Agnes Heller, “Il male radicale” (Castelvecchi, 2019)

La questione del Male Radicale rappresenta, ormai, il nodo nevralgico del pensiero post-bellico. Sebbene il problema del male occupi la riflessione filosofica nel suo intero, in quanto parte costitutiva dell’esistenza umana, l’indagine circa la sua radicalità rappresenta la cifra essenziale del pensiero moderno e contemporaneo. Ungherese sopravvissuta alla follia nazista, Agnes Heller nei quattro saggi raccolti in questo volume cerca di sciogliere quei dilemmi che hanno segnato la sua esistenza in maniera intima: come è stato possibile l’Olocausto? Esiste una ratio che permetta di comprendere un evento del genere? Che tipo di mondo permette che simili cose accadano? Cos’è la modernità? È possibile la redenzione?

Progetto di “CITTADINANZA E COSTITUZIONE” nelle scuole superiori

Filosofia in movimento, insieme a Edizioni Kappabit, è lieta di presentare a tutti i docenti e gli studenti delle scuole superiori italiane il progetto “Cittadinanza e Costituzione”, che prevede ore di studio sull’omonimo manuale – a cura di Antonio Coratti e realizzato dal gruppo di ricerca interuniversitario di Fim -, ore di incontri e conferenze con i nostri autori e ore di lavoro nella produzione di contenuti video.

Progetto PCTO Cittadinanza e Costituzione

a cura della KAPPABIT S.r.l.
in collaborazione con Filosofia in movimento

Soggetto proponente:

KAPPABIT S.R.L. 
Fondata nel 2010 per offrire consulenza strategica e percorsi dinamici innovativi ad aziende e istituzioni pubbliche e private, la Kappabit S.r.l. (www.kappabit.com) si propone come interlocutore unico nell’offerta di servizi, assistenza e progettazione nei seguenti settori:

  • tecnologia dell’informazione e della comunicazione (ICT)
  • editoria testuale, audiovisiva, musicale e multimediale
  • comunicazione aziendale, politica e istituzionale
  • ricerca, monitoraggio e analisi di mercato
  • organizzazione di mostre, convegni, seminari, festival, fiere, meeting ed eventi
  • realizzazione, installazione e commercializzazione di oggetti artistici, opere d’arte, design e grafica
  • formazione e qualificazione professionale e culturale

Dal 2014 opera come Casa editrice, attraverso le Edizioni Kappabit (www.edizionikappabit.com), realizzando numerose pubblicazioni – principalmente nell’ambito dell’arte contemporanea, della Media Art, dell’intermedialità, della Realtà Virtuale, del cinema, della musica, della didattica e della saggistica in genere – e dotandole di particolari dispositivi atti a implementare un’esperienza di lettura “aumentata”, grazie all’interazione combinata e integrata di contenuti multimediali, audiovisivi e musicali.

In collaborazione con:

FILOSOFIA IN MOVIMENTO   
Filosofia in movimento (www.filosofiainmovimento.it) è un gruppo di ricerca, attivo da più di cinque anni, che si occupa di promuovere, sviluppare e diffondere la cultura filosofica nella società civile, con particolare attenzione alla formazione dei giovani. Tre anni fa l’associazione ha dato impulso al progetto Esercitare il pensiero, con l’obiettivo di entrare nei licei e coinvolgere gli studenti nei discorsi filosofici, interloquendo con università italiane ed estere, riviste culturali, istituti e fondazioni private.

Tra la Kappabit e Filosofia in movimento (FiM) esiste un rapporto di partenariato, sancito da un protocollo d’intesa ratificato sin dall’avvio dell’attività dell’Associazione e operativo ormai da anni in vari ambiti di attività.

Contenuti e obiettivi generali del progetto PCTO

Al fine di sensibilizzare gli studenti al valore dei principi fondamentali della Costituzione italiana, Kappabit ha recentemente pubblicato il volume “Cittadinanza e Costituzione. Ripensare la comunità” (ISBN 9788894361834). Il libro, a cura di Antonio Coratti e con contributi di autorevoli filosofi e giuristi, si presenta come un manuale multimediale che ai contenuti testuali affianca video di approfondimento e si divide in due parti: la prima illustra la storia del concetto di cittadino dall’antica Roma all’Unione Europea, la seconda raccoglie i commenti di Gianfranco Macrì ai primi dodici articoli della Costituzione.

Il progetto mira a sollecitare lo spirito critico degli studenti, in particolare attraverso l’elaborazione di percorsi e la realizzazione di lavori che evidenzino il legame tra l’evoluzione storica del concetto di cittadinanza e il l’attualità che la definizione di tale concetto trova nella nostra Carta costituzionale. 

Quadro normativo

A partire dalla Legge del 30 ottobre 2008, n. 169, il Miur ha disposto percorsi di «sperimentazione nazionale» e «attività di formazione e sensibilizzazione del personale» finalizzati a sviluppare e a rafforzare i processi educativi nel campo delle competenze di «cittadinanza attiva». Come specificato anche dalla Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio dell’Unione Europea del 18 dicembre del 2006, le «competenze civiche» – che rientrano a pieno titolo nelle «competenze chiave per l’apprendimento permanente» – si fondano «sulla conoscenza dei concetti di democrazia, giustizia, uguaglianza, cittadinanza e diritti civili» e sono finalizzate a valorizzare i principi di responsabilità, legalità, partecipazione e solidarietà.

