutti i settori dello Stato che erano al servizio dell’interesse generale, lo Stato borghese aveva agito piuttosto come se niente di simile a una pandemia devastatrice potesse mai colpire il nostro Paese. Su questo lo Stato è assai colpevole, non soltanto nella sua forma-Macron, ma anche in quella di tutti coloro che l’hanno preceduto da oramai almeno trent’anni.

Tuttavia, è qui comunque corretto dire che nessun’altro aveva previsto, anzi neanche immaginato, lo sviluppo in Francia di una pandemia di questo tipo, salvo forse qualche specialista isolato. Molti pensavano probabilmente che questo genere di storia era buona per l’Africa profonda o per la Cina totalitaria, ma non per la democratica Europa. E non sono certamente gli esponenti dell’estrema sinistra (gauchistes) – o i Gilet Gialli, o persino i sindacalisti – ad avere ora un diritto particolare a sentenziare su questo punto e a continuare a dargli addosso a Macron, da sempre il loro bersaglio di derisione. Non hanno, neanche loro, avuto assolutamente contezza di qualcosa di simile. Tutt’al contrario: mentre l’epidemia era già in corso in Cina, hanno moltiplicato, fino a tempi assai recenti, i raggruppamenti incontrollati e le chiassose manifestazioni; il che dovrebbe proibire a costoro, oggi, quali che siano i soggetti, di pavoneggiarsi di fronte ai ritardi, mostrati dal potere, nel prendere le misure esatte di ciò che stava accadendo. In realtà, nessuna forza politica, in Francia, ha realmente preso queste misure prima dello Stato macroniano.

Da parte di questo Stato, la situazione è quella in cui lo Stato borghese deve, esplicitamente, pubblicamente, far prevalere degli interessi in qualche modo più generali di quelli della sola borghesia, pur preservando strategicamente, nell’avvenire, il primato degli interessi di classe, di cui tale Stato rappresenta la forma generale. O, in altre parole, la congiuntura obbliga lo Stato a non poter gestire la situazione se non integrando gli interessi di classe, di cui esso è il fondamento di potere, in interessi più generali, e ciò in ragione dell’esistenza interna di un «nemico» esso stesso più generale, che può essere, in tempi di guerra, l’invasore straniero, ed è, nella situazione presente, il virus SARS 2.

Questo genere di situazione (guerra mondiale, o epidemia mondiale) è particolarmente «neutro» sul piano politico. Le guerre del passato non hanno provocato rivoluzioni se non in due casi, per così dire eccentrici nei riguardi di quelle che erano le potenze imperiali: la Russia e la Cina. Nel caso russo, fu perché il potere zarista era, sotto tutti i rispetti, e da lungo tempo, ritardatario, compreso in quanto potere che si potesse adattare alla nascita di un vero e proprio capitalismo in quell’immenso paese. E, per altro verso, esisteva, con i bolscevichi, un’avanguardia politica moderna, fortemente strutturata da dirigenti notevoli. Nel caso cinese, la guerra rivoluzionaria interna ha preceduto la guerra mondiale, e il Partito comunista era, già nel 1940, alla testa di un esercito popolare che aveva fatto le sue prove. In compenso, per nessuna delle potenze occidentali la guerra ha provocato una rivoluzione vittoriosa. Anche nel paese vinto nel 1918, la Germania, l’insurrezione spartachista è stata rapidamente schiacciata.

La lezione da trarre da tutto questo è chiara: l’epidemia in corso non avrà, in quanto tale, alcuna conseguenza politica notevole in un paese come la Francia. Anche a supporre che la nostra borghesia pensi, alla vista dell’aumento dei brontolii informi e degli slogan inconsistenti ma diffusi, che è venuto il momento di sbarazzarsi di Macron, ciò non rappresenterà assolutamente alcun cambiamento notevole. I candidati «politicamente corretti» sono già dietro le quinte, come lo sono anche i sostenitori delle forme più ammuffite di un «nazionalismo» altrettanto obsoleto, quanto ripugnante.

Quanto a noi, che desideriamo un cambiamento reale dei dati politici in questo paese, bisogna approfittare dell’interludio epidemico e persino del confinamento – del tutto necessario – per lavorare a delle nuove figure della politica, al progetto di luoghi politici nuovi, e al progresso transnazionale di una terza tappa del comunismo, dopo quella, brillante, della sua invenzione e quella, interessante ma finalmente sconfitta, della sua sperimentazione statale.

