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LA NECESSITÀ DELLA PARTECIP-AZIONE
Si devono affrontare le sfide del proprio tempo come una novità radicale (e non mi riferisco certo al loro contenuto, assai spesso simile, bensì al problema che pongono hic et nunc) poiché altrimenti non sarà mai possibile giungere ad alcuna proposta in grado di soddisfare le necessità di volta in volta avvertite. È dunque l’atteggiamento e il pensiero vivo, euforico, volenteroso, che deve rinascere, e certo non si potrà accusare questo tentativo di esser stato vuoto. Semmai troppo “pieno”.
Luciano Floridi, “Pensare l’infosfera. La filosofia come design concettuale” (Raffaello Cortina, 2020)
di Carlo Crosato
(Università di Venezia)
L’interrogazione intorno a cosa sia la filosofia ricorre frequente in molti pensatori: ci si interroga su cosa significhi praticarla, sulla natura troppo accademica di alcune questioni, sull’opposto eccessivo annacquamento divulgativo, sulla funzione degli intellettuali, a volte chiacchieroni altre volte muti, spesso rinserrati nella loro Torre d’avorio. L’innovazione delle riflessioni di Luciano Floridi intorno alla “quarta rivoluzione” e all’“infosfera”, però, attribuiscono alla sua interrogazione sulla natura della filosofia grande potenziale provocatorio e rara unicità.
Il libro Pensare l’infosfera. La filosofia come design concettuale è la traduzione di parte di un’opera più voluminosa, pubblicata in inglese nel 2019 e pensata come il terzo volume di una tetralogia sui fondamenti della filosofia dell’informazione. La sua pubblicazione in Italia segue la traduzione, sempre a cura di Raffaello Cortina, del volume La quarta rivoluzione, in cui si propone lo studio dell’impatto delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione sul nostro mondo.
Copernico ha tolto la Terra dal centro dell’universo; Darwin ha rivelato le umili origini dell’homo sapiens privandolo della sua posizione privilegiata nel mondo dei viventi; Freud e, più di recente, le neuroscienze hanno messo in crisi la presunta sovranità del soggetto sulla propria vita interiore. Oggi le tecnologie dell’informazione e della comunicazione hanno investito in poco tempo ogni dimensione della nostra vita, dalla quotidianità alle istituzioni, su scala microscopica o su scala macroscopica, colmando ogni possibile anfratto in maniera così efficiente che ormai ci siamo abituati a considerarle come i normali strumenti di interazione con il mondo e con gli altri; ma proprio questa abitudine e la funzionalità con mediano il nostro mondo relazionale ci rende tali tecnologie difficilmente apprezzabili nella loro essenza di vere e proprie forze ambientali, antropologiche, sociali e interpretative. Esse rappresentano un fattore di mutamento nelle prerogative dell’uomo sulle realtà naturali e artificiali che lo circondano, impossibile da slegare dagli effetti inerenti il rapporto dell’uomo con se stesso, con la comprensione che ha di sé e della propria storia. Uno snodo rivoluzionario, che conforma la relazioni umane su un registro non più – o non solo – politico o economico, ma anche e prima di tutto informazionale e comunicativo; e questo orizzonte necessita di una filosofia all’altezza per poter essere compreso e abitato, se non si vuole piombare in una inversione di ruolo fra servo e padrone in senso hegeliano.
«Non siamo enti isolati e unici, quanto piuttosto degli organismi, il cui sostrato è informazionale (inforgs), reciprocamente connessi e parte di un ambiente costituito da informazioni (infosfera), che condividiamo con agenti naturali o artificiali simili a noi sotto più profili». La quarta rivoluzione sulla cui soglia ci troviamo contribuisce a sua volta a togliere all’uomo la presunta centralità che un ingenuo umanismo gli vorrebbe spacciare; ma questa perdita di unicità e di centralità è, insieme, un impoverimento e un arricchimento, costringendoci a adottare una prospettiva consapevole, attiva, sollecita nella relazione con l’altro. Ci troviamo in un momento di fondamentale mutamento storico, afferma Floridi, e la filosofia deve sincronizzarsi con gli eventi e forgiare gli strumenti semantici adeguati per descriverli con consapevolezza. Pensare l’infosfera, prendendo molto sul serio questi elementi trasformativi, ambisce a ridestare l’attività filosofica, i suoi strumenti e i suoi obiettivi, gettando le basi per un rinnovamento intellettuale dell’etica, dell’estetica, dell’epistemologia.
La filosofia, paragonata a un computer piantato, secondo l’autore va riavviata e rimessa al lavoro su simili questioni, se si vuole che essa conservi un senso e un ruolo. E un senso e un ruolo irriducibili la filosofia ce li ha da sempre, con la sua capacità di relazionarsi con l’attuale in maniera problematica, o, come dice Floridi, ponendo domande aperte, impossibili da affrontare in chiave empirica o logico-matematica. La filosofia si è sempre proposta e dovrà continuare a proporsi come una postura problematica: anche a seguito di osservazioni o calcoli, anche dopo che ogni formulazione sarà stata ben strutturata, e dopo che ogni tema e concetto saranno stati chiariti, gli interlocutori che praticano la filosofia dovranno accettare la possibilità di ritrovarsi in una condizione di perdurante disaccordo. Non un ottuso muro contro muro, bensì un disaccordo informato, razionale e onesto, ma potenzialmente non ricucibile, se non in quel dato minimale consistente nella necessità di continuare a sostare in quell’apertura discorde. E tuttavia, perché il domandare filosofico non si riduca a un barocchismo fra filosofi, pur concentrandosi su questioni fondamentali esso non potrà pretendere di abbracciare il reale in senso assoluto: il debito che, secondo Floridi, la filosofia contemporanea e del futuro dovrà riconoscere a Alan Turing deriva soprattutto dall’aver compreso l’urgenza di attribuire legittimità al disaccordo – altrimenti derivante dall’incomprensione reciproca e fonte di confusione – attraverso l’identificazione e il chiarimento di livelli di astrazione, capaci di offrire il corretto punto di vista a partire dal quale affrontare la domanda e attendersi risposte ragionevoli e produttive.
L’idea di Floridi è che, assunti questi presupposti tutt’altro che semplicemente metodologici, la filosofia possa ripensarsi come un’impresa costruttiva, coordinata al presente in cui viene praticata grazie all’inquadramento delle proprie domande entro livelli astrattivi concordati. Non si tratta semplicemente di un appello ai filosofi a una maggiore responsabilità nei confronti della loro contemporaneità; passando attraverso lo stesso contesto informazionale e tecnologico che è chiamata a indagare, la filosofia riscopre se stessa come una pratica relazionale e come studio della relazione, in cui metodo formale e oggetto indagato coincidono in un curioso isomorfismo.
La rivoluzione dell’infosfera è un’occasione: essa contribuisce al decentramento dell’uomo e dell’ego, collocandoci costantemente in una periferia da cui poter meglio osservare la galassia relazionale che ci coinvolge; ma il digitale è, secondo Floridi, anche un’occasione per superare alcune narrazioni politiche legate a ideologie o vecchie strutture sovranitarie, per individuare strumenti economici ed ecologici adeguati; il digitale aiuta l’analogico non rimpiazzandolo, ma permettendo di ottimizzare le risorse; perfino in campo etico, l’allargamento degli strumenti dovuto al digitale permette di concentrare l’attenzione sul destinatario, adeguando a esso l’azione, la cura, la parola. D’altra parte, la rivoluzione dell’infosfera implica anche una sfida, consistente nell’abbandono di ogni velleità metafisica assolutistica, nell’assunzione delle più promettenti novità metodologiche e tecniche proposte dal digitale, e nella definizione di soluzioni efficaci nella complessità che solo l’apertura tipica della filosofia sa affrontare.
“Costruttivismo” e “design concettuale” sono le parole che Floridi usa per descrivere questo rapporto, al contempo di avvicinamento e di gestione, tra la filosofia a venire e le tecnologie informazionali e comunicative. Per agganciare questa novità, Floridi propone di tornare al punto in cui, con Platone e la sua separazione del sapere e della tecnica, il pensiero occidentale ha preso a interpretare la propria conoscenza del mondo privilegiando il punto di vista dell’utente, di chi usa l’oggetto, di chi lo scopre e ne disvela la verità intrinseca, relegando in secondo piano la conoscenza di chi quell’oggetto, quella verità, quel concetto ha forgiato. Invertendo la tendenza, Floridi pone l’accento sul valore irriducibile del sapere come costruzione, e non come mera fruizione mimetica: la conoscenza, lungi dall’essere adeguamento del soggetto all’oggetto, va ripensata come vera e propria tecnica della formulazione di domande e della ricerca di risposte efficaci. Qui sta la pretesa, secondo Floridi assente in gran parte della filosofia da Platone in poi, di vivere attivamente la filosofia, come una vera ingegneria concettuale, che monta e smonta i problemi, sempre con l’urgenza di collocarsi dentro un contesto reale.
