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Lady Sapiens. Come le donne inventarono il mondo

di Giulia Carletti

 

Un’antropologa, uno storico e un regista sono gli autori di Lady Sapiens. Come le donne inventarono il mondo (Piemme, 2022), un saggio che, come annuncia il sottotitolo originale (Enquête sur la femme au temps de la Préhistoire: Indagine sulla donna ai tempi della preistoria) si propone di tracciare scientemente un’alternativa alla narrazione tradizionale di questo antichissimo e lunghissimo periodo dell’umanità: il Paleolitico (da ca. 2,5 milioni a ca. 15-12 000 anni fa). La vita dell’Homo Sapiens maschio, predatore e soggiogatore, è stata a lungo la più rappresentata, non solo come oggetto di indagine degli studi preistorici, ma anche come immagine proposta nella cultura visiva, dalla pittura ottocentesca al cinema. Una giovane donna, chiamata “lady sapiens”, componeva l’altra metà di esseri umani che popolavano quella parte di mondo antichissimo e di cui, gli autori polemizzano, ci si è occupati poco o secondo la lente degli stereotipi di genere: dall’impalcatura di una rigida divisione sessuale delle mansioni fino ad una agognata fertilità femminile deliberatamente attribuita alle menti degli uomini preistorici. Nella prefazione, Sophie A. de Beaune ci dice: “tra la visione tradizionale della femmina schiacciata sotto il giogo maschile e quella, opposta, di una donna cacciatrice in tutto e per tutto simile a un uomo, manca un ritratto rigoroso e più sfumato che provi a integrare le fonti archeologiche con gli approcci etnografici” (p. 13). A un anno dalla pubblicazione de La Preistoria è Donna: Una storia dell’invisibilità delle donne (tradotto da Giunti, 2021), il libro cita ampiamente la storica francese Marylène Patou-Mathis, contribuendo così alla decostruzione di quel retaggio che vede il dominio dell’uomo sulla donna e le guerre fra esseri umani come presenti “dall’alba dei tempi”.

L’idea del sapiens paleolitico, preda di pulsioni aggressive e animali contro i suoi simili e contro la donna, è stata a lungo prevalente tra gli studiosi a partire dalla fine del Settecento, più che di questa disciplina, della mente, che iniziavano già a impostare una linea culturale pseudo-evoluzionistica che vedeva nella natura atavicamente scimmiesca la causa della pazzia umana, fuori dal controllo della ragione. Di conseguenza, essendo stato il cranio “centro delle ricerche sull’anima e sull’intelligenza, era abbastanza naturale che gli studiosi del XIX secolo si concentrassero sui teschi per tentare di comprendere e di identificare i nostri antenati; su quegli stessi teschi che erano stati utilizzati per difendere teorie evoluzionistiche che ai giorni nostri risultano alquanto imbarazzanti” (p. 36). A partire da inizio Ottocento, tali idee fecero breccia tra i fisiognomisti fino ad arrivare agli psicoanalisti, tutti autori di cui Patou-Mathis non aveva esitato a riportare le affermazioni più feroci contro la donna, debole per natura, difettosa e malata fin dalla nascita, quando non idealizzata, priva del corpo e di una sua sessualità. E la nascita dell’umanità sta proprio nel periodo che ci vide separarsi dalla filogenesi animale, un periodo conteso a volte più intellettualmente e culturalmente che scientificamente, dalle diverse discipline, quasi a voler avere un accesso per la verità umana, i suoi pensieri, i suoi “istinti”, per spiegare il comportamento e la mente di oggi.

La suggestione è che, invece, tale tipo di conflitti sociali presero maggiormente piede con la sedentarizzazione dei gruppi umani e con la loro organizzazione collettiva nel Neolitico, durante e dopo i processi di civilizzazione. Come anche suggerito da Patou-Mathis e come ci spiegano le autrici e gli autori del libro, non vi è un insieme consistente di tracce provenienti dal Paleolitico tale da riuscire a confutare un’ipotesi di pacifica convivenza tra tribù e tra uomo e donna cacciatori-raccoglitori, o, quanto meno, le tracce rinvenute spiegherebbero più che altro disuguaglianze materiali (ad esempio nelle mansioni, nell’alimentazione, nel vestiario), non tanto quelle immateriali (legate ai diritti sessuali e riproduttivi, la famiglia, la rappresentazione “artistica” della donna, etc): ma per gli autori tali disuguaglianze non bastano a definire la civiltà paleolitica come patriarcale (né tanto meno matriarcale). Un’immagine diversa di donna, però – forse ben prima della comparsa di Homo Sapiens! – è ciò di cui la nuova paleontologia e la neonata disciplina dell’archeologia cognitiva si stanno occupando.

Partendo dalla recente scoperta della Venere di Renancourt (ca. 27.000 anni fa), avvenuta in Francia nel 2019, Lady Sapiens riporta quelle ricerche sul substrato culturale del periodo preso in esame, passando in rassegna vari studi e report di scavi, insieme alle diverse ipotesi dei ricercatori su credenze e pensieri che potrebbero aver avuto luogo tra le comunità umane del Paleolitico. Il risultato è, fra gli altri, quello di decostruire le interpretazioni ottocentesche che a lungo hanno regnato (e in parte ancora oggi si fanno presenti) non solo nell’immaginario collettivo, ma nella stessa disciplina che, sotto forma di ipotesi fantasiose e mascherate da scienza della mente, si è spesso basata su prove insufficienti o inadatte a tracciare una solida linea evolutiva della donna sapiens e delle sue rappresentazioni nel Paleolitico. La stessa dicitura di “Venere”, dea bianca e occidentale, nasce dai primi studiosi della Preistoria, disciplina figlia della fine del XIX secolo, come anche il nome stesso “preistoria”, nato a Parigi in occasione dell’Esposizione Universale del 1867.

Articoli e studi, in cui gli autori e le autrici illustrano i nuovi metodi di scavo e di analisi del dna e delle ossa grazie a nuove tecnologie del settore (che rivelano non solo il sesso ma anche lesioni ossee da stress lavorativo, il periodo di allattamento, etc), sono ampliamente citati, documentati e raccontati al lettore con un ritmo fluido e un linguaggio divulgativo che ben connette le varie discipline prese in esame (paleontologia, paleoetnopologia, etnografia, antropologia, sociologia, etc.). Ad accompagnarli, le varie ipotesi di ricerca che, sempre più frequentemente negli ultimi anni, sono volte a indagare quegli aspetti immateriali e “culturali” nei gruppi di cacciatori-raccoglitori che in passato sono sfuggiti allo studio della preistoria.

Ne esce fuori un’immagine di donna abbastanza distante da quella tradizionalmente fatta appartenere al Paleolitico, anche solo sessant’anni fa: una donna con competenze diversissime – anche altre rispetto a quelle maschili – spesso madre, parte attiva e fondamentale del gruppo, con una muscolatura molto più sviluppata di quello che si ritenesse (e che è molto interessante confrontare con le rappresentazioni di statuine che la vedono estremamente in carne, di cui parlerò più avanti). Tra i vari compiti vi era anche l’impegnativa concia delle pelli e la partecipazione alla caccia degli animali di piccola taglia (la più costante e fruttuosa per il gruppo), anche tramite la costruzione di trappole. Il loro coinvolgimento nella vita attiva era totale e “la dicotomia tra ‘uomo cacciatore’ e ‘donna raccoglitrice’, dunque, così come è stata presentata negli anni Settanta, appare caricaturale”, ci dicono gli autori e le autrici, in quanto “non vi è ragione al mondo per cui i gruppi preistorici dovessero privarsi del prezioso aiuto di metà della popolazione adulta durante la caccia” (p. 145).

Ma forse l’ipotesi che più ci incuriosisce è quella che vede lady sapiens detentrice di saperi e creatività. Da un lato, gli unici “reperti” lasciati volontariamente, e cioè le ipnotizzanti immagini nelle caverne, ci mostrano spesso mani impresse in negativo, come quelle della grotta di Pech Merle. Gli studi più recenti, tra cui quelli di Snow, rivelano (p. 173) che si tratterebbe di mani anche femminili e di bambini. Artiste quindi? Un’ipotesi estremamente affascinante, “nemmeno concepibile per gli studiosi del XIX secolo” (p. 171), ma che potrebbe apparire anche molto plausibile, poiché più compatibile con il tempo richiesto da una tipologia di compiti “femminili” che “maschili”. Dall’altro, recenti studi sul dna salivare e sui tessuti ci suggeriscono una competenza nelle primissime forme di arte medica basate sulla conoscenza e utilizzo di piante, vegetali e resine, facendo strada a ipotesi più “avventurose” che le vedevano sciamane ante litteram, come ipotizzato da Nicholas Conrad che riscontra un legame tra magia a uso medico e femminilità.

Attraverso i capitoli, i primi più generali focalizzati sui costumi dei sapiens paleolitici e gli ultimi più specifici sulla vita e le attività della donna paleolitica, la curiosità cresce parallelamente su due livelli. Il primo – non strettamente legato alla tematica femminile – si dipana lungo la fitta esplorazione di tutti quegli oggetti non strettamente legati alla funzionalità materiale, o di cui si mette in guardia da una scontata interpretazione di questo tipo. Il rinvenimento di calchi di tessuti, decorazioni, di statuine forate, fino ad arrivare alle pitture rupestri e bassorilievi, apre la strada a ipotesi non solo su costumi ed esigenze estetiche, ma anche sulle relazioni tra individui, sugli aspetti sociali di potere o status, sui rapporti tra i primi esseri umani.  Non è detto che l’orientamento all’utile fosse la caratteristica distintiva dell’uomo e della donna del Paleolitico. Gli autori contestano fermamente l’ipotesi che li vede schiavi dei soli bisogni fisici che li rende simili ai nostri antenati animali, ai nostri discendenti scimpanzé e oranghi, dalla quale filogenesi ci separammo milioni di anni fa. L’impiego di molto tempo per realizzare vestiti e pelli, in epoche in cui il clima non li rendeva ancora fondamentali alla sopravvivenza, fa nascere domande come: il vestiario, già nei primissimi millenni di vita del genere umano, poteva acquisire una funzione simbolica, di status, di socialità? La pelle stessa, l’organo più esteso del corpo umano, pare venisse trattata meticolosamente a giudicare dalle tracce di pigmenti rinvenuti nelle tombe. Come suggeriscono gli autori, esso era già allora “un vettore di comunicazione tra gli elementi e gli esseri viventi” (p. 60). La pelle, dunque, era già nella preistoria oggetto di un pensiero simbolico, affettivo e relazionale? Poteva contribuire a formare un’immagine culturale, terreno unicamente umano di sensazioni ed emozioni nel rapporto con gli altri, anziché ad avere una funzione prettamente protettiva del corpo?

