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György Lukács, la categoria della particolarità e la formazione del capitalismo periferico in America Latina

di Ranieri Carli (Universidade Federal Fluminense)

 

Questo articolo tratta dell’uso che il filosofo ungherese György Lukács fa della categoria della particolarità, richiamando l’attenzione sul suo posto all’interno del metodo di Marx. Dopo lo studio della pertinenza della particolarità nel metodo, in questo articolo vengono studiate la formazione del capitalismo periferico in America Latina e la particolarità delle sue dinamiche.

L’idea è quella di utilizzare la categoria della particolarità per descrivere brevemente la peculiarità della costituzione di una società capitalista nei paesi dell’America Latina. All’inizio, useremo il metodo di Lukács per delimitare l’importanza della categoria di particolarità; e, dopo, studieremo le idee di Ernest Mandel su alcune delle particolarità più generali del capitalismo che si è sviluppato in America Latina, senza la minima intenzione di esaurire il tema.

Nella sua Estetica del 1963, Lukács afferma correttamente che le categorie di universalità, particolarità e singolarità non possono essere ridotte a semplici “punti di vista”; sono, infatti, aspetti essenziali della realtà oggettiva, la cui conoscenza è necessaria all’uomo che intende orientarsi in questa realtà, sorpassare e sottoporla ai suoi fini. In considerazione del loro carattere oggettivo, l’uomo è in “convivialità” con tali categorie ancor prima di usarle come elementi organizzativi delle riflessioni del movimento del reale[1].

Ecco un esempio del modo in cui il metodo dialettico è in grado di catturare le categorie, specialmente quando si verifica il lavoro: abbiamo, quindi, 1) il lavorare sotto forma di una categoria universale, mediatore indispensabile della società con la natura; 2) il lavorare come un particolare, del modo capitalista di produzione come mezzo per valutare il capitale; e 3) il lavoro concreto unico di metalmeccanici, agricoltori, ceramisti, ecc.

Certo, la categoria della totalità universale è quella che comprende gli altri e il punto di vista della teoria sociale deve sempre essere la prospettiva di questa totalità universale. Come ci ricorda bene Lukács in uno dei saggi di Storia e Coscienza di Classe, è la presenza della categoria della totalità universale che differenzia Marx dalle scienze borghesi[2]. Tuttavia, la categoria della particolarità promuove un vero arricchimento tanto della totalità universale quanto della singolarità unica.

Poi, secondo Lukács, le particolarità arricchiscono la relazione tra il singolare e l’universale. Non c’è individuo singolare che sia legato all’universalità del genere senza la mediazione di innumerevoli particolarità. Un individuo, che si sia Enrico o Cecilia, sono membri unici della razza umana. Tuttavia, l’appartenenza alla generalità è mediata da aspetti particolari, come la società in cui fanno parte (capitalista, feudale, ecc.), la classe sociale (borghesi, proletari, ecc.), la nazione (Brasile, Palestina, Italia, ecc.), la generazione (bambini, adulti, anziani, ecc.) e così via potremmo continuare ad aggiungere una vasta gamma di variabili che arricchiscono il rapporto tra singolare e universale.

Continuando a pensare come Lukács, la categoria del particolare è interessante per studiare le peculiarità dello sviluppo capitalista di ogni circostanza storicamente determinata, come il modo in cui è stata elaborata in America Latina. Sappiamo che, prima di tutto, nella sua universalità, le dinamiche capitaliste implicano lo sfruttamento della forza-lavoro da parte del capitale. Tuttavia, come si verifica questa situazione nelle terre dell’America Latina? In questo caso, è possibile comprendere lo sviluppo di una società borghese in America Latina tenendo conto della categoria di particolarità, come intendeva Lukács.

Per Mandel, la formazione dell’accumulazione primitiva di capitale nei paesi periferici avviene secondo tre elementi: in primo luogo, il processo ininterrotto di accumulazione di capitale nei paesi centrali (specialmente in Europa), già sotto forma di una riproduzione ampia; in secondo luogo, gli inizi dell’accumulazione primitiva di capitale in periferia; in terzo luogo, la conseguente limitazione del processo di accumulazione che inizia in periferia da parte del processo di accumulazione in grandi fasi dei paesi centrali[3].

Il principale dei tre elementi è proprio l’ultimo: le imposizioni che il capitale europeo ha posto allo sviluppo del capitale periferico. Lukács potrebbe dire che questa è una grande caratteristica particolare che differenzia il capitalismo periferico. Secondo Mandel, «in ogni paese o su scala internazionale, il capitale mette sotto pressione, dal centro – in altre parole, i suoi luoghi di origine storici – alla periferia. Cerca continuamente di estendersi a nuovi domini, convertire semplici settori riproduttivi di beni in nuove sfere di produzione capitalista di beni, soppiantare, con la produzione di beni, i settori che fino ad allora producevano solo valori di uso. Il grado in cui questo processo continua a verificarsi ancora oggi, sotto i nostri occhi, nei paesi altamente industrializzati, è esemplificato dall’espansione, negli ultimi due decenni, di industrie che producono pasti pronti al servizio, distributori di bevande e così via”[4].

In periferia, quindi, l’arrivo del capitale internazionale apre la strada alla produzione di plusvalore con la “normalità” delle ferree leggi dell’economia capitalista.

Mandel sostiene che, in generale, il ruolo di “pathfinder” spetta al “piccolo e medio capitale”[5]. Poiché le modalità tradizionali della produzione di sussistenza non rappresentano più ostacoli, la produzione capitalista viene gradualmente imposta, vivendo insieme con le relazioni sociali della produzione tradizionale. Lo sviluppo della produzione tipicamente capitalista di materie prime tende a sottomettere le altre forme rimanenti.

L’articolazione tra paesi centrali e periferici è duplice: da un lato, la periferia importa articoli a basso costo dall’elevato grado di produttività raggiunto grazie ai macchinari sviluppati nei paesi centrali, il che implica la rovina delle forme artigianali di produzione (incapaci di raggiungere tale produttività); dall’altro, c’è la specializzazione dei paesi di capitalismo incipiente in prodotti che servivano il mercato internazionale, in particolare nei prodotti agricoli[6].

Così, ovviamente, l’articolazione tra centro e periferia avviene con la subalternità di questo nei confronti a questo. È quello che Lukács chiamerebbe sottomissione delle particolarità all’universalità. Tuttavia, il punto è che il capitalismo iniziale della periferia deve competere con il capitale internazionale, che non solo si consolida sul mercato mondiale, ma già avanza nella costituzione dei monopoli. È importante dire con Lukács che questa è una delle particolarità che segnano fortemente la vita economica nei paesi del capitalismo periferico. Il compito ingrato della borghesia nazionale periferica è quello di aumentare un tale livello di estrazione di pluslavoro che gli dia condizioni sufficienti per affrontare il capitale monopolistico che proviene dall’esterno. In effetti, l’impulso allo sviluppo dell’industria capitalista in periferia avviene con l’esportazione di capitali da parte di paesi in cui la borghesia monopolistica è diventata dominante. L’accumulo primitivo delle nazioni subalterne ha dovuto fare i conti con questa circostanza, poiché, di conseguenza, il processo di esportazione di capitali imperialisti ha soffocato lo sviluppo economico del cosiddetto “Terzo Mondo”[7].

La distinzione tra la forma classica di accumulazione primitiva (che si è verificata in Inghilterra) e quella delle nazioni del Terzo Mondo è abbastanza evidente. Il carattere decisivo di questa distinzione è che lo sviluppo capitalista del Terzo Mondo incontra la metropoli, gli interessi della borghesia dei paesi metropolitani.