Ciò che sembra legittimo chiedersi è se una filosofia come quella suggerita da Floridi, così presa dalla propria operatività, dall’efficacia e dall’utilità delle risposte che è chiamata a dare, sia in grado di dar conto di se stessa e del contesto in cui opera. L’isomorfismo tra l’ambiente informativo e la prassi filosofica che Floridi consiglia è senza dubbio il motivo per cui si può ben sperare che la filosofia dell’informazione saprà aderire all’impresa digitale e consigliare il migliore uso degli strumenti in vista dei fini da raggiungere; ma tale isomorfismo rischia di trasformarsi nell’incapacità di mantenere aperte domande non immediatamente rilevanti, e di trascendere in maniera davvero filosofica il “tutto pieno” che la quarta rivoluzione edifica attorno a noi. Il rischio è quello di trasformare la filosofia in consulenza tecnico-ingegneristica, in predisposizione di mezzi in vista di fini la cui elezione e i cui significati rimangono difficili da problematizzare. Insomma, se il metodo filosofico, più che trascendere, è in funzione di una saggia transizione avviata già altrove, se l’armamentario che la filosofia utilizza è mutuato dall’oggetto che essa è chiamata a pensare, se lo stesso lessico – design, capitale semantico coerente, efficienza, prestazione – è affratellato alle dinamiche contemporanee, il pericolo che la filosofia divenga conferma di un esistente appena ritoccato rimane un problema che la filosofia di Floridi dovrà dimostrare di saper affrontare.
In un passaggio del suo libro, sostenendo la sua prospettiva del costruttore, Floridi parafrasa Austin, sostenendo che “facciamo cose con le informazioni”; e proprio perché sappiamo come fare possiamo ambire a sapere che. A proposito, tornano alla mente i lavori di Michel Foucault sulla parrhesia, la prassi cinica del parlare francamente, come attività di vera critica filosofica e rottura con il presente: Foucault presenta la parrhesia come un’attitudine speculare all’atto discorsivo di matrice austiniana, essendo quest’ultimo conservazione delle funzioni che a ciascuno vengono imposte nelle varie situazioni, laddove il cinico sa tagliare il presente in maniera obliqua trascendendo le condizioni fattuali e materiali, e sa perturbare tali condizioni irrompendovi con un atto di incoerenza, mostrando così la contingenza degli armamentari semantici in uso e la fragilità delle condizioni pragmatiche in funzione. Fra le molte trattazioni su che cosa sia la filosofia di cui si è detto all’inizio, si può scegliere di rileggere quella di Deleuze e Guattari, in cui, proprio in relazione a Foucault, viene proposta la distinzione tra presente e attuale: «L’attuale non è ciò che noi siamo, ma piuttosto ciò che diventiamo, ciò che stiamo divenendo, ossia l’Altro, il nostro divenir-altro. Il presente, al contrario, è ciò che siamo e proprio per questo, ciò che già non siamo più». La filosofia di Floridi, così avvertita di quanto le avviene attorno, sa calarsi nel presente e ancorarsi nel reale, immedesimarsi con essi e, appunto in termini immanenti, riordinarne gli elementi. Saprà essa rivelarsi anche “attuale”, e perciò intempestiva non solo rispetto alla vecchia filosofia ma anche alle nuove dinamiche tecniche? La filosofia non serve perché non è serva: saprà la filosofia dell’informazione contraddire il presente e aprire spazi di possibilità e critica, o si rivelerà uno strumento troppo immanente alle dinamiche presenti per poterle riconsiderare dalla giusta distanza?
Voler vivere nella dignità
di Fathi Triki
traduzione a cura di A. Coratti
Voler vivere diventa, nello stato attuale, un obiettivo primario per l’individuo la cui fragilità aumenta con lo sviluppo straordinario della tecnologia. Egli rischia, in qualunque momento, di finire emarginato a causa della disoccupazione, a causa dei più diversi inconvenienti, dell’isolamento, di ogni tipo di malattia, dell’inquinamento, delle sostanze nocive o della violenza sociale che aumenta senza tregua e, ai giorni nostri, a causa del terrorismo che si normalizza sempre di più e tocca tutti i paesi del mondo. Effettivamente, nelle nostre società, come ha scritto il sociologo tedesco Ulrich Beck, “la produzione sociale di ricchezze è correlata sistematicamente alla produzione sociale di rischi[1]”. Tali rischi, che si aggravano sempre di più, non derivano solamente da cause esterne come le catastrofi naturali, ma soprattutto dalla società stessa e dalle inattese conseguenze, spesso negative, dello sviluppo delle scienze e delle tecnologie, generando angoscia, paura e mettendo in pericolo non soltanto l’individuo nella sua libertà e nella sua esistenza singola, ma la società stessa. E’, senza dubbio, possibile parlare di disuguaglianza del rischio, poiché il sistema economico e politico nelle società iper-capitaliste protegge maggiormente le classi agiate e le classi dirigenti. Attualmente, nella logica di ciò che chiamiamo “risorsa umana”, si può anche parlare dell’uomo “usa e getta”, al quale proporre, per esempio, un contratto di lavoro a tempo determinato, per poi abbandonarlo, in un secondo momento, alla propria miseria.
Dunque, in questa nuova configurazione della società, non resta nient’altro che la vita, al punto che il “sistema dell’assicurazione”, a tutti i livelli della vita individuale e sociale, cresce continuamente e diventa, talvolta, padrone nel sistema finanziario stesso.
Voler vivere è, quindi, un’espressione rivoluzionaria poiché richiama alla lotta quotidiana per un ambiente sano, una vita sociale piena di uguaglianza, una società senza paura e senza rischi. Abou el Kacem Chebbi, poeta tunisino della libertà e dell’amore ha espresso, in tutt’altro contesto, questa volontà di vivere: “Lorsqu’un jour le peuple veut vivre, force est pour le destin de répondre,
force est pour les ténèbres de se dissiper, force est pour les chaînes de se briser[2]”.
Dalla rivoluzione tunisina del 17 dicembre 2010, questo celebre verso è diventato la parola d’ordine di protesta in parecchi paesi nel mondo. «Il popolo vuole» non esprime soltanto un atteggiamento per imporsi e un modo di dimostrare la propria capacità di resistere o la propria forza di partecipare al governo del paese e della società. Esso esprime anche una forma di restance, per utilizzare un termine caro a Derrida, in una vita minacciata da una politica mondiale fondata essenzialmente sulla morte. Effettivamente, restare in vita, restare coscienti, restare svegli e mobilitati è un mezzo per il popolo, come per l’individuo, di lottare contro lo sfinimento, le minacce e la morte. Voler vivere è, alla fine, un mezzo per lottare contro l’isolamento dell’individuo contemporaneo che, pur essendo presente all’interno delle formazioni sociali che costituiscono il suo mondo, si trova di fronte a un solipsismo inquietante. Facendo zapping davanti alla propria televisione, parlando davanti al proprio smartphone o, persino, leggendo il proprio giornale, l’uomo delle nuove tecnologie della comunicazione si sottrae alla presenza della parte umana e si chiude sempre di più dentro una sorta di cyber solipsismo dominante. Se si aggiunge a ciò, la straordinaria macchina mediatica che, attraverso le informazioni, i film, i giochi mirati ecc., aumenta quotidianamente i sentimenti d’isolamento, di paura e di angoscia, questo esilio diventerà, ineludibilmente, una prigione “sur le chemin sans gloire de la peur et de l’angoisse”. Non sto sostenendo, qui, la tesi retrograda di un voler vivere senza tecnologia e senza le acquisizioni di culture scientifiche e tecniche. Io penso semplicemente che bisogna rimettere in discussione il modo di usare questo patrimonio e sviluppare una visione umana della ragione e della tecnica. Ciò si farà attraverso l’esigenza del “ragionevole”, che sposa armoniosamente la ragione e l’affetto, l’argomentazione e l’immaginazione, la scienza e la creazione artistica e attraverso la necessità del vivere-insieme nella dignità, come via di accesso all’umano e all’universale.