Il secondo riguarda invece il cambio di prospettiva che il libro tenta di operare sugli uomini e la loro convivenza con le donne nel Paleolitico. Come accennato prima, quelli che gli autori definiscono come “stereotipi” ci dicono qualcosa sulle idee erroneamente predominanti della stessa natura umana che vedono nella “animalità” e “aggressività” dei preistorici una legittimazione per una ipotesi di natura umana ancestralmente e geneticamente violenta, aggressiva e patriarcale. Lady Sapiens decostruisce proprio l’idea stessa di esseri umani non solo orientati “per natura” alla funzionalità – dediti quindi unicamente al procacciamento del cibo e alla soddisfazione dei bisogni fisiologici (provviste, riparo, difese contro animali feroci) – ma anche alla sopraffazione sui propri simili e incapaci di pensieri affettivi e cognitivi non violenti. Esso si aggiunge così a tutta quella linea di ricerca della moderna antropologia, paleontologia, ma anche psichiatria e psicologia che mira a superare tali retaggi culturali, che vedrebbero l’attività della mente umana incentrata esclusivamente sul “controllo” di una presunta insita animalità perchè “atavicamente” aggressiva e violenta contro l’altro, contro la donna.

Il passaggio sulla sessualità della donna preistorica (a metà libro, nei capitoli “Sensualità e sessualità” e “Fondare una famiglia”) è significativo da questo punto di vista. E’ il caso di citarlo direttamente: “In effetti, il nostro bipedismo perfetto ha fatto sì che i segni dell’estro, che nelle femmine dei primati non umani indicano di solito il periodo fertile e provocano una risposta istintiva nei maschi, divenissero invisibili” (p. 73). Una sessualità non legata alla riproduzione, ma alla ricerca di rapporto? Nel cosiddetto “salto evoluzionistico”, nella separazione cioè con la filogenesi animale, c’è stata forse una “psichizzazione” della sessualità, del rapporto con l’altro? In questo senso, il dubbio degli autori riguarda anche il considerare la fertilità una caratteristica desiderabile a priori per lady sapiens: non è detto che nel Paleolitico una famiglia numerosa fosse un vantaggio e, men che meno, così comune come si è soliti pensare. La conoscenza e il controllo del proprio corpo, rispetto soprattutto alla gravidanza, pare abbia origini più antiche di quanto pensiamo, e sono al centro di ricerche ed ipotesi che il libro riporta soprattutto attraverso gli studi di Coquet, ricercatrice in antropologia culturale. L’impiego di metodi contraccettivi per impedire la fecondazione oppure il ricorso a metodi abortivi (pp. 112-114) sono un’ipotesi molto probabile se guardiamo agli studi etnologici delle popolazioni indigene con scarsi contatti ma, soprattutto, se esaminiamo le analisi di alcuni rinvenimenti di scheletri in cui appaiono tracce di un albero tropicale tra gli escrementi, pianta il cui infuso provoca l’aborto (p. 196). Ciò fa pensare ad una trasmissione di conoscenze che, Conard immagina, potevano passare anche attraverso la produzione di piccole statuine come, per esempio, la Venere di Hohle Fels (ca. 35 mila anni fa). Inoltre, dall’analisi isotopica dello smalto dentale effettuata da Vincent Balter, è possibile determinare che l’allattamento di Homo erectus e australopitechi avvenisse fino ai tre o quattro anni di vita: gli autori ci dicono che sia improbabile che il periodo di allattamento di Lady Sapiens si discosti molto da questo, anche se studi sul Paleolitico superiore devono essere ancora realizzati (p. 117). E’ possibile pensare che le donne paleolitiche avessero meno figli di quanto si pensasse, o comunque meno di quanto i rinvenimenti del Neolitico rivelino (p. 115). Basti pensare che il passaggio alla posizione eretta, insieme ad altri cambiamenti morfologici lungo l’evoluzione, probabilmente avevano reso il parto più rischioso rispetto ai periodi passati (p. 108): una plausibile difficoltà nella vita della donna paleolitica e, quindi, ostacolo alla sopravvivenza dei membri del gruppo. Una interessante suggestione ci arriva poi dall’invenzione del marsupio, strumento utile per potersi muovere in tranquillità dopo il parto: “legarsi il neonato sul dorso per liberare le mani permetteva effettivamente alla madre, una volta superati i postumi del parto, di essere di nuovo disponibile a svolgere le attività del gruppo” (p. 131).

Oltre a indagare su fertilità e maternità – i cui studi si basano più sull’analisi delle ossa e del dna – il libro apre uno sguardo sulla “produzione culturale” paleolitica, nient’altro che le più antiche rappresentazioni della figura femminile, sulle quali diversi studiosi, negli anni, hanno speculato e avanzato molteplici ipotesi: dalla dea madre a figure propiziatorie. Di certo, la stilizzazione della figura umana e, quindi, di quella femminile ci parla della capacità di un pensiero simbolico e astratto. Un aspetto che, forse, avrebbe potuto godere di più spazio, ma che comunque è arricchito da diversi studi e ricerche, non limitando l’immaginazione di chi legge. Nel Paleolitico superiore, infatti, il realismo, o comunque un qualche intento realistico di rappresentazione, appartiene alle figure animali piuttosto che a quelle umane. Tra queste, che costituiscono appena il 6% degli artefatti preistorici fino ad oggi conosciuti, l’immagine femminile rimane la più rappresentata, sia nelle pitture che nelle statuine a tutto tondo e nei bassorilievi. Spesso essa appare avente accentuati attributi sessuali e maternali (come ventre, genitali e seno, è proprio il caso della Venere di Renancourt), e/o affiancata alle raffigurazioni di animali – associazione perdurata per decine di millenni (dalla donna/bisonte/felino a Chauvet, per esempio, ca. 38.000 anni fa, fino ai bassorilievi di Roc-aux-Sorciers, risalenti al periodo Magdaleniano, l’ultima cultura del Paleolitico superiore europeo, ca. 15 mila anni fa). Ciò che caratterizza molti artefatti di questo tipo è, dunque, proprio l’attenzione rivolta alla rappresentazione di attributi sessuali femminili, esageratamente marcati oppure, anche se raramente, di un realismo ricercato (come si vede dalle rappresentazioni di Roc-aux-Sorciers, ma soprattutto nella bizzarra composizione della cosiddetta Origine del Mondo a Fontainbleau). Ciò non deve invitarci, dicono gli autori attraverso i pensieri di Nicholas Contrad e Catherine Schwab, ad associare tali raffigurazioni ad una preistorica “pornografia”, quasi come, di nuovo, a evocare una atavica e sempiterna oggettivizzazione dei corpi femminili. Lady Sapiens mette in dubbio anche l’univocità dell’ipotesi di una prodromica “dea madre” neolitica, come quella avanzata dalla nota studiosa Mirija Gimbutas, dando anche spazio alle voci degli studiosi Nicholas Conard e Denis Vialou. Il primo invita a una contestualizzazione storico-sociale di tale interpretazione – come fu quella preistorica di inizio Ottocento negli anni ‘60-’70 – “per poter misurare quanto la propria mentalità e la moda influenzino gli studi sulla Preistoria” (p. 201) e a pensare a una “analogia del mondo che i nostri avi abitavano” (p. 203). Il secondo spiega che “è pericoloso immaginare una divinità sopravvissuta per millenni senza che il ricorso alla scrittura potesse trasmetterne il culto di generazione in generazione” (p. 203). Oggi le interessanti ricerche dell’equipe di Médard Thiry, effettuate nel 2020 sui bassorilievi di questa curiosissima Origine del mondo ante litteram nella grotta di Fontainbleau (delle incisioni che richiamerebbero la figura di una vulva con annessa attaccatura delle cosce al ventre), suggerirebbero l’idea di un sistema idraulico artificiale che, quindi, avrebbe intenzionalmente avvicinato lo scorrere dell’acqua all’incisione della parete: si può forse pensare, come intuitivamente suggeriscono gli autori e le autrici del libro, più che alla simbolizzazione astratta di fertilità, a quella più precisa del momento della nascita, evocando la rottura delle acque? (p. 206).

Da lettrice, avventurarsi tra le civiltà preistoriche più antiche, quelle del paleolitico, scoprirne anche solo minimi aspetti provoca reazioni diverse. Da un lato, la tentazione è quella di partire con l’immaginazione, di fare le più disparate ipotesi sugli stili di vita dei nostri antenati, di ricercare addirittura delle spiegazioni sulla nostra natura umana di sapiens. Dall’altro, c’è la spinta alla ricerca e ai freni che questa, spesso, impone, sia per mancanza di prove, sia per retaggi culturali con i quali la disciplina della preistoria è nata. Forse un più frequente e completo impiego di datazioni dei vari reperti (anche se le prime quattro pagine sono occupate da una bella timeline preistorica) avrebbe aiutato meglio nell’orientamento in un periodo di tempo narrato che si fa molta fatica a immaginare, andando dai 100 mila ai 15 mila anni avanti Cristo. Tuttavia, basta fare riferimento alle fonti per ritrovarci subito ben forniti di date e reperti.

Lady Sapiens è un libro che può essere letto sia tutto d’un fiato, in virtù della sua scorrevolezza di ritmo e di linguaggio, sia a piccoli passi, per approfondire una questione alla volta, essendo ricco di riferimenti e di rimandi a fonti primarie e secondarie. Il “facile entusiasmo” per il quale il libro potrebbe essere (ed è stato) accusato riguarda forse più il tono a tratti celebrativo della narrazione che la metodologia scientifica sulla quale si basa. Ciò che il libro si guarda consapevolmente dal fare, infatti, è proprio creare (di nuovo) un’impalcatura dogmatica sulla realtà della donna preistorica appiattendosi su una presunta società matrilineare o matriarcale: non si cerca di ribaltare la preistoria, perché esiste una carenza di ritrovamenti, anche da parte di chi l’ha narrata “al maschile”! Piuttosto si cerca di far riflettere a quali visioni è stato concesso di avere spazio e a quali no, a parità di evidenze e reperti archeologici e paleontologici. L’invito è quello a una ricerca consapevole, che è ancora aperta, anzi, apertissima (p. 178). Una disciplina come l’archeologia preistorica deve fornire parecchi dati per definire bene teorie paleoantropologiche. Per ora, gli autori e le autrici hanno dato spazio a ipotesi diverse rispetto a quelle narrate da più di cento anni di studi preistorici. Sta al lettore valutare, ponderare e farsi un’idea non solo sulla scelta di una narrazione “convincente” sulla vita della donna preistorica, ma soprattutto su ciò a cui invitava anche Patou-Mathis, e cioè sulla preistoria come disciplina.

Double Fantasy – Milica Ćirović / Ola Czuba

Double Fantasy è una mostra bipersonale delle artiste Milica Ćirović (Belgrado, 1984) e Ola Czuba (Lodz, 1984), visitabile fino al 7 marzo 2021 presso lo spazio espositivo Casa Vuota, in zona Quadraro a Roma. L’incrocio dei due corpus di ricerca delle artiste dà vita ad un progetto unitario dove immagini e visioni stranianti si affastellano, attivando una riflessione corale su tematiche identitarie, femministe e di genere. Il contesto ospitante è quello di un appartamento vuoto, che le artiste interpretano attraverso l’appropriazione dei suoi oggetti tradizionali (televisori, poster, letti ecc.), dirottandoli verso inaspettate prospettive critiche.