Fasi del progetto

Il progetto si articola in tre momenti fondamentali che prevedono l’attivazione di differenti modalità di partecipazione e d’interazione per studenti e docenti:

  1.  Studio dei percorsi sulla storia della cittadinanza in Europa e sui principi fondamentali della Costituzione italiana pubblicati in Cittadinanza e Costituzione. Ripensare la comunità (Edizioni Kappabit, 2019), manuale in cui i saggi prodotti dagli autori del gruppo di ricerca di Filosofia in movimento sono stati rielaborati espressamente per un proficuo uso didattico. I contenuti multimediali, che costituiscono parte integrante del testo, possono essere fruiti attraverso l’utilizzo della tecnologia QR-code, consentendo agli studenti di accedere direttamente dal proprio smartphone ai saggi integrali da cui sono stati tratti i percorsi di lettura e alle video-lezioni di approfondimento.
  2. Produzione di elaborati (relazioni, recensioni, presentazioni) che mettano in evidenza il l’evoluzione del concetto di cittadinanza fino a giungere all’attuale formulazione degli articoli fondamentali della nostra Costituzione. A tal fine, i docenti potranno essere supportati dalla redazione di Filosofia in movimento per quanto attiene a idee e suggerimenti, nonché per organizzare degli incontri di approfondimento con gli autori del libro presso l’istituto scolastico.
  3. Produzione di brevi documenti audiovisivi nei quali gli studenti intervisteranno i docenti della propria scuola sui dodici articoli fondamentali della Costituzione italiana. Kappabit supporterà gli studenti nella realizzazione di tali contenuti. I migliori video saranno pubblicati sul sito dell’associazione Filosofia in movimento (www.filosofiainmovimento.it).

L’ultimo Lukàcs e la lotta per un nuovo socialismo

di Guido Liguori

A partire dal recente volume “Lukàcs parla. Interviste (1963-1971)” a cura di Antonino Infranca – Edizioni Punto Rosso, Milano, 2019 – , Guido Liguori mette a fuoco alcuni dei punti fondamentali del pensiero politico dell’ultimo Lukàcs, con annotazioni riguardanti anche esponenti di spicco della politica italiana, come Togliatti e Gramsci

Il compito che il Lukács maturo si era proposto mi pare fosse soprattutto quello di ricostruire le basi teorico-politiche per una ripresa del socialismo dopo la devastazione dell’idea stessa di socialismo operata dal periodo staliniano. Il volume uscito di recente – Lukács parla. Interviste (1963-1971), cura e introduzione di Antonino Infranca, Milano, Edizioni Punto Rosso, 2019, pp. 200 – documenta bene la tensione del grande filosofo marxista ungherese verso questo obiettivo. Si tratta di una raccolta di dieci interviste rilasciate nel periodo indicato, alcune mai tradotte prima in italiano. Tra esse spicca la lunga Intervista sconosciuta del 1968, destinata non alla pubblicazione ma a essere discussa dagli appartenenti al Comitato centrale di quel partito in cui il filosofo era rientrato da appena un anno, dopo il trauma del 1956.

Vista la forma stessa degli scritti raccolti, gli argomenti affrontati sono molti – da quelli estetici a quelli etici, da quelli teorici a quelli politici, a quelli autobiografici. Il centro, o almeno uno dei punti focali del libro, a me sembra essere quello dei possibili sviluppi dei sistemi socialisti esistenti in relazione alla storia, teorica e fattuale, del movimento comunista mondiale. Un tema eminentemente politico, dunque.

Lukács, come egli stesso ricorda nel libro, non era mai stato un dirigente politico, se non nel decennio 1919-1929, e poi nel 1956. Si tratta di tre date significative. Nel 1919 aveva avuto responsabilità di primo piano (commissario all’istruzione, commissario politico nell’esercito) nella Repubblica ungherese dei Soviet guidata da Béla Khun. Sconfitto il tentativo rivoluzionario, continuò a svolgere dall’esilio prima viennese e poi moscovita, accanto a una più nota attività di ricerca teorica, un ruolo di direzione nel partito comunista ungherese, che lo portò nel 1929 a scontrarsi con Béla Khun e con l’Internazionale: a fronte della sconfitta degli anni Venti, Lukács si era pronunciato infatti per il ripiegamento del movimento comunista ungherese verso obiettivi democratici, mentre i seguaci di Stalin vaneggiavano su una rivoluzione imminente. Lukács, di nuovo sconfitto, sia pure all’interno del “campo” che resterà comunque sempre il suo, da allora in poi si dedicherà soprattutto alla ricerca teorica, filosofica ed estetica. Nel 1956 però accettò di partecipare come Ministro della cultura al legittimo governo comunista ungherese guidato da Imre Nagy, che fu stroncato dall’invasione dell’Ungheria da parte dei paesi del Patto di Varsavia guidati dall’Urss. Lukács e gli altri componenti del governo furono deportati in Romania. Il filosofo rifiutò di criticare Nagy e i suoi più stretti collaboratori, con cui pure era in dissenso su molte questioni. La sua notorietà gli rese salva la vita, mentre Nagy e altri furono condannati a morte.

La critica lukacciana al “socialismo reale” (come lo avrebbe poi definito Brežnev) non abbraccia solo il periodo staliniano: per lui il XX Congresso del Pcus non aveva comportato una reale autocritica e una vera correzione di rotta, come sarebbe stato necessario. Tuttavia i compiti appaiono al filosofo chiari: «dobbiamo dimostrare al mondo ciò che differenzia il marxismo dallo stalinismo», perché il marxismo deformato da Stalin non poteva dare alcuna risposta ai problemi del tempo, al contrario di quanto poteva tentare di fare il vero marxismo (p. 36). «Con questo marxismo che abbiamo non conquisteremo mai l’egemonia», afferma il filosofo, «perché questo marxismo è la peggior specie di manipolazione delle cose. Dovrebbe essere chiaro che dobbiamo tornare al vero marxismo, e con l’aiuto di questo rinnovamento, sarà realizzata, anche qui, l’egemonia» (p. 72).