Inoltre, la classica accumulazione primitiva aveva come ostacolo le forze tradizionali che resistettero allo sviluppo interno di un mercato della forza lavoro e al consumo di beni. La madrepatria inglese o francese combatté contro le stabilizzazioni delle vecchie classi in modo che, ognuno a modo suo, diventasse preponderante.

Nel caso dell’accumulo primitivo nelle nazioni periferiche, questo fenomeno non si è verificato. Ancora una volta, la categoria di particolarità è presente qui, come si rende conto Lukács. Mentre lo sviluppo capitalista veniva guidato dall’esterno, «ci fu un’alleanza sociale e politica a lungo termine tra imperialismo e oligarchie locali, che congelò le relazioni precapitalistiche della produzione sul campo»[8]. A quel tempo, non era nell’interesse della borghesia imperialista rompere con le forze locali che persistevano dominanti nelle rispettive regioni. L’esperienza storica ci dimostra che il consolidamento delle alleanze tra la borghesia straniera e l’aristocrazia regionale predominava in periodi storici come quello che raccontiamo.

Il grande servizio che la periferia forniva alla capitale metropolitana era quello di fornire materie prime. Non è casuale. La ricerca del capitale circolante (come la materia prima) si spiega con l’imperativo che il capitale contenga la caduta tendenziale del saggio di profitto.

Il problema posto al capitale imperialista era l’organizzazione precapitalistica della produzione di materie prime. Il basso grado di produttività della forma di produzione ha reso costosa la merce finale; pertanto, non c’era altra via d’uscita che organizzare la produzione di tali beni secondo le leggi dell’industria capitalista. Solo in questo modo, la produzione di materie prime sarebbe stata adeguata ai livelli di produttività del lavoro richiesti all’epoca. Quindi, Mandel osserva che «l’intervento diretto del capitale occidentale nel processo di accumulazione primitiva di capitale nei paesi sottosviluppati è stato quindi determinato, in misura considerevole, dalla pressione compulsiva su questo capitale, al fine di organizzare la produzione capitalista di materie prime su larga scala»[9].

Se, in questo modo, la capitale imperialista costringesse l’organizzazione a produrre materie prime a sua immagine e somiglianza, ciò non causava lo sviluppo di forze produttive nelle terre periferiche. Non era necessario, dato che il basso valore della forza lavoro, con i suoi piccoli costi di sostituzione, il grande esercito industriale di riserva e la relativa debolezza dell’organizzazione politica del proletariato, hanno messo a disposizione del capitale le condizioni appropriate per l’estrazione del plusvalore assoluto senza utilizzare l’aumento dei macchinari. Tuttavia, in queste circostanze, l’estrazione del plusvalore assoluto è stata la costante.

La situazione cambia a metà del XIX secolo. XX. Con il ristagno della produttività della produzione di materie prime nei paesi dipendenti e, d’altro canto, con l’aumento della produttività nello stesso settore nei paesi centrali, si è registrato un graduale inserimento della tecnologia nella produzione di materie prime in periferia. Inoltre, «il capitale monopolistico internazionale si interessò non solo alla produzione di materie prime a basso costo attraverso metodi industriali avanzati […], ma anche alla produzione, nei paesi sottosviluppati, di prodotti finiti che potevano essere venduti lì a prezzi monopolistici, invece di materie prime che erano diventate eccessivamente economiche»[10].

Va detto che l’industrializzazione della periferia non significasse il livellamento armonico del mercato mondiale, in cui ciascuno avrebbe calcolato simmetricamente la propria quota. Lo sviluppo dell’industria capitalista nei paesi periferici non ha modificato il fatto che il suo capitalismo è dipendente e subordinato alla metropoli.

Pertanto, ciò che abbiamo visto sul capitalismo periferico può essere riassunto nelle seguenti parole: Lukács ci ha dato il metodo, mentre Mandel ha riempito questo metodo di contenuto storico.

Infine, cosa si può vedere nello schizzo sopra è che la categoria della particolarità è essenziale per creare un quadro del capitalismo nei paesi periferici come quelli dell’America latina. Lukács aveva ragione quando ha richiamato l’attenzione sull’importanza metodologica della categoria. Con esso, è possibile collocare storicamente le mediazioni che hanno portato il capitalismo latinoamericano alla realtà contemporanea del modo in cui lo viviamo attualmente. Se l’universalità dell’attuale modalità di produzione è il capitalismo, all’interno di questa universalità ci sono particolarità molto precise, come quelle che riguardano la storia dell’America Latina.

 

 

 

 

[1] Cfr. Lukács György, Estetica I: la peculiaridad de lo estético, Barcelona, México, 1982, v. 3, p. 200.

[2] Cfr. LUKÁCS, György. História e consciência de classe. São Paulo: Martins Fontes, 2003, p. 105.

[3] Cfr. MANDEL, Ernest. O capitalismo tardio. Rio de Janeiro: Nova Cultural, 1982, p. 31.

[4] Cfr. MANDEL, op. cit, p. 31.

[5] Cfr. MANDEL, op. cit, p. 32.

[6] Cfr. MANDEL, op. cit, p. 35.

[7] Cfr. MANDEL, op. cit, p. 36.

[8] Cfr. MANDEL, op. cit, p. 37.

[9] Cfr. MANDEL, op. cit, p. 39.

[10] Cfr. MANDEL, op. cit, p. 43.