La nozione del vivere-insieme è, ai nostri giorni, svalutata. È stata recuperata da ideologi e politici per difendere una certa armonia che essi vedono necessaria nella loro società. Essa può anche essere una trappola, poiché potrebbe veicolare un’immagine irreale e paradisiaca della società cancellando i conflitti, le lotte, le esclusioni e le violenze che accompagnano generalmente ogni raggruppamento sociale. Quando ho formulato una possibile filosofia del vivere-insieme nel febbraio 1998[3], durante il discorso inaugurale della Cattedra Unesco di Filosofia per il mondo arabo, mi sono ispirato a Hannah Arendt, alle sue riflessioni sul “pubblico” e “l’agire umano”. Il pubblico, per lei, designa “il mondo stesso in quanto comune a tutti e si distingue radicalmente dal posto che occupiamo in quanto individui»[4]. Questo mondo comune è legato all’agire umano, “agli oggetti fabbricati dalle mani degli uomini, alle relazioni che esistono fra gli abitanti di questo mondo”. Poi aggiunge, “vivere insieme nel mondo: vuol dire essenzialmente che un mondo di oggetti regge solamente tra coloro che li hanno in comune, come un tavolo è situato tra coloro che si siedono intorno ad esso; il mondo unisce e separa gli uomini nelle stesso momento[5]”. Il vivere-insieme, questo mondo comune, quindi, ci riunisce e ci divide contemporaneamente. “Una strana situazione che evoca una seduta spiritica nel corso della quale gli adepti, vittime di un trucco di magia, vedranno il loro tavolo sparire improvvisamente, le persone sedute una davanti all’altra non sono più separate, ma neanche legate, perché si tratta di qualcosa di concreto[6]”. Ciò significa, effettivamente, che l’uomo è sempre più solo nella società. Il vivere-insieme ha pertanto bisogno di essere pensato e spiegato affinché acquisisca un senso nella nostra attualità. Aristotele ha ben dimostrato che il vivere-insieme è una necessità biologica. Questo vuol dire che ogni animale, solo che sia, è obbligato nella vita e dalla vita a costruire una relazione con il mondo.
Ecco perché, la filosofia, a partire da Aristotele, cerca di spiegare il fine e l’obiettivo di ogni vivere insieme. Hannah Arendt, per esempio, lo vede nell’ “agire in comune”; Etienne Tassin[7] segue le tracce di Arendt e dimostra che la filosofia ha fallito nella sua elaborazione del vivere-insieme poiché non ha saputo superare il rapporto dominante-dominato nella società umana. È dunque necessario un ideale che dia un senso al vivere-insieme. Etienne Tassin lo trova nella figura della promessa che “è un atto di raccolta dal quale emerge una potenza, finalizzata non a dominare ma ad agire insieme[8]”.
In un libro pubblicato nel 1998 dall’Unesco[9] ho difeso il principio di dignità che deve regolare tutto il vivere-insieme e inscriverlo nell’ordine dell’ospitalità. La filosofia del vivere insieme nella dignità[10] ha aperto un interessante campo teorico che riprende alcuni concetti operativi come quelli di “umanità”, “giustizia”, “violenza”, “diritti”, per poi studiarli alla luce di questa nuova filosofia. La sfida, per noi, è difendere nella nostra cultura l’emergere dell’individuo libero contro l’unilateralità della comunità, senza che questo individuo sprofondi nella solitudine e nella dissociazione[11]. Difendere la libertà, il diritto alla differenza, l’alterità, significa, in fin dei conti, lottare affinché la dignità della persona sia il principio fondamentale per ogni vivere-insieme.
Quando il presidente della Repubblica tunisina, la domenica del 13 agosto 2017, ha aperto un fondamentale dibattito, proponendo di introdurre l’uguaglianza nelle successioni tra uomini e donne e l’annullamento della circolare del 1973 che proibisce alle donne tunisine di sposare non-Musulmani, egli non ha fatto altro che mettere in pratica lo spirito stesso della costituzione tunisina redatta dopo la rivoluzione, nel 2011, che sancisce che “i cittadini e le cittadine sono uguali nei diritti e nei doveri”. Faccio rapidamente un esempio della circolare del 1973 che proibisce alle donne tunisine di sposare non-Musulmani. Ecco il versetto coranico a cui fanno riferimento gli Ulema[12] per confermare questo divieto: “Non sposate le donne idolatre finché non avranno acquisito fede. Una schiava credente è preferibile ad un’idolatra libera, anche se ha il vantaggio di piacerti. Non fate sposare le vostre figlie con gli idolatri finché non avranno acquisito la fede. Una schiava credente è preferibile a una idolatra libera, anche se questa dovesse piacerti. Non date in spose le vostre figlie agli idolatri fino a che essi non abbiano acquisito la fede. Uno schiavo credente è meglio di un ateo libero, anche se quest’ultimo ha il vantaggio di piacervi perché gli atei vi indirizzano all’Inferno, mentre Dio, attraverso la sua grazia, vi invita al Paradiso e all’assoluzione dei vostri peccati. Dio spiega chiaramente i suoi versetti agli uomini, per portarli a riflettere (Al Baqara, 221). L’ipocrisia e la fallocrazia di questi Ulema hanno fatto in modo che l’interdizione si applichi solamente alle donne, nonostante il fatto che questo versetto riguardi chiaramente sia gli uomini che le donne. In più “le donne idolatre” e gli uomini idolatri non sono né gli ebrei, né i cristiani. Dunque, bisogna avere il coraggio di iniziare un dibattito ed anche una lotta per istituire definitivamente, in ogni caso, in Tunisia, la libertà e l’uguaglianza tra uomo e donna. L’identità è sempre stata evocata come argomento contro ogni mutazione sociale. Noi siamo musulmani e dunque tutto deve farsi nell’ordine dogmatico di questa religione. In questo senso, questa può essere pericolosa e mortale. Sappiamo, per esempio, che attualmente c’è una deterritorializzazione dell’islam politico. Essa ha avuto, come conseguenza, una nuova configurazione dell’identità dell’individuo. La base sulla quale si edifica questa identità è semplicemente l’Islam, proprio come viene vissuto ed applicato. Poco importa il luogo di nascita o di residenza, poco importa il paese dove i genitori e gli antenati hanno vissuto, noi siamo definiti dall’islamità e da tutta la simbologia che veicola questa appartenenza. Il principio dello Stato-Nazione è stato introdotto dalla colonizzazione e impiantato dai razionalisti progressisti in alcuni paesi islamici ma, una volta ottenuta l’indipendenza, l’appartenenza nazionale ha avuto problemi ad imporsi come criterio d’identità. Il Panarabismo, peraltro introdotto all’inizio da intellettuali arabi di religione cristiana, non ha potuto superare l’appartenenza all’Islam per ricostruire una nuova identità fondata sulle radici arabe. La facilità con la quale avviene il coordinamento nelle azioni dei gruppi islamici politici terroristici ovunque nel mondo, dalle Filippine agli Stati Uniti, passando per la Cecenia e la Nigeria, si spiega in parte con questa identificazione islamica senza confini, che si diffonde per tutta la territorializzazione politica.
La filosofia del vivere-insieme è in fin dei conti un’incursione nella strategia delle nostre abitudini, un incitamento a riflettere liberamente sui problemi della nostra cultura, della nostra società, sui problemi della donna, della libertà, della civiltà, della sessualità, delle minoranze, dei diritti, problemi che costituiscono “il nostro presente, che siamo noi stessi”, per adoperare una formula cara a Michel Foucault.