In questa ricerca delle basi di un nuovo socialismo, non sorprende che Lukács incontri il comunismo italiano. Di Togliatti è noto il giudizio (riduttivo, in fondo critico) di grande tattico: «un uomo di eccezionale capacità politica, con una visione puntuale sulla peculiarità di ogni situazione, che è in continua ricerca e non ragiona schematicamente su nessuna questione […] nella nostra epoca è stata indubbiamente una delle personalità politiche più grandi. Poi si deve aggiungere – e ciò non ne diminuisce l’importanza – che nonostante Togliatti sia la personalità politica più grande di questa epoca, purtroppo, condivide largamente i fondamentali errori dell’ambito marxista […] la tattica sostituisce completamente l’analisi teorica del fondamento. Togliatti, anche se affronta molto meglio di tutti i suoi contemporanei la questione, non va fino alle conclusioni teoriche conseguenti» (pp. 56-57).

Più lusinghiero il giudizio su Gramsci: «Indubbiamente si sono prodotte novità negli anni Venti, in rapporto alla teoria di Lenin. E indubbiamente ce ne sono in Korsch, in Gramsci e nelle mie opere di quel tempo. Quelle tendenze furono stroncate dal Comintern dell’epoca, soprattutto per quanto riguarda Korsch e me; invece l’enorme vantaggio del movimento italiano fu che Gramsci non cadde in contrapposizione con l’Internazionale, quindi quello che vi era di positivo in Gramsci, e vi era molto di positivo in lui, poté essere investito nei problemi del movimento italiano» (p. 58). Tuttavia, «se pensassimo di risolvere i nostri problemi di oggi tornando ai teorici critici degli anni Venti, secondo me questo è un errore, anche nel caso di Gramsci» (p. 59). Lukács qui sottovaluta il lascito del marxista sardo, anche perché probabilmente non ha mai letto interamente i Quaderni. Per quel che concerne Berlinguer, rimando al carteggio Lukács-Berlinguer, pubblicato alcuni decenni fa da Critica marxista a cura di Lelio La Porta, che di recente lo ha riproposto con una nuova introduzione nel sito filosofia in movimento.it. Nel corso dello scambio epistolare Lukács scrive tra l’altro: «mi fa piacere è aver potuto partecipare ad un’azione comune con il vostro partito, nei confronti del quale nutro una simpatia che viene da lontano».

Tornando al libro, interessanti sono soprattutto le ripetute considerazioni che Lukács fa in merito alla via di uscita dalla impasse del movimento comunista. Essa si può riassumere in una ripresa del consiliarismo e nella parallela critica alla democrazia parlamentare (verso cui Lukács non nutre alcuna fiducia). Sono passi che risentono indubbiamente della ripresa della partecipazione politica alla fine degli anni Sessanta. Essi restano però densi di ammonimenti anche per il presente. Sia a Est (dove il soviettismo è stato quasi subito, dopo il 1917, trasformato secondo Lukács in una variante del parlamentarismo, sia pure illiberale) che a Ovest, si tratta per il filosofo ungherese di ripartire dalla democrazia dal basso: «Stalin iniziò la trasformazione dei resti, già corrotti, dei Consigli Centrali dei lavoratori (Soviet) in un parlamento […] ciò rappresentò un passo indietro, poiché il parlamentarismo è un sistema di manipolazione dall’alto [Nel] sistema dei Consigli […] la sua costruzione viene dal basso […] questo è il sistema, dal punto di vista democratico, più progressista, l’autentico socialismo» (p. 161). La difficoltà stava per Lukács nel fatto che «se fondassimo un Consiglio dei lavoratori mediante decreto, questo Consiglio sarebbe eletto nella stessa forma burocratica delle elezioni attuali per deputato. È necessario […] introdurre una democrazia di base» (p. 162).

Insomma, la ripresa del socialismo può avvenire solo dal basso, dalla costruzione di una rete di organismi partecipativi. Compito arduo ieri, nel socialismo reale di Lukács, quanto oggi, nel capitalismo spoliticizzato odierno. Eppure alcuni segnali si intravedono, come sempre sottotraccia, nello scavo della Talpa. Bisogna vedere se essi vedranno la superfice e ci permetteranno finalmente di cambiare pagina.

Vandana Shiva, “Semi di libertà” (Castelvecchi, 2019)

di Giulia Ceci

 

Edito da Castelvecchi nella collana Irruzioni, Semi di libertà è un libro tanto piccolo quanto grande, esattamente come il seme che ne è motivo portante, insieme simbolo e tema concreto di queste pagine. «Il seme è piccolo», si legge per l’appunto nella quarta di copertina, eppure in esso «le questioni ecologiche si intrecciano con quelle sociali». L’autrice Vandana Shiva, scienziata ecofemminista a capo di un programma internazionale per la tutela delle diverse culture ‒ chiamato “Navdanya”, ossia “nove semi” ‒, ha infatti compreso perfettamente cosa renda così importante questa realtà minuscola, non a caso sacra nelle civiltà del passato: il seme «contiene diversità», perciò «libertà». È dunque proprio la libertà ‒ o gratuità ‒ del seme a costituire una minaccia per le multinazionali dell’«agro-business» in piena globalizzazione. Tale libertà ha un duplice senso; ecologico da un lato, in quanto il seme si riproduce spontaneamente, economico dall’altro, giacché riproduce il sostentamento dell’agricoltore. Va da sé, allora, che la libertà del seme implichi necessariamente la libertà della classe contadina, o meglio delle libertà, una pluralità riflettente quelle diversità che vi si
trovano contenute.