Bisognerà anche passare per una critica serrata di ogni idea secondo la quale dei fenomeni come un’epidemia aprono, per se stessi, a qualsiasi cosa di politicamente innovativo. Oltre alla trasmissione generale dei dati scientifici sull’epidemia, conserveranno una certa forza politica solo delle affermazioni e convinzioni nuove riguardanti gli ospedali e la salute pubblica, le scuole e l’educazione egualitaria, l’accoglienza degli anziani e altre questioni di questo genere. Sono le sole che potranno essere eventualmente articolate con un bilancio delle pericolose debolezze messe in luce dalla situazione attuale.

Di passaggio, si mostrerà coraggiosamente, pubblicamente, che le presunte «reti sociali» mostrano, una volta di più, che sono anzitutto – oltre il fatto che ingrassano i maggiori miliardari del momento – un luogo di propagazione della paralisi mentale più sfacciata, di rumori incontrollati, della scoperta di «novità» antidiluviane, quando non è il caso dell’oscurantismo fascistizzante.

Non accordiamo credito, anche e soprattutto confinati come siamo, se non alle verità controllabili dalla scienza e alle prospettive fondate di una nuova politica, delle sue esperienze locali come dei suoi scopi strategici.

 [Trad. it. di Paolo Quintili]

La Conquista de México

di Enrique Dussel

(traduzione di Antonino Infranca)

Mentre il sovranismo dilaga in tutto il mondo eurocentrico, la coscienza critica non eurocentrica si chiede se non sia il caso di ripensare i valori fondamentali del mondo occidentale. L’Occidente è nato con la Conquista dell’America e il saccheggio delle sue ricchezze ed è proprio dall’America latina, precisamente dal Messico, che è arrivata una richiesta impellente: il presidente del Messico, Andrés Manuel López Obrador, rappresentante vivente della storia e della tradizione messicana pre e post-conquista, interpella con una lettera il Re di Spagna, affinché chieda perdono e restituisca, per quanto possibile a cinquecento anni di distanza, dignità a chi è stato trattato brutalmente in nome del Dio dell’amore e della pace.

Di seguito, pubblichiamo l’articolo del filosofo argentino, Enrique Dussel, che raccoglie l’interpellazione delle vittime della Conquista

Nel 1992 si è dibattuto il problema dell’invasione dell’Amerindia (denominata eurocentricamente la Scoperta d’America) a cinquecento anni dal 1492. Sarebbe bene che in questi due anni (2019-2021) ricordassimo la problematica ancora attuale per gli effetti della sanguinosa conquista delle grandi culture della Mesoamerica (l’atzeca, la maya, la zapoteca, l’otomì, ecc.) che fu un genocidio di significato mondiale, perché qui si produsse lo scontro e la dominazione violenta dell’estremo occidente di Eurasia (Spagna) sulle culture dell’estremo oriente dell’Asia (poiché i nostri popoli originari arrivano probabilmente dall’Asia orientale attraverso lo stretto di Bering). Certamente la Spagna (per la sua occupazione militare) e Roma (per l’organizzazione della Cristianità delle Indie occidentali) sono autrici e complici di un genocidio. In effetti, il papa concede ai re di Spagna con la bolla Inter caetera del 3 maggio 1493, le terre appena scoperte con l’obbligo di evangelizzare i loro abitanti, cioè le non ben conosciute Isole del Mare Oceano ad occidente dell’allora scoperto Oceano Atlantico. Qui si trova già il primo motivo che giustifica il chiedere perdono ai popoli originari da parte del Papa. Lo stesso Bartolomé de las Casas si chiedeva con quale diritto il Papato concedeva o donava al re di Spagna terre e popoli dei quali non aveva alcuna conoscenza, possesso o dominio? Bartolomé negava al Papa questo diritto, che inoltre lo rendeva complice del crimine ingiusto e del genocidio della conquista, con i suoi massacri e con l’orribile servitù in cui aveva ridotto i popoli originari del continente. E, riguardo a Spagna e Portogallo, e specialmente ai loro re e al Consejo de Indias, furono responsabili della ferocia, della violenza, dei sanguinosi scontri con armi sconosciute agli indigeni (come cannoni, balestre, cavalli, ecc.) e di ogni tipo di vessazione che si compirono. Valgano alcune citazioni di lettere che ebbi tra le mie mani nell’Archivo de Indias di Siviglia, inviate al re, mostrando la situazione: «Molto argento che di qui si strappa e va a questi Regni, è ottenuto con il sangue degli indios e va avvolto nella loro pelle» (Lettera del vescovo di Mechoacan Don Juan de Medina y Rincon, del 13 ottobre 1583; AGI, Messico, 374). E ancora: «Saranno quattro anni che, per terminare di perdere questa terra, si scoprì una bocca dell’inferno, per la quale entra ciascun anno una gran quantità di gente, che la cupidigia degli spagnoli sacrifica al loro dio, ed è una miniera di argento che si chiama Potosì» (Lettera del vescovo Domingo di Santo Tomás, del 1 luglio 1550; AGI, Charcas 313).