Lukács e la possibilità di una di una Ontologia sociale critica

traduzione di Antonino Infranca

La recente pubblicazione di una raccolta di saggi, Georg Lukács and the Possibility of Critical Social Ontology, ha riaperto il dibattito sulla possibilità di elaborare e definire un’ontologia sociale critica. Il libro si concentra sulle molteplici dimensioni del pensiero di Lukács, ma soprattutto con maggiore enfasi e interesse sull’Ontologia dell’essere sociale di Lukács, che è probabilmente il tentativo più riuscito della definizione di una tale ontologia sociale critica, anche se la sua conoscenza non è tanto diffusa, quanto meriterebbe un’opera di tale densità e maturità teorica. La raccolta, curata da Michael Thompson, conta su 14 articoli divisi in 4 sezioni, con autori di vari paesi, che hanno dedicato i loro saggi alla comprensione e al dibattito dell’opera di György Lukács.
Nella prima parte, intitolata “Aspetti fondamentali dell’Ontologia dell’essere sociale di Lukács”, Antonino Infranca, Miguel Vedda, Endre Kiss e Matthew J. Smetona, analizzano alcuni dei temi fondamentali alla formulazione di un’ontologia originalmente nuova, elaborata da Lukács. Così, troviamo l’approccio di Infranca e Vedda su “Ontologia e lavoro nell’ultimo Lukács”, che sostiene il carattere centrale della categoria del lavoro come proto-forma dell’“essere-proprio-così” dell’essere umano, così come la sua inestirpabile caratteristica particolare nella costituzione delle sue forme di socialità. Nella sua analisi del ruolo di Lukács nel processo di rinnovamento del marxismo, nel corso del XX secolo, Endre Kiss (“Lukács e la riformulazione del marxismo: dall’ontologia di Hartmann all’ontologia di Lukács”) cerca di tracciare il percorso teorico che porta dall’ontologia di Hartmann a quella di Lukács, indicando le possibili approssimazioni e, fondamentalmente, il distanziarsi tra i due autori. Nel sentiero teorico, aperto da Lukács, la biforcazione che lo porta alla costruzione di una lettura ontologica totalmente originale, si distanzia da quella proposta da Nicolai Hartmann – ma anche, fondamentalmente, dall’ontologia metafisica di Heidegger, come è stato discusso profondamente da Nicolas Tertulian – e possiede come vettore la comprensione dei processi storici di costituzione dell’essere sociale e la sua caratterizzazione ontogenetica a partire dal lavoro, come elemento di mediazione organica/inorganica tra uomo e natura. Hartmann si è allontanato dall’influenza kantiana e neopositivista, così come dalle tendenze fenomenologiche, predominanti nella filosofia di quel contesto storico. Mentre, non è avanzato verso una lettura ontologica, il cui approccio fosse capace di catturare sul piano ideale e categoriale la totalità dei complessi sociali, è rimasto, pertanto, sul piano di un’ontologia di carattere metafisico, come puntualizzato dallo stesso Lukács. Tale carattere si deve, in parte, al fatto che Hartmann non prende in considerazione, nel suo approccio, le “basi materiali” del lavoro e dell’azione umana. Questo è il tema discusso nell’analisi proposta da Matthew J. Smetona (“L’Ontologia dell’essere sociale di Lukács e le basi materiali dell’intenzionalità”), che chiude la prima sezione del libro. Qui, Smetona cerca di dimostrare che l’azione umana, l’atto del “porre teleologico”, si orienta a partire da condizioni storiche determinate – definite come basi materiali – e che, pertanto, offrendo risposte alle sue domande, l’umanità, nella sua genericità, punta alle possibilità racchiuse e circoscritte in quello stesso momento storico. Questa analisi svolge il carattere materialista della lettura ontologica lukacsiana, superando qualsiasi incidenza metafisica, così come una lettura fondamentalmente processuale della storia. L’uomo, l’umanità è ed è stata, in un costante processo (contraddittorio) di costruzione del suo essere sociale. E questa tematica ci riporta alla seconda parte del libro.
I vincoli, l’assunzione e il superamento, o se si preferisce l’Aufhebung tra Lukács e Hegel in alcuni dei suoi principali aspetti – e possiamo qui includere Marx – sono discussi nella sezione intitolata “Dimensioni hegelo-marxiste dell’Ontologia sociale di Lukács”. In un testo di profondo rigore e creatività analitica, Murillo va der Laan (“L’interpretazione ontologica di György Lukács della teoria del valore/lavoro in Marx”) ci offre un’intrigante discussione sulla teoria del valore/lavoro sviluppata da Marx e la forma della sua assunzione presente nell’ontologia di Lukács.
Secondo l’autore, Lukács incorre in una generalizzazione inconcludente, indicando che le tendenze fondamentali della legge del valore presente nella lettura marxiana si svilupperebbero anche nelle forme della transizione al socialismo. Già il testo di Andreas Giesbert (“L’ontologia dell’alienazione: la teoria normativa della storia di Lukács”) rimette al tema dell’alienazione e alla forma in cui il filosofo ungherese dibatte la questione, nel corso della sua opera, dalla pubblicazione di Storia e coscienza di classe. Propone che l’analisi dell’alienazione, nella sua articolazione con il carattere teleologico dell’azione umana, siano elementi costitutivi di una teoria normativa della storia in Lukács. Di seguito, Michalis Skomvoulis (“L’ultima appropriazione di Lukács della filosofia di Hegel: l’ontologia della dialettica materialistica e la complessità del lavoro come posizione teleologica”) cerca di analizzare quello che l’autore identifica come una “tardiva appropriazione della filosofia hegeliana” da parte della lettura di Lukács. Analizzando la categoria del lavoro a partire dalle sue complesse interazioni di posizioni teleologiche, come sostrato teorico necessario al materialismo dialettico presente nell’ontologia lukácsiana, Skomvoulis ricorre ad Hegel per identificare gli elementi fondamentali e originari del dibattito. Differentemente da quest’ultimo, tuttavia, il filosofo ungherese ricorre alle “determinazioni materiali in ultima istanza” per fondare la sua comprensione materialista dei processi storici, il che lo vincolerebbe direttamente alla tradizione inaugurata da Marx.