Ribattezzata “la Gandhi del grano”, Vandana Shiva racchiude nel suo “Movimento per il seme” la lotta per un modello di vita ecosostenibile e autenticamente democratico, opposto alla farsa del libero mercato, nel quale, malgrado l’apparente «processo di nuove interconnessioni tra società», c’è posto unicamente per le grandi corporazioni. In questo contesto, il seme ‒ «primo anello della catena alimentare» ‒ è divenuto una merce, per la quale più di 25.000 contadini indiani, dal 1997 ad oggi, si sono tolti la vita. I brevetti o “Trips” ‒ Trade Related Intellectual Property Rights ‒ , «le attuali armi dell’imperialismo», hanno sancito il monopolio dei semi da parte delle corporazioni e l’egemonia dell’agricoltura industriale, basata sulla modificazione genetica del seme natio, confinando nell’illegalità i contadini.

Nella volontà di ribellione a un intero sistema che impatta distruttivamente non solo sull’ambiente e sulla sopravvivenza della classe contadina, ma alla fine della filiera produttiva si ripercuote sulla salute stessa del consumatore, riguardandoci tutti indistintamente, la preservazione del seme rappresenta un dovere morale e un atto politico di resistenza. Si ritorna all’intreccio di questioni ecologiche e sociali. Poiché la biodiversità mal si coniuga con l’uniformità innaturale e del tutto tecnica dell’agricoltura industriale ‒ il monopolio delle multinazionali ‒, il suo rispetto impone un decentramento della produzione, dove gli uomini non siano ridotti a scarti o avanzi delle macchine, i contadini a sorveglianti del procedimento meccanico, i consumatori a meri acquirenti dei supermercati, sommersi da quantità di cibo inesauribili, però di scarsa qualità nutrizionale. Scrive Vandana Shiva: «È questa connessione tra la diversità, la decentralizzazione e la democrazia ad aver guidato le mie idee e le mie azioni, sia a livello locale sia a livello globale».

Ricardo Antunes, “Politica della caverna: la controrivoluzione di Bolsonaro” (Castelvecchi, 2019)

di Anderson Deo[1]

(Traduzione in italiano a cura di Antonino Infranca)

I risultati delle elezioni generali in Brasile, nell’ottobre 2018, confermarono qualcosa che per molti sembrava impossibile. Dai militanti sociali agli analisti politici e agli intellettuali, di vari orientamenti ideologici, pochi – o addirittura rari – furono quelli che si arrischiarono ad affermare nel corso della campagna elettorale, che Jair Bolsonaro presentava condizioni tali da essere eletto. Forse, pressate dal desiderio che la tragedia non si realizzasse – principalmente l’ampio settore politicamente alla sinistra – le analisi puntavano all’impossibilità dell’elezione di un candidato che esprimesse ciò che di più reazionario e, pertanto, dichiaratamente antidemocratico, si è prodotto nel paese, in tutte le sue sfaccettature di disumanità che si esplicita mediante la barbarie imposta dal capitale. Intanto, così come annotava Karl Marx nella sua Critica del programma di Gotha, «ciascun passo del movimento reale è più importante che una dozzina di programmi», e non captando il “movimento reale” nella sua dinamica e processualità, le risposte pratico-politiche offerte, soprattutto dal campo democratico-popolare, non furono sufficienti per sbarrare l’avanzata della candidatura di carattere fascistizzante.

Il libro di Ricardo Antunes si caratterizza fondamentalmente come un primo sforzo di comprensione della dinamica sociale brasiliana, nelle sue complesse e intricate dimensioni, che portarono all’elezione di Bolsonaro. Contando sulla accurata traduzione di Antonino Infranca, il testo fu redatto durante il primo anno di governo che è iniziato il 1 gennaio 2019. Il testo percorre la dinamica e la riproduzione dei fatti, cercando di comprendere gli avvenimenti politici e sociali al di là della loro manifestazione fenomenica, ossia al di là della loro apparenza empirica, in uno sforzo di analisi di ciò che György Lukács identificherebbe come l’essere-proprio-così della totalità in questione. Esprime, pertanto, la caratteristica di uno scritto “nel calore del momento” che apporta possibilità di analisi e prassi politica. Con ciò, come è caratteristico degli scritti di Antunes, riflette elementi essenziali della singolarità nella formazione sociale brasiliana, le sue connessioni e dinamiche interne che danno forma alla particolarità storica di quel paese, nel suo processo di interrelazione di universalità nella riproduzione socio-metabolica del capitale.

Con la chiarezza e simbologia metaforica che gli è peculiare, Antunes enuncia già nel titolo dell’opera il contenuto storico di ciò che si annuncia come il governo di Bolsonaro: un’immersione sociale nelle oscure profondità di una caverna, come un momento di approfondimento della “controrivoluzione preventiva” in corso nel paese dopo il Colpo di Stato civile-militare del 1964. La caverna, nella oscurità che essa rappresenta, identifica la regressione político-culturale nella quale il paese entra con l’arrivo al potere di un governo che porta il marchio del discorso religioso della Teologia della Prosperità nella sua variante Neopentecostale, che riproduce il discorso fascistizzante dell’eliminazione di ogni e qualsiasi forma di manifestazione ideologica di sinistra, soprattutto comunista, di un fondamentalismo religioso di persecuzione delle donne, di riproduzione del razzismo e di discriminazione violenta della comunità LGBT e, fondamentalmente, di attacco ai diritti sociali storicamente conquistati da lavoratori e lavoratrici in Brasile.