Che cosa ne è stato di questo vivere-insieme nella rivoluzione tunisina? Ci sono, nello svolgimento della storia, degli avvenimenti che gli storici chiamano “eventi fondatori”. I filosofi sottomettono questi eventi fondatori alla riflessione per decidere ciò che deve essere considerato come punto di partenza di una possibile profonda trasformazione dei modi di essere, seguendo l’esempio di Poulain, Badiou o Rancière. Si può, per esempio, considerare l’abbattimento del muro di Berlino come l’evento che ha permesso la fioritura della libertà, un po’ in tutto il mondo. Il trattato dell’Eliseo firmato nel 1963 tra la Germania e la Francia è, allo stesso modo, un evento fondamentale che ha reso possibile l’unità europea, garantendo una vicinanza sostenibile e duratura. La rivoluzione tunisina[13] può essere considerata, in larga misura, come un “evento fondatore” di cui un’attenta e minuziosa ricostruzione filosofica può mostrare che, attualmente, essa sta per sconvolgere la geopolitica del mondo. Le varie guerre che imperversano nelle regioni del mondo arabo e le diverse manifestazioni di violenza sociale e politica, ivi compreso il terrorismo[14], sono più o meno il risultato diretto o indiretto di questo evento fondatore. Yadh Ben Achour scrive nel suo eccellente libro Tunisie, une révolution en pays d’islam: “questa rivoluzione nel futuro sarà oggetto di profonde e numerose analisi e ricercatori verranno a scavare i solchi della storia per chiarire ancora meglio i dettagli della Rivoluzione tunisina[15]”. Innumerevoli ricerche e numerose pubblicazioni in arabo, in francese ed in inglese hanno già provato a riflettere sulla natura di questa rivoluzione, sul suo andamento e sugli impatti sulla situazione geopolitica del mondo arabo e islamico. Non sono d’accordo con quegli analisti che si sforzano di dimostrare che la rivoluzione tunisina, alla fine, non è che un “colpo di Stato”, una sorta di “complotto” voluto ed eseguito dagli imperialisti e dai loro alleati per destrutturare il mondo arabo. Senza disprezzare questa tesi, penso che alcuni servizi stranieri[16], e media occidentali ed arabi come Al Jazeera abbiano provato a deviare questa rivoluzione dal suo obiettivo ed abbiano preparato le condizioni per il suo insuccesso. Ciò non nega per niente i fatti storici accertati che danno alle differenti rivolte popolari che ha conosciuto la Tunisia dal 2008 un carattere rivoluzionario. Effettivamente, la rivoluzione tunisina è cominciata nel 2008 con lo sciopero dei minatori della regione di Gafsa[17]. Questo movimento è continuato malgrado l’atroce repressione da parte delle autorità, mettendo in atto, per mesi, diverse forme di resistenza. Esso ha contribuito a mobilitare una larga fetta della popolazione locale, provocando morti, centinaia di arresti, atti di tortura e imprigionamento che ha toccato il mondo associativo o sindacale così come quello dei giornalisti. Nata come rivoluzione operaia, ha ben presto coinvolto i laureati disoccupati della regione, poi tutti i disoccupati ed i giovani, quindi tutto il sud e le regioni occidentali che insorsero in seguito al suicidio di Bouazizi il 17 dicembre 2010. Quando la borghesia nazionale si è unita al movimento (presso Sfax e Tunisi) per denunciare l’ingerenza sull’economia e la politica del paese da parte della borghesia acquirente, affarista e mafiosa legata alla famiglia del presidente Ben Ali, la rivoluzione è diventata totale perché ha potuto inglobare tutte le classi sociali in Tunisia ed in tutte le regioni. La manifestazione del 14 Gennaio 2011 lungo il viale Bourguiba ha simboleggiato questa totalità in movimento. Ciò che è successo tra il 2008 e il 2011 è una rivoluzione popolare che doveva scuotere il regime in nome di una vita più giusta per tutte le categorie della popolazione. Questo, secondo me, è il significato più forte della parola Karama, dignità dichiarata e pretesa dai rivoluzionari. La rivoluzione tunisina è e deve essere considerata come un evento fondatore. Oggi, questa rivoluzione non sta solamente sconvolgendo la geopolitica mondiale, ma genera anche un nuovo modo di pensare l’essere-al-mondo.
Il movimento degli indignati, nato a Madrid nel maggio 2011, ovvero 4 mesi dopo lo scoppio della rivoluzione tunisina la cui parola d’ordine è dignità, è un esempio edificante dell’effetto della rivoluzione tunisina in Europa, del rinnovamento dell’azione politica cittadina e del modo di pensare filosofico e sociale.
La letteratura emersa a partire da questo movimento mostra il suo effettivo legame con la rivoluzione tunisina e con la “primavera araba” in quanto preconizza una rivoluzione culturale e intellettuale della sinistra, soprattutto europea. Un altro esempio viene dalla Francia; è il movimento Nuit debout[18]. È stato spesso affermato, durante le manifestazioni del movimento Nuit debout, che questa forma di azione politica di riunione e occupazione di luoghi pubblici non ha precedenti. È diventata, col tempo, una forma riconosciuta, ora usata come lo sciopero, la manifestazione, il sit-in, la rivolta. È anche una forma attuale e contemporanea di azione politica, esclusi i partiti, esclusi i sindacati, senza un leader, senza un programma. In realtà, è la rivoluzione tunisina che ha inaugurato questo nuovo modo di combattere al di fuori di qualsiasi forma di istituzione, senza una guida, senza un leader e senza partito politico.
Il movimento Nuit debout non si è potuto trasformare in rivoluzione, ma ha scosso l’ambiente politico in Francia e nel mondo. Ha provocato soprattutto un nuovo stile del vivere-insieme, all’insegna dell’amicizia nella lotta per la dignità.
Infine un terzo esempio: la campagna elettorale presidenziale del 2017 in Francia ha dato luogo ad un movimento politico intorno al candidato Jean-Luc Mélonchon che fu chiamato con un neologismo, “dégagisme”, facendo riferimento alla parola «dégage» adoperato dai manifestanti all’epoca della rivoluzione tunisina, il 14 gennaio del 2011. William Audureau scrive su Le Monde del 30 gennaio 2017 che il leader della sinistra francese, Jean-Luc Mélenchon, “rivendica apertamente” la filiazione con il movimento d’insurrezione popolare tunisino del 2011. I tunisini avevano, infatti, designato con il termine “dégagisme” la loro rivoluzione democratica nei confronti di Ben Ali e con “dégage” l’esortazione per tutti ad unirsi alla rivolta. La “rivoluzione del gelsomino”, popolare e non violenta, conclusasi il 14 gennaio 2011 con la fuga del presidente della repubblica Zine el-Abidine Ben Ali, ha suscitato ammirazione da parte di molti osservatori. In Belgio, in particolare, il collettivo di estrema sinistra teorizza espressamente il “dégagisme” e nel 2011 ne descrive l’originalità in un manifesto del “dégagisme”: “Per la prima volta, … non si tratta di prendere il potere, ma di rimuovere colui che lo detiene, liberando il posto che occupa».
Alcuni colleghi mi hanno contattato per dirmi che non potrebbero mai accettare di vivere insieme agli integralisti musulmani che hanno solamente un obiettivo: obbligare tutti a vivere secondo quello che loro hanno deciso come regole di vita o come Chariaa. Naturalmente, il “vivere insieme nella dignità” non ha l’ingenuità del pacifismo a qualunque costo. Il vivere insieme può svolgersi secondo l’ordine dell’ostilità o secondo l’ordine dell’ospitalità. Nello stato attuale, è l’ordine dell’ostilità che regna. “Lo stato normale, scrive Nietzsche, è la guerra, noi sigliamo la pace solo in epoche determinate”. È, dunque, impossibile coabitare con coloro che rifiutano ogni tipo di “vivere-insieme” e considerano l’esistenza solamente sotto forma di dominio e di ubbidienza, di esclusione e di interdizione, di violenza e di guerra. La vita è lotta, sofferenza, ma anche rischio ed invenzione. Il ruolo originario della filosofia, a mio avviso, è di persuadere l’altro che la vita vale la pena di essere vissuta e che il miglior modo sia quello di essere insieme nella dignità e ciò si farà attraverso la ragione e le leggi volute ed accettate da tutti. Spinoza lo afferma evidenziando che “la ragione insegna in maniera generale a cercare la pace, ma è impossibile giungervi se le leggi comuni della città non restano inviolate”.
[1] Arlette Bouzon, « Ulrich Beck, La société du risque. Sur la voie d’une autre modernité, trad. de l’allemand par L. Bernardi », Questions de communication, Aubier 2001, p.36
[2] Traduction de Abderrazak Cheraït, Abou el Kacem Chebbi, éd. Appolonia, Tunis, 2002
[3] Discorso pubblicato in un piccolo testo, Philosopher le vivre-ensemble, Tunis, L’Or du temps, 1998.
[4] Hannah Arendt, Condition de l’homme moderne, Agora, Pocket, p. 92, (traduction de Georges Fradier)
[5] Hannah Arendt, Condition de l’homme moderne, op. cit., p.93
[6] Ibidem
[7] Etienne Tassin, Un monde commun. Pour une cosmopolitique des conflits, Paris, Seuil, 2003
[8] Etienne Tassin, Un monde commun. Pour une cosmopolitique des conflits, Paris, Seuil, 2003, p. 104
[9] Taking action for human rights in the 21st century, Paris, Unesco 1998.
