di A. Coratti
Il ruolo fondamentale sarà giocato dalla differenza, intesa come «aspirazione» e «diritto» e non più come segno di appartenenza ad altro o al medesimo
Da Eschilo a Platone, passando per Dante e
Montesquieu, il rapporto tra “Oriente” e “Occidente” ha segnato la storia della
letteratura europea. In epoca moderna, come evidenziato dall’intellettuale
americano di origine palestinese Edward Said, avviene un fenomeno nuovo: per
giustificare le proprie «imprese colonizzatrici», l’ “Occidente” inventa il
«fantasma di culture arretrate»[1]. Di colpo la Storia
(quella con la s maiuscola) è annientata. La culla della civiltà, la sorgente
da cui i Greci e Platone stesso traevano ispirazione per fondare la base di
quella che sarebbe poi diventata la “cultura occidentale” è improvvisamente
accusata di essere sede di una cultura “inferiore”. Oggi è diffusa l’idea che
sia in corso uno “scontro di civiltà” tra Oriente e Occidente, tra
l’integralismo religioso e fondamentalista e la modernità laica e razionale.
La testimonianza del filosofo francese
Abdennour Bidar risulta a questo proposito densa di significati per sfatare
pregiudizi e vere e proprie allucinazioni di massa. In Self Islam, egli, nato in Francia da madre francese convertita
all’Islam, ripercorre le tappe fondamentali della sua esistenza, in cui la fede
in Allah convive, non senza sentimenti contrastanti e, a volte, vere e proprie
contraddizioni, con la volontà di proseguire gli studi in filosofia presso la
prestigiosa e laicissima École Normale
di Parigi. Contraddizioni imposte dall’esterno, dagli sguardi degli altri,
dalle richieste delle istituzioni, non certo all’interno di Bidar che, fin
dall’infanzia, ha sentito crescere la propria fede religiosa insieme e
parallelamente allo «spirito critico moderno», tipicamente e propriamente
europeo[2]. Parlare di Self Islam, di una fede del tutto
interiore, aderente totalmente alla propria personale storia, presuppone,
infatti, l’azione purificatrice dello spirito critico europeo che si è
sbarazzato «di tutto ciò che le religioni avevano accumulato di oscurantismo,
superstizione e formalismo», non distruggendo, tuttavia, la «dimensione
spirituale dell’esistenza»[3]. La differenza che Bidar
evidenzia tra «età della religione» ed «era spirituale» ci pare fondamentale,
ancor di più considerando il fatto che l’autore accusi tanto parte del mondo
islamico, quanto il governo francese di confondere i due piani, non riuscendo
entrambi a cogliere la complessità e le nuove opportunità aperte dal mondo
globalizzato. Da una parte, il sufismo, che rappresenta l’ala mistica e
ascetica dell’Islam, cui Bidar si era legato in un periodo di forte contrasto
con il mondo occidentale, è accusato di non aver riconosciuto il valore
spirituale della critica moderna alle religioni, restando ancorato alle sue
tradizioni medievali e, soprattutto, di celare, dietro la facciata di «pacifica
spiritualità», una realtà fatta di «intransigenza», «chiusura» e
«sottomissione»[4].
Dall’altra parte, anche il governo
francese resta imbrigliato nell’età della
religione, contraddicendo gli stessi valori fondanti la propria storia
rivoluzionaria: «oggi è la stessa Francia che classifica gli individui secondo
il proprio gruppo etnico, religioso, culturale, come se sia necessario prima di
ogni cosa considerare ognuno attraverso questa appartenenza. Come se bisogna
rispettare il musulmano, l’ebreo, il Nero, l’omosessuale, prima di tutto per
questa differenza. Come se si fosse musulmano, etc, prima di essere umano»[5]. Questo atteggiamento
classificatorio appare anch’esso anacronistico, legato a un’epoca in cui si
cercava a tutti i costi di «fabbricare unità» fondandole su principi astratti
che diventavano però socialmente e politicamente rilevanti. È il caso del
destino dell’Islam dopo l’11 settembre: di colpo diventato il «Grande Nemico»
dell’Occidente, andando ad occupare il posto lasciato vacante dall’ex URSS dopo
la caduta del muro di Berlino. Il terrorismo e l’integralismo islamico, sebbene
fenomeno limitato all’interno dell’Islam, è immediatamente assunto a «minaccia
suprema per l’ordine mondiale» e il suo spauracchio genera odio e sospetto, influenzando
anche scelte politiche in tutte le nazioni europee come quelle relative all’annosa
questione dell’integrazione di immigrati arabi, turchi, pakistani[6].