Nella terza sezione, intitolata L’ontologia sociale di Lukács e la filosofia contemporanea, il dibattito sull’ontologia dell’essere sociale sarà concentrato in alcuni dei suoi interlocutori contemporanei. Claudius Vellay (“Sulla ‘costituzione della società umana’: Lukács contro l’ontologia sociale di Searle”) confronta la lettura ontologica lukácsiana con quella di John R. Searle. Secondo Vellay, il filosofo anglosassone sostiene che la realtà sociale compone uno dei fattori mentali, che coinvolgono le intenzionalità collettive. Così, la sua concezione ontologica si fonderebbe in una lettura propria della tradizione filosofica idealistica contemporanea, vincolata all’universo del linguaggio e delle rappresentazioni, essenzialmente diversa da quella di Lukács. Poi il testo di Thomas Telios (“Perché ancora la reificazione? Verso un’ontologia sociale critica”) riprende il tema della reificazione, proponendo un’analisi panoramica di come alcune importanti letture filosofiche si affacciarono e analizzarono la questione. Così, presenta importanti interpretazioni – molte di esse diverse tra loro – come quelle di Adorno, Deleuze, Foucault, Althusser, la lettura sviluppata dal movimento post-strutturalista e la critica offerta dalla Scuola di Francoforte, cercando di articolare le dimensioni della reificazione e della soggettivazione, in un dibattito costante con la produzione lukácsiana, da Storia e coscienza di classe, fino ai Prolegomeni per un’Ontologia dell’essere sociale. Partendo dall’affermazione che uno dei principali aspetti dell’attuale crisi sociale si trova nell’assenza di una critica ontologica della forma capitalistica di riproduzione, Mario Duayer (“Improbabili affinità: J. L. Borges, Kuhn, Lakatos e l’ontologia critica”) ci presenta le “affinità improbabili” tra la lettura ontologica di Lukács e gli scritti su teoria del linguaggio dell’argentino J. L. Borges, così come le letture epistemologiche di taglio “post-positivista” dello statunitense T. Kuhn e dell’ungherese I. Lakatos. Con la precisione che gli è caratteristica, Duayer identifica le approssimazioni di Borges con la filosofia di Foucault, soprattutto in ciò che riguarda la sua elaborazione sul concetto di linguaggio. Nello stesso modo, analizza i presupposti epistemologici della filosofia della scienza, elaborati da Kuhn e Lakatos, che anche nelle loro differenze interne, posseggono un’identità distinta, che sia l’elaborazione di modelli di apprendimenti aprioristici del reale, che partono da costrutti precedenti allo stesso reale e alle relazioni sociali che lo compongono. Uno degli elementi fondamentali che differenzia e rende improbabile – diremmo impossibile – l’avvicinamento tra queste tradizioni teoriche e la critica ontologica lukácsiana. Chiude la sezione il testo di Christoph Henning (“Le politiche della natura, di sinistra e di destra: confrontando le ontologie di Lukács e Bruno Latour”), che propone un confronto tra l’ontologia di Lukács e del francese Bruno Latour. Analizzando il tema della politica, il suo contenuto ontologico, Henning cerca di identificare come proposizioni filosoficamente differenti si riproducono nel campo ideologico anche diversamente. Detto in un altro modo, le mediazioni politiche che possono essere identificate come “di sinistra o di destra” posseggono una relazione diretta – ma non meccanica – con i fondamenti ontologici sviluppati dagli autori.
Chiude il libro la sezione Verso un’ontologia sociale critica. Presentando gli svolgimenti politici ed economici, prodotti dal capitalismo nel corso del XX secolo, così come la barbarie del capitale riprodotta dal fenomeno nazi-fascista, la cui espressione teorica si vincola all’irrazionalismo filosofico. Michael Morris (“Dalla teoria critica all’ontologia critica: tornare a Lukács!”) è enfatico nel proporre il ritorno a Lukács e alla sua critica ontologica, come condizione fondamentale della costruzione di mediazioni politiche trasformatrici, che possano superare l’attuale quadro di crisi sociale, in direzione della piena emancipazione umana. Di seguito, Titus Stahl (“Normatività e totalità: il contributo di Lukács all’ontologia sociale critica”) centra la sua analisi sulla categoria della totalità, a partire dall’analisi lukácsiana del lavoro come posizione teleologica fondante l’essere sociale. Secondo Stahl, potremmo estrarre da questo fondamento una teoria normativa per la comprensione dei processi sociali nella sua totalità. Reha Kadakal (“Lukács e il problema della conoscenza: l’ontologia critica come teoria sociale”) propone nel suo testo la discussione della critica ontologica come fondamento di una teoria sociale trasformatrice. Qui l’autore riprende la discussione della costruzione della conoscenza, a partire dallo scheletro teorico offerto dall’ontologia di Lukács. Infine, chiudendo la raccolta, abbiamo l’importante analisi di Michael J. Thompson (“Marx, Lukács e l’opera fondamentale per l’ontologia sociale critica”), dove l’autore identifica – così come Lukács – i fondamenti di un’ontologia marxiana già nei Manoscritti economico-filosofici del 1844. Ancora una volta, la centralità della categoria del lavoro è posta in evidenza, analizzando le determinazioni auto-riflessive nel processo di riproduzione oggettivo-soggettiva dell’essere sociale. Thompson indica anche che la critica ontologica lukácsiana avanza, identificando a partire da Marx il nucleo costitutivo delle relazioni sociali – così come del suo riflesso mediatore attraverso forme di soggettività – nei processi reali/concreti storicamente riprodotti, che riconosce l’essere umano come soggetto attivo di tali processi. In questo modo, chiude il testo indicando lo sforzo analitico di György Lukács, proponendo l’edificazione di una teoria dell’etica di contenuto materialista, sebbene non realizzata a causa della scomparsa del filosofo ungherese, nel 1971, poco tempo dopo aver concluso la Ontologia dell’essere sociale.
Il 2021 segna il cinquantenario della morte di György Lukács. L’avvenimento sarà ancora un momento, in cui iniziative in Brasile e altri paesi, dentro e fuori gli spazi accademici, saranno realizzate con lo scopo di dibattere l’opera di questo che fu uno dei maggiori filosofi marxisti del XX secolo. Le analisi offerte dagli autori della presente raccolta, gli approfondimenti teorici, le polemiche che suscitano e i loro possibili svolgimenti politici, sono di estrema rilevanza la comprensione della lettura ontologica lukácsiana.