[10] L’idea del “vivere-insieme nella dignità” che ho difeso per la prima volta nel 1998 presso la sede dell’Unesco, mi ha permesso di ottenere il Diploma di Merito Scientifico dell’Istituto di Promozione della Filosofia Francofona di Kinshasa . L’idea è stata in seguito ripresa da diverse università, molte ONG e molti filosofi. A titolo d’esempio, cito la celebre casa editrice svizzera Peter Lang con la collaborazione dell’Università di Brema (Germania), che ha istituito una collana filosofica intitolata “filosofare il vivere-insieme”. Il filosofo francese Vincent Cespedes ha pubblicato on line un dialogo intitolato “Il vivere-insieme nella dignità. Le università del Cairo e di Zagaziz hanno introdotto questa idea nel loro programma. Molte tesi di laurea e di dottorato nelle università algerine e tedesche trattano questa questione. Lo spazio culturale Aykar a Tunisi ha organizzato un programma internazionale negli ultimi tre anni su tale tema. Recentemente il teatro Antoine-Vitez-Ivry ha pubblicato un libro «Vivere-insieme nella dignità» che raccoglie gli atti di una conferenza del 2015
[11] Giorgio Agamben, nel suo libro La comunità che viene, parla di “singolarità qualunque” che “non possono formare una società perché non dispongono di alcuna identità che possano far valere, di alcun legame di appartenenza da far riconoscere» (p.88). Per me, l’individuo che deve emergere nella nostra società non deve essere senza identità. Questa idea nichilista di Agamben è, per me, improduttiva. Certo, ogni Stato ha bisogno di identificare l’individuo, ma ciò non è una ragione sufficiente per militare in favore delle singolarità senza appartenenza o, allo stesso modo, di questa “singolarità qualunque che vuole appropriarsi della sua appartenenza stessa, del suo proprio essere-nel-linguaggio e che rigetta ogni identità e ogni condizione di appartenenza”. L’individuo à venir non deve sprofondare definitivamente nell’ “essere-nel-linguaggio” che è, fondamentalmente, un non-essere (Platone).
[12] Teologi, generalmente sunniti, della legge coranica e garanti del rispetto e della corretta applicazione dei principi dell’Islam
[13]Per avere un’idea degli avvenimenti della rivoluzione tunisina, cf. l’eccellente di Jean-Marc Salmon, 29 jours de révolution. Histoire du soulèvement tunisien, 17 décembre 2010 – 14 janvier 2011, Paris, Les Petits matins, 2016, 350 p.,
[14] Generalmente, si definisce il terrorismo come violenza causata da individui o da gruppi non-di-Stato in lotta contro un regime politico, ma causata ugualmente da un modo di governare (terrorismo di Stato). Bisogna evidenziare che questa definizione di terrorismo solleva, giustamente, dei dibattiti poiché pone la questione della violenza legittima e del diritto alla resistenza. Bisgona sapere che certi Stati utilizzano questo termine di terrorismo per designare l’opposizione legittima e spesso clandestina quando questi regimi sono autoritari o dittatoriali
[15] Yadh Ben Achour, Tunisie, Une révolution en pays d’islam, Tunis, Cérès Editions, 2016, p.30
[16] Cf. Mezri Haddad, La face cachée de la révolution tunisienne, Islamisme et occident, une alliance à haut risque, Tunis, Ed. Arabesques 2011
[17] La rivolta del bacino minerario di Gafsa è un importante movimento operaista e sociale che ha scosso l’intera regione mineraria del sud-ovest tunisino per più di sei mesi nel 2018
[18] Nuit debout è un insieme di manifestazioni svolte nelle piazze pubbliche, soprattutto in Francia, cominciate il 31 marzo 2016 a seguito di una manifestazione contro la “legge-lavoro” in Place de la République a Parigi.
L’arresto di Biram Dah Abeid e la lotta per i diritti umani in Mauritania
di Luigi Somma
Biram Dah Abeid, leader dell’Ira (Initiative de résurgence du mouvement abolitionniste), è stato prelevato nella propria abitazione privata nel sobborgo meridionale di Nouakchott e arrestato alle prime ore dell’alba di martedì 7 Agosto 2018. Il leader e il suo movimento hanno stretto un’alleanza con il partito arabo nazionalista Sawab per partecipare alle elezioni regionali e locali che si terranno il prossimo settembre. Abeid era stato arrestato più volte in passato per il suo attivismo. Nonostante il suo passato in condizione di schiavitù, è divenuto famoso a livello internazionale per le battaglie condotte contro la schiavitù in Mauritania, fino ad essere insignito, nel 2013, del prestigioso premio per i diritti umani delle Nazioni Unite. Secondo le stime del Global Slavery index, in Mauritania, un lembo di terra nell’Africa occidentale, circa 43 mila abitanti su 4 milioni vivrebbero in una condizione di schiavitù. La stima non è, però, esatta, «poiché le persone che nascono schiave non sono registrate all’anagrafe e non hanno diritto ai documenti» ha dichiarato Ivana Dama (vicepresidente della sezione italiana del movimento abolizionista IRA). Mohamed Ould Abdel Aziz, al governo dal 2008, ha messo in atto azioni repressive contro il movimento abolizionista. Ciò non sorprende, dal momento che l’istituto della schiavitù, in Mauritania, può contare su molteplici gruppi di interesse. Essa è sostenuta dagli studiosi di diritto islamico in quanto ritenuta aderente ai precetti religiosi delle scritture. Ma alla base del consenso intorno alla schiavitù v’è anche un’importante elemento di carattere sociale: avere uno schiavo è simbolo del proprio status sociale e costituisce un vantaggio economico per chi lo possiede. Biram Dah Abeid, bruciando nella piazza pubblica della capitale Nouakchott i testi apologetici della schiavitù, aveva voluto lanciare un chiaro messaggio politico: l’Islam non prevede in alcun modo la schiavitù. Il leader attivista, come tutti gli oppositori politici del Presidente della Mauritania, subisce soprusi e violenze solo perché portatore di dissenso. Da diversi anni gli avvocati di Biram Dah Abeid, William Bourdon e Georges-Henry Beauthier, denunciano la “persecuzione giudiziaria” (o almeno percepita tale dal movimento) delle autorità della Mauritania ai danni del loro assistito. Essi sostengono che «già in passato, Il Gruppo di Lavoro sulla Detenzione Arbitraria del Consiglio dei Diritti dell’uomo ha denunciato il carattere arbitrario delle misure di privazione di libertà, chiedendo alla Mauritania di conformarsi agli obblighi internazionali in materia di rispetto dei diritti dell’uomo». Secondo gli avvocati, inoltre, il Presidente Aziz ha strumentalizzato la lotta al terrorismo per ottenere o, meglio ancora, “comprare” dalla Comunità internazionale e soprattutto dalla Francia, una forma di compiacenza che si è trasformata, oggi, in un colpevole silenzio. Tutta la società civile internazionale considera Biram Dah Abeid un cittadino d’onore dell’Africa, instancabile militante contro lo schiavismo, che continua a essere tollerato per funeste ragioni politiche dal Regime del Presidente Aziz in Mauritania. Gli avvocati si appellano all’intera Comunità internazionale in Francia, in Belgio e altrove per ottenere dalle autorità della Mauritania, senza alcuna condizione, la liberazione di Biram Dah Abeid, permettendogli di riacquisire la totale di libertà d’azione, di andare e venire liberamente e, anche, di presentarsi alle prossime elezioni. In Mauritania la repressione contro il sostegno dei diritti umani è in costante aumento e coloro i quali tentano di segnalare tali abusi vanno incontro ad arresti arbitrari e severissime punizioni. Tali pratiche discriminatorie colpiscono soprattutto la comunità Haratin e le comunità afro-mauritane. Lo sviluppo e la difesa dei diritti umani sono un fenomeno assai articolato, la cui comprensione deve necessariamente essere filtrata da categorie filosofiche, storiche e giuridiche. Per tali ragioni, occorre rievocare il seme fondativo che ha segnato la nascita del