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Paolo Quintili, “Laicità, cittadinanza e nuovi processi di universalizzazione” (in “Lumi sul Mediterraneo, Mimesis, 2019)

La “qualità di cittadinopresuppone una società di cui ogni privato conosca le vicende, della quale si prenda cura, sentendo inoltre di poter raggiungere le “prime dignità”.

degli studenti di 4 A del Liceo Scientifico L. da Vinci di Terracina

 

 Nel suo saggio, “Laicità, cittadinanza e nuovi processi di universalizzazione”, Paolo Quintili evidenzia le difficoltà linguistiche e semantiche nell’utilizzo in lingua araba di concetti come “illuminismo” o “laicità”, che assumono una connotazione per lo più spregiativa. Per parlare di un concetto in maniera appropriata è infatti necessario tener conto di come quell’idea possa “migrare” da un contesto culturale ad uno diverso. Il termine “laicità”, ad esempio, è indicato in arabo con la parola “eilmania”, che letteralmente significa ateismo. Nella cultura occidentale, “ateismo” indica piuttosto la negazione esplicita e consapevole dell’esistenza di Dio, mentre la laicità riguarda semplicemente l’operazione di presa di distanza dai valori religiosi in rapporto alle norme dello Stato, ovvero la scissione tra la sfera politico-sociale e quella religiosa. Nell’articolo Quintili affronta anche il tema della cittadinanza, evidenziandone le radici storiche e filosofiche per chiarire come questo concetto si sia evoluto nel corso dei secoli. Per cittadinanza si intende il rapporto di appartenenza che si viene a stabilire tra individuo e Stato che ha assunto forme diverse in base alle differenti configurazioni dello Stato stesso. In particolare, all’inizio dell’articolo l’autore fa riferimento alle guerre di religione avvenute in Europa tra il Cinquecento e il Seicento, che evidenziano come l’appartenenza ad uno Stato fosse fortemente caratterizzata dalla confessione religiosa, che condizionava la libertà del cittadino. Tra gli esempi riportati c’è quello delle persecuzioni degli ugonotti in Francia e dei cattolici in Inghilterra. Per arrivare a compiere un passo avanti nella civiltà, verso uno Stato laico in cui l’appartenenza alla comunità non fosse condizionata in modo determinante dalla religione professata, sono servite lunghe guerre, seguite da dure persecuzioni, che si conclusero nel 1648 con la pace di Westfalia, con la quale si stabilisce la possibilità dei sudditi di scegliere la propria religione tra quella cattolica, luterana e calvinista e la libertà di culto in privato per le altre confessioni religiose. Nel mondo islamico questo passaggio non è invece avvenuto, generando difficoltà nell’interazione con le altre civiltà. Anche Rousseau viene citato all’interno dell’articolo in quanto non tollerava gli atei nel suo ideale di società, presentato nel “Contratto sociale”. Quest’opera è fondamentale per la creazione del concetto moderno di cittadinanza: cittadino è colui che cede parte dei suoi diritti e della propria libertà personale a favore di una “volontà generale” in grado di garantire il bene comune; questa detiene il potere legislativo e rappresenta a pieno titolo tutti i cittadini, mentre il governo diventa un semplice braccio esecutivo ed è per questo che l’autore è considerato il padre del principio moderno di “sovranità popolare”.