FEMMINISMI A CONFRONTO. Note a margine a “Siamo tutti diversi!” di Teresa Forcades

di Miriam Borgia

 

Una donna islamica che coscientemente e volontariamente indossa il velo non è sottomessa a nulla; il suo gesto equivale a quello dell’uomo islamico che sceglie di indossare il turbante. L’influenza semmai, a questo livello, è della tradizione religiosa: in un atto volontario l’uomo e la donna sono assolutamente eguali. Una donna che sceglie di recitare nel mondo del porno non perde di credibilità, non lede la sua dignità, e tuttavia si dice che una tale donna sfregi il suo corpo ed accondiscenda inconsapevolmente al patriarcato che la vuole come solo corpo, mentre un attore non riceve le stesse critiche. Ma il punto non è il diverso trattamento che in questo mondo viene riservato all’attrice e all’attore, bensì il puro rapporto della donna con il suo diritto ad autodeterminarsi. Non è forse lo stesso definire una donna libera vittima del patriarcato accondiscendere al patriarcato stesso? Ugualmente, una donna può decidere di diventare madre, moglie, modella, leader, regista, suora e contemporaneamente femminista. Non c’è un femminismo univoco, ce ne sono molti, equivoci, solo apparentemente ossimorici in sé eppure inaspettatamente convergenti.

TERESA FORCADES: la teologia queer

Come si può definire “queer”? Teresa Forcades traduce la complessità del dogma trinitario cristiano riutilizzando il concetto di “homo viator” dell’Esodo, cioè un individuo in continuo viaggio, dunque costantemente in via di definizione, applicandolo infine all’esistenzialismo ed approdando al tentativo di una teologia queer. Soltanto nello scandalo cristiano dell’incarnazione è possibile dare spazio alla complessità degli individui nella loro sessualità: soltanto il cristianesimo, nell’anormalità di un Assoluto incarnato, può dare spazio al concetto di queer. La riflessione che conduce Forcades è rivoluzionaria, sebbene non pionieristica – lei stessa si ispira ad Elizabeth Schüssler Fiorenza, autrice di But She Said, opera di ermeneutica biblica femminista -: parte dalla considerazione che Dio non sia necessariamente uomo dal momento che Gesù lo chiama soltanto “padre”, che più che fare riferimento al suo genere indica intimità, amore: se Cristo fosse stato concepito da un uomo ed una donna la cristificazione sarebbe vincolata e ridotta ad un rapporto interpersonale e per di più eterosessuale. La grandezza dell’incarnazione di un dio assoluto e senza genere nel grembo di una donna vergine sta nella sua paradossalità e, dunque, nella sua eterodossia, diversità, umanità: ecco la teologia queer. Nell’assoluta inconoscibilità e distanza di Dio e, contemporaneamente, nel suo farsi carne nel grembo di una donna vergine, sta tutto la teologia queer; la ricchezza e diversificazione degli individui ha a suo capo la complessità della teologia cristiana. Restando nella dogmatica cristiana, la teologa propone anche una mariologia alternativa a partire dalla verginità di Maria. Risolve la paradossalità di una donna madre e vergine in una diversa considerazione del rapporto tra Maria e Dio: la sessualità non è soltanto genitale, fisica, ma anche spirituale. L’amore tra Maria e Dio è avvenuto così, speciale ed unico nel non comprendere la fisicità, con una scelta libera e volontaria della donna di farsi madre di Gesù. C’è dell’eroticità anche in questo, sostiene la teologa, come c’è eroticità nel misticismo religioso o nell’estasi di Santa Teresa d’Avila di Bernini. E poi si pone l’accento sulla libera scelta di Maria: si considera la storia cristiana come patriarcale, mentre si dimentica che la figura di Maria, donna libera che per puro atto di fede e non senza titubanze ha accettato la richiesta di Dio, possiede una portata rivoluzionaria al pari del mistero della Trinità. Eppure si tratta di una donna. La Chiesa resta misogina e patriarcale, sottolinea Forcades, ma Maria è una moderna femminista. Moderna e vergine: apparentemente ossimorico, se non si considera la verginità come liberazione, come una rivendicazione di autodeterminazione e libertà. Per Maria, come per Teresa, la libertà sta nel non volersi donare, è non darsi all’altro da sé, per cui si supera il concetto di verginità come integrità corporea e si rivendica il suo dinamismo; in questi termini, sottolinea, può essere vergine anche una donna: fa riferimento ad alcune donne sposate che, in seguito alla predicazione dei domenicani e dei francescani, per non concepire la loro realtà come inferiore a quella delle vergini rivisitarono la categoria della verginità come qualcosa di accessibile anche per loro. In altri termini, se si elimina l’equazione della verginità con l’integrità corporea, se si libera la donna dall’ “esse ad”, cioè dall’essere esclusivamente per l’altro – per l’uomo – e se si definisce la verginità come un ritrovato spazio di autodeterminazione ed indipendenza dall’altro da sé, allora ogni donna può essere vergine. La modernità di tali affermazioni sta nell’essere estremamente vicine alla lotta che il femminismo laico ha condotto contro il presunto valore della verginità: una donna vergine non è più integra di una non vergine, e parlarne in tali termini equivale all’asserire che la donna, nel rapporto sessuale con l’uomo, si perde. E allora la verginità va decostruita, le va sottratta l’accezione meramente fisica. Chiaramente in Teresa e nel femminismo laico si hanno due esiti diversi, perché dallo stesso presupposto, cioè che la verginità fisica sia assolutamente sopravvalutata, nel primo caso si conclude che ci sia una verginità spirituale superiore a quella fisica, e nel secondo che il sesso per la donna non sia disprezzo di sé. Il punto in comune è che non si parla dell’uomo, si considera la donna in quanto tale e per un istante non in quanto relazionata all’uomo: sia nella verginità che nella sessualità la donna compie una libera scelta soltanto per se stessa. Posto ciò, non dovrebbe più stupire la varietà di temi trattati parallelamente e con gli stessi esiti da Teresa Forcades e dal femminismo odierno della Women’s March e del movimento #MeToo. Nelle sue parole si trova, con piacevole stupore, una teologa che lotta perché l’aborto sia depenalizzato, perché ogni donna porti sempre con sé nella borsa una pillola del giorno dopo, perché le unioni omosessuali possano essere celebrate anche in chiesa. La sua considerazione dell’aborto, in particolare, contiene una complessità sconvolgente: in quanto cristiana resta ferma dell’idea che l’aborto sia un atto tremendo, ma in quanto femminista e socialista ritiene che debba essere depenalizzato dalla stessa Chiesa. Numerose femministe di oggi o del movimento degli anni ’70 si sono dichiarate pro-aborto, ovvero assolutamente a favore della pratica, non considerandola in sé come un omicidio ma neanche come un atto tragico per il feto. Si intravedono almeno tre sfumature diverse sulla questione e Forcades prende una posizione da cristiana e da femminista: è impossibile affiancarla sia alle femministe radicali pro-aborto sia al conservatorismo cristiano che considera l’aborto come un vero e proprio omicidio. In questa sua posizione sfumata – non appoggia l’aborto ma lotta perché le donne che ne hanno bisogno ne possano usufruire – c’è un’apertura straordinaria, è l’affermazione che è possibile anche una posizione ulteriore: Forcades celebra la molteplicità delle voci nell’affermare una “terza via” rispetto all’essere o contro o a favore dell’aborto. Per queste sue affermazioni è stata ripresa dalla Santa Sede che le ha chiesto una retractatio; a tali rimproveri, invece, ha risposto con una forte explanatio dove confrontava l’aborto con un’altra questione cara alla Chiesa. Partendo dal presupposto che i due diritti fondamentali riconosciuti dal magistero siano il diritto all’autodeterminazione e il diritto alla vita, il quale ha la precedenza sul primo e da cui si conclude che l’aborto debba essere vietato – la madre non potrebbe disporre della vita del figlio in virtù di una sua autodeterminazione – Teresa portava l’esempio di un padre che non è stato obbligato dalla Chiesa a donare al figlio un suo rene compatibile, proprio in virtù del diritto all’autodeterminazione -. Alla sua lettera il magistero non ha mai risposto. Su una tematica molto cara al femminismo odierno, comunque, prende una posizione decisa, ovvero che la maternità surrogata sia da combattere. Anche questa volta, però, lo afferma da femminista, oltre che dal punto di vista medico: c’è una relazione madre-figlio di cui non può disporre neanche la madre e che comincia nella pancia dal momento del concepimento. Il figlio si nutre della voce della madre, risponde ai suoi stati d’animo e fisici, e il figlio di una madre surrogata sarà sempre il figlio di quella madre surrogata, mai della madre adottiva. Indipendentemente dal fatto che questo punto di vista sia condivisibile o meno, l’argomentazione che conduce è geniale: come nel caso dell’aborto non si può semplicemente vietarlo e fare del corpo della madre un oggetto di cui può disporre la Chiesa, così nel caso dell’utero in affitto non si può fare del feto un oggetto di desiderio e soprattutto economico. All’interno del saggio affronta anche un’altra tematica dove si trova d’accordo con un certo femminismo relativo al mondo della moda: la critica alla labioplastica. Essa è chiaramente un tentativo di adeguarsi ai parametri, e in questo specifico caso quelli dell’industria pornografica, che stabiliscono come debba essere il cosiddetto corpo perfetto femminile. Con la labioplastica “le donne vengono trattate come barbie, diventano schiave di un modello imposto loro dal mercato”, sostiene Forcades. È impressionante quanto ciò suoni identico alle dichiarazioni di modelle scappate o cacciate da Victoria’s Secret che le voleva tutte magrissime, al limite dell’anoressia e della sanità mentale, agli esempi di modelle curvy come Ashley Graham, o di modelle transgender come Valentina Sampaio. Chi stabilisce i criteri del corpo perfetto e perché bisogna adeguarvisi? Forcades parla di amore, fisicità, limiti e retroterra del celibato senza alcun senso di vergogna; si apre anche riguardo le sue esperienze con la sessualità e dalle sue parole non traspare mai la colpa. Racconta che all’inizio del noviziato si era innamorata e parlandone con la badessa aveva ricevuto soltanto parole di comprensione e pazienza, perché era una fortuna che avesse avuto quell’esperienza proprio in quel periodo, perché in quel modo poteva sperimentare vividamente la complessità della vita monacale e del celibato che la accompagna, dell’amore per Dio che richiede una scelta esclusiva come qualsiasi altro rapporto amoroso. Non c’è alcun accenno pudico e autopunitivo al peccato perché essenzialmente non si tratta di peccato. La riflessione di Forcades ricorda molto quella di Eloisa nell’epistolario al suo Abelardo in cui, da sua brava allieva, esclude il peccato dall’amore completo, carnale, sessuale, intellettuale, spirituale nei confronti dell’amato soltanto perché l’intenzione dietro l’atto era pura e comunque accompagnata dalla fede. Si trattava di una fede inevitabilmente più debole del suo amore verso Abelardo, (“io che ho sempre amato Abelardo più di Cristo”), e forse proprio per questa sua assolutezza impossibile da leggere come un male agli occhi di Dio, l’unico che conosce l’intenzione nell’animo umano. La legge, la morale, la pudicizia della legge umana crollano necessariamente di fronte ad una devozione assoluta. Si tratta soltanto di smettere di parlare della sessualità in termini di peccato e di considerare la possibilità che anche un uomo o una donna di chiesa possano innamorarsi senza per ciò andare contro Dio: agli occhi di Forcades la Chiesa deve accettare questa sfida e considerare che la vita monacale impone la rinuncia alla famiglia, e quindi implicitamente impone l’astinenza, ma questo è un discorso che vale soltanto se procreazione e sesso restano inscindibili. Ormai il sesso non è solo relativo alla costruzione di una famiglia, è innanzitutto componente di una relazione amorosa, e poi volto alla procreazione, e allora il discorso andrebbe riconsiderato fermi nel presupposto che la Chiesa sia una realtà storica, fallibile, umana e che debba fare i conti con questa sua storicità. Mi ricollego a quest’ultimo punto per ritrattare, con le parole di Forcades, l’argomento iniziale, ovvero il rapporto tra il mondo cristiano e quello queer. Le radici antropologiche del presunto andare contronatura dei rapporti omosessuali, dei transgender e in generale delle questioni di genere – accusa rivolta anche da parte di Camille Paglia, nota “femminista anti-gay” – risiedono nel concetto della sessualità binaria, accolto anche dal cosiddetto “femminismo della complementarietà”, secondo cui esistono soltanto due generi e un solo orientamento sessuale dal momento che l’unico fine della sessualità è la procreazione. Il punto è, ancora una volta, che sessualità e procreazione si incontrano sì sulla stessa strada, ma sono originariamente indipendenti; inoltre, il sesso possiede una complessità impossibile da ridurre alla coppia uomo-donna. Esistono il sesso cromosomico, gonadico, genitale: ad esempio sul piano cromosomico oltre a xx e xy esistono anche xxy e x0, sebbene rarissimi, (e questi due ultimi sessi cosa sarebbero? Maschi o femmine?) E poi esiste il sesso psicologico che apre al problema della transessualità, ed infine la dimensione del desiderio che moltiplica gli orientamenti sessuali. Esiste una diversità al di là della dualità, seppur rara, seppur minoritaria, esiste un Altro che richiede spazio, apertura, riconoscimento, e questo oltre ad essere il messaggio dei gay pride è in origine il messaggio cristiano: “in Cristo non c’è ebreo, gentile, schiavo, maschio o femmina”, scriveva San Paolo nella lettera ai Galati.