concetto dei “diritti dell’uomo e del cittadino” e le tappe evolutive che ne hanno segnato il loro successivo svolgimento. Possiamo individuare un primo momento nel processo di definizione dei diritti umani: «quando essi vengono svincolati dal riferimento normativo alla credenza nella trascendenza di un Dio e nelle sue leggi»[1]. Tutto il periodo dell’Illuminismo è attraversato da questa tensione ideale, interamente tesa alla costruzione di un “pensiero utopistico”. Lo spostamento del terreno del conflitto dallo stato di natura hobbesiano – nel conflitto tra gli uomini sancito dallo Ius naturae – allo stato civile (ius civilis), il tentativo rousseuiano di conciliare libertà e eguaglianza (in direzione dell’eguaglianza dei diritti dei cittadini) rappresentano le tappe “ideali” di un cammino compiuto in direzione di una più ampia estensione dei diritti umani. «Le leggi servono, perciò, a rendere incruento il conflitto e a regolamentarlo. È un passo avanti enorme. Ogni cittadino è libero fin là dove inizia la libertà del suo simile, e le leggi stabiliscono appunto i confini di tale libertà nel diritto comune a ciascuno». [2] A guidare tale cammino di sviluppo vi sono diritti naturali dell’uomo, che Diderot aveva posto a fondamento della sua riflessione politica, quali il diritto all’esistenza, alla libertà e alla proprietà. Tali diritti si definiscono universali nella misura in cui non sono assoggettabili alle contingenze storiche. E proprio sulla base di tali diritti, Diderot condanna senza mezzi termini la pratica della schiavitù, in quanto tale attività arreca enorme danno alla libertà dell’uomo e deve, per tale motivo, essere eliminata dal consesso dell’umanità civile. Nell’edizione del “Contributo alla storia delle due Indie” dell’Abate Guillaume-Thomas Raynal (1774), Diderot traccia il profilo di una figura odiosa, ossia del negriero intento ai propri affari, rimarcando anche il rapporto di assoluta connivenza della religione (Cattolica): «Guardate quest’armatore che, curvo sul proprio scrittoio, regola, con la penna in mano, il numero di attentati che può far commettere sulle coste della Guinea; che esamina, a suo agio, di qual numero di fucili avrà bisogno per ottenere un negro, quante catene per tenerlo garrotato sul suo naviglio, quante fruste per farlo lavorare; che calcola, a sangue freddo, quanto gli varrà ogni goccia di sangue che questo schiavo verserà nella sua abitazione; che discute se la negra darà di più o di meno alle sue terre, con i lavori delle sue deboli mani, che con i pericoli del parto. Voi fremete… Eh! Se esistesse una religione che tollerasse, che autorizzasse, non foss’altro che con il suo silenzio, simili orrori; se occupata in questioni oziose o sediziose, non tuonasse senza posa contro gli autori o gli strumenti di questa tirannia; se essa facesse addirittura un crimine, per lo schiavo, spezzare le sue catene; se soffrisse di avere in seno a sé il giudice iniquo che condanna a morte il fuggitivo: se questa religione esistesse, non bisognerebbe strozzarne i ministri sotto le rovine dei loro altari?»[3]
Giungiamo, infine, alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino e del decreto di abolizione della schiavitù senza indennizzo per i proprietari che fu stabilito dalla convenzione nazionale nel 4 Febbraio 1794 (il decreto 2262, del 16 Pluvioso, anno II), della Repubblica francese, “una e indivisibile”. A seguito di tale disposizione, tutti i “cittadini di colore” avrebbero goduto dei diritti di cittadinanza francesi e, ovviamente, di tutti i diritti della costituzione.
Non si può non menzionare il celebre “discorso sulle sussistenze”, che Maximilien Robespierre pronunciò nell’Assemblea nazionale a Parigi nel 1792, che fissava finalmente la priorità del “diritto d’esistenza” dei popoli su quello di proprietà. Tutto ciò per ribadire come l’età dell’Illuminismo abbia concretamente posto in luce, tramite la sua “Storia della ragione”, l’inequivocabile nesso tra illuminismo e rivoluzione politica dei diritti umani[4]. Alla base di una teoria dei diritti umani, come sostiene Vincenzo Ferrone, nella sua “Storia dei diritti dell’uomo: L’Illuminismo e la costruzione del linguaggio, v’è sempre il valore della dignità umana, anche qualora ciò non sia universalmente riconosciuto, e che i diritti vadano concepiti come una straordinaria idea morale a disposizione dell’umanità, affinché essi costituiscano il presupposto etico per la formazione di ordinamenti democratici e liberali.
L’associazione Filosofia in Movimento ringrazia l’avvocato Alessandro Gioia per il suo costante impegno nella difesa dei diritti umani
[1] P. Quintili, Il vero ottantanove- alle fonti dei «dei diritti dell’uomo» e della «laicità», in «Forum politico», «filosofiainmovimento.it», 31/05/2018.
[2] Ibidem
[3] Histoire des deux Indes, Genève, Pellet, 1781, vol 6, Livre XI, chap. XXIV, pp. 134-135
[4] P. Quintili, «Quale“Illuminismo”? Ragione, diritto d’esistenza e movimenti sociali», «Il rasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it», 19/12/2016.
Il fondamento etico
(Pubblicato per “Mondoperaio”)
Da un estratto del diario di Lev Tolstoj, recante la data 31 luglio 1905, si ricava la pungente considerazione secondo cui «il socialismo è un’applicazione parziale del cristianesimo, inesatta perché incompleta». La rappresentazione del progetto socialista come “scisma” o eresia nell’ampio solco della tradizione cristiana è una pista non poco battuta, ma la citazione tolstojana, specie se considerata in riferimento al tempo e al contesto che le dà origine, segnala una chiave importante, nonché attuale, per accedere alla relazione, non facile, tra filosofia e socialismo. Non esiste un’idea di cambiamento sociale che non abbia provato a esplicitare la propria – talvolta completamente implicita – struttura categoriale. L’ideologia politica non è solo il risultato di un’analisi dei rapporti sociali, generato da ponderate letture storiche ed economiche. La teoria politica che accompagna l’azione riposa su una visione dell’uomo, della natura e del senso dell’essere, più o meno emersa. L’ideale socialista, più d’ogni altra visione/azione nel teatro politico mondiale, ha cercato e cerca, in maniera tormentata, un quadro sistematico (sia esso materialistico o provvidenzialistico) in grado di irrobustire le ragioni dell’azione politica. Ma come la citazione tolstojana bene evidenzia, nella storia del socialismo il problema fondazionale, su cui tornerò in seguito, si intreccia in modo non sempre coerente con la ricerca di un orizzonte etico-sociale, ereditato in parte dalla tradizione culturale cristiana. Alcune idee fondanti del socialismo, come l’abolizione o attenuazione dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, l’emancipazione dalle sue servitù storiche e naturali, tradottasi nell’idea di trasferire su un piano antropologicamente più dignitoso le classi subalterne, stabiliscono un contatto importante con l’etica cristiana. Vi si può riconoscere il profondo valore egalitario, tradotto in una costante attenzione agli ultimi, ma integrato con un elemento evolutivo del tutto estraneo al messaggio evangelico, perché connesso direttamente alla percezione sociale dell’industrializzazione e dei suoi effetti, e una relativa storicizzazione della relazione tra le classi. Senza indugiare oltre nella comparazione, occorre sgombrare il campo dall’equivoco di una lettura pseudo-religiosa del socialismo. Non si tratta di incastonare la tradizione progressista nella struttura concettuale, simbolica e storica della religione cristiana. Dio non c’entra. L’obiettivo è invece quello di lasciar emergere il peso della dimensione assiologica nella stessa nozione di socialismo, onde valorizzarne la forza e la prospettiva di “eudemonismo sociale”.