Il minimo che si possa dire a chi ignori la violenza e l’ingiustizia della conquista dell’America latina, e molto specialmente del Messico, è che è ignorante e che, non avendo cattiva coscienza di un vero crimine, si rende oggi complice di quello stesso crimine, benché sia, e in maggior misura, il re di Spagna. Ho letto migliaia di Schede Reali nelle quali i re spagnoli stampavano una grande firma e che dicevano: IO IL RE, senza ulteriore indicazione (si dovrebbe verificare mediante la data del documento il nome del personaggio). I noti storici demografi, Cook-Boràh e Simpson attribuiscono al Messico una popolazione di 11 milioni di abitanti nel 1519, che decrebbe nel 1607 a 2 milioni di indigeni. È chiaro che ci furono malattie contro le quali la popolazione indigena non era protetta, ma i massacri nelle guerre narrate dal Chilan Balam[1], i maltrattamenti nelle miniere, l’assegnazione degli indios e le fattorie e la produzione di zucchero, e il lavoro domestico delle donne indigene nelle case dei bianchi (che diventavano concubine, obbligandole a lasciare i loro mariti, per essere vessate dagli spagnoli e dai creoli), la trasformazione del territorio agricolo dai più fecondi a deserto sterile (che produsse fame mortale tra tarahumaras)[2] causerà una crisi demografica gigantesca. Tutto questo ci suggerisce che è molto conveniente in Messico cominciare ad avere presente, giorno per giorno, il 500° anniversario dell’orrenda Conquista del Messico. Ci sono date emblematiche: il 18 febbraio di 500 anni fa Hernán Cortés partiva da L’Avana con 600 uomini, 16 cavalli, 10 cannoni, 32 balestre. Il prossimo 22 aprile di 500 anni fa sbarcò a Veracruz; avendo già occupato in Messico, Tenochtitlán il 30 giugno sconfigge Panfilo Narváez[3]. Il prossimo anno, il 30 giugno, si compiranno i 500 anni dell’inizio dell’assedio di Città del Messico con l’aiuto dei tlaxcaltecas e di altri popoli dominati dagli aztechi. 500 anni fa, il 13 agosto del 1521 prenderanno e distruggeranno Tenochtitlán. Devono essere date ricordate e studiate, giorno per giorno, per prendere coscienza che fummo colonia e, dopo, non abbiamo smesso di essere neocolonie, del che non si ha autocoscienza a causa dell’eurocentrismo culturale dei nostri creoli (i messicani bianchi e americani, figli di spagnoli, che dopo rimangono al potere fino ad oggi). Nel futuro, la piena decolonizzazione politica, economica e culturale è necessaria, dopo 500 anni dalla Conquista. Deve essere un proposito della Quarta Trasformazione. È tempo che il re di Spagna e il papa romano chiedano perdono, non solo per mezzo di parole bensì con atti oggettivi, ai popoli originari per il crimine della Conquista! Ma anche che chiedano perdono i creoli messicani, i bianchi e principalmente i razzisti, ai popoli originari realizzando gli Accordi di San Andrés[4] e dando piena autonomia ai nobili e colti eredi delle antiche culture millenarie centroamericane!


[1] Miscellanee maya dei XVII e XVIII secoli dove si narrano gli scontri tra i Maya e i primi spagnoli arrivati in Yucatan.

[2] Comunità indigena del nord del Messico.

[3] Conquistador spagnolo che entrò in conflitto con Cortez.

[4] Accordi tra il governo messicano e l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale per concedere diritti alle popolazioni indigene (1996).

L’America latina come Altro Occidente


di Antonino Infranca

L’America latina è l’Altro Occidente, perché la negazione della sua Alterità sta a fondamento dell’egemonia dell’Occidente sull’intero pianeta. L’idea stessa di America latina nasce come negazione della realtà concreta di quel continente: olocausto dei suoi abitanti originari, sostituiti da esseri umani considerati schiavi, da una parte, e sfruttamento delle sue ricchezze naturali per instaurare la prima globalizzazione, dall’altra.