LUKÁCS SU HÖLDERLIN E IL TERMIDORO

di Michael Löwy (traduzione di Antonino Infranca)

Gli scritti di Georg Lukács negli anni Trenta, malgrado i loro limiti, le loro contraddizioni e i loro compromessi (con lo stalinismo) sono di grande interesse. È il caso soprattutto del suo saggio su Hölderlin del 1935, intitolato L’“Hyperion” de Hölderlin, tradotto in francese da Lucien Goldmann e incluso nel volume Goethe et son époque (1949).
Lukács è letteralmente affascinato dal poeta, che descrive come «uno dei poeti elegiaci più puri e profondi di tutti i tempi», in cui l’opera «ha un carattere profondamente rivoluzionario»[ref]G. Lukács, L’Hyperion de Hörderlin, p. 197 [“L’Iperione di Hölderlin” in Id., Goethe e il suo tempo, tr. it. A. Casalegno, in Id. Scritti sul realismo, Torino, Einaudi, 1978, p. 315[/ref] . Ma contrariamente all’opinione generale degli storici della letteratura, egli rifiuta ostinatamente di riconoscerlo come un autore romantico. Perché?
Dopo l’inizio degli anni Trenta, Lukács aveva compreso, con grande lucidità, che il romanticismo non era una semplice scuola letteraria ma una protesta culturale contro la civiltà capitalista, in nome dei valori – religiosi, etici, culturali – del passato. Era, allo stesso tempo, convinto che, per i riferimenti al passato, si trattasse di un fenomeno essenzialmente reazionario.
Il termine “anticapitalismo romantico” appare per la prima volta in un articolo di Lukács su Dostoevskij, dove lo scrittore russo è condannato come “reazionario”. Secondo questo articolo, pubblicato a Mosca, l’influenza di Dostoevskij risulta dalla sua capacità di trasformare i problemi dell’opposizione romantica al capitalismo in problemi “spirituali”; a partire da questa «opposizione intellettuale piccolo-borghese anticapitalista romantica (…) si apre una larga strada verso la destra, verso la reazione, oggi verso il fascismo e, al contrario, un sentiero stretto e difficile verso la sinistra, verso la rivoluzione»[ref]G.Lukacs, «Über den Dotsojevski Nachlass », Moskauer Rundschau, 22/3/1931[/ref] . Questo “sentiero stretto” sembra sparire, fino a quando scrive, tre anni più tardi, un saggio su “Nietzsche precursore dell’estetica fasciste”. Lukács presenta Nietzsche come un continuatore della tradizione dei critici romantici del capitalismo: come loro «egli contrappone continuamente alla mancanza di civiltà del suo tempo l’alta civiltà di periodi precapitalistici o protocapitalistici». A suo avviso, questa critica è reazionaria, e può facilmente condurre al fascismo[ref]G. Lukács, «Nietzsche als Vorläufer des faschistischen Aesthetik », pp. 41 e 53 (1934) [«Nietzsche precursore dell’estetica fascista » in Id. Contributi alla storia dell’estetica, tr. it. E. Picco, Milano, Feltrinelli, 1975, pp. 336 e 360[/ref] .
Si trova qui un sorprendente accecamento: Lukács non sembra percepire l’eterogeneità politica del romanticismo e, in particolare, l’esistenza, a fianco del romanticismo reazionario, che sogna un impossibile ritorno al passato, di un romanticismo rivoluzionario che aspira a una svolta dal passato, in direzione di un avvenire utopico. Questo rifiuto è ancor più sorprendente, perché l’opera dello stesso giovane Lukács, per esempio il suo saggio La teoria del romanzo (1916), appartiene a questo universo culturale romantico/utopico .
Questa corrente rivoluzionaria è presente nelle origini del movimento romantico. Prendiamo come esempio Le origini dell’ineguaglianza tra gli uomini di Jean-Jacques Rousseau (1755), che si può considerare come una sorta di primo manifesto del romanticismo politico: la sua feroce critica della società borghese, dell’ineguaglianza e della proprietà privata, si fa in nome di un passato più o meno immaginario, lo Stato di Natura (direttamente ispirato ai costumi liberi ed egualitari degli indigeni “Caraibi”). O contrariamente a ciò che pretendono i suoi avversari (Voltaire!), Rousseau non propone che gli uomini moderni ritornino alla foresta, ma sogna una nuova forma di eguale libertà dei “selvaggi”: la democrazia. Si trova il romanticismo utopico, sotto diverse forme, non soltanto in Francia ma anche in Inghilterra (Blake, Shelley) e anche in Germania: il giovane Schlegel non era un ardente partigiano della Rivoluzione francese? È il caso anche, ben inteso, di Hölderlin, poeta rivoluzionario, ma che, come molti dei romantici dopo Rousseau, è posseduto dalla “nostalgia dei giorni di un mondo originario” (ein Sehnen nach den Tagen der Urwelt) .
Lukács è obbligato a riconoscere, controvoglia, che si trovano «tratti romantico-anticapitalistici di Hölderlin, che quando egli scriveva non erano affatto reazionari» . Per esempio, l’autore dell’Iperione odia, anche lui, come i romantici, la divisione capitalistica del lavoro e la ristretta libertà politica borghese. «Eppure nel fondo del suo essere, Hölderlin non è romantico, benché molti tratti della sua critica del capitalismo incipiente lo siano»[ref]G. Lukács, L’Hyperion de Hörderlin, p. 313[/ref] . Si sente in queste righe che affermano una cosa e il suo contrario, l’imbarazzo di Lukács e la sua difficoltà a designare chiaramente la natura romantica rivoluzionaria del poeta. Questo perché in una prima epoca il romanticismo non aveva «tratti [… che] non erano affatto reazionari»? ciò vorrebbe dire che tutta la Frühromantik, il periodo iniziale del romanticismo, alla fine del XVIII secolo, non era reazionario? In questo caso, come si può proclamare che il romanticismo è, per sua natura, una corrente retrograda?
Nel suo tentativo, contro ogni evidenza, di dissociare Hölderlin dai romantici, Lukács menziona il fatto che il passato al quale essi si riferivano non è lo stesso: «La differenza tra la tematica di Hölderlin e quella dei romantici – Grecia contro medioevo – è dunque anche una differenza politico-ideologica» (p. 313). O, se molti romantici si riferiscono al medioevo, non è il caso di tutti: p. es. Rousseau, come si è visto, si ispira al modo di vita dei “Caraibi”, uomini liberi ed eguali. Si trovano, d’altronde, dei romantici reazionari che sognano l’Olimpo della Grecia classica. Se si tiene conto del cosiddetto “neo-romanticismo” della fine del XIX secolo – la continuazione del romanticismo sotto una nuova forma – si trovano autentici romantici rivoluzionari – il marxista libertario William Morris e l’anarchico Gustav Landauer – affascinati dal Medioevo.
Infatti, ciò che distingue il romanticismo rivoluzionario dal reazionario non è il tipo di passato al quale si riferisce, ma la dimensione utopica dell’avvenire. Lukács sembra non rendersene conto, in un altro passo del suo saggio, quando evoca la presenza, in Hölderlin, di un «sogno di una risorta età dell’oro» e dell’«utopia di una liberazione reale dell’umanità» . Egli percepisce anche, con perspicacia, la parentela tra Hölderlin e Rousseau: nei due trova «il sogno di una trasformazione della società», con la quale, quella sarà «ridiventata natura»[ref]Ivi, p.304-305[/ref] . Lukács è dunque preso dal rendere conto dell’ethos romantico rivoluzionario di Hölderlin, ma il suo pregiudizio ostinato contro il romanticismo, catalogato come “reazionario” per definizione, gli impedisce di raggiungere questa conclusione. È, secondo noi, uno dei principali limiti di questo saggio, altrimenti brillante …
L’altro limite riguarda piuttosto il giudizio storico-politico di Lukács sul giacobinismo ostinato – post-termidoriano – di Hölderlin, paragonato al “realismo” di Hegel: «Hegel si adatta ad essa [la situazione post-termidoriana], si adatta alla fine del periodo rivoluzionario borghese e costruisce la sua filosofia proprio sul riconoscimento di questa svolta nuova nella storia mondiale; Hölderlin rifiuta ogni compromesso con la realtà post-termidoriana, resta fedele all’antico ideale rivoluzionario di rinnovamento della democrazia ellenica e viene schiacciato da una realtà in cui per quell’ideale non c’era più posto, nemmeno sul piano filosofico e poetico». Mentre Hegel interpreta «la rivoluzione borghese come un processo unitario, del quale sia il Terrore che il Termidoro e Napoleone erano le fasi necessarie», «l’intransigenza di Hölderlin resta invece un tragico vicolo cieco: solitario Leonida degli ideali giacobini, egli cade sconosciuto e incompianto alle Termopili del termidorismo avanzanto»[ref]Ivi, p. 302-303[/ref] .