La distribuzione dei capitoli analizza inizialmente il senso storico della dittatura militare, di carattere particolarmente bonapartista, che entra in vigore nel paese tra il 1964 e il 1985. Identifica, a partire da un’importante sintesi di Florestan Fernandes, il processo di controrivoluzione che si apre in quel periodo, come forma di frenare preventivamente qualsiasi prospettiva emancipatrice della classe lavoratrice, dove la borghesia rinuncia al potere politico in nome di un’autocrazia uscita dalle caserme, che riproduce una forma storica di sfruttamento intensivo ed estensivo della forza lavoro, ma, allo stesso tempo, rinforza la sua associazione subordinata ai nuclei centrali di riproduzione dell’imperialismo, principalmente degli Stati Uniti.

Analizzando il cosiddetto periodo di “ri-democratizzazione”, dove entra in vigore un ordine costituzionale fondato sui precetti liberali dello Stato di Diritto, identifica con chiarezza l’adozione del progetto neoliberale nel paese a partire dal governo Collor (1990-1992), dimostrando che lo stesso fu perfezionato e approfondito nei governi di Fernando Henrique Cardoso (1995-2002), in un quadro internazionale di mondializzazione del capitale sotto l’egemonia della borghesia finanziaria. Il progetto del PT, riprodotto da Lula (2003-2010) e da Dilma Rousseff (2011-2016), è caratterizzato, per Ricardo Antunes, come una “politica di conciliazione tra entità sociali inconciliabili”, accennando al fatto che i governi di campo democratico-popolare non hanno rotto con la logica macroeconomica neoliberale, anche se è stato possibile avanzare con programmi di governo e politiche pubbliche di carattere sociale, come il Programma Fame Zero.

Fondamentale nell’analisi di Antunes, è la precisa connessione della realtà brasiliana nella riproduzione della totalità storica. Dato ciò, comprendiamo e riceviamo dalla lettura di questo libro, che il neoliberalismo è la risposta storica che la borghesia impone all’umanità di fronte alla crisi strutturale del capitale, che si esplica a partire dalla metà degli anni Settanta. L’offensiva del capitale sul lavoro – o come concepito dall’autore nei suoi scritti, “coloro-che-vivono-di-lavoro” – impone una serie di trasformazioni, nella forma socio-metabolica del capitale. Il processo di ristrutturazione produttiva, analizzato dall’autore nella sua vasta e proficua produzione teorico-politica nel corso di più di trenta anni, dà origine a una costante dinamica di precarizzazione delle condizioni di vita e di lavoro del proletariato, nelle sue diverse frazioni e morfologie, a livello mondiale. In forma parallela e concomitante, i complessi politici, che danno dimensione allo Stato borghese, riproducono, sempre più, un tipo di “democrazia di cooptazione” (nuovamente Florestan Fernandes), che identifichiamo come una forma autocratica istituzionale di dominio borghese, che si riproduce mediante i parlamenti e il potere giudiziario, in costante articolazione con i poteri esecutivi. Ecco l’elemento, nella nostra opinione, che il progetto di conciliazione del PT non rompe, al contrario, neppure affronta. E che finisce in maniera tragicomica, essendo lo stesso carnefice, nel Colpo di Stato che ha portato alla deposizione di Dilma Rousseff, nel 2016, così come l’arresto di Lula nell’aprile 2018.

Qui, ancora una volta, l’autore ci offre piste fondamentali per la comprensione dei fenomeni sociali, in modo da estrapolare l’apparenza degli stessi. Discutendo gli elementi costitutivi dell’articolazione politico-economica che hanno portato alla deposizione di Dilma, Antunes afferma che siamo “in un nuovo ciclo della controrivoluzione che rifiuta qualsiasi forma di conciliazione”; ossia, con l’approfondirsi della crisi strutturale e sistemica del capitalismo – pertanto una crisi della forma sociale retta dal capitale – iniziata dal 2008, osserviamo una nuova offensiva del capitalismo finanziario sulla ricchezza socialmente prodotta dal proletariato a livello mondiale. Dato che questa ricchezza è prodotta e realizzata all’interno delle frontiere dello Stato Nazionale, la borghesia si organizza e impone azioni politiche, più o meno violente, – in dipendenza dalle singole congiunture – per raggiungere i suoi interessi di classe. E qui, l’autore ci offre più di una metafora – brillanti come indizi – per comprendere l’essenza dei fenomeni politici così come questi ci si presentano nell’attualità. Dice Antunes: «Forse, si potrà dire che il capitalismo della piattaforma, dell’era digitale, informatica e finanziaria, somiglia molto alla protoforma del capitalismo”, questo perché nel suo periodo di accumulazione originaria (primitiva) il «capitale trasse la sua forza dall’intenso sfruttamento e spoliazione del mondo coloniale». E potremmo aggiungere che nell’attuale fase di offensiva del capitale, lo sfruttamento e la spoliazione si riproduce, anche, nelle “metropoli”, anche se con caratteristiche distintamente specifiche.

Questo ci sembra l’elemento nodale per comprendere la discussione che Antunes ci presenta sulle continuità e similitudini tra il governo di Michel Temer (2016-2018), emerso dal Golpe del 2016, e la sua continuità con Bolsonaro, in cui la figura del “super-ministro dell’economia” è, quanto meno, sintomatica. Paulo Guedes assume il ministero dell’economia con carta bianca per amministrare la ricchezza socialmente prodotta nel paese. È un autentico Chicago Boy, che ha preso lezione nelle università cilene negli anni della dittatura di Augusto Pinochet, e passa a proporre uno shock di profondo liberalismo nel suo contenuto ortodosso, o neoliberale, per il Brasile. Questo spiega l’appoggio della borghesia brasiliana alla candidatura di Jair Bolsonaro di fronte al disastro del suo allora candidato preferito, Geraldo Alckmin.