Quintili cita l’Encyclopedie di Diderot e D’Alambert per chiarire come i concetti di borghese, cittadino ed abitante venissero concepiti nell’ambito del pensiero illuminista: il borgheseè colui che ha residenza ordinaria in una città; il cittadinoè un borghese ma considerato relativamente alla società di cui è membro; l’abitante è un privato considerato relativamente alla residenza pura e semplice. Si è abitante della città, della provincia o della campagna: si è borghese di Parigi. Il borghese di Parigi che prende a cuore gli interessi della sua città contro gli attentati che la minacciano, ne diventa cittadino. «Le città pullulano di borghesi; ci sono pochi cittadini tra questi borghesi». La “qualità di cittadino” presupponeuna società di cui ogni privato conosca le vicende, della quale si prenda cura, sentendo inoltre di poter raggiungere le “prime dignità”. La distinzione tipicamente francese tra borghese e cittadino, introdotta da Bodin e condivisa da Rousseau e Diderot prima della Rivoluzione, poggiava sull’analisi della società in termini di ceti o stati. La dichiarazione del 1789 dell’Assemblea francese, per unificare aristocrazia, clero e terzo stato in una ‘nazione’ che desse diritti giuridici a tutti i citoyens (dal francese ‘’cittadini’’), rendeva irrilevante la distinzione ed in questo modo ci si avvicina alla concezione moderna di cittadino.  Quintili cita inoltre Molière perché fu uno dei primi ad anticipare il processo di laicizzazione con ironia nell’arte, ad avere un approccio razionalista nei confronti della realtà e critico verso le religioni. L’opera citata nell’articolo è Tartufo, messa in scena il 12 maggio 1664 che suscitò l’avversione del partito devoto di corte che faceva capo ad Anna d’Austria e aveva come personaggio di spicco l’arcivescovo di Parigi, ex precettore del re. Si unì al coro la Compagnia del Santo Sacramento, una confraternita segreta che si proponeva la difesa della religione e dei buoni costumi tanto da spingersi ad invocare per Molière il rogo, vista la sua natura diabolica. Inizialmente, la commedia di Molière non trovò il pieno plauso del pubblico: dopo la censura del testo teatrale originale, Molière fu costretto più volte a rielaborare la sua opera fino al 1669. Tuttavia, per il suo enorme potenziale scandaloso, agli occhi dello spettatore contemporaneo la censura della prima versione non risulta immotivata: il primo protagonista era un chierico ipocrita, un uomo religioso che sfruttava l’ingenuità di un onorevole cittadino per motivi egoistici. Nella seconda e la terza versione, invece, il personaggio misterioso dell’impostore Tartufo non è un ecclesiastico né un rappresentante istituzionale della Chiesa. Uomo apparentemente credente, Tartufo è laico impegnato come “direttore di coscienza” (una professione molto diffusa nel Seicento) nella casa dell’abbiente borghese Orgon.

Quintili cita inoltre la “Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo” del 1948 per chiarire come i diritti debbano essere universalizzati e non limitati ad un gruppo ristretto di persone, perché si rischierebbe di arrivare ad una minaccia degli stessi dovuta alla presenza di forze aggressive all’interno della società. Alla fine del Settecento i diritti umani vengono affermati come universali, cioè propri di ogni uomo, nelle due grandi Dichiarazioni: la Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America del 4 luglio 1776 e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino approvata dall’Assemblea nazionale francese il 26 agosto 1789. Esse sanciscono l’affermazione della nuova cultura borghese e cominciano ad apparire, con Olympe de Gouges e Mary Wollstonecraft, le prime rivendicazioni dei diritti delle donne. 

Nonostante i continui progressi, sanciti anche dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani emanata il 10 dicembre 1948, l’universalizzazione dei diritti rimane altalenante, sempre pronta a compiere passi indietro: come ribadisce lo stesso Quintili «a fine dell’ultimo secolo ha segnato una regressione comunitarista, nel senso non-universalistico, verso una direzione opposta a quella indicata da Marx nel 1843, che ha messo in discussione i processi di universalizzazione dei Diritti. […] Questo regresso antro-patologico è stato volutamente provocato (bisogna dirlo, senza mezzi termini), dai politici bellicisti e aggressivi dei paesi egemoni dell’Occidente, compresi la Francia e l’Italia».