La conquista dell’America latina ha trasformato radicalmente il mondo e non solo quello occidentale, innanzitutto perché ha iniziato quel processo di accumulazione del capitale che ha permesso nel corso del tempo all’Europa di diventare il Centro del mondo. I metalli preziosi razziati e trasportati in Europa, cioè in Spagna e Portogallo, in quanto nazioni direttamente predatrici, sono stati impiegati in operazioni belliche che hanno permesso alla Spagna di egemonizzare il Mediterraneo. Mentre in Inghilterra, Francia e Olanda, in quanto nazioni indirettamente predatrici, perché depredavano i predatori spagnoli e portoghesi, i metalli preziosi sono stati lo strumento primario per la nascita del capitalismo.

Ma la conquista dell’America latina ha rappresentato anche il fallimento morale del cristianesimo, per i modi violenti, terroristici, sanguinari, in cui la religione dell’amore e della pace è stata imposta alle popolazioni indigene. Intere civiltà sono state annichilate in nome del Dio dell’amore e della pace, un Olocausto, il primo Olocausto della storia moderna, è stato compiuto in nome del Dio dell’amore e della pace. Lutero è stato testimone dell’uso delle ricchezze latinoamericane come strumento di lusso, quindi, come sostanziale negazione dei fondamenti morali del cristianesimo; ma non ha speso alcuna parola sull’Olocausto degli indios. Non a caso, poi, il protestantesimo è diventato ideologia dello schiavismo, al pari del cattolicesimo. Anche il mondo ideale dell’Occidente è stato stravolto dalla conquista dell’America.

All’Europa, grosso modo, dopo la Seconda Guerra Mondiale sono subentrati gli Stati Uniti come Centro del mondo, ma la struttura Centro-Periferia non è stata messa in discussione ed è ancora oggi in vigore.

Qualcosa sta lentamente cambiando. Proprio dall’America latina arrivano i primi movimenti intellettuali di critica all’egemonia eurocentrica sul Pianeta. Una concezione critica della religione cattolica, la teologia della liberazione, ha messo in discussione l’idea di una Iglesia espejo (Chiesa specchio) di Roma, contrapponendole un’idea di Iglesia hogar (Chiesa focolare) che sia espressione di una religiosità dal basso, delle vittime dell’evangelizzazione coloniale.

Anche dentro gli ambienti filosofici è sorta una nuova concezione filosofica, la Filosofia della Liberazione, fondata da Enrique Dussel; essa rivolge un’interpellazione, con un atto-di-parola, al Centro del mondo, chiedendo il riconoscimento dell’esclusione e dello sfruttamento delle vittime dell’attuale sistema dominante, che è il risultato storico di quella conquista. Le vittime sono gli indios, i negri, i mulatti, i meticci, ma anche le donne, i bambini e i vecchi dell’America latina. La Filosofia della Liberazione chiede il riconoscimento dell’Alterità di queste vittime. La sua critica è indirizzata all’universalità presunta della cultura eurocentrica. L’umanità non forma una comunità universale, se una gran parte dell’umanità è negata nei suoi bisogni primari, cioè mangiare, bere, coprirsi, abitare.

La condizione di esclusione e sfruttamento, imposta all’America latina nel passato, si è estesa all’intero mondo, e, per questa ragione, paradossalmente è la Filosofia della Liberazione ad essere universale. Ma anche nel Centro del mondo ci sono esclusi e sfruttati; le donne occidentali lottano per il riconoscimento di diritti paritari nel posto di lavoro, lottano per non essere più sfruttate sessualmente dagli uomini più potenti, vengono sacrificate dall’assurdo orgoglio maschile. Ai lavoratori si negano i diritti conquistati dopo decenni di lotte. La Filosofia della Liberazione può dare voce a tutti gli esclusi e sfruttati.

Una vera etica universale, allora, è quella che parte dalla vita materiale e dalla riproduzione della vita materiale, quindi anche dell’ambiente, dove si svolge la riproduzione della vita. L’Etica della liberazione è l’etica dell’umanità, di tutta l’umanità, dell’umanità che ha superato le differenze, le esclusioni e lo sfruttamento, dell’umanità che si fonda sull’Alterità.