THE HANDMAID’S TALE: libertà di e libertà da

Il 4 ottobre 2018 a Verona è stata approvata una mozione anti-aborto che ha incontrato l’opposizione di alcune donne del movimento “Non una di meno”, le quali hanno protestato vestite con una lunga tunica rossa e un copricapo bianco. Si trattava di un esplicito riferimento alle ancelle di The Handmaid’s Tale, la serie tv tratta dal romanzo di Margaret Atwood, letteralmente delle “incubatrici viventi” nelle mani della teocrazia dispotica – e finora distopica – di Gilead. Gilead si instaura con lo scopo di sopperire alla crisi della natalità e divide la società in uomini, sempre al comando, e donne, a loro volta suddivise in base alla loro fertilità: ci sono le “mogli”, vestite di blu, colore della purezza, apparentemente sterili ma facoltose in quanto mogli dei comandanti, le “marte”, vestite di grigio, colore dell’invisibilità, relegate a svolgere le mansioni di casa, ed infine le “ancelle”, vestite di rosso, colore della fertilità e del sangue ma soprattutto l’unico colore che spicca e le rende riconoscibili a distanza e che rende impossibile qualsiasi tentativo di fuga. Poi ci sono le “non-donne”, in quanto non-fertili destinate ai lavori forzati nei territori contaminati: “una donna non fertile è come un fiore da potare”, dice Serena, moglie del comandante Fred Waterford. In Gilead lo stupro è legalizzato: il romanzo della Atwood si apre con il racconto biblico di Giacobbe e Rachele la quale, sterile, ma desiderosa di un figlio tutto per sé, invita il marito a concepirne uno con l’ancella. In Gilead la scena biblica viene replicata alla lettera: le ancelle, abusate dal padrone, giacciono come in un rituale sul grembo della padrona di casa. Prestano il loro grembo ai desideri della donna. Le ancelle di Gilead, appunto, sono delle incubatrici, madri surrogate il cui stupro – perché di questo si tratta – non solo è legalizzato ma anche obbligatorio. La serie tv, come il romanzo, è semplicemente sconvolgente e difficilmente digeribile nei temi e nei toni, ma apre al problema della maternità surrogata e a quello dell’autodeterminazione della donna, già affrontati con Teresa Forcades. June, la protagonista, è ribattezzata “DiFred”, ovvero “di proprietà di Fred”, tanto la sua persona è ridotta al suo mero utero, tanto che ci si chiede: il suo corpo è ancora suo? Non c’è più autodeterminazione se una donna non può scegliere che vestiti indossare perché la divisa è obbligatoria, come sistemarsi i capelli perché questi sono un segno di vanità e vanno coperti, nascosti, legati dimenticati, se truccarsi, se sposarsi, chi amare – chiaramente l’omosessualità è un altro obiettivo polemico di Gilead perché non porta alla procreazione -, se leggere, attività concessa solo agli uomini, se avere figli. Zia Lydia, posta all’educazione delle ancelle, spiega che esistono due diversi tipi di libertà: nel tempo precedente a Gilead, ovvero quando June si innamorò di un uomo sposato, l’omosessualità era accettata e la fertilità calava pericolosamente, c’era libertà di, mentre sotto Gilead si è conosciuta la libertà da, cioè libertà dal sesso, dalla vanità, dalla possibilità di scelta che è problematica. [1] Al di là del problema della libertà umana e della donna, chiaramente soppressa, nei bambini che le ancelle partoriscono e che devono consegnare alla rispettiva Moglie c’è tutta la drammaticità dell’argomento precedentemente affrontato: il figlio appartiene sempre alla madre biologica, e se le Mogli insistono nel dire che i bambini partoriti, allattati, svezzati dalle loro ancelle siano i loro, comunque non saranno mai i loro bambini, a maggior ragione se, come in Gilead, vengono strappati via senza il consenso della vera madre. Ovviamente i problemi della maternità e del corpo della donna hanno un peso diverso nella serie tv e nel romanzo che nella nostra società, The Handmaid’s Tale è un racconto drammatico e innanzitutto distopico, ma è interessante notare come Teresa Forcades e Margaret Atwood affrontino lo stesso tema da presupposti diversi eppure con esiti simili. Occorre ricordare, inoltre, che Atwood è stata accusata di essere un “cattiva femminista” dalle sostenitrici del movimento #MeToo dal momento che ha criticato l’accanimento verso gli uomini sospettati di violenza sessuale sia prima di essere processati sia dopo essere stati assolti. “Se le donne vogliono avere più diritti i diritti innanzitutto devono esistere”, ha sottolineato, il che ci fa riflettere su quanto spesso i movimenti femministi partano con dei presupposti corretti e poi manchino di profondità intellettuale e filosofica e si perdano nello scagliarsi contro le molestie sessuali ed in generale le violazioni al corpo e alla persona femminile. Probabilmente può fare più danni un cattivo femminismo, irrazionale e forte soltanto della correttezza dei suoi principi, che Donald Trump o Harvey Weinstein. E c’è più femminismo nell’affermazione della Atwood che nelle t-shirt con la scritta “we should all be feminist” firmate Dior.

CAMILLE PAGLIA: l’anti-femminismo

Camille Paglia è un’accademica, antropologa, filosofa, lesbica e femminista – o quasi – statunitense presa a modello talvolta dai democratici e talvolta dai repubblicani. Scrive all’incipit del suo Sexual Personae: arte e decadenza da Nefertiti a Emily Dickinson che “in principio era la Natura”, rivisitando la traduzione biblica di Lutero per denunciare certi comportamenti a sua detta contronatura adottati dalla comunità lgbt, quali le adozioni da parte di coppie omosessuali e il cambiamento di genere. Vuole “codici morali e civiltà, perché senza di essi saremmo sopraffatti dalla tirannia della natura” e con queste parole sembra richiamare Freud in Il disagio della civiltà ma anche Nietzsche in La gaia scienza che più che demolire la morale, come spesso si afferma, la decostruisce e ne svela l’utilità: i codici morali servono perché garantiscono la società civile che è l’unica forma di aggregazione sana che conosciamo. Camille Paglia, dunque, ritiene certe richieste della comunità lgbt, come il cambiamento di genere o l’adozione gay, destabilizzanti moralmente, oltre che contronatura. Già con Forcades, tuttavia, si è affrontato questo presunto andare contronatura: il sesso cromosomico, gonadico, genitale e psicologico aprono ad una sessualità sfaccettata ed impossibile da ridurre alla dualità. La dualità, definitivamente, non è “naturale”, cioè una realtà ontologica necessaria, ma semplicemente una pratica necessaria per la procreazione: è fuorviante e dannoso confondere la natura con la necessità. La tematica aprirebbe ad un’altra enorme questione filosofica: cos’è natura e cos’è cultura. Pensiamo che una palazzina sia frutto di tecnica mentre l’attività del castoro che costruisce la sua diga è natura; i pesci pagliaccio cambiano sesso dopo una certa età, ma il cambio di sesso per gli esseri umani è contronatura; un quarto delle coppie di cigni neri australiani è costituito da due papà, ma le adozioni gay sono contronatura. Dalla semplice osservazione, quindi, è più facile evincere che i rapporti tra lo stesso sesso sono naturali, mentre l’omofobia è un prodotto culturale, sorto specificamente sulle orme del cristianesimo che, in linea contraria rispetto al paganesimo greco-romano, ripudia il sesso e lo confina alla procreazione. L’idea per cui l’omosessualità sia contronatura deriva, paradossalmente, da una concezione di naturalità distorta dalla cultura: difatti, è noto che sia nel mondo greco che nel mondo romano fossero delle pratiche comunissime, adottate dai soldati lontani in guerra per anni e dalle ragazze dell’isola di Lesbo per fini educativi. Soltanto l’uomo fa distinzioni, solleva problemi, stabilisce cos’è natura e cos’è cultura, cos’è bene o male. Tuttavia, lasciando soltanto accennato il conflitto tra natura e cultura, Camille Paglia si è sempre battuta per la libertà della donna ed è stata apprezzata e citata da un’altra donna, molto più celebre, sebbene non per essere femminista bensì per essere innanzitutto una delle modelle più apprezzate al mondo.