E di fronte a questo quadro, Ricardo Antunes conclude il suo libro fissando come sfida ai movimenti sociali e ai partiti politici di sinistra, la necessità di ricomporre le loro forme di lotta, comprendendo le nuove morfologie e necessità della classe lavoratrice, delle sue frazioni sempre più precarizzate, informali, “uberizzate”, nei loro ritagli e manifestazioni di genere e di razza, e che hanno bisogno di organizzare mediante un progetto politico di classe un confronto all’ordine del capitale, e che puntino a un progetto di emancipazione umana.

Così, il pubblico italiano ha nelle sue mani un bello e importante materiale che contribuirà alla comprensione dell’attuale quadro storico brasiliano. Il libro di Ricardo Antunes ci offre scintille vigorose, che possono venire a trasformarsi in vere fiamme, fuochi di luce che illuminano cuori e menti affinché lavoratrici e lavoratori brasiliani riescano ad attraversare e a rompere l’oscurità della caverna nella quale il Brasile – e perché non il mondo? – si trova.

[1] Dottore di ricerca in Scienze Sociali. Post-dottorato presso l’Università di Urbino “Carlo Bo”. Professore di Teoria Politica presso il Dipartimento di Scienze Politiche ed Economiche e del Programma di Post-laurea in Scienze Sociali dell’Università di San Paolo – Campus di Marília. Coordinatore del Nucleo di Studi di Ontologia Marxiana (NEOM/CNPq).

Lettera alla rivista Praxis (11 aprile 1968)

Continuano ad essere pubblicati materiali finora inediti riguardanti il vecchio Lukács; materiali che arricchiscono l’immagine del filosofo ungherese quale costante oppositore dei regimi totalitari del “socialismo realizzato” e di intellettuale impegnato nella difesa dei diritti umani. Con introduzione di Antonino Infranca.

            L’11 aprile 1968 Lukács scrisse una lettera alla rivista jugoslava “Praxis” a seguito della richiesta che i due direttori della rivista, Gajo Petrovic e Rudi Supek, gli avevano indirizzato di firmare una lettera di protesta contro le manifestazioni antisemite in Polonia. Ricordo che in quegli anni Lukács era impegnato nella raccolta di firme per una richiesta di libertà nei confronti di Angela Davis, la giovane afro-americana che lottava per i diritti civili degli afro-americani e che era stata rinchiusa nelle carceri statunitensi con l’accusa di terrorismo (cfr. Vie traverse. Un confronto Lukács-Anders, a cura di A. Infranca e A. Meccariello, Trieste, Asterios, 2019). Tre anni dopo interverrà per chiedere la liberazione dal carcere ungherese di due dissidenti maoisti, Dalos e Haraszti (cfr. G. Lukács, Testamento politico, a cura di A. Infranca e M. Vedda, Milano, Punto Rosso, 2015).

            La notizia della firma della lettera di protesta da parte di Lukács fu data da Radio Free Europe il 29 aprile. Proprio il giorno prima, il 28 aprile, il quotidiano jugoslavo “Vjesnik” dava la notizia che l’organo del Partito Operaio Socialista Ungherese, il quotidiano “Nepszabaság”, il 27 aprile, aveva pubblicato un attacco a Lukács da parte del responsabile per le questioni culturali del POSU, György Aczél. Aczél rimproverava a Lukács la sua “unilateralità” nel criticare lo stalinismo e il culto della personalità in Ungheria. Secondo Aczel, Lukács non aveva considerato i lati positivi di quel periodo della storia del socialismo e non ammetteva che si potesse tollerare alcun compromesso nella lotta ideologica. In discussioni private, Aczel cercò di far capire a Lukács che il POSU cercava di portare avanti una “politica di bilanciamento” tra la necessaria de-stalinizzazione e il controllo occhiuto dei sovietici. Lukács non accettò questa “politica di bilanciamento” e continuò imperterrito la sua condanna della continuazione dello stalinismo sotto forme nascoste (cfr. G. Lukács, Pensiero vissuto, a cura di A. Scarponi, Roma, Editori Riuniti, 1983, p. 183).

            È molto probabile che Aczel, a nome del Comitato Centrale del POSU, chiese a Lukács un’intervista per spiegare le sue posizioni politiche. L’intervista fu tenuta nel luglio 1968, quindi un mese prima dell’invasione sovietica della Cecoslovacchia. Adesso l’intervista è disponibile in italiano (cfr. G. Lukács, Lukács parla, a cura di A. Infranca, Milano, Punto Rosso, 2019). Lukács condannò fortemente l’invasione della Cecoslovacchia e la repressione della Primavera di Praga in suo scritto, Demokratisierung heute und morgen (cfr. G. Lukács, La democrazia della vita quotidiana, a cura di A. Scarponi, Roma. Il manifestolibri, 2013). Lo scritto di Lukács rimase sepolto negli archivi del POSU fino al 1985, quando nell’incipiente era gorbacioviana proprio György Aczel lo fece pubblicare in tedesco e poi tradurre in italiano. Era un modo per mostrare ai compagni russi che il vecchio Lukács aveva anticipato la perestroika e la glanost di Gorbaciov. 

            Qui traduciamo la lettera dell’11 aprile 1968, nella quale Lukács, oltre a sottoscrivere la lettera di protesta contro i rigurgiti antisemiti, prende posizione contro le possibili “misure amministrative” che sarebbero state prese, eventualmente, nei suoi confronti da parte della dirigenza comunista ungherese. Per “misure amministrative” si intendeva anche il carcere o l’espulsione dall’Ungheria. Lukács rimase fermamente legato alle sue convinzioni e il POSU non poté punire un intellettuale tanto famoso. “Il coraggio dei vecchi è libertà che si avvicina” (Seneca, Fedra).

