Autorità – Tecnica – Virus: una riflessione sconsolata
di Bruno Montanari
Questa che stiamo vivendo è una condizione che ha un suo radicamento profondo, al quale la società italiana non ha fatto attenzione, per la ragione che non aveva motivo di farne dato un qualche benessere e la sostanziale libertà in cui è vissuta dagli anni del dopoguerra in poi. Con gli anni ’90, per ogni cosa che si doveva fare o non si poteva fare si è detto che “c’era l’Europa”, la BCE; poi sono venuti i sovranismi, i populismi e via discorrendo. Tutte cose che, in maniera più o meno visibile, creavano la pratica, individuale e collettiva, e l’audience dei media nelle loro forme, cartacee, digitali, eteree, … . La “gente” si è conformata al modello tecnologico-comunicativo e non ha mai prestato attenzione più di tanto alle sue conseguenze; anzi, non si è accorta che le conseguenze nel frattempo si producevano nelle abitudini relazionali di ciascuno di noi. Di recente un certo allarme in Italia è stato sollecitato dai migranti; allarme contenuto dentro i vaneggiamenti più o meno rumorosi di una perenne campagna elettorale. Non è senza significato come la malattia del sondaggismo elettorale, che, se non altro, dovrebbe essere indizio di una grande attenzione alla partecipazione politica quotidiana del cittadino, si accompagni invece all’alta percentuale di astensionismo che incide sul significato rappresentativo delle percentuali che vengono rilevate. Una sorta di strabismo di cui nessuno parla. Come nessuno sottolinea la pochezza culturale della classe dirigente nel suo complesso, che non conosce le regole giuridiche di cui è innervata la politica in uno Stato di diritto; non le conosce o, anche quando potrebbe, le ignora, tanto ormai per il cittadino comune le Istituzioni non contano più. Anzi, non si sa bene neppure quali siano e quale sia loro competenza.
Quanto poi al livello geo-politico ci troviamo di fronte ad una Europa non politica, dominata dallo spread; dominata cioè da chi presta i soldi, distinguendo, per premiare o punire, i virtuosi dagli spendaccioni; un’Europa stretta e strapazzata tra gli Stati Uniti, la Russia, la agognata egemonia mediterranea della Turchia e la costante e gravissima crisi che attraversa i paesi arabi. Un’Europa drammaticamente incapace di una qualsiasi politica internazionale. E poi la Cina: una dittatura all’interno e uno spregiudicato capitalismo all’esterno, per mezzo di una politica dei prezzi favorita dal bassissimo costo del lavoro.
E poi c’è tutta la questione epocale legata all’ “antropocene”, che alla “gente” arriva sotto la forma della questione climatica, sulla quale peraltro c’è chi fa delle speculazioni negative interessate, e l’inquinamento. Il tutto, nella pratica ordinaria, si risolve nelle “domeniche a piedi”, che ovviamente non risolvono un bel niente. Insomma, ancora abitudine mentale alla superficialità, estemporaneità e semplice immediatezza delle soluzioni; senza parlare del tasso di incompetenza che le sostiene.
Un panorama estremamente preoccupante, ma che viene divulgato dai media all’interno di un pensiero costruito attraverso una sorta di “gioco delle parti”, il cui fine è raccontare, anche litigare apparentemente (il gioco delle parti, appunto), per attrarre e soddisfare un uditorio senza invece educarlo ad una comprensione critica della realtà, proprio perché attraverso un racconto ed una polemica pilotati si fornisce a priori al fruitore medio il quadro delle affermazioni possibili, tra le quali egli deve limitarsi a scegliere. Insomma, i processi informativi e comunicativi propongono idee, anche diverse ma già confezionate secondo standard facilmente fruibili, che il destinatario deve scegliere come un prodotto al supermercato. Conseguenza: disabitudine a pensare con la propria testa e disattenzione alle cose serie, poiché tanto la vita di ogni giorno prosegue senza scosse e ognuno può continuare a vivere anche il giorno dopo, nell’agio o anche nel disagio, la vita che ha vissuto fino a quel momento, dove tutto si tiene in un generico e “liquido” equilibrio dove è facile ignorare, se si vuole, i dolori, i disagi, i drammi privati e pubblici che attraversano la società ed il genere umano in ogni parte del mondo.
Insomma abbiamo vissuto (mi limito all’Italia) in una condizione di assoluta superficialità mentale, solleticando il proprio IO con l’ausilio di tutti gli strumenti che il progresso tecnologico ha messo a disposizione di tutti, indipendentemente dalle capacità di comprensione critica delle quali ciascun cittadino fosse dotato, per età e per condizione socio-economico-culturale. Si è venuto a creare quella che ho più volte definito una situazione di individualismo egoistico di massa.