Recensione a M. Reale, “Vivere insieme nella dignità” è un altro nome di democrazia?

in A. Cecere – A. Coratti, Lumi sul Mediterraneo, Jouvence, Milano, 2009

Nel saggio scritto in risposta a Triki, Mario Reale si chiede se il vivere-insieme teorizzato dal filosofo tunisino non sia, in fin dei conti, un altro nome di “democrazia”. Ovvero, se la democrazia non sia in fondo definibile come un vivere-insieme “istituzionalizzato” che nel corso della storia moderna (europea) si è dispiegato nell’ambito degli Stati-nazione, chiudendosi in confini spesso “inospitali”. Da una parte, Reale riconosce alla nazione il ruolo da protagonista giocato nei processi moderni di «democratizzazione primaria e fondamentale», dall’altra ne denuncia l’attuale inadeguatezza nel rappresentare il «traino della storia», ovvero nel costituire «il terreno decisivo di riferimento ideale e politico» in una dimensione globalizzata[1]. Cercare di lavorare su operazioni di mediazione continue tra dimensione nazionale e globalizzata, «senza combatterci tra lungimiranti globalisti e retrogradi sostenitori dello Stato nazione»[2], è la proposta per far fronte ai complessi rapporti economici, politici e culturali che da decenni determinano la tensione fra dimensione nazionale e globale e per costruire una via percorribile che renda il vivere-insieme un progetto politico concreto e non una nozione «abusata e quasi priva di senso, impiegata per difendere l’ideologia di una società pacificata e armonica»[3]. Ma il processo di istituzionalizzazione del vivere insieme passa necessariamente, secondo Triki, per la costituzione di una “vie sociale égalitaire” che attenui le differenze tra “nord” e “sud” del mondo e del Mediterraneo. In effetti, a dominare nel dibattito filosofico-politico degli ultimi decenni è stato lo scontro (spesso ideologico) tra “più libertà” da una parte e “più uguaglianza” dall’altra, mentre, come nota Reale, la domanda sulla fraternité, «la terza parola d’ordine della Rivoluzione francese»[4], è stata per lo più trascurata, assumendo un ruolo del tutto marginale nella tradizione politica dell’occidente. Nel Contratto sociale stesso – opera considerata da molti manifesto programmatico della più radicale forma di “collettivismo” della modernità –  Rousseau antepone chiaramente, in nome della costituzione della «grande Repubblica democratica», il «dominio della legge» alla esigenza di socialità, per lo più «messa sullo sfondo, solo implicita, se non proprio espunta»[5]. Il collettivismo in Rousseau sarebbe così fagocitato dal programma politico di porre “la loi au-dessus de l’homme”, avendo la legge come obiettivo primario quello di superare «la temibile dipendenza dell’uomo dall’altro uomo con il darsi a tutti non dandosi a nessuno», rendendo «gli uomini indipendenti e in un certo senso “solitari”»[6]. D’altra parte, è proprio in virtù dell’impersonalità, generalità e universalità, nonché della «reciprocità tra parti autonome» che la legge può farsi garante della «conservazione intatta delle individualità»[7], anche in nome della dignité che è nel titolo stesso del progetto filosofico trikiano, vivre-ensemble dans la dignité. In questo senso, vivere-insieme e dignità, comunità e individualità, rappresentano i due momenti da conciliare politicamente, allorché la tradizione democratica moderna pare privilegiare la tutela della sfera delle autonomie dei singoli. Per lo meno nella fase avanzata. Mentre la socialità emerge prorompente «nei momenti, sempre in qualche modo rivoluzionari […] che preparano l’avvento della democrazia e quindi nel vigore del suo stato nascente»[8], momenti in cui «è necessario mobilitare tutte le risorse “corali” del popolo, perché il vecchio scompaia e il nuovo sorga»[9]. Anche in questo caso, Reale propone uno scambio sinergico a partire dalla diversa storia dei popoli mediterranei e dalle diverse esperienze in corso sulle due sponde, l’una segnata dal fermento delle primavere arabe, ancora in movimento, l’altra alle prese con una storia democratica matura e ormai secolare, ma non priva, come sappiamo, di criticità.


[1] M. Reale, “Vivere insieme con dignità” è un altro nome di democrazia, in A. Cecere, A. Coratti (a cura di) Lumi sul Mediterraneo, Jouvence, Milano, 2019, p. 54

[2] Ivi, p. 58                                                                                        

[3] F. Triki, Vouloir vivre dans la dignité, tr.ita. A. Coratti, www.filosofiainmovimento.it/voler -vivere-nella-dignita/

[4] Ivi, p. 59

[5] Ibidem

[6] Anche per quanto riguarda la questione della “volontà generale”, Reale evidenzia il fatto che, «contro ogni forzatura collettivistica», essa va interpretata in quanto «frutto del “silenzio” tra i cittadini (che non devono avere “alcuna comunicazione tra loro”), ognuno dei quali nella sua intimità s’interroga, con un atto intellettivo e insieme morale, se la legge, comunque proposta dal governo, sia o no conforme alla volontà generale che è in lui» Ivi, p. 60

[7] Ivi, p. 60

[8] Ivi, p. 61

[9] Ibidem