            Budapest, 11 aprile 1968

            Cari compagni Petrovic e Supek,

in principio, vi autorizzo a includere il mio nome nella vostra lettera di protesta. Come voi stessi, anche io sono convinto che il problema del marxismo non può essere risolto con misure amministrative.

            Comunque, per esprimere con la massima efficacia le mie concezioni, che non differiscono dalle vostre concezioni, riguardanti le misure amministrative, vi prego di pubblicare le seguenti osservazioni riguardo alla mia firma:

            La rinascita del marxismo può essere realizzata soltanto mediante serie ricerche scientifiche e per mezzo di critiche espresse in libere discussioni. Nell’attuale situazione è inevitabile che differenti concezioni, riguardanti queste questioni, concezioni in conflitto, siano espresse pubblicamente. Nel far ciò si deve sapere che non sempre una concezione soggettivamente onesta sia, se considerata oggettivamente, una concezione marxista. In altre parole, ciascuno di noi ha il pieno diritto di sostenere apertamente che le concezioni espresse da particolari pensatori, riferentesi al marxismo, non siano, in realtà, concezioni marxiste. Non desidero, né posso, far passare ciò in silenzio in relazione con il caso su menzionato. Il mio radicale rifiuto di qualsiasi misura amministrativa (e delle sue ufficiali spiegazioni) non è affatto indebolita dalle riserve teoretiche su menzionate. Tutto ciò che non è marxista in una teoria o in metodo, secondo la mia opinione, può e dovrebbe essere affrontato soltanto con discussioni scientifiche.

Con cordiali saluti, Vostro

György Lukács

Marc Augé, “Prendere tempo. Un’utopia dell’educazione. Conversazione con Filippo La Porta” (Castelvecchi, 2016)

di Giulia Ceci

Edito da Castelvecchi nella collana Irruzioni, il libro trae spunto dalle conferenze che hanno visto dialogare Marc Augé e Filippo La Porta in occasione del Futura Festival di Civitanova Marche (2013-2014). Il sociologo francese di fama mondiale ripercorre, attraverso le domande e le considerazioni del critico letterario, le tematiche fondamentali della sua produzione, cercando di interpretare i nostri tempi, ma soprattutto il senso stesso del tempo ai nostri tempi. L’avvio non può che darsi a partire da quegli spazi in cui l’uomo contemporaneo trascorre parte delle sue ore e delle sue giornate: secondo la felice definizione di Augé, i «non-luoghi». Si tratta di aeroporti, stazioni ferroviarie, ipermercati, centri commerciali, per i quali la negazione dello statuto di luogo si riferisce principalmente
a ciò che li contraddistingue, ossia transitorietà e astoricità. Agli antipodi della piazza, i «non-luoghi» sono infatti luoghi di passaggio e senza passato, ai quali risulta difficile attribuire un’identità, data l’assenza di una memoria, la mancanza di una sedimentazione. Tuttavia, a dispetto di questa ambiguità, resta un fatto incontrovertibile la loro elezione attuale a luoghi della socialità, dove la relazione è necessariamente mediata dal consumo, spesso subordinata al potere d’acquisto.
Si incappa così in un apparente paradosso: proprio nella società che ha massimizzato la comunicazione, la relazione umana è costantemente a rischio, se non impossibile, a riprova dell’irriducibile differenza fra l’una e l’altra. Alla base di tale differenza v’è il tempo, presupposto irrinunciabile di qualsiasi forma di relazione. Per questo, «dovremmo imparare a pensare di nuovo nel tempo», respingendo l’immediatezza dei mezzi tecnologici, ossia quella dimensione virtuale di istantaneità che è venuta sostituendosi all’esistenza nel tempo e nello spazio.

È la stessa incapacità di padroneggiare il tempo, secondo Augé, la causa di un diffuso «sentimento di abbandono che abita i giovani», nella mutata socialità dei «non-luoghi». A prescindere dalla crisi economica e dalle insoddisfacenti prospettive di occupazione, si avverte un vuoto più profondo nell’istruzione. Occorre tornare a formare per formare, ricondurre l’istruzione al cuore dell’educazione, concedere tempo per sapere; investire nel tempo equivale a investire nell’istruzione. Finché si considera la scuola, nonché l’università, uno strumento teso all’ottenimento di un buon impiego, confinando la conoscenza all’applicazione ‒ ulteriore estremismo della logica del consumo ‒, ogni progetto educativo è destinato a fallire. Da questa consapevolezza nasce l’utopia di un’«educazione per tutti», dove il carattere utopistico non sta per fantasioso, ma ne indica la posterità. Augé immagina così una società nella quale l’essere umano come uomo generico, ossia l’uomo «planetario, indipendentemente dalle sue origini, dal suo sesso e dalla sua appartenenza culturale», sia accompagnato al compimento della sua finalità: «conoscere il più possibile». Un primo passo importante in tale direzione, ad esempio, sarebbe assicurare l’accesso alle fonti del sapere, poiché l’aumento delle diseguaglianze economiche non crea conoscenza, bensì ignoranza, che congiunta al progresso della tecnica annuncia «minacce e violenze di varia natura». Ne va, allora, della stessa visione del futuro, oggi abitato da un’apocalisse, come fossimo perennemente angosciati, effetto di un tempo subito e del tutto fuori controllo. Soltanto «un’utopia dell’educazione», in quanto riconquista del tempo, può scalzare
la distopia apocalittica.