Riconosciamo che questo affresco storico, letterario e filosofico non manca di grandezza! Esso, però, non è meno problematico … E, soprattutto, contiene, implicitamente, un riferimento alla realtà del processo rivoluzionario sovietico, così come esisteva nel momento in cui Lukács redigeva il suo saggio.
È, in ogni caso, l’ipotesi, un po’ rischiosa, che ho tentato di difendere in un articolo apparso in inglese sotto il titolo “Lukács and Stalinism”, e incluso in un libro collettivo Western Marxism, a Critical Reader, London, New Left Books, 1977. L’ho incluso anche nel mio libro su Lukács pubblicato in francese nel 1976 e apparso, nel 1978, in Italia con il titolo Per una sociologia degli intellettuali rivoluzionari. Ecco un passo che riassume la mia ipotesi riguardo all’affresco storico schizzato da Lukács nell’articolo su Hölderlin: «Il significato di queste osservazioni in rapporto all’Urss del 1935, è chiaro; basterà ricordare che Trotsky aveva pubblicato, proprio nel febbraio 1935, un saggio in cui utilizzava per la prima volta il termine “Termidoro”, per caratterizzare l’evoluzione dell’Urss dopo il 1924 (Lo Stato operaio e la questione del Termidoro e del bonapartismo). Non vi sono dubbi che i brani citati, siano la risposta di Lukács a Trotsky, questo Leonida intransigente, tragico e solitario, che rifiuta il Termidoro ed è condannato all’impotenza … Lukács, invece, allo stesso modo di Hegel, accetta la fine del periodo rivoluzionario e costruisce la propria filosofia sulla comprensione della nuova svolta della storia universale. Notiamo, inoltre, che Lukács sembrerebbe accettare, implicitamente, la caratterizzazione trotskista del regime di Stalin, come termidoriano …»[ref]M. Löwy, Per una sociologia degli intellettuali rivoluzionari. L’evoluzione politica di Lukács 1909-1929, tr. it. R. Massari, Milano, La Salamandra, 1978, p. 236[/ref] .
Con un certo stupore, ho letto in un recente libro di Slavoj Zizek, un passo a proposito del saggio di Lukács su Hölderlin, che riprende, quasi parola per parola, la mia ipotesi, ma senza menzionare la fonte: «È evidente che l’analisi di Lukács è profondamente allegorica: essa è stata scritta qualche mese dopo che Trotsky lancia la sua tesi, secondo la quale lo stalinismo era il Termidoro della Rivoluzione d’Ottobre. Il testo di Lukács deve essere letto come una risposta a Trotsky: egli accetta la definizione del regime stalinista come “termidoriano”, ma in lui prende una svolta positiva. Piuttosto che deplorare la perdita di energia utopica, dovremmo, in una maniera eroicamente rassegnata, accettare le sue conseguenze come l’unico spazio reale del progresso sociale»[ref]S. Zizek, La révolution aux portes, Paris, Le Temps des Cerises, 2020, p.404[/ref] .
Non credo che Zizek abbia letto il mio libro su Lukács, ma egli probabilmente è venuto a conoscenza della mia analisi nell’articolo pubblicato nella raccolta, a grande circolazione, Western Marxism. Dato che Zizek scrive molto e molto velocemente, è comprensibile che non abbia sempre il tempo di citare le sue fonti …
Slavoj Zizek fa molte critiche a Lukács, nelle quali, paradossalmente, Lukács «diviene dopo gli anni Trenta il filosofo stalinista ideale che, per questa ragione precisa e a differenza di Brecht, passa dalla parte della vera grandezza dello stalinismo…»[ref]Ivi, p. 257[/ref] . Questo commento si trova in un capitolo del suo libro curiosamente intitolato “La grande interiorità dello stalinismo” – un titolo ispirato dall’argomento di Heidegger sulla “grandezza interiore del nazismo”, in cui Zizek si distanzia, negando, a giusto titolo, ogni “grandezza interiore” del nazismo.
Perché Lukács non ha colto questa “grandezza” dello stalinismo? Zizek non lo spiega, ma lascia capire che l’identificazione dello stalinismo con il Termidoro – proposta da Trotsky e implicitamente accettata da Lukács – era un errore. Per esempio, a suo avviso, «il 1928 fu una svolta travolgente, una vera seconda rivoluzione – non un tipo di “Termidoro”, piuttosto la radicalizzazione conseguente della Rivoluzione d’Ottobre». Morale della storia: si deve «cessare il ridicolo gioco consistente nell’opporre il terrore stalinista e l’“autentica” eredità leninista» – un vecchio argomento di Trotsky ripreso «dagli ultimi trotskysti, questi veri Hölderlin del marxismo attuale»[ref]Ivi, p. 250-252[/ref] .
Slavoj Zizek sarebbe, dunque, l’ultimo stalinista? È difficile rispondere, dato che la sua pensiero-mania, con un considerevole talento, usa i paradossi e le ambiguità. Cosa pensare delle sue grandiose proclamazioni sulla “grandezza interiore” dello stalinismo e del suo “potenziale utopico-emancipatore”? Mi sembra che sarebbe più giusto parlare della “mediocrità interiore” e del “potenziale distopico” del sistema stalinista … La riflessione di Lukács sul Termidoro mi sembra più pertinente, anche se esso stesso è discutibile.
Il mio commento, nell’articolo “Lukács e lo stalinismo” (e nel mio libro) concernente l’ambizioso affresco storico di Lukács, a proposito di Hölderlin, tenta di porre in questione la tesi della continuità tra Rivoluzione e Termidoro: «Questo testo di Lukács rappresenta indubbiamente uno dei tentativi più intelligenti e più sottili di giustificare lo stalinismo come una “fase necessaria”, “prosaica” ma “dichiaratamente progressista” dell’evoluzione rivoluzionaria del proletariato, vista come un processo unitario. Questa tesi – che costituiva probabilmente il ragionamento segreto di molti intellettuali o militanti più o meno seguaci dello stalinismo – conteneva un certo “nucleo razionale”, ma gli avvenimenti degli anni seguenti (i processi di Mosca, il patto russo-tedesco, ecc.), avrebbero dimostrato, anche a Lukács, che questo processo non era così “unitario”». Aggiungo in una nota a piè di pagina che il vecchio Lukács, in un’intervista del 1969 a New Left Review, ha una visione più lucida sull’Unione Sovietica: il suo potere d’attrazione straordinaria è durato dal “1917 alle grandi purghe” .
Ritornando a Zizek: le questioni che pone nel suo libro non sono unicamente storiche: esse riguardano la stessa possibilità di un progetto comunista emancipatore a partire dalle idee di Marx (e/o di Lenin). In effetti, secondo l’argomento che egli propone in uno dei passi più bizzarri del suo libro, lo stalinismo, con tutti i suoi orrori (che non nega) è stato, in ultima analisi, un male minore, in rapporto al progetto marxiano originale! In una nota a piè di pagina, Zizek spiega che la questione dello stalinismo è spesso mal posta: «Il problema non è che la visione marxista originale sia stata sovvertita dalle sue conseguenze inattese. Il problema è la questione stessa. Se il progetto comunista di Lenin – e dello stesso Marx – fosse stato pienamente realizzato secondo il suo vero nucleo, le cose sarebbero state ben peggiori che lo stalinismo – avremmo una visione di ciò che Adorno e Horkheimer chiamarono verwaltete Welt (la società amministrata), una società totalmente trasparente a se stessa, regolamentata dal general intellect reificato, dalla quale sarebbe stato bandita ogni velleità di autonomia e di libertà»[ref]Ivi, p. 419[/ref] .
Mi sembra che Slavoj Zizek sia troppo modesto. Perché nascondere in una nota a piè di pagina una tale scoperta storico-filosofica, la cui importanza politica è evidente? In effetti, gli avversari liberali, anticomunisti e reazionari del marxismo si limitano a renderlo colpevole dei crimini dello stalinismo. Zizek è, che io sappia, il primo a pretendere che se il progetto marxista originale si fosse realizzato pienamente, il risultato sarebbe stato peggiore che lo stalinismo …
Si deve prendere sul serio questa tesi, o piuttosto è meglio metterla sul conto del gusto smoderato di Slavoj Zizek per la provocazione? Non potrei rispondere a questa questione, ma penso alla seconda ipotesi. In ogni caso, ho qualche difficoltà a considerare come seria questa affermazione alquanto assurda – uno scetticismo senza dubbio condiviso da coloro – soprattutto giovani – che continuano ad interessarsi, ancora oggi, al progetto marxista originario.