Dinanzi alle sfide poste dalle nuove migrazioni degli uomini e delle cose, Quintili ritiene necessario che la linea ascendente borghese-cittadino-uomo (che era ancora quella di Marx) si modifichi in senso discendente: dignità umana-cittadinanza universale (che non è legata all’idea di nazione)-borghesia, implicando, così, l’inserimento nella società del lavoro che rappresenta la condizione necessaria per garantire ad ogni essere umano quella dignità affermata nella Dichiarazione universale dei diritti del 1948.  In questo modo, si arriverebbe ad un “illuminismo trans-storico”, applicabile a tutto il Mediterraneo, in grado di consentire il dialogo tra diverse culture. Quintili prende le mosse dal concetto di “terza sfera” di Todorov «che l’individuo gestisce autonomamente senza che nessuno possa avere niente da ridire». Tale dimensione si riferisce alla presenza (in ognuno di noi) di una sfera personale, circoscritta unicamente alla propria interiorità, che può coincidere o meno con quella spirituale, ma che non deve in alcun modo sentirsi condizionata o minacciata dal contesto politico,sociale,economico e culturale nel quale l’individuo è inserito. Essa permette di sviluppare dei valori, delle idee, un mondo interiore in cui credere, indipendentemente da tutto e tutti. Essere laico significa esercitare in un certo modo la propria libertà di coscienza, in base all’esperienza e alla sensibilità, che variano da individuo a individuo. Quindi risulta inutile l’imposizione di una determinata religione da parte dello Stato poiché ogni individuo ha una concezione propria di spiritualità. Un legame sociale non è basato sulla professione della medesima religione, né sull’appartenenza allo stesso Stato, bensì è qualcosa di più profondo, fondato sulla condivisione di valori in nome della quale, individui diversi per origine, cultura e mentalità (migranti o meno) potranno sentirsi tutti parte di una comunità civile in grado di evolversi, arricchirsi e trasformarsi.

Questa prospettiva illuministica in senso transtorico potrebbe condurre allo sviluppo di luoghi socio-culturali condivisi (non alternativi alla religione) in grado di divenire “luoghi di liberazione della terza sfera «ossia della coscienza collettiva degli uomini e delle donne del nostro continente euromediterraneo».

Cittadinanza e diritti umani

Il concetto di «cittadinanza», così come lo concepiamo ai giorni nostri, è il risultato di un lungo periplo storico razionale/irrazionale: la parola «cittadino» esisteva già da molto tempo, ma fino al termine del XVIII secolo non esisteva ancora la “qualità” della cosa, vale a dire l’universalità della cosa. Sinonimo comune di questo termine, nell’epoca in cui è stato coniato, nel XVIII secolo, è nazionalità.

L’arresto di Biram Dah Abeid e la lotta per i diritti umani in Mauritania

di Luigi Somma

 