L’Occidente comincia ad interrogarsi sulla
compatibilità dell’Islam con la democrazia tout
court. D’altro canto, Bidar denuncia l’irrigidimento della posizione dei “musulmani
europei” che, guidati dalla voce autorevole di Tariq Ramadan, rivendicano –
proprio in nome del principio democratico di “libertà religiosa” –
l’intangibilità dei dogmi e delle leggi del Corano. Bidar critica aspramente la
contraddittorietà di questo atteggiamento che pretenderebbe di far appello a
principi democratici per costringere di fatto la democrazia stessa a «tollerare
l’intollerabile per essa: lo sviluppo di una religione nella sua forma più
rigida e arcaica»[7].
Ciò comporterebbe inevitabilmente, secondo Bidar, la chiusura della comunità
musulmana in se stessa e il tradimento della tradizione politico-filosofica
della Repubblica francese secondo cui «tutti i cittadini della nazione
condividono gli stessi valori»[8]. In realtà, lo «spirito
del tempo» non permetterà una rinascita dell’Islam «in quanto religione»,
ovvero come culto di una verità eterna, unica e immutabile. È piuttosto da
recuperare la dimensione spirituale dell’Islam, proclamata espressamente da
alcuni passi del Corano stesso, in cui si legge, ad esempio, che «per ognuno
c’è una direzione»[9].
I segni del passaggio dalla dimensione religiosa a quella spirituale sono del
resto presenti – nonostante la vulgata di un Islam quasi completamente dominato
da forze integraliste e dal fanatismo – all’interno degli stessi paesi
islamici, anche i più retrogradi: «ovunque, più o meno velocemente, il vecchio
islam autoritario, intollerante, religioso cede spazio a una cultura musulmana
molto più aperta, che ha sete di libertà e uguaglianza»[10]. A questo proposito,
l’autore cita, tra gli altri, l’esempio dell’India, dove «le donne reclamano la
traduzione del Corano per poterlo leggere direttamente e personalmente, contro
la verità imposta dai loro mariti»[11]. La questione della traduzione
dei testi sacri è fondamentale per comprendere la storia dell’Islam,
comparandola, ad esempio, alla storia del Cristianesimo. Come evidenziato da
molti studiosi, la Riforma protestante ha segnato la nascita dello spirito
critico moderno europeo[12] e una grave crisi dell’auctoritas della Chiesa di Roma,
motivate entrambe anche e, soprattutto, dalla traduzione della Bibbia in
tedesco. Per l’Islam, la situazione è diversa. Da sempre – afferma Bidar – le
differenze notevoli nelle tradizioni culturali e negli stili di vita
all’interno del mondo musulmano (che, come noto, si estende dal Marocco
all’India e alla Cina), sono relegate in secondo piano rispetto all’immagine
del «“vero musulmano”, del “buon musulmano”, pio credente che vive sul modello
del Profeta»; gli individui non sono ancora riusciti a rivendicare il «diritto
a sentirsi musulmani a partire da altri aspetti che non siano quelli
strettamente religiosi»[13]. In realtà, «sotto il
pretesto che il Corano sia stato rivelato in lingua araba, gli Arabi hanno
esercitato un rigido imperialismo religioso sull’islam […] considerando le
traduzioni del Corano come delle copie inferiori rispetto all’originale»[14]. La richiesta delle donne
musulmane indiane e pakistane di far tradurre il Corano nella loro lingua per
poterne leggere direttamente il contenuto ha, dunque, un significato
rivoluzionario, andando a colpire direttamente al cuore tutte quelle
interpretazioni del testo sacro che, nascondendosi dietro l’incomprensibilità
della lingua, non hanno fatto altro che alimentare il potere e il controllo da
parte del mondo arabo e, per lo più, maschile.
La proposta del Self islam passa per l’opera di traduzione dei testi sacri che
consentirà la riscoperta per ognuno del proprio, personale rapporto con Allah e
in questo modo la spiritualità (e non
la religiosità) potrà riconciliarsi con il nostro proprio tempo, con questo «mondo
divenuto così diverso, così molteplice», in cui ognuno manifesta un così forte «desiderio
[…] di voler esprimere la propria singolarità»[15]. Il ruolo fondamentale
sarà giocato dalla differenza, intesa
come «aspirazione» e «diritto» e non più come segno di appartenenza ad altro o al medesimo.
[1] E. Said, L’Orientalisme, Seuil, Paris, 1980
[2] A. Bidar, Self Islam, Seuil, Paris, 2006, p. 121
[3] Ibidem
[4] Ivi, p. 123
[5] Ivi, p. 84
[6] Ivi, p. 156
[7] Ivi, p. 157
[8] Ivi, p. 159
[9] Ivi, pp. 161-162
[10] Ivi, p. 164
[11] Ibidem
[12] Cfr. in particolare, M. Foucault, Qu’est-ce que la critique? Critique et
Aufklarung, in Bulletin de la société française de philosophie, n. 2, 1990
[13] A. Bidar, op. cit., p. 35
[14] Ivi, p. 36
[15] Ivi, p. 87