Guardiamo all’oggi. Mentre nella discussione teorico-politica interna alla sinistra contemporanea si fanno spazio le insinuanti ambiguità della filosofia biopolitica, i movimenti sociali colgono appieno il portato di un’istanza che non è più comprensibile sul terreno dell’aspirazione scientificamente fondata a uno stato di diritto sociale, perché foriero di una potente riscossa etica condotta in nome di una maggiore giustizia, intesa in senso forte. Si osservino due fenomeni italiani e una tendenza internazionale: non è possibile occultare un dato storico, e cioè che la prima e nuova grande manifestazione delle donne, esprimente un’istanza emancipatrice dal tratto sociale ed economico insieme, si sia sollevata nell’ultimo anno e mezzo sulla spinta di un’esigenza di riconquista morale di un giusto riequilibrio delle relazioni di genere. Analogamente, i movimenti dei lavoratori di tutte le sigle sindacali, proprio in queste settimane, chiamano a raccolta i propri iscritti rivendicando non un protagonismo annunciato da una scienza della maturazione di epoche produttive e dei sistemi di governo, bensì – in prima battuta – evocando il valore dell’equità, declinato evidentemente in senso etico, perché semanticamente ancorato a richiami espliciti al “buon esempio”, alla condanna dei privilegi, al rispetto della dignità umana. Ma allargando l’orizzonte al quadro sovranazionale, la reazione popolare alla più grande crisi finanziaria del dopoguerra ricorre all’eloquente parola d’ordine dell’indignazione, senza dubbio carica di una valenza morale. La sensazione è che i movimenti progressisti e portatori di istanze emancipatrici abbiano intuito prima e meglio di marxisti e post-marxisti il legame esistente, ma necessitante di ulteriori iniezioni di forza, tra socialismo ed etica sociale. Questo legame, per la verità, è già sufficientemente stretto nella filosofia di Marx, forse anche più di quanto lo stesso autore del Capitale fosse consapevole. Nonostante gli sforzi di Marx nel sottolineare la linearità comportamentale del capitalista che paga la forza-lavoro come una qualsiasi altra merce, estraendo un surplus di valore e cioè escludendo un’implicazione moralistica nel concetto di sfruttamento, si capisce bene – e Benedetto Croce aveva evidenziato questo problema – che il processo di generazione di plusvalore è l’effettivo rovesciamento della terza formula dell’etica kantiana. L’imperativo categorico (specificatamente nella forma del divieto di considerare l’umanità come mezzo), come Hermann Cohen aveva intuito e segnalato, è la vera fondazione teorica del socialismo.
Ora, i riferimenti al cristianesimo o al kantismo possono valere solo a titolo persuasivo, onde identificare l’importanza della questione etica nella storia del socialismo, ma sono del tutto insufficienti in una delineazione possibile di quella che potremmo chiamare “gerarchia dei valori”, propria di quella tradizione politica. Per quanto stridente possa apparire l’operazione, provo a enunciare l’idea secondo cui il socialismo debba portare con sé, in modo implicito, un’etica liberale. La posizione di apertura morale che tratteggia la prospettiva liberale in particolar modo sui temi eticamente sensibili, impropriamente detta “laicità”, costituisce di fatto un’opzione assiologica, che colloca il valore della libertà individuale, e in generale il valore di “personalità” in una posizione riguardevole nella propria gerarchia. Ma si tratta di un valore che è comprensibile soltanto alla luce di un universalismo di tipo cristiano, che rompe definitivamente la lunga tradizione dello schiavismo del mondo antico, definendo l’eguale dignità di ogni singola persona. L’egualitarismo è in realtà un’idea fondativa rispetto all’ideale liberale. Il socialismo, in qualche modo, ricostruisce il nesso tra libertà personale e parità sociale. Secondo il motto di Bernstein, «non esiste idea liberale che non appartenga anche al patrimonio ideale del socialismo», che è anzi un liberalismo più radicale e coerente rispetto alla tradizione liberale borghese. Il socialismo chiede alla democrazia di essere più democratica, e auspica un liberalismo che diventi autenticamente liberale. Al di là delle singole spigolature storiche dei movimenti, dei partiti e dalle esperienze di governo di ispirazione socialista, il filo rosso dell’istanza emancipatrice sta tutto nel tendenziale riallineamento di eguaglianza politica ed economica, superando le divisioni sociali e produttive che impediscono tale processo. Il fatto che i socialisti si siano storicamente differenziati dai partiti liberali dipende dall’assimilazione assiologica di un modello politico su un piano etico. Il liberalismo costruisce storicamente la sua teoria dell’equilibrio dei poteri e delle garanzie individuali, mentre il socialismo radicalizza tali istanze trascinandole nell’orizzonte del dovere morale (per cui lo stato deve perdere più o meno gradualmente forza oppressiva e occasioni di “abuso”), e al tempo stesso disegna all’orizzonte della propria etica sociale un ideale di umanità dove ciascuno si riappropria della dignità umana. Va da sé che questo slittamento dal pragmatismo politico all’ideale etico-sociale significa, e così è stato nella storia del movimento operaio, il sacrificio della piena libertà economica individuale, considerata elemento generatore di sudditanza e sfruttamento. Pertanto, il socialismo si costituisce nell’adesione a un’etica al tempo stesso formale e sostanziale (dove cioè la dignità umana è criterio formale dell’imperativo categorico ma a anche valore di riferimento della programmazione e dell’azione), innervata – per la fondamentale eredità del marxismo – dalla critica dell’economia politica, ragion per cui, ben lo si intende, a differenza del pensiero liberale classico, il socialismo non può trovare alcuna seria compatibilità con il sistema di produzione capitalistico.
Tuttavia la relazione tra filosofia e socialismo, nella sua complessità, non si può risolvere nella sola rivisitazione della sfera assiologica, che accomuna o distingue il socialismo di ieri da quello di domani. La questione si rende intrigante quando richiede la problematizzazione vera e propria dei concetti chiave di quella prospettiva valoriale. A cominciare dall’identificazione dei protagonisti di questa storia: l’uomo e la dignità umana. Nei Manoscritti del 1844 Marx interpretava il comunismo come movimento orientato alla restituzione all’uomo di una sua “umana essenza”, concetto che vale in senso lato per il socialismo d’ogni tempo, come chiave d’interpretazione dell’istanza di emancipazione sociale. Ma per avere un umanismo occorre una teoria dell’uomo, che Marx inclinava a organizzare in senso materialista, e che tuttavia non è l’unico senso possibile. Ciò significa che alla potenza assiologica dell’etica cristiana e kantiana vengono ancorate una concezione metafisica del rapporto natura-uomo e una filosofia della storia che presentano, nell’arco di due secoli di idee socialiste, numerose varianti, tutte apparentate nella comune necessità di una definizione solida del proprio sguardo. Il che non è un male, anzi, si tratta di un’esigenza che va assecondata. La stessa questione dei valori necessiterebbe di una teoria generale dell’azione e della realizzazione più ampia e complessa, e sicuramente non riduzionista. La recente discussione tra neo-realisti e teorici del pensiero debole, in cui matura una vicendevole accusa di incompatibilità filosofica con le istanze storiche della sinistra politica, indica in qualche modo l’esigenza, nel processo di auto-comprensione identitaria dell’istanza progressista, di chiarire le proprie categorie ontologiche ed ermeneutiche. Ma ciò di cui l’umanesimo socialista ha bisogno non è un’inossidabile impalcatura categoriale in grado di descrivere puntualmente e definitivamente il mondo reale, né di un pensiero gioiosamente aleatorio e autoreferenziale, bensì un di sistema aperto (un interessante percorso, in questa direzione, è stato tracciato da Gyorgy Lukács nel suo recupero di un importante pensatore tedesco, oggi semisconosciuto, come Nicolai Hartmann, e della sua ontologia critica). Soltanto per questa via il socialismo potrà sciogliere il nodo strutturale che irrigidisce la fluidità concettuale della relazione tra opzione etico-politica e sistema categoriale di riferimento. Mi spiego: il socialismo presuppone una filosofia della storia, in cui si renda possibile la spiegazione del succedersi di avvenimenti, epoche, sistemi politici o produttivi, in base a una legalità metafisica (sia essa di natura dialettica o deterministica). Ma una qualsivoglia teoria della storia diventa – di fatto – teoria della necessità storica, dunque escludente la possibilità stessa dell’azione libera individuale, dell’iniziativa soggettiva (e poco importa qui se si preferisca un riferimento al soggetto personale o collettivo). Eppure, non solo non posso fare a meno di pensarmi come essere libero, ma costruisco l’ideale dell’azione politica orientandolo principalmente ai valori di libertà e personalità. L’orizzonte della storia collettiva impedisce di vedere la capacità teleologica del soggetto all’interno del proprio nesso sociale (anche il partito, per essere soggetto storico, deve poter agire delle decisioni, e non essere agito da forze storiche incontrollate), sebbene ne residui il sentimento etico che pretende di dar voce all’istanza della responsabilità, dunque della libertà. Allora il socialismo come idea politica in sé portatrice di una posizione assiologica chiara, deve forzare questo reciproco scarto tra teoria e prassi, e svolgere in un sistema aperto una chiarificazione categoriale dell’essere reale e assiologico, per poi scommettere – ché diversamente non è possibile neanche prender sul serio la propria stessa esistenza – sulla libertà dell’essere personale, e dunque su un processo di liberazione sociale dallo sfruttamento, come termini di una reciproca implicazione.