EMILY RATAJKOWSKI: “sexual and serious”

Sul suo profilo Instagram compare una foto che la ritrae ad una manifestazione femminista in posa con un cartellone che cita Camille Paglia: “the enemy is not lipstick but guilt itself: we deserve lipstick if we want it and free speech. We deserve to be sexual and serious or whatever we please”. Arrestata nel 2016 alla protesta contro l’elezione di Brett Kavanaugh alla Corte Suprema, racconta che “anche donne di sinistra che supportavano pienamente l’obiettivo della mia protesta fecero dei commenti sul fatto che non indossassi il reggiseno sotto la canottiera bianca: secondo loro, il fatto che il mio corpo fosse visibile screditava in qualche modo il peso del mio atto politico”. Racconta, inoltre, che sessualità, sensualità e nudità non sono mai stati dei taboo nella sua famiglia. Figlia di un artista e di un’insegnante di letteratura, viene portata alla fama mondiale dal videoclip di Blurred Lines ed il suo profilo Instagram oggi è il trionfo di una sensualità che non si vergogna di mostrare ma che rivendica orgogliosamente. Moglie, imprenditrice e femminista, sostiene che “si può essere moglie e casalinga e credere nell’uguaglianza come si può essere profondamente religiosi e credere nel diritto di una donna di scegliere: il mio messaggio è semplice”, il che evidenzia una concordanza inaspettata con tutta la riflessione di Teresa Forcades. Tuttavia, non la si conosce propriamente perché socialista, attivista e appartenente ad un femminismo davvero riflessivo ma per le foto che la ritraggono – per quanto, sia chiaro, non stiamo parlando di una studiosa ma di una donna intelligente che cerca di trasmettere un messaggio attraverso il suo stesso corpo -. Eppure le immagini possono avere un grande impatto comunicativo, la sensualità dei suoi scatti è un preciso messaggio politico, ed è questo il motivo per cui ha scelto di portare quel femminismo intellettualmente più approfondito sul social network, se il social non si interessava ad esso. Dunque, tra i suoi primi piani e la sua linea di costumi che pubblicizza, in data 8 agosto 2019 compare anche una sua foto in posa con le braccia sollevate, ascelle non depilate in mostra e un suo articolo pubblicato su Harper Bazaar che accompagna lo scatto dove scrive, citando Camille Paglia in Sexual Personae: “the female body’s unbearable hiddenness applies to all aspects of men’s dealings with women. What does it look like in there? Did she have an orgasm? Is it really my child? Who was my real father? Mystery shrouds women’s sexuality.” Inoltre, continua con una riflessione personale: “I’m positive that most of my early adventures investigating what it meant to be a girl were heavily influenced by misogynistic culture. Hell, I’m also positive that many of the ways I continue to be “sexy” are heavily influenced by misogyny. But it feels good to me, and it’s my damn choice, right? Isn’t that what feminism is about, choice?” Il messaggio è che non esiste una scelta giusta, non esiste qualcosa che rende una donna più o meno femminista o addirittura “cattiva femminista”: finché si tratta di una decisione libera e personale è la decisione giusta. Nuovamente, cosa stabilisce che una donna islamica non sia libera, che un’attrice nel porno non sia libera, che una monaca non sia libera? E se i parametri di un certo femminismo diventassero anch’essi, in una dialettica paradossale, gli ennesimi modelli imposti dalla società?

FLEABAG: come (non) essere una cattiva femminista

Phoebe Waller-Bridge è regista, sceneggiatrice e attrice protagonista nella serie tv che ha segnato un punto di svolta nel “dramedy” inglese per le modalità con cui si è occupata di femminismo. Nella prima stagione Fleabag è una giovane donna ossessionata dal sesso, apparentemente incapace di intrattenere una relazione amorosa seria, disperata per la recente morte della migliore amica, con problemi finanziari e famigliari per un padre vedovo incapace di comunicare con lei e per una sorella che si presenta come il suo opposto – ha un lavoro stabile, è sposata e si ritiene realizzata – ma che soffre quanto lei. Dunque, una serie tv drammatica e psicologica, eppure estremamente comica per la penna e per l’interpretazione di Waller-Bridge. Fleabag si chiede: è una buona femminista una donna instabile sotto tanti aspetti della propria vita? Le buone femministe gridano che non bisogna inseguire il corpo perfetto, che bisogna essere salde in sé senza un uomo a cui appoggiarsi, che bisogna prendere in mano la propria vita e dimostrare che anche una donna può fare carriera. Ad un incontro di femministe viene chiesto: “alzi la mano chi scambierebbe cinque anni della propria vita per il cosiddetto corpo perfetto” al che Fleabag e la sorella, Claire, alzano la mano spontaneamente mentre il resto della platea le guarda e giudica. “Siamo delle pessime femministe”, sussurra Fleabag ridendo. È una pessima femminista anche Claire, con evidenti disturbi alimentari e una forte insoddisfazione verso l’orribile marito. Waller-Bridge esplora le difficoltà e le contraddizioni in cui si incorre nel declinare nella vita quotidiana i parametri di quel femminismo che vuole le donne come colonne incrollabili. D’altra parte, “i capelli sono tutto”, rimprovera Fleabag al parrucchiere che ha rovinato la chioma della sorella, “distinguono una buona giornata da una cattiva giornata”. Restando nella serie tv, è possibile anche ritornare su un tema già affrontato con Teresa Forcades, ovvero il celibato nella Chiesa. Nella seconda stagione Fleabag è già una donna diversa: più stabile, salda, meno ironica e pungente, comprensiva e capace di prendersi cura anche della sorella. Si tratta di una stagione completamente diversa dalla prima perché Fleabag sembra aver superato l’onta di cattiva femminista e la riflessione sulla contraddittorietà degli striscioni del femminismo viene lasciata in sospeso, mantenendo la domanda aperta e non fornendo un’esplicita soluzione: si assiste invece ad una storia d’amore particolare, controversa e problematica tra la protagonista ed un prete. Soprannominato “the hot priest”, quest’ultimo costituisce, paradossalmente, la prima relazione sana, dolorosa ma arricchente per Fleabag. Tra i due sorge immediatamente l’ostacolo del celibato, superato, non senza lotta da parte di lui, soltanto nel penultimo episodio, e nel finale di stagione emerge una riflessione sulla natura della fede e del suo rapporto con l’amore “terreno”: al matrimonio del padre di Fleabag con la fastidiosa matrigna, il prete pronuncia un’omelia sulla fatica di amare, sul dolore e i bivi che l’amore può porre di fronte, omelia che sembra dedicata all’amata (“being a romantic takes a hell of a lot of hope”) la quale, invece, comprende immediatamente che il riferimento era a Dio. Teresa Forcades raccontava che, quando all’inizio del suo noviziato provava dei sentimenti per un ragazzo, si rese conto che la cosa più forte che aveva vissuto fino a quel momento restava l’amore per Dio. Si trova allora perfettamente d’accordo con l’“hot priest”, il quale capisce di non ricambiare fino in fondo i sentimenti di Fleabag, sul fatto che Dio non impone affatto un amore esclusivo nei suoi confronti perché l’amore umano semplicemente non è esclusivo: la fede, la vita monacale, l’astensione richiedono una scelta, non una cieca obbedienza. Non è un peccato nei confronti di Dio il rapporto tra Fleabag e il prete e nelle parole di quest’ultimo, come nelle parole di Teresa Forcades, non c’è alcun senso di colpa, nessuna purezza perduta, c’è soltanto tutta la difficoltà e il coraggio di affrontare i propri sentimenti e di amare sinceramente Dio o un’altra persona in seguito ad una libera scelta. Agli occhi di un vero cristiano, Dio non richiede un amore incondizionato né opprimente, al contrario permette al prete di lasciarsi trasportare da Fleabag per riscoprire la sua fede ancora incrollata e ad Eloisa di abbandonarsi ad Abelardo perché conosce l’intenzione pura del suo animo. Il problema a monte, che Forcades affronta sia nel libro sopra citato che nella sua attività di teologa, è che la religione non è un percorso prefissato e imperturbabile: sia come fenomeno privato sia sottoforma di un’istituzione comprende continuamente scelte, ripensamenti, rivisitazioni, umanità, in quanto innanzitutto è un fenomeno umano. E allora la Chiesa deve perennemente calarsi nella storia e riconsiderare il celibato, l’aborto, l’omosessualità, o non sarebbe ministro tra l’uomo e l’Assoluto, come la voleva Hegel, ma un’imposizione dall’alto di leggi esteriori ed eterne.

CALARSI NELL’ESSERCI

La rivoluzionarietà di Teresa Forcades sta nell’essere contemporaneamente una monaca benedettina dalla parte delle ancelle di The Handmaid’s Tale e contro la falsa cristianità di Gilead, dalla parte delle donne vittime di violenze sessuali o semplicemente di gravidanze indesiderate e contro il conservatorismo cristiano, dalla parte del socialismo (Marx, spiega, era innanzitutto cristiano) eppure convintamente cristiana. Si tratta di una figura paradossale che presenta tesi paradossali: il punto è che il paradosso è la cifra della società civile, (“nulla di eguale esiste”, scriveva Nietzsche). Forcades ne riconosce l’importanza e lo rinsalda teologicamente spiegando che la polivocità umana deriva dalla polivocità divina, che il mistero – perché non riducibile a logos – dell’Incarnazione suggerisce che neanche l’uomo sia limpido, duale, logistico. La pericolosità dei concetti e dei principi è che si risolvano in affermazioni apodittiche: il movimento #MeToo nasce per denunciare gli abusi sessuali sul corpo di alcune donne e per richiedere una maggiore sicurezza e pretendere che certi diritti vengano garantiti, ma acquista una tale forza, una tale giustezza, una tale non confutabilità da rimuovere mano a mano tutte le sue premesse, da ritenere di non doversi più giustificare, di potersi distaccare dalle cose e fissarsi come dogma. Il presunto femminismo di certi slogan stampati sulle t-shirt, come “feminist af” o “the future is female”, che premesse ha ormai? È stata accolta la tacita tesi per cui se si vuole difendere i diritti della donna e aderire a questa grande ondata di femminismo – che fa moda – basti leggere Freeda, nota rivista al femminile, e scegliere di non depilarsi per ledere al patriarcato. Un femminismo che non si cala nel mondo di volta in volta, una filosofia che non si cala nell’esserci delle cose, sono destinati a crollare: ecco, dunque, perché Fleabag non riesce a stare al passo con questo femminismo apodittico. Il rischio della razionalità è che può diventare irrazionale se non si confronta continuamente con i fatti: l’intera Fenomenologia dello Spirito di Hegel è un viaggio all’interno di una ragione mai fissa; Schelling evidenziava come accanto al logos esista un esserci che gli è irriducibile e di cui si deve prendere atto; La dialettica dell’Illuminismo illustrava gli esiti tragici del logicisimo. Teresa Forcades richiede alla Chiesa di confrontarsi con i fatti e soprattutto con la storicità che le appartiene; ugualmente il femminismo necessita di mantenersi riflessivo per non rischiare di restare un vuoto slogan. Questo rischio sembra già essersi fatto concreto se a Emily Ratajkowski viene fatto notare che manifestare per i diritti della donna con il seno in vista comporta una perdita di credibilità, se a Margaret Atwood viene criticato di essere una cattiva femminista per non essersi accanita contro degli uomini assolti dall’accusa di molestia. La riflessione sul pluralismo deve acquisire e mantenere toni, voci, punti di vista, esiti strutturalmente plurimi. Prendere coscienza, inoltre, del fatto che esistano femminismi diversi e diverse donne che partecipano alla riflessione femminista, dovrebbe demolire gli slogan che ossessionano Fleabag, tra i quali: la vera femminista non deve lasciarsi sedurre dal corpo perfetto, deve riconoscersi oltre la maternità, deve uscire dalla clausura domestica, deve fare carriera al pari dell’uomo, deve prendere possesso del suo corpo e della sua sessualità, in breve deve guadagnarsi indipendenza dall’uomo. I discorsi rischiosi, in tal senso, sono dunque essenzialmente due: a) la donna è forte se rifiuta tutto ciò che le cade addosso dalla società; b) come nel femminismo del secondo dopo guerra, bisogna valorizzare la differenza femminile. Teresa Forcades dimostra che nel primo caso si va in contro al fallimento necessario: ribalta la verginità, il celibato, celebra la polifonia dei sessi, degli orientamenti e dei dogmi cristiani ma lei stessa non rifiuta il ruolo, apparentemente denigrante, di monaca, anzi lo veste orgogliosamente. Emily Ratajkowski, moglie e modella, rivendica la sensualità della donna: del corpo femminile dispone innanzitutto la stessa donna, in quando donna ed in quanto individuo. Nel secondo caso, invece, attraverso l’ipervalutazione della donna per risollevarla dalla morsa del patriarcato si incorre nel non riconoscimento dell’uomo. Simone de Beauvoir, nel suo Il secondo sesso (1949) denunciava la realizzazione nella storia di un rapporto asimmetrico tra uomo e donna, per cui dalla coppia originaria, come unità fondamentale, la donna da altro (altra metà) dell’uomo diventava Altro, oggetto trasceso e strutturalmente subordinato al soggetto. Il pericolo sta nel cercare di superare le disuguaglianze creando altre disuguaglianze simmetriche ed opposte alle prime; la sfida, che Forcades rivolge anche alla Chiesa, sta nel cercare le uguaglianze nelle diversità, per non ricadere in una dialettica di discriminazione.