Il Coronavirus ha cambiato la scena, con una progressione impressionante. L’Europa ha mostrato tutti i suoi limiti e la sua soggezione ai poteri finanziari: dalla affermazione della Lagarde alla divisione su quali misure adottare per far fronte alla crisi produttiva dei paesi colpiti. Crisi produttiva che significa crisi del lavoro, delle fabbriche, dei sistemi professionali collaterali, delle attività artigianali poste in essere da persone singole o con i familiari, degli apparati amministrativi incapaci, per cattiva abitudine e formazione, a fronteggiare situazioni emergenziali, e così via. D’altra parte, la non ricostruzione dopo i terremoti l’aveva fatto ben vedere, ma i più potevano ignorarlo, perché lì il male non era contagioso. Il Coronavirus, invece, è contagioso e non riusciamo ad ignorarlo. C’è poi la non qualità né autorevolezza pubblica della classe politica, che abituata alla campagna elettorale permanente, costruita solo per andare al governo, non ha sviluppato alcuna capacità di governo, a cominciare dal reclutamento delle persone, e abituando il cittadino destinatario a confondere la politica con il diventare semplice “seguace” dell’uno o dell’altro personaggio, mediaticamente più esposto e attraente. Classe politica che ora si trova a fronteggiare a livello interno (ma, ovviamente, non solo) una situazione che non si può far passare sotto silenzio. Allora, la risposta che appare più semplice, anche perché è l’unica che sembra potersi dare, sia per l’obiettiva e inedita difficoltà delle situazioni alle quali questa generazione di decisori non è formata, sia per la ingovernabilità dei comportamenti delle persone, in quanto collettività “liquida”, consiste nel pomparne la pericolosità al massimo grado, in modo da terrorizzare i governati. Ciò consente, infatti, di adottare, secondo il modello della semplificazione, provvedimenti puramente interdittivi e restrittivi, che colpiscono la libertà delle persone senza tentare, invece, di indurle a ragionare, e che mettono a terra l’economia di un paese. Il tutto, senza mostrare di avere la dovuta attenzione a come il protrarsi del “tempo”, oltre l’immediato, inciderà sulla tenuta psicologica dell’ambiente umano cui quei provvedimenti si dirigono.
E’ una operazione che tocca due profili. Quello interno della tenuta dello Stato costituzionale di diritto, poiché per l’urgenza si opera con provvedimenti di discutibile configurazione giuridica; inoltre si registra, almeno in Italia, una foga decisoria che porta a trascurare le competenze costituzionali delle varie istituzioni: Sindaci, Governatori, Governo ognuno va per conto suo su oggetti che colpiscono beni della persona costituzionalmente garantiti. Faccio un esempio: può un Sindaco emanare una ordinanza con la quale si ricorre ai droni per controllare lo spostamento delle persone; qui non in questione la privacy, ma il diritto costituzionale di libertà, sul quale solo un atto con i crismi della costituzionalità può incidere. Ma non sembra che i media sottolineino questa stortura del sistema; anzi la declassano ad una violazione della privacy, che in una simile drammatica situazione si può tollerare e che, in fondo, non è dissimile dalla “normale” interferenza nella vita privata cui ci hanno abituati i dispositivi di localizzazione dei cellulari.
Insomma, la drammaticità del contagio sta mettendo a nudo la debolezza e la incompetenza più o meno consapevole delle istituzioni, l’arroganza di potere propria degli occupanti e, infine, l’assoluta ingovernabilità delle persone che non conoscono più il vivere insieme. Soprattutto ciò che è emerge è la disabitudine ad un qualcosa che dovrebbe essere assolutamente evidente: e cioè che ognuno di noi è un IO e allo stesso tempo un TU. Infatti ogni IO è un TU per l’IO dell’altro. Quindi occuparsi del TU da parte di ciascuno di noi in quanto IO, dovrebbe essere una questione di “vantaggio interessato” prima ancora che di solidarietà etica. I soli che stanno dando prova di vera dedizione sociale sono colo che sono più esposti al pericolo: i sanitari; a questi occorre aggiungere quelle istituzioni sociali, del cosiddetto “terzo settore”, che hanno sempre colmato i vuoti della amministrazione pubblica.
La situazione che ho rapidamente descritto, dove la dimensione sociale, fatte le eccezioni che ho sopra ricordato, mostra la superficialità in cui siamo vissuti negli anni che abbiamo alle spalle e la governabilità si traduce in un potere esercitato in modo contraddittorio con quello che dovrebbe essere il costume sociale di un paese democratico-liberale, determina un evaporare della politica e della sua capacità progettuale, unitamente ad una subordinazione degli Stati alla finanza. C’è, allora, da chiedersi: cui prodest?
Se guardiamo alla globalizzazione tecnologico-finanziaria, il cui prodest riguarda quest’ultima. La finanza è strutturalmente contro-interessata alla politica, nel concetto che le è proprio; il fine assoluto della finanza è, infatti, il guadagno speculativo, che per natura è privo di scrupoli sociali e la cui realizzazione si materializza nella immediatezza (la scommessa). Il potere tecnologico-finanziario ha bisogno, per affermarsi, di strutture di governo politico nazionali o sovranazionale deboli e sufficientemente autoritarie (basti vedere la deriva autoritaria in importanti paesi), compatibili soprattutto con la funzione di guida delle tecnocrazie.
Questo mi sembra lo scenario, la cui drammaticità è fuori discussione. La via di uscita, se la si può immaginare, consiste nella acquisizione della “lezione “ che la storia ha impartito alla cosiddetta “società liquida”, affinché ciascuno di noi raggiunga una maturità comportamentale che si attui attraverso la consapevolezza che solo il saper “stare insieme”, la capacità del dialogare e del guardarsi negli occhi può raggiungere, contro ogni apparenza immediata di gratificazione individualistica. Occorre tornare a “ragionare”, emancipandosi dalla abitudine a seguire in modo acritico quel mondo di rumori verbali che il mondo dei media, nel loro insieme, diffonde ad un ritmo frenetico e incontrollato.