Carlo Scognamiglio
J. Kristeva, Simone de Beauvoir. La rivoluzione del femminile, Donzelli 2018.
Julia Kristeva
Simone de Beauvoir La rivoluzione del femminile.
Donzelli, Roma 2018, pp. 140, € 16,15.
Continua a produrre pensiero la scrittrice francese di origine bulgara, Julia Kristeva. Un pensiero solido, autorevole, anticonvenzionale. Laddove il dibattito sul femminismo, nel diritto e nella cultura, sembra oggi sradicato dalla carne delle sue lotte reali nella storia del continente, ecco la Kristeva regalare una riflessione di brevi pennellate e saggi veloci, confluiti in Italia, per i tipi di Donzelli (Roma, 2018), in “Simone de Beauvoir. La rivoluzione del femminile”. Il rischio metodologico della cultura accademica – e di quella militante – in materia di femminismo è esattamente quello di confinarne genesi e sviluppo nella riflessione nord-americana e anglosassone, come se i codici di quel femminismo critico fossero gli unici oggi servibili nel ricomprendere e abbattere il patriarcato. Nulla di più falso, ci porta a dire l’agile volume della Kristeva: il femminismo ha una storia politica e di lotta piena, vera, reale, battagliera, non eterea o alchemica o algida; le sue radici non sono appannaggio dei Paesi del liberalismo anglofono. Il mondo è ricco di riflessione declinata al femminile, di pari o talvolta maggiore qualità e intensità: intestare alla sola critica liberal la radice del femminismo è errore metodologico, giuridico e politologico, non solo ideologico.
La Kristeva racconta il volto attuale e palpitante del femminismo: quello che si affanna a togliere retaggi superati nella cultura black, quello che in Cina e in Russia difende la causa delle donne dovendo cimentarsi in una lotta contropotere sia sui diritti civili che su quelli politici e sociali, quello che nell’Islam è diviso tra sconfessare la fede e l’esigenza di ricondurla al Corano e di liberarla da clericalismi patriarcali. Julia Kristeva sceglie il solo canale possibile: tornare con argomenti nuovi a Simone de Beauvoir (1908-1986), alla sua opera tutta, e alla sua biografia. La narratrice e filosofa francese, del resto, è testimone di decenni dell’impegno nel sociale che, con malamente deprecata e in realtà felice frenesia, mescolavano il teatro e il saggio, il romanzo e l’accademia, l’esibita testimonianza di vita e la riflessione collettiva e antigerarchica. È probabile che questa versatilità tematica e questa indiscutibile varietà di contenuti e di stili rendano difficile l’approdo a una sistemica filosofica organica e fortemente unitaria. La Kristeva, però, non si scoraggia e il suo iter ermeneutico, abbeverandosi a una visione fortemente antiautoritaria della psicologia, cerca costantemente di riannodare i fili, di cucire i punti, di squadernare tutte le possibili, intrinseche, connessioni. Il risultato deve essere considerato molto positivamente, perché garantisce a un volumetto antologico pur molto breve di non disperdere mai una traccia comune, un anelito ricostruttivo apprezzabile, anche sotto il profilo esegetico.
Certo, il ruolo privilegiato, nella trattazione, se lo aggiudicano facilmente, per il ciclo dei romanzi “I mandarini”, per l’autobiografia “Le memorie d’una ragazza perbene” e “La cerimonia degli addii”, per la saggistica culta “Il secondo sesso”: tale è stata la fortuna delle opere ricordate che prescinderne sarebbe stato impossibile per qualunque serio lavoro monografico sull’Autrice parigina. L’utilità dell’indagine comparatistica sul classico è in fondo pure quella di non tradire mai una tassonomia minima dell’approccio all’autore, ritornando alle fonti senza pretese di eccessiva semplificazione, anzi arricchendo quei profili che troppe volte si danno per acquisiti. Eppure, la Kristeva, anche a percorrere i binari già tracciati, smobilita l’aneddotica con cui la fine della storia e la sua retorica avevano cercato di seppellire l’esistenzialismo, declassandolo a progenitore piagnone del Maggio francese. Il rapporto con Sartre, ad esempio, è ricondotto alla sua franchezza, senza la coltre posticcia del pettegolezzo: ci sono i tradimenti reciproci, certo, c’è la reciproca influenza-ingerenza nella percezione pubblica del personaggio, ma c’è pure e finalmente l’inesausta entropia di una ricerca comune che segna almeno tre decenni della cultura francese (e occidentale tutta). Sarebbe interessante concepire un lavoro monografico su Sartre che abbia le medesime caratteristiche dell’agevole raccolta che la Kristeva dedica alla riscoperta della sua compagna: un’accessibile opera di rivitalizzazione di nodi tematici. Dopo gli anni della grande fortuna editoriale e del grande consenso esegetico, la discussione collettiva di impegno ha forse riposto con eccessiva fugacità il contributo sartriano, deponendone lo strumentario e bollandolo con la sufficienza che ormai si riserva a quegli anni di intenso vissuto generazionale e di spesso dissacrante posa intellettuale. Spogliato dagli orpelli delle letture convenzionali, anche Sartre avrebbe molto da (tornare a) dire, persino sulle relazioni uomo-donna, che sostanzialmente non possono dirsi costituire capo autonomo della sua proposta politico-interpretativa.
Simone de Beauvoir è per la Kristeva, d’altra parte, l’eroina di un pensiero genuinamente anticonvenzionale: non cade nelle sirene del comunismo totalitarista; anzi, mette a verbale l’inadeguatezza dei tanti parrucconi che vogliono fare del marxismo-leninismo modello di intervento socioculturale sic et simpliciter. Non cede nemmeno alle semplificazioni del coniugio liberal-borghese, la cui libertà non sfugge invero al retaggio del conformismo sociale: il matrimonio dell’opera e della dottrina di Rousseau è tutto fuorché scevro, ad avviso della Kristeva, dall’invadenza di una visione politica e politicamente onnicomprensiva dell’agire sociale. Questi due passaggi avrebbero verosimilmente meritato ulteriore approfondimento; in fondo, la carica contropotere e contro-egemonica del modello socialista aveva seguito perché si poneva come unica alternativa storicamente vittoriosa alla razionalizzazione della legalità capitalistica. E, con pari sincerità, va pur ammesso come il modello rousseauiano non intendesse dotarsi di profili autoritari persino nelle relazioni intersoggettive: in ciò, se mai scivolava, probabilmente finiva perché ancora non era stata depotenziata analiticamente la carica di restrittività che in varie forme poteva rimanere impressa persino nelle istituzioni giuridiche post-illuministiche. Le necessarie spigolature qui proposte non tolgono ovviamente meriti all’opera in commento…
Conviene soprattutto agli uomini rileggere la Kristeva e Simone de Beauvoir: l’insistenza a descriverne il sesso nella sua infantile parvenza di “altro dito”, forse inconsapevole rimando freudiano alla seduzione ordinatrice di quel dito, smantella con pari efficacia ogni illusione sulla pretesa razionalistica del patriarcato. Quest’ultimo non è gestione e ragione della cosa pubblica, contrapposta alla presunta umoralità femminile. È indice alzato, è pretesa attribuzione e avocazione di competenze, che ha strappato lo stemma della deliberazione alla donna. Il femminismo, come tutti i movimenti libertari che hanno saputo tracciare una visione complessiva delle relazioni sociali, ha concorso, insieme agli altri, a reindirizzare quello stemma: dalle mani dell’assolutismo e del convenzionalismo (mani, in fondo, speculari) a quelle della jacquerie, della sua costruzione politica di rivolta.
Domenico Bilotti
Dalla cattedrale ai non-luoghi. Soggettività globali
La libertà moderna aumenta di pari passo con la creazione di nuove forme di soggettività e queste ultime tendono, sempre più e sempre meglio, a svincolarsi dalle identità “segnate” tradizionali che non permettevano – era questa la logica “cattedralistica” premoderna – di fuoriuscire dallo spazio entro la quale esse risultavano da sempre inscritte. Nel passaggio fra il moderno e l’attuale, il processo dromologico si è radicalizzato e si è dovuto confrontare con l’emergere quasi inavvertito di una nuova entità che è diventata progressivamente sempre più autonoma rispetto all’azione dagli uomini.