Note:
[1] Per eliminare eventuali equivoci occorre evidenziare una questione, cioè che la libertà da di zia Lydia potrebbe somigliare vagamente al concetto di verginità come liberazione di Teresa Forcades. L’enorme differenza sta nell’uso della libertà: nel caso di zia Lydia, è un discorso propagandistico e assolutamente pericoloso volto alla giustificazione di un regime teocratico, soppressivo e macchiato di crimini; nel caso di Teresa la libertà è libertà in ogni senso, della vergine e della non vergine, e soprattutto è un discorso di ispirazione biografica, nato dalla sua precisa condizione di suora.

Femminismo e femminismi. Culture, luoghi e problematiche

“Femminismo e femminismi. Culture, luoghi, problematiche” è il tema della giornata di studio interdisciplinare svoltasi il 7 novembre presso la Macroarea di Lettere, dell’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”. L’associazione Filosofia in Movimento ha partecipato al convegno con Maria Chiarappa e Giulia Quinzi per condividere attraverso questo lavoro collettivo, le riflessioni di importanti studiosi che si sono confrontati sulla questione del femminismo, un tema oggi molto noto e per questo poco conosciuto, per dirla con Hegel.

Programma e scopo della giornata
Come suggerisce il titolo dell’evento, lo spirito trainante degli interventi intende affrontare la questione di genere come problematica trasversale analizzata attraverso una pluralità di posizioni teoriche che investono ambiti spazio-temporali diversi. La parola “femminismo” è infatti complessa, stratificata, densissima. Per farne un’analisi occorre in prima istanza intraprendere un percorso che viaggi alla ricerca dei vari nuclei tematici che la compongono, delle costellazioni di significato attraverso cui essa si articola; in secondo luogo è necessario tener conto, tracciando una mappa topologica, delle diverse regioni coinvolte, certamente distinte tra loro, ma interconnesse e complementari.
La giornata si è svolta in due sessioni, una mattutina e una pomeridiana, che ha ospitato i seguenti relatori:
– Marina Formica, Alle origini del femminismo: la “Dichiarazione dei diritti delle donne e delle cittadine”
– Diane Ponterotto, Feminist voices from the global South: tensions and intersections in Latin American gender scholarship
– Sandra Petroni, The representation of female identity through digital storytelling
– Simona Munari, Il femminile “in movimento”: Assia Djébar e les *Femmes d’Alger* di Delacroix
– Elisabetta Marino, Ecologia e femminismo in ‘The Madwoman of Jogare’ di Sohaila Abdulali
– Carlo Cappa, “Je n’ai de mérite que d’avoir su choisir mon maître et mes modèles”. Madame de Lambert e l’educazione femminile
– Carla Roverselli, Voci femministe dal Nord Africa: Fatema Mernissi, Assia Djebar, Nawal al Sadawi. Convergenze e divergenze educative
– Stefania Cavagnoli e Francesca Dragotto, Femminismo e femminismi: le parole dell’italiano e delle altre lingue
– Carla Francellini, Sylvia Plath ‘The Bell Jar’: un romanzo al femminile
– Donatella Caramia, Candace Pert pioniera delle Neuroscienze: sua la scoperta epocale del sistema delle emozioni
– Antonella D’Andrea, Donne e lavoro: il diritto alla non-discriminazione e alle pari opportunità
– Elvira Lozupone, Guardiamo in casa nostra: donne, università, carriere: una questione aperta Claudia Hassan, Femminicido, perchè?
– Simonetta Spiridigliozzi, Adolescenti orfane dell’identità femminile
– Gemma Errico, Il femminismo nel Risorgimento: le donne invisibili dell’Unità

Dal ‘femminismo’ ai ‘femminismi’
Per offrire una panoramica generale dei lavori, è possibile rintracciare due macro filoni di esposizione: uno storico-biografico e l’altro teoretico-pratico.
Il primo ricostruisce il percorso intrapreso da donne paradigmatiche volto all’acquisizione dei diritti politici, all’accesso all’istruzione e, in definitiva, a una parità di status civico e umano fra uomo e donna. Così, in un excursus segnato da personalità come Madame de Lambert, Olympe de Gouge e Cristina di Belgioioso, si restituisce al termine “femminismo” la specificità delle sue origini legate alle rivendicazioni politiche, economiche e sociali delle donne dal Seicento al Risorgimento italiano, passando dal Secolo dei Lumi. Tuttavia, intendiamo soffermarci sul secondo filone dal momento che diversi interventi hanno portato alla luce posizioni teoriche inaspettate e innovative, quasi “eretiche”, spesso sconosciute o mal comprese. Non a caso si parla di “femminismi”: a riprova dell’interdisciplinarità e dell’intento di analizzare “culture” e “luoghi”, la differenza si impone già in seno alla questione femminile stessa, sviluppandosi in contributi volti a differenziarsi dal “femminismo” come termine universale spesso dal significato nebuloso ed equivoco.

Donne bianche e donne nere
Diane Ponterotto è la prima ad offrire uno scenario di riflessione geograficamente trascurato: il Sud America come portatore della “southern theory”. Il suo intervento mira ad anteporre il punto di vista dell’America latina alle teorie classiche di matrice nord-occidentale intese come espressione di una cultura dominante che non riconosce la cultura del Sud. Questa visione effettua uno spostamento epistemologico che propone l’analisi delle condizioni e delle differenze della donna in base alla sua localizzazione nello spazio. In questo modo, come afferma la Ponterotto, si delinea una localizzazione del pensiero, delle “situated knowledges” e “views from somewhere” che si oppongono alla definizione della donna come concetto universale.
Le posizioni di genere delle bianche e delle nere, infatti, derivano da diversi tipi e gradi di sfruttamento; persino i problemi legati alla salute, la cura dei figli e la gravidanza, per citarne alcuni, sono vissuti e affrontati in maniera diversa. Ponterotto, inoltre, individua altri due concetti che definiscono l’originalità del pensiero sudamericano: la cosiddetta “Intersectionality” e la “Coloniality of gender”. Il primo esprime la necessità di comprendere le questioni di genere attraverso altre variabili, mostrando le differenze in base alle condizioni sottostanti alle stesse, che siano economiche, etniche o religiose; il secondo concetto intende osservare la questione di genere in un’ottica storica, la cui origine risale all’imperialismo europeo e all’economia capitalistica globale.
In particolare, in Brasile il movimento femminista si oppone a quello dominante delle donne bianche mostrando come il retaggio razziale e di genere abbia influenzato la riflessione femminista. Lo schiavismo, infatti, sottende una visione ipersessualizzata della donna afrobrasiliana, così che il corpo nero diventa schiavo sessuale del corpo bianco. La studiosa mette in evidenza come i risultati della riflessione teorica servano da supporto all’attivismo e come quest’ultimo sia di utilità per la teoria. Infatti, il gruppo di attiviste “Black women of Brazil” intende riscrivere la storia delle donne afrobrasiliane dal basso in una campagna di contrasto alla mercificazione del corpo femminile nell’industria del turismo. Inoltre, in Messico a Ciudad Juarez dal 1995 corpi di donne vengono trovati mutili delle caratteristiche fisiche femminili in prossimità di discariche e luoghi desolati. La messa in vendita del corpo femminile in Brasile e l’aspirazione a modelli corporei attraenti per il sesso opposto, simboleggiata nella famosa rincorsa alla perfezione del “lato B”, insieme allo smembramento, instaurano una dinamica scoperto-coperto e parziale-intero rispetto ad altri due interventi a cura di Simona Munari e Carla Roverselli, entrambi incentrati sul mondo islamico.
Munari prende spunto dall’interpretazione del quadro di Delacroix “Femmes d’Alger dans leur appartement” effettuata da Assia Djebar, donna algerina poliedrica e personalità di spicco dell’emancipazione della donna nell’orizzonte nord-africano. Il cambiamento di orizzonte geografico e culturale mette in evidenza due culture del corpo radicalmente opposte: dal corpo scoperto delle afrobrasiliane alla copertura delle donne islamiche dietro un velo; dalla mutilazione dei connotati femminili, riconoscibili come segno identitario della parte rispetto al tutto, al nascondimento di questi per restituire un intero che sottrae lo sguardo ai particolari. L’analisi della Djebar mostra come i veli dietro i quali la donna si nasconde possano essere costituiti anche da muri, dalle persiane delle case chiuse che generano un altro binomio dentro-fuori: l’isolamento domestico delle donne e il mondo degli scambi e degli affari di competenza maschile. Nel quadro di Delacroix le donne sono prigioniere in una “luce di serra o di acquario”, rarefatta, sono presenze più che persone, sullo sfondo di un ambiente sfarzoso e ricco di dettagli. Sono donne prigioniere in attesa del loro padrone. Quando le femmes d’Alger si mostrano per la prima volta a Delacroix, evocano il Marocco che il pittore francese portava in sé, affascinato dallo spaesamento, dall’esotismo e dall’altrove e non dalla comprensione del silenzio che portano le donne rappresentate.
Anche Carla Roverselli riporta il pensiero di Assia Djebar unito a quello di altre due donne nord-africane: Fatema Mernissi, marocchina, e Nawal al Sadawi, egiziana. Il loro obiettivo è quello di riscrivere la Storia con occhi di donna in direzione matrilineare, in opposizione alla tradizione delle narrazioni maschili e patriarcali. Inoltre, attraverso la scrittura intendono ridare voce alle donne arabe marginalizzate e poste sotto silenzio, rivendicando la parola scritta come strumento che superi l’oralità quale appannaggio della cultura femminile nel mondo islamico. Dunque, ancora una volta riappare la dinamica dentro-fuori ma stavolta in funzione riabilitativa. Dal chiuso delle case e del silenzio, l’invito al fuori della parola e del racconto. Come sostiene la Djebar, esiste una cultura di donne fatta di poesie e danze che sembra perdersi, bisogna farla uscire da un mondo autistico a cui era stata tolta la parola. La Mernissi, in chiave più spinta, si propone di reinterpretare il Corano e la tradizione sacra dell’Islam dalla prospettiva femminile, evidenziando la presenza di personalità di spicco vicine a Maometto. Essa, inoltre, nota quanto sia difficile parlare di sesso in lingua araba dal momento che il vocabolario, ispiratosi al linguaggio coranico, non dispone di termini che indichino l’impuro. Infine, Nawal al Sadawi da psichiatra usa la penna come un bisturi nel romanzo Firdaus, storia di una donna egiziana, nel quale la protagonista non tenta di difendersi sull’assassinio del suo magnaccia ma rivendica con fierezza il gesto commesso. Messaggio un po’ radicale che, lungi dal prendere alla lettera, tuttavia suggerisce la svolta da parte della donna di alzare il capo e affermare la propria posizione.
In terza analisi, l’esposizione di Elisabetta Marino riguardo il libro The madwoman of Jogare della scrittrice indiana Sohaila Abdulali sottopone all’attenzione un’altra particolare declinazione di femminismo che si distingue in maniera inequivocabile grazie alla sua fusione con l’attivismo ecologista. La scrittrice è stata vittima di uno stupro collettivo a 17 anni e ha scelto di denunciare scrivendo la sua testimonianza su carta, rinunciando a un silenzio carico di vergogna. La violenza, infatti, ha negli aggressori una valenza etica volta alla correzione dei difetti. Una donna “eretica” nei suoi costumi va quindi punita perché si corregga e ritorni sui passi che convengono.
Il libro mostra il clima dell’India degli anni ’90 del boom economico e sociale che vede da una parte l’inasprirsi del divario sociale fra un mondo ancora rurale, che in città prende posto nelle baraccopoli periferiche, e la prevaricazione della nuova classe economica; dall’altra lo sviluppo dell’industria nucleare solleva forti preoccupazioni circa il suo impatto sull’equilibrio naturale. La tesi fondamentale dell’ecofemminismo mostrato da Sohaila Abdulali è che l’idea di prevaricazione economica ed ecologica si confà alla logica patriarcale. Lo sfruttamento della donna e di Madre Terra è visto in un rapporto simmetrico, in uno scontro fra valori androcentrici legati al profitto e la visione olistica femminile legata al mondo rurale. La Madwoman of Jogare, infatti, è una donna tribale la cui danza si credeva portasse i monsoni e il ciclo delle stagioni. La sua morte è un presagio dell’interruzione del tempo e del prevalere dei disvalori della modernità. La cementificazione smodata e lo scavare delle ruspe sono raffigurati come la distruzione delle creature viventi del sottosuolo attraverso immagini di stupro e cannibalismo.