Nota sull’intervista a Lukács del 1969

Sollecitato dai redattori di “Filosofia in movimento”, scrivo queste righe per chiarire lo scenario dentro il quale si inserisce l’intervista che Lukács concesse a Leandro Konder nel 1969. Per ragioni di spazio non ho avuto modo di fare questa opera di storicizzazione nel presentare la stessa intervista.
Innanzitutto lo stesso intervistatore va presentato: Leandro Konder. Nato nel 1936 a Petropolis, vicino a Rio de Janeiro, prima avvocato del lavoro, poi costretto all’esilio dal Brasile a causa del golpe militare del 1964, si rifugiò in Germania e in Francia. Nell’esilio approfondì lo studio della filosofia e del marxismo. Con Lukács aveva già intrattenuto un carteggio, insieme al suo amico Carlos Nelson Coutinho prima del golpe del 1964 – carteggio che è pubblicato in filosofiainmovimento. Nel 1978 poté fare ritorno in Brasile, dove intraprese la carriera accademica nelle facoltà di Storia e di Educazione. È morto nel 2014, dopo una lunga e tormentata malattia. Nel 1969 visitò Lukács a Budapest e da quella visita scaturì l’intervista di cui parliamo. La lingua dell’intervista fu il tedesco. L’intervista fu pubblicata in un grande giornale brasiliano Jornal do Brasil il 24 e 25 agosto 1969, proprio per il titolo che gli fu dato: “L’autocritica del marxismo”. La censura militare guardò più alle critiche che Lukács faceva al marxismo che alle proposte, che forse non furono neanche capite, così fu concesso il permesso di pubblicazione.
Lukács, nel 1969, aveva 84 anni, morirà due anni dopo, il 4 giugno 1971. Era un filosofo famoso in tutto il mondo, ma viveva isolato nella sua natia Ungheria. Non era particolarmente gradito al regime comunista di Kádár, perché era un pensatore indipendente e non disponibile a seguire le linee ideologiche del partito comunista ungherese. Alcune relazioni della C.I.A. che lo indicava come un dissidente sono citate in un mio articolo presente in filosofiainmovimento. L’anno precedente all’intervista, in occasione dell’invasione sovietica della Cecoslovacchia, a cui parteciparono anche truppe ungheresi insieme a quelle di altri paesi del Patto di Varsavia, Lukács aveva ribadito la sua posizione di indipendenza ideologica, scrivendo e inviando al Comitato Centrale del Partito, un saggio di argomento politico, Demokratisierung heute und morgen (La democrazia della vita quotidiana è il titolo in italiano). Naturalmente il saggio fu sepolto negli archivi del Partito, da dove riemerse soltanto nel 1985, suscitando un forte dibattito sull’analisi politica del vecchio Lukács.
Il tema centrale dell’analisi di Lukács è la sua polemica contro lo stalinismo, come ricorda anche nell’intervista. Una delle distorsioni politiche dello stalinismo era per Lukács il tatticismo, cioè la subordinazione delle scelte politiche non a un progetto strategico di lungo termine, ma a calcoli politici di dimensione ridotta, che, però, causavano enormi danni di immagine e di scelte politiche. Nell’intervista Lukács riferisce della crisi interna al Partito Comunista Francese, che non partecipò inizialmente alla Resistenza anti-nazista, perché l’URSS aveva firmato il patto di non belligeranza con la Germania. Questo patto di non belligeranza non si estendeva all’Italia e il Partito Comunista Italiano continuò senza limitazioni nella sua attività anti-fascista. La difformità di comportamenti, in base agli ordini di Mosca, ha segnato fortemente la storia futura, post-bellica, dei due partiti comunisti. Lukács ricorda che il tatticismo continua anche nella politica sovietica post-stalinista, in particolare nella politica estera, per cui alcuni paesi arabi, come l’Egitto, sono considerati socialisti, in contraddizione palese con la loro effettiva e reale struttura economica e sociale.
Come è detto nell’intervista Lukács, al momento dell’intervista stava scrivendo la sua Ontologia dell’essere sociale. Infatti Lukács fa riferimento al fenomeno dell’alienazione, che poi sarà indicata con il termine di estraniazione. L’estraniazione è l’argomento del quarto e ultimo capitolo dell’Ontologia dell’essere sociale. Per Lukács si tratta di un fenomeno specifico del capitalismo del XX secolo, per cui l’intera vita quotidiana dell’essere sociale è subordinata, addirittura progettata, dal sistema capitalistico. Così alla classica estrazione di plusvalore dal lavoro vivo del lavoratore, si unisce lo sfruttamento dei suoi consumi: il consumismo è un fenomeno specifico del capitalismo moderno, è un’energia irrefrenabile che spinge il capitalismo a sfruttare anche i bisogni dell’essere sociale e il loro soddisfacimento. I bisogni vengono indotti e controllati dalla pubblicità e dalla propaganda, come facevano i due sistemi totalitari, fascismo e nazismo. Il consumo è indirizzato verso le merci che il sistema capitalistico ha prodotto e predisposto a un consumo programmato. La psicologia dell’essere sociale è così manipolata e subordinata alla produzione delle merci. La totalità sociale è interamente programmabile e calcolabile. Lukács confessa che non crede che siano possibili crisi fondamentali nel capitalismo moderno. La capacità di manipolabilità del sistema sembra in grado di superare qualsiasi crisi e, in realtà, così è avvenuto negli ultimi cinquanta anni.
Dietro a questa capacità di manipolabilità del sistema capitalistico dominante, c’è la calcolabilità sia della produzione che del consumo. Il tema della calcolabilità era stato sviluppato dal grande amico di gioventù di Lukács, Ernst Bloch in Lo spirito dell’utopia, e Lukács riprese il tema già in Storia e coscienza di classe. Il tema è implicito ovviamente nella sua analisi dell’estraniazione nell’Ontologia dell’essere sociale. Sostengo questa implicita presenza, perché Lukács critica radicalmente la concezione del mondo del neo-positivismo – in particolare vi dedica un capitolo nella prima parte dell’Ontologia dell’essere sociale – che fa della calcolabilità lo strumento di analisi della realtà. Lukács si ribella a questa riduzione delle cose e degli esseri umani a numeri. In fondo, quindi, la calcolabilità è una forma ideologica del capitalismo moderno, un suo strumento di azione nella realtà sociale.
Lukács accusa il marxismo post-Lenin di essere stato incapace di analizzare i fondamenti teorici del capitalismo contemporaneo. Egli sostiene che il marxismo deve riprendere la sua concezione razionale e storicistica della realtà sociale. L’irrazionalismo è da lui considerato il grande avversario del marxismo. Così fenomeni come l’esistenzialismo – di cui però salva alcune analisi di Sartre, ma condanna in blocco Heidegger –, il neopositivismo e anche alcune tendenze considerate marxiste, come quelle della Scuola di Francoforte, sono asservite all’ideologia borghese in lotta contro la ragione dialettica. In pratica le tendenze dominanti la scena della filosofia della seconda metà del Novecento sono considerate da Lukács come oppositrici del marxismo. La reazione a questa generale opposizione lukácsiana fu il considerare Lukács uno stalinista. Il giudizio di “stalinista” ha condizionato fortemente la diffusione della conoscenza delle opere del Lukács maturo. In realtà Lukács fu una vittima dello stalinismo sia per l’ostracismo decretato alle sue opere nei paesi del socialismo realizzato, sia nei confronti della persona, arrestato per due volte – una nella Russia stalinista nel 1941 e una seconda in Ungheria per la sua partecipazione alla Rivoluzione del 1956 – e isolato dal regime post-stalinista ungherese – isolamento favorito anche dalla ostilità degli intellettuali occidentali.
Soltanto in America latina il pensiero di Lukács ha avuto un notevole successo, che continua ancora oggi. Infatti Lukács, come si nota nell’intervista, non assume una posizione eurocentrica nei confronti del suo interlocutore brasiliano. Anzi sprona gli intellettuali latinoamericani a sviluppare una propria analisi della loro realtà sociale ed economica, cioè a non ripetere gli errori degli intellettuali marxisti occidentali che non hanno saputo ripetere l’analisi compiuta dai fondatori del marxismo. Egli si considerava un semplice indicatore di tendenze da sviluppare.
Per concludere queste righe di esplicazione, ricordo il giudizio di Lukács nei confronti di Gramsci. Lukács non conosceva l’italiano e le opere di Gramsci, almeno fino agli anni Sessanta, non erano ampiamente tradotte in inglese, francese o tedesco, ancor meno in ungherese, le lingue che Lukács conosceva; quindi la sua conoscenza di Gramsci non era ampia, ma malgrado questa ristrettezza il suo giudizio è indicativo: nel considerare Gramsci come un teorico che dà indicazioni generali, le quali devono essere tratte dallo studio del contesto storico ove Gramsci agì, Lukács invita a trattare Gramsci come un classico del marxismo. Invita a analizzare dettagliatamente il rapporto che il pensiero di Gramsci ha intessuto con la storia che lui ha vissuto e ha visto. È lo stesso lavoro di ricerca che lui compì nei confronti di Marx.