Biram Dah Abeid, leader dell’Ira (Initiative de résurgence du mouvement abolitionniste), è stato prelevato nella propria abitazione privata nel sobborgo meridionale di Nouakchott e arrestato alle prime ore dell’alba di martedì 7 Agosto 2018. Il leader e il suo movimento hanno stretto un’alleanza con il partito arabo nazionalista Sawab per partecipare alle elezioni regionali e locali che si terranno il prossimo settembre. Abeid era stato arrestato più volte in passato per il suo attivismo. Nonostante il suo passato in condizione di schiavitù, è divenuto famoso a livello internazionale per le battaglie condotte contro la schiavitù in Mauritania, fino ad essere insignito, nel 2013, del prestigioso premio per i diritti umani delle Nazioni Unite. Secondo le stime del Global Slavery index, in Mauritania, un lembo di terra nell’Africa occidentale, circa 43 mila abitanti su 4 milioni vivrebbero in una condizione di schiavitù. La stima non è, però, esatta, «poiché le persone che nascono schiave non sono registrate all’anagrafe e non hanno diritto ai documenti» ha dichiarato Ivana Dama (vicepresidente della sezione italiana del movimento abolizionista IRA). Mohamed Ould Abdel Aziz, al governo dal 2008, ha messo in atto azioni repressive contro il movimento abolizionista. Ciò non sorprende, dal momento che l’istituto della schiavitù, in Mauritania, può contare su molteplici gruppi di interesse. Essa è sostenuta dagli studiosi di diritto islamico in quanto ritenuta aderente ai precetti religiosi delle scritture. Ma alla base del consenso intorno alla schiavitù v’è anche un’importante elemento di carattere sociale: avere uno schiavo è simbolo del proprio status sociale e costituisce un vantaggio economico per chi lo possiede. Biram Dah Abeid, bruciando nella piazza pubblica della capitale Nouakchott i testi apologetici della schiavitù, aveva voluto lanciare un chiaro messaggio politico: l’Islam non prevede in alcun modo la schiavitù. Il leader attivista, come tutti gli oppositori politici del Presidente della Mauritania, subisce soprusi e violenze solo perché portatore di dissenso. Da diversi anni gli avvocati di Biram Dah Abeid, William Bourdon e Georges-Henry Beauthier, denunciano la “persecuzione giudiziaria” (o almeno percepita tale dal movimento) delle autorità della Mauritania ai danni del loro assistito. Essi sostengono che «già in passato, Il Gruppo di Lavoro sulla Detenzione Arbitraria del Consiglio dei Diritti dell’uomo ha denunciato il carattere arbitrario delle misure di privazione di libertà, chiedendo alla Mauritania di conformarsi agli obblighi internazionali in materia di rispetto dei diritti dell’uomo». Secondo gli avvocati, inoltre, il Presidente Aziz ha strumentalizzato la lotta al terrorismo per ottenere o, meglio ancora, “comprare” dalla Comunità internazionale e soprattutto dalla Francia, una forma di compiacenza che si è trasformata, oggi, in un colpevole silenzio. Tutta la società civile internazionale considera Biram Dah Abeid un cittadino d’onore dell’Africa, instancabile militante contro lo schiavismo, che continua a essere tollerato per funeste ragioni politiche dal Regime del Presidente Aziz in Mauritania. Gli avvocati si appellano all’intera Comunità internazionale in Francia, in Belgio e altrove per ottenere dalle autorità della Mauritania, senza alcuna condizione, la liberazione di Biram Dah Abeid, permettendogli di riacquisire la totale di libertà d’azione, di andare e venire liberamente e, anche, di presentarsi alle prossime elezioni. In Mauritania la repressione contro il sostegno dei diritti umani è in costante aumento e coloro i quali tentano di segnalare tali abusi vanno incontro ad arresti arbitrari e severissime punizioni. Tali pratiche discriminatorie colpiscono soprattutto la comunità Haratin e le comunità afro-mauritane. Lo sviluppo e la difesa dei diritti umani sono un fenomeno assai articolato, la cui comprensione deve necessariamente essere filtrata da categorie filosofiche, storiche e giuridiche. Per tali ragioni, occorre rievocare il seme fondativo che ha segnato la nascita del concetto dei “diritti dell’uomo e del cittadino” e le tappe evolutive che ne hanno segnato il loro successivo svolgimento. Possiamo individuare un primo momento nel processo di definizione dei diritti umani: «quando essi vengono svincolati dal riferimento normativo alla credenza nella trascendenza di un Dio e nelle sue leggi»[1]. Tutto il periodo dell’Illuminismo è attraversato da questa tensione ideale, interamente tesa alla costruzione di un “pensiero utopistico”. Lo spostamento del terreno del conflitto dallo stato di natura hobbesiano – nel conflitto tra gli uomini sancito dallo Ius naturae – allo stato civile (ius civilis), il tentativo rousseuiano di conciliare libertà e eguaglianza (in direzione dell’eguaglianza dei diritti dei cittadini) rappresentano le tappe “ideali” di un cammino compiuto in direzione di una più ampia estensione dei diritti umani. «Le leggi servono, perciò, a rendere incruento il conflitto e a regolamentarlo. È un passo avanti enorme. Ogni cittadino è libero fin là dove inizia la libertà del suo simile, e le leggi stabiliscono appunto i confini di tale libertà nel diritto comune a ciascuno». [2] A guidare tale cammino di sviluppo vi sono diritti naturali dell’uomo, che Diderot aveva posto a fondamento della sua riflessione politica, quali il diritto all’esistenza, alla libertà e alla proprietà. Tali diritti si definiscono universali nella misura in cui non sono assoggettabili alle contingenze storiche. E proprio sulla base di tali diritti, Diderot condanna senza mezzi termini la pratica della schiavitù, in quanto tale attività arreca enorme danno alla libertà dell’uomo e deve, per tale motivo, essere eliminata dal consesso dell’umanità civile. Nell’edizione del “Contributo alla storia delle due Indie” dell’Abate Guillaume-Thomas Raynal (1774), Diderot traccia il profilo di una figura odiosa, ossia del negriero intento ai propri affari, rimarcando anche il rapporto di assoluta connivenza della religione (Cattolica): «Guardate quest’armatore che, curvo sul proprio scrittoio, regola, con la penna in mano, il numero di attentati che può far commettere sulle coste della Guinea; che esamina, a suo agio, di qual numero di fucili avrà bisogno per ottenere un negro, quante catene per tenerlo garrotato sul suo naviglio, quante fruste per farlo lavorare; che calcola, a sangue freddo, quanto gli varrà ogni goccia di sangue che questo schiavo verserà nella sua abitazione; che discute se la negra darà di più o di meno alle sue terre, con i lavori delle sue deboli mani, che con i pericoli del parto. Voi fremete… Eh! Se esistesse una religione che tollerasse, che autorizzasse, non foss’altro che con il suo silenzio, simili orrori; se occupata in questioni oziose o sediziose, non tuonasse senza posa contro gli autori o gli strumenti di questa tirannia; se essa facesse addirittura un crimine, per lo schiavo, spezzare le sue catene; se soffrisse di avere in seno a sé il giudice iniquo che condanna a morte il fuggitivo: se questa religione esistesse, non bisognerebbe strozzarne i ministri sotto le rovine dei loro altari?»[3]