Donne e madri tra violenza e lavoro
Il secondo momento della giornata, quello conclusivo, si è dedicato all’analisi del rapporto tra il femminismo inteso largamente come orientamento assiologico – che riflette sulla differenza di genere ed è mosso dalla richiesta di inclusione, di riconoscimento e di non discriminazione della categoria femminile all’interno del tessuto sociale – e la società stessa, con le sue strutture, i processi e le problematiche concrete. In questo contesto la riflessione verte sull’Occidente e sull’attualità degli eventi attraverso tre approcci disciplinari diversi: sociologia, psicoterapia e giurisprudenza.
In primo luogo, Claudia Hassan si domanda il perché del femminicidio. Di questo delicato tema vengono rintracciate le cause all’interno delle pieghe del sistema simbolico culturale di riferimento. Paradigmatico è il fatto che in Italia, fino a meno di quaranta anni fa, la violenza sulle donne fosse non solo permessa, ma addirittura istituzionalizzata dallo Stato attraverso il delitto d’onore. Ricordando l’abrogazione di tale delitto nel 1981, che rendeva impunibile l’uomo dinanzi all’omicidio della “propria” donna, la sociologa mostra come il piano legislativo si sia trasformato in pratica subliminale. Hassan ritiene che la violenza di genere presupponga il corpo della donna come terreno di conquista da parte dell’uomo. Infatti, dall’analisi dei dialoghi dei “maltrattanti” nelle sedute riabilitative carcerarie, emerge che l’uomo soffre di una sindrome di persecuzione per cui la violenza commessa, e in extremis l’uccisione, sia stata la legittima difesa dinanzi a un attacco femminile che lo ha messo in discussione e reso vulnerabile, ritornando così al delitto d’onore.
La legittimità giuridica del femminicidio è non tanto la causa, quanto piuttosto il sintomo e il riflesso di un modo di pensare condiviso ed accettato che ritiene la violenza sulle donne lecita e in qualche misura accettabile. Andando a studiare nei casi di femminicidio la sua eziologia, attraverso un’indagine rivolta al colpevole piuttosto che incentrata sulla vittima, appare come nelle strutture psicologiche degli uomini troppo spesso la donna sia ancora considerata come un oggetto; essa sembra esser parte, in questo ordine, di quel possesso simbolico su cui l’uomo deve rivendicare il proprio dominio, il potere dato dalla sua superiorità. Ecco allora che la violenza nasce come reazione all’avvertimento di un rischio di perdita, per cui la proprietà deve essere riaffermata ad ogni costo, per comprovare la virilità minacciata.
È evidente la necessità di una ristrutturazione del sistema culturale che disarticoli il nesso simbolico uomo-dominio, donna-proprietà, e che riconfiguri l’agire ed il modo di pensare attraverso il riferimento a valori completamente diversi. La buona notizia è che sembra stia prendendo piede un cambiamento nel modo di pensare, e che ci sia maggior coscienza riguardo al ruolo, i diritti e le potenzialità sociali della donna, almeno per quanto riguarda le ultime generazioni. È quello che ha messo in luce Simonetta Spiridigliozzi, riportando i casi di alcune ragazze, che nella fase delicata dell’adolescenza in cui si realizza il processo di consolidamento dell’identità fino alla completa formazione della persona, adulta e matura, dimostrano una consapevolezza lucida e profonda della complessità, fatta di difficoltà e possibilità, dell’esser donne, anche rispetto al loro ruolo all’interno della dimensione sociale e di quella familiare.
Secondo l’approccio psicoterapeutico, infatti, si evidenzia la sclerotizzazione dell’ambiguità circa il ruolo sociale della donna. Quest’ultima si impone “fuori” come donna in carriera e “dentro” subisce e alimenta gli stereotipi della donna sottomessa. Il primo esempio a cui guardano le ragazze è quello della madre, modello d’ispirazione per il futuro; tuttavia, nonostante esprimano ammirazione nella considerazione delle loro madri, le figlie appaiono anche critiche nei confronti di alcuni loro comportamenti che ritengono sbagliati. Le donne infatti ricoprono due ruoli, due stereotipi; non accontentandosi di rivestire esclusivamente la funzione tradizionale di madri, di “casalinghe”, colonizzano anche lo stereotipo, tipicamente mascolino, della persona in carriera. Questo sembra aver accumunato solitamente le generazioni passate di donne che, a partire dai movimenti di emancipazione del secolo scorso, hanno cercato di affermarsi nel mondo del lavoro facendo valere lo spirito di orgoglio, dignità e rivalsa. Rivendicazione sana e giusta, anche se in questo modo il ruolo professionale si somma semplicemente a quello familiare e materno causando spesso un sovraccarico faticoso e difficile da gestire. Quello che le figlie allora lamentano è l’esigenza di una riconsiderazione della struttura sociale e interazionale complessiva, a partire dagli stessi nuclei familiari, che generi un generale mutamento di dinamiche relazionali.
Tuttavia, la lucidità delle osservazioni delle ragazze e la coscienza di un cortocircuito fra essere e dover-essere che vede le loro madri come protagoniste, indicano che la questione femminile abbia già influenzato in positivo la riflessione delle ultime generazioni.
Antonella D’Andrea esamina le problematiche di genere dal punto di vista giurisprudenziale prendendo in considerazione il diritto alla non discriminazione e alle pari opportunità lavorative, tematiche di interesse sempre attuale e dagli sviluppi continuamente imprevedibili. La promozione di azioni positive a livello internazionale, europeo e nazionale garantiscono il diritto ad avere le stesse chances lavorative e retributive di partenza, superando il binomio donna-maternità che funge da elemento che statisticamente incide maggiormente sulle possibilità di aspirare a un impiego o di mantenerlo.
Quello che è venuto alla luce nel corso di questa analisi, è l’esistenza di una ambiguità contraddittoria all’interno del contesto professionale, per cui palinsesto giuridico normativo e realtà effettiva appaiono muoversi secondo due diverse velocità. Mentre infatti la normativa italiana ed europea attesta l’uguaglianza e la parità di genere attraverso il riconoscimento del diritto alla non discriminazione e alle pari opportunità – e non solo per quanto riguarda il contesto lavorativo -, le analisi statistiche dimostrano al contrario una disparità di trattamento subita concretamente dalle donne all’interno del mondo del lavoro. In particolare, sono due le sintomatologie più palesi di questo fenomeno: la segregazione di genere, per cui sembra che ci sia una sorta di reclusione delle donne all’interno di alcuni settori specifici ritenuti adatti a loro, e le difficoltà nell’avanzamento di carriera che rendono difficile alle donne la rottura di quella campana di vetro che le divide dai vertici della scala carrieristica. In ogni caso, risulta positiva l’intuizione giuridica che riconosce che l’uguaglianza di genere debba essere sostanziale, e non puramente formale, e la conseguente formulazione di misure correttive che assicurino un equilibrio delle parti, tenendo conto degli svantaggi di partenza della parte sfavorita.
È pur vero che non si può correggere con espedienti puramente tecnici un problema di natura morale. Le rivoluzioni etiche e sociali più efficaci partono dal basso, e coinvolgono necessariamente la dimensione dell’educazione. Solo un cambiamento radicale del sistema assiologico di riferimento può garantire il raggiungimento dell’effettiva uguaglianza di genere. È su questo tema che si è sviluppata la relazione, tenuta da Elvira Lozupone, la quale ha evidenziato quanto sia fondamentale il ruolo che l’educazione e la formazione hanno per il superamento del gap di genere. La necessità è quella di una valorizzazione sociale non tanto quantitativa, ma piuttosto qualitativa del ruolo professionale delle donne, che sottolinei il contributo peculiare da esse apportato all’interno del mondo del lavoro grazie al loro modo diverso e arricchente di guardare il mondo, di conoscere e di agire. Per realizzare un cambiamento culturale effettivo, è necessario innescare un processo che cambi il modo di pensare delle persone, frantumi le categorie e gli stereotipi tradizionali. I valori di riferimento, da trasmettere in uno sviluppo educativo che parta dall’infanzia, devono essere quelli del rispetto, dell’inclusione, della valorizzazione delle differenze, il riconoscimento delle peculiarità personali in vista della convergenza e della cooperazione.