Lettere di G. Lukàcs a due filosofi brasiliani

Il carteggio apparve nel marzo 1992 su “Marx Centouno” a cura di Tania Tonezzer, ma la traduzione era mia. Qui presento soltanto le lettere di Lukács, tralasciando parti che sono di carattere personale e non interessanti. Le ripubblico perché quel fascicolo è oggi di difficile reperibilità e per i motivi che elenco qui di seguito.
Nelle sue lettere Lukács ribadisce il suo auto-giudizio negativo su Storia e coscienza di classe, avvertendo per ben due volte entrambi gli interlocutori della sua, allora, errata concezione dell’alienazione e del carattere sostanzialmente idealistico dell’opera, quindi considera superata l’opera che lo rese universalmente famoso.
Lukács esprime giudizi parzialmente favorevoli su Sartre e Goldmann, anche se accusa quest’ultimo di essere un “marxisteggiante”, piuttosto che un vero e proprio marxista. Considera, invece, l’esistenzialismo di Sartre ancora troppo legato al pensiero di Heidegger. Esprime giudizi positivi su scrittori allora di moda, come Caudwell e Semprun, o ancora oggi di moda, come Elsa Morante.
L’importanza di questo carteggio è, però, rappresentata dalla sua autocritica nei confronti di Kafka. Lukács aveva liquidato lo scrittore ceco nel suo Il significato attuale del realismo critico, scritto in condizioni molto critiche, quali la detenzione in Romania, a seguito della sua partecipazione alla Rivoluzione ungherese del 1956. In una lettera a Coutinho ritiene errato il suo giudizio di allora e considera Kafka uno scrittore di enorme interesse. Non tornerà mai più a scrivere di Kafka e, per questa ragione, queste poche righe cambiano totalmente il quadro della sua critica sullo scrittore ceco.

Lettera alla rivista Praxis (11 aprile 1968)

Continuano ad essere pubblicati materiali finora inediti riguardanti il vecchio Lukács; materiali che arricchiscono l’immagine del filosofo ungherese quale costante oppositore dei regimi totalitari del “socialismo realizzato” e di intellettuale impegnato nella difesa dei diritti umani. Con introduzione di Antonino Infranca.

            L’11 aprile 1968 Lukács scrisse una lettera alla rivista jugoslava “Praxis” a seguito della richiesta che i due direttori della rivista, Gajo Petrovic e Rudi Supek, gli avevano indirizzato di firmare una lettera di protesta contro le manifestazioni antisemite in Polonia. Ricordo che in quegli anni Lukács era impegnato nella raccolta di firme per una richiesta di libertà nei confronti di Angela Davis, la giovane afro-americana che lottava per i diritti civili degli afro-americani e che era stata rinchiusa nelle carceri statunitensi con l’accusa di terrorismo (cfr. Vie traverse. Un confronto Lukács-Anders, a cura di A. Infranca e A. Meccariello, Trieste, Asterios, 2019). Tre anni dopo interverrà per chiedere la liberazione dal carcere ungherese di due dissidenti maoisti, Dalos e Haraszti (cfr. G. Lukács, Testamento politico, a cura di A. Infranca e M. Vedda, Milano, Punto Rosso, 2015).

            La notizia della firma della lettera di protesta da parte di Lukács fu data da Radio Free Europe il 29 aprile. Proprio il giorno prima, il 28 aprile, il quotidiano jugoslavo “Vjesnik” dava la notizia che l’organo del Partito Operaio Socialista Ungherese, il quotidiano “Nepszabaság”, il 27 aprile, aveva pubblicato un attacco a Lukács da parte del responsabile per le questioni culturali del POSU, György Aczél. Aczél rimproverava a Lukács la sua “unilateralità” nel criticare lo stalinismo e il culto della personalità in Ungheria. Secondo Aczel, Lukács non aveva considerato i lati positivi di quel periodo della storia del socialismo e non ammetteva che si potesse tollerare alcun compromesso nella lotta ideologica. In discussioni private, Aczel cercò di far capire a Lukács che il POSU cercava di portare avanti una “politica di bilanciamento” tra la necessaria de-stalinizzazione e il controllo occhiuto dei sovietici. Lukács non accettò questa “politica di bilanciamento” e continuò imperterrito la sua condanna della continuazione dello stalinismo sotto forme nascoste (cfr. G. Lukács, Pensiero vissuto, a cura di A. Scarponi, Roma, Editori Riuniti, 1983, p. 183).

            È molto probabile che Aczel, a nome del Comitato Centrale del POSU, chiese a Lukács un’intervista per spiegare le sue posizioni politiche. L’intervista fu tenuta nel luglio 1968, quindi un mese prima dell’invasione sovietica della Cecoslovacchia. Adesso l’intervista è disponibile in italiano (cfr. G. Lukács, Lukács parla, a cura di A. Infranca, Milano, Punto Rosso, 2019). Lukács condannò fortemente l’invasione della Cecoslovacchia e la repressione della Primavera di Praga in suo scritto, Demokratisierung heute und morgen (cfr. G. Lukács, La democrazia della vita quotidiana, a cura di A. Scarponi, Roma. Il manifestolibri, 2013). Lo scritto di Lukács rimase sepolto negli archivi del POSU fino al 1985, quando nell’incipiente era gorbacioviana proprio György Aczel lo fece pubblicare in tedesco e poi tradurre in italiano. Era un modo per mostrare ai compagni russi che il vecchio Lukács aveva anticipato la perestroika e la glanost di Gorbaciov. 

            Qui traduciamo la lettera dell’11 aprile 1968, nella quale Lukács, oltre a sottoscrivere la lettera di protesta contro i rigurgiti antisemiti, prende posizione contro le possibili “misure amministrative” che sarebbero state prese, eventualmente, nei suoi confronti da parte della dirigenza comunista ungherese. Per “misure amministrative” si intendeva anche il carcere o l’espulsione dall’Ungheria. Lukács rimase fermamente legato alle sue convinzioni e il POSU non poté punire un intellettuale tanto famoso. “Il coraggio dei vecchi è libertà che si avvicina” (Seneca, Fedra).

            Budapest, 11 aprile 1968

            Cari compagni Petrovic e Supek,

in principio, vi autorizzo a includere il mio nome nella vostra lettera di protesta. Come voi stessi, anche io sono convinto che il problema del marxismo non può essere risolto con misure amministrative.

            Comunque, per esprimere con la massima efficacia le mie concezioni, che non differiscono dalle vostre concezioni, riguardanti le misure amministrative, vi prego di pubblicare le seguenti osservazioni riguardo alla mia firma:

            La rinascita del marxismo può essere realizzata soltanto mediante serie ricerche scientifiche e per mezzo di critiche espresse in libere discussioni. Nell’attuale situazione è inevitabile che differenti concezioni, riguardanti queste questioni, concezioni in conflitto, siano espresse pubblicamente. Nel far ciò si deve sapere che non sempre una concezione soggettivamente onesta sia, se considerata oggettivamente, una concezione marxista. In altre parole, ciascuno di noi ha il pieno diritto di sostenere apertamente che le concezioni espresse da particolari pensatori, riferentesi al marxismo, non siano, in realtà, concezioni marxiste. Non desidero, né posso, far passare ciò in silenzio in relazione con il caso su menzionato. Il mio radicale rifiuto di qualsiasi misura amministrativa (e delle sue ufficiali spiegazioni) non è affatto indebolita dalle riserve teoretiche su menzionate. Tutto ciò che non è marxista in una teoria o in metodo, secondo la mia opinione, può e dovrebbe essere affrontato soltanto con discussioni scientifiche.

Con cordiali saluti, Vostro

György Lukács