Giungiamo, infine, alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino e del decreto di abolizione della schiavitù senza indennizzo per i proprietari che fu stabilito dalla convenzione nazionale nel 4 Febbraio 1794 (il decreto 2262, del 16 Pluvioso, anno II), della Repubblica francese, “una e indivisibile”. A seguito di tale disposizione, tutti i “cittadini di colore” avrebbero goduto dei diritti di cittadinanza francesi e, ovviamente, di tutti i diritti della costituzione.

Non si può non menzionare il celebre “discorso sulle sussistenze”, che Maximilien Robespierre pronunciò nell’Assemblea nazionale a Parigi nel 1792, che fissava finalmente la priorità del “diritto d’esistenza” dei popoli su quello di proprietà. Tutto ciò per ribadire come l’età dell’Illuminismo abbia concretamente posto in luce, tramite la sua “Storia della ragione”, l’inequivocabile nesso tra illuminismo e rivoluzione politica dei diritti umani[4]. Alla base di una teoria dei diritti umani, come sostiene Vincenzo Ferrone, nella sua “Storia dei diritti dell’uomo: L’Illuminismo e la costruzione del linguaggio, v’è sempre il valore della dignità umana, anche qualora ciò non sia universalmente riconosciuto, e che i diritti vadano concepiti come una straordinaria idea morale a disposizione dell’umanità, affinché essi costituiscano il presupposto etico per la formazione di ordinamenti democratici e liberali.

L’associazione Filosofia in Movimento ringrazia l’avvocato Alessandro Gioia per il suo costante impegno nella difesa dei diritti umani

 

 

[1] P. Quintili, Il vero ottantanove- alle fonti dei «dei diritti dell’uomo» e della «laicità», in «Forum politico», «filosofiainmovimento.it», 31/05/2018.

 

[2] Ibidem

[3] Histoire des deux Indes, Genève, Pellet, 1781, vol 6, Livre XI, chap. XXIV, pp. 134-135

 

[4] P. Quintili, «Quale“Illuminismo”? Ragione, diritto d’esistenza e movimenti sociali», «Il rasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it», 19/12/2016.

 

VIDEO – I valori dell’illuminismo: colloquio tra Robert Louden e Paolo Quintili

Il presente dialogo tra Quintili e Louden, ponendosi nel solco del pensiero kantiano, tenta di offrire una risposta alla risorgenza della religione, o delle “fedi religiose” nelle sue componenti irrazionalistiche ed entusiastiche . Intorno ad esse, richiamandosi ai valori propri dell’illuminismo, si intende ricostruire le fondamenta di una “ragione illuminata” e secolarizzata ( “la ragione deve essere la nostra fede”) che possa fungere da principio guida alla comprensione dell’altro (soprattutto se appartenente a una differente cultura e tradizione linguistica). Aprire uno spazio di dialogo tra le differenti interpretazioni di fede vuol dire recuperare un messaggio universale di eguaglianza e di “fratellanza” che leghi insieme tutti gli uomini.

La volontà generale

Un saggio che analizza la volontà generale nella sua genesi, fornendo analisi e prospettive accurate partendo da una ricca letteratura aggiornata. Un ricerca sul fondamento teorico del Contratto sociale di Jean Jacques Rousseau.