Quale possibile emancipazione per la donna?
L’emancipazione femminile non può essere realizzata esclusivamente attraverso un’opposizione orgogliosa che genera uno spirito di conflitto e di competizione con il genere maschile. La differenza è valorizzata e potenziata dalla cooperazione, dal buonsenso, dalla condivisione delle responsabilità. Non contraddizione, ma inclusione. Ma perché ciò si realizzi, il primo passo da compiere è una rivoluzione che animi il pensiero. D’altra parte, la stretta connessione esistente tra emancipazione femminile e trasformazione sociale è qualcosa che, come ha ribadito la Gemma Errico nell’ultimo intervento della giornata, era stata compresa e rivendicata già dalla prima generazione di femministe, durante il Risorgimento. Il movimento femminista era allora contrassegnato da una forte connotazione etica, per cui l’emancipazione era vista dalle femministe anche come un modo per apportare una concreta trasformazione all’interno della sfera pubblica, grazie all’’integrità morale che caratterizza le donne. Allora, la maternità, come modo di essere proprio di ogni donna, avrebbe arricchito il senso di cittadinanza di nuovi valori diversi e complementari rispetto a quelli propriamente maschili, dando alla democrazia un significato ed una realizzazione più completi e più pieni.

Maria Chiarappa e Giulia Quinzi

La “rivoluzione dell’Islam” inizia dalle donne

di
Gianfranco Macrì

Parlare della situazione femminile nei paesi di cultura islamica significa scoperchiare un vaso all’interno del quale è possibile trovare tutto e il suo contrario. Nel senso che, al di là di molte riforme costituzionali, e non solo (alcune delle quali pure significative dal punto di vista della predisposizione di cataloghi di diritti e dei necessari strumenti per renderli giustiziabili) – non ultimo quelle introdotte a cavallo della c.d. “Primavera araba” – la condizione delle donne presenta ancora molte ombre. La stessa nascita del Califfato (2014), che si prefigge di ridisegnare la geografia e gli assetti politici in tutto il Medio Oriente, non “trascura” affatto il ruolo delle donne (che siano le ragazze della minoranza yazidi, oppure quelle appartenenti ad altre minoranze, cristiana o ebraica, ma pure le stesse donne sunnite, poco importa), tant’è che l’ONU ha fin’ora documentato il sequestro da parte dell’Isis di migliaia di donne “assaltate e violentate”, oppure costrette a prostituirsi nei bordelli gestiti dalla brigata femminile al-Khansa, un reparto formato “soprattutto da donne di nazionalità francese e britannica” [ref]M. Molinari, Il Califfato del terrore. Perché lo Stato islamico minaccia l’Occidente, Milano, 2015, pp. 110 ss.[/ref].

Di recente, ha fatto discutere la vicenda accaduta alla poetessa e giornalista libanese Joumana Haddad, notoriamente atea e laica, la quale, invitata in Bahrein a leggere le sue poesie, è stata presa di mira da parte di alcuni gruppi islamisti al grido di: “Nel Bahrein non sono benvenuti gli atei”, e dallo Sciecco Jalal al-Sharki che, durante un sermone del venerdì, la avrebbe minacciata di morte. Da qui l’impedimento ad entrare nel Paese, ordinato dal primo ministro Khalifa bin Salman Al Khalifa [ref]http://27esimaora.corriere.it/author/joumana-haddad/[/ref].

Quella delle donne che in diversi paesi musulmani si battono, come appunto Joumana Haddad, per l’uguaglianza tra uomo e donna, per la libertà sessuale, di parola, contro le discriminazioni di genere, l’omofobia etc., costituisce una questione non adeguatamente approfondita in occidente – attento più che altro a discutere di islam e democrazia, di equilibri geopolitici, di politiche per il contenimento delle migrazioni clandestine, di luoghi di culto (e poco di libertà religiosa) – e che invece, in alcuni paesi come Marocco, Tunisia, Algeria, risulta centrale nel dibattito pubblico animato da tante organizzazioni femminili (o femministe), grazie pure al ruolo di spicco di molte scrittrici, poetesse, giornaliste, agitatrici politiche. Appare allora utile svolgere alcune considerazioni su questo argomento, prediligendo gli aspetti giuridici (e le sue ricadute sociali) che la materia riveste.

Iniziamo col dire che la questione femminile interna all’Islam e ai paesi di cultura islamica, rappresenta da tempo un sistema complesso di materiali la cui narrazione – nella sua trasformazione temporale e tenuto conto delle variegate e complesse rappresentazioni e interpretazioni offerte dalle donne musulmane – occupa uno spazio meritevole della massima attenzione.

A chi studia i rapporti tra diritto, politica e fattore religioso, sono ben note le tante figure femminili da tempo impegnate su questo “fronte”, intendo dire: della puntuale urgenza a svelare una realtà complessa, come quella islamica, troppo sbrigativamente (e, a volte, colpevolmente) data per immobile, sia sotto il profilo “normativo” [ref]tenuto conto della “centralità” che il «teo-diritto» occupa all’interno di questa; cfr. S. Ferrari, Tra geo-diritti e teo-diritti. Riflessioni sulle religioni come centri transnazionali di identità , in «Quaderni di diritto e politica ecclesiastica», 1, 2007, pp. 2-14[/ref] sia della collocazione e del ruolo, appunto, che la donna vi occupa [ref]utile risulta la lettura del saggio di R. Pepicelli, Femminismo islamico. Corano, diritti, riforme, Carocci, Roma, 2010, che aiuta a dipanare le ombre che sul discorso ancora si addensano[/ref].

Si tratta di una tematica ricca di fascino, interessante per i suoi risvolti ermeneutici, e che consente di cogliere – e dunque “mettere in forma” – l’intera procedura discorsiva che l’attivismo di molte e variegate organizzazioni femminili hanno dispiegato e continuano a dispiegare nei diversi contesti pubblici, al fine di persuadere (soprattutto) quella ampia fetta di opinione pubblica occidentale (studiosi, gente comune, politici, etc.) incredula circa la capacità di giungere ad sovvertimento delle «narrazioni patriarcali sul ruolo della donna nell’Islam».

Ha preso così corpo una sensibilità, ancora tutta da consolidare e “orientare” all’interno di un discorso «interculturale» – basato sulla capacità-forza della tradizione dei diritti fondamentali di integrare le identità culturali come tali e vocato al bene comune della società pluralistica [ref]M. Ricca, Oltre Babele. Codici per una democrazia interculturale, Dedalo, Bari, 2008[/ref] – in grado di far comprendere (sia in ambito islamico che non islamico) che la donna può essere vista come il guardiano di una identità musulmana “profanata” da una ermeneutica coranica misogina e arcaica, divenuta dominante nel corso dei secoli e che invece i tanti movimenti femminili sono impegnati a proporre come aperta al negoziato, dialogante a livello sociale e, soprattutto, diretta a riprodurre nuove interpretazioni dei testi sacri.

L’azione intrapresa parte dal profondo del Corano e fa leva sulle “ammorsature” polisemiche presenti in esso, in grado di tenere ancorato, appunto, il “Testo al contesto”, la Tradizione, come «riappropriazione della memoria» (secondo l’approccio di Fatema Mernissi), alla realtà sociale vigente, in funzione della necessaria conciliabilità tra istanze di uguaglianza e religione.

Il tramite discorsivo possono essere una serie di casi oggetto di interpretazioni diverse: la questione del velo, il problema della separazione delle donne dagli uomini nei luoghi di preghiera (la moschea), la vexata questio della poligamia, la semplice recita di poesie in un qualsiasi spazio pubblico (come nel caso della nostra poetessa), etc. Ebbene, la re-interpretazione di questi ambiti importanti del diritto islamico (e non solo) ha rappresentato – a partire da quando l’azione dei movimenti femminili si è diffusa «sempre più capillarmente a livello geografico, culturale e politico», riaprendo la c.d. “porta dell’ijtihad” – uno dei contributi più significativi delle battaglie finalizzate al cambiamento, all’educazione e all’affermazione di una nuova «giustizia di genere». Si tratta, concretamente, di una lotta intrapresa da molte femministe islamiche contro leggi e istituti assolutamente patriarcali, da cui deriverebbe l’affermazione di una “Tradizione ufficiale”, valida per tutti e derivante da un’esegesi prodotta da una ristretta èlite di interpreti autolegittimatasi a parlare in nome dell’Islam contro l’affermazione dei diritti delle donne in chiave islamica.

Una lotta, dunque, intrapresa in nome di un’«altra Tradizione», di una nuova ermeneutica coranica, impegnata a leggere alla luce della realtà del XXI secolo il messaggio di liberazione insito nell’Islam delle origini, un messaggio [è stato scritto] «che è già nel Corano e nella storia della prima comunità di musulmani» [ref]Renata Pepicelli, Femminismo islamico, op. cit.[/ref].

Questo riferirsi, da parte delle donne musulmane, al Corano per sostenere i loro diritti, non deve assolutamente stupire l’osservatore occidentale, in quanto ci troviamo all’interno di contesti (quelli di cultura islamica) dove non si è venuta affermando una filosofia dei diritti umani che considera Dio “indifferente” all’organizzazione politica della società; al contrario, dove più dove meno, si registra il carattere irrecusabile e indiscutibile della trascendenza divina.

Ciò non ha tuttavia impedito a questa complessa e variegata «militanza femminista» di produrre in alcuni ambienti statuali riforme molto interessanti e significative nell’ordine dell’emancipazione femminile all’interno di società fortemente condizionate dalle scelte degli uomini. Un esempio paradigmatico è rappresentato dalla riforma, introdotta nel 2004 in Marocco, della Mudawwana, il Codice della famiglia, che, grazie all’attivismo di base e alla produzione esegetica di studiose come Mernissi e Lamrabet, ha profondamente innovato la disciplina della metà del 1957-1958, innovando in materia di uguaglianza e corresponsabilità tra coniugi, di limiti alla poligamia, in tema di divorzio. Il Codice è stato considerato a livello nazionale e internazionale un grande successo, tant’è che molte femministe di altri paesi lo stanno studiando per trovare spunti su come riformare le proprie leggi nel rispetto della religione.

Ci troviamo, allora, di fronte ad un «processo di transizione», che attraversa e va oltre la stessa “Primavera araba” [ref]C. Sbailò, Diritto pubblico dell’Islam mediterraneo. Linee evolutive degli ordinamenti nordafricani contemporanei: marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Egitto, Padova, 2015[/ref]. Tra mille contrasti, violenze, disperazione, si intravedono, in diversi contesti islamici, i segni dell’erosione di «ordini antichi» che però non sia sa quando soccomberanno e, soprattutto, “come” e cosa andrà ad instaurarsi al loro posto. Certamente tutto ciò avrà delle ricadute importanti sull’elemento giuridico che, pur non avendo nel mondo islamico una specificità propria, resta la posta in gioco principale nelle politiche sociali e culturali, mantenendo, innegabilmente, un ruolo privilegiato per la sua capacità di plasmare e ordinare la realtà.