Democrazia inquinata

di Antonio Martone

Doppio inquinamento

Esiste un inquinamento ambientale, e per fortuna se ne parla: purtroppo, se ne parla soltanto poiché il capitalismo post-industriale ha pur bisogno di “gestire” le proprie contraddizioni più palesi (al fine di addomesticarle) ma qualche volta – almeno – se ne discute. Tuttavia, la questione dell’inquinamento è molto più ampia. Occorre sottolineare, infatti, che gli elementi tossici che possono investire l’uomo non si limitano agli agenti inquinanti esterni. A fronte della spazzatura e di rifiuti di ogni tipo che ormai impregnano l’ecosistema, esiste infatti una psico-sfera umana “impasticcata”, al punto da richiedere cure urgenti. Il vuoto che molti cercano di colmare con droghe, psicofarmaci, con un atteggiamento aggressivo e prevaricante nei confronti degli altri o, più in generale, con la propria falsa coscienza andrebbe affrontato politicamente come il problema centrale del nostro tempo. E, invece, non si fa. È palese a tutti, anzi, che si vada nella direzione contraria. 

È chiaro, peraltro, che fra le due forme di inquinamento esista un nesso strettissimo. È del tutto ovvio, per fare un esempio immediatamente comprensibile, che gli abitanti delle periferie del mondo, assediati da ecomostri di ogni tipo, privi di spazi pubblici e di aree ove sia possibile prender parte ad un’intesa sia pur minima con il dato naturale, e dove ammalarsi di cancro è più facile che mandare i figli a scuola la mattina, difficilmente potranno contare su una salute “psichica” degna di questo nome. Va detto, tuttavia, che anche l’altra estremità degli abitanti del mondo occidentale, composta da donne ed uomini che risiedono tutto sommato “al centro”, coloro cioè che riescono a portare i figli a scuola con normale regolarità e loro stessi ci sono andati, non sono immuni da processi di inquinamento. La formazione prevede, infatti, che sempre più l’insegnamento attraversi metodi e nozioni “istituzionalizzate” da burocrati ed esperti che vengono posti in atto spesso attraverso insegnanti zelanti e proni al sistema. Da questo punto di vista, già qualche decennio fa, si poteva osservare che la nostra epoca: «Sarà ricordata come l’Era della Scolarizzazione, in cui alle persone per un terzo della loro vita venivano imposti i bisogni di apprendimento ed erano addestrate ad accumulare ulteriori bisogni, cosicché, per gli altri due terzi della loro vita, divenivano clienti di prestigiosi  “pusher” che forgiavano le loro abitudini […] l’epoca in cui le opinioni delle persone erano una replica dell’ultimo talk-show televisivo serale e alle elezioni il loro voto serviva a premiare imbonitori e venditori perché potessero fare meglio i comodi propri».

Certamente rispetto al tempo in cui è vissuto Illich – non lontanissimo ma, dato l’incremento del fattore velocità a cui siamo sempre più soggetti, sembra oggi davvero un altro tempo – l’aumento esponenziale del numero e del peso specifico dei media è in grado di provocare “distrazioni di massa” dai temi che più contano: per esempio l’inquinamento del pianeta, la strutturazione del potere politico reale e non quello esposto dalla propaganda pubblica, la formazione di una psico-sfera nella quale il bombardamento mediatico non lascia alcuno spazio per il pensiero critico, rendendo incapaci di discernere il vero dal falso.

Dipendenze

Nel fondo oscuro della nostra intimità risiedono emozioni importanti che appaiono incomunicabili. Il paradosso è che si tratta proprio di quelle che meriterebbero più di tutte di essere condivise e chiarite nelle loro cause scatenanti. Mi riferisco alle dipendenze – alcool, sesso, psicofarmaci, droghe, gioco, manie, iperlavoro. Noi stessi – nei casi migliori – le percepiamo per quello che sono, ossia delle vere e proprie debolezze. Sono indicibili proprio per questo: non possiamo ammettere a cuor leggero, soprattutto davanti agli altri, che siamo deboli al punto da non poter padroneggiare le nostre azioni. L’incapacità d’ammettere la carenza di potere, o addirittura la sua totale mancanza, rimane un connotato peculiare dell’uomo. Lo è ancor di più in un tempo storico quale il nostro, caratterizzato fondamentalmente dai miti della potenza egoica, della conquista rampante del mondo, dell’individualismo autarchico, blindato in se stesso e che compara – in maniera assai fallace – il proprio valore umano alle possibilità concrete che il denaro gli permette di acquisire. L’antropologia tardo-americana del self-made-man, oggi perfezionata in neoliberismo radicale, non a tutti svela il suo tratto ingannevole e, anzi, viene trasformata in ideologia che naturalizza la competizione selvaggia, rendendola normalità esistenziale.  

L’antropologia dell’homo (post) democraticus, pertanto, appare caratterizzata da ammiccanti affabulatori che intendono mostrare, attraverso una sorta di autopromozione propagandistica, un’immagine seducente di sé, piuttosto che la perdita dei propri diritti e della dignità di se stessi in quanto esseri critici. Come possiamo distinguere la verità dalla finzione – ci si dovrebbe chiedere – quando il concetto stesso di realtà è stato cancellato (o comunque seriamente ridimensionato) e quando, anzi, quest’ultimo viene costantemente (ri)prodotto, avendo come matrice la finzione stessa.  E, del resto, come possiamo discernere la realtà dalla rappresentazione in una fase storica nella quale siamo regolarmente alla ricerca dell’intrattenimento e dell’impatto emozionale? Cercare una via d’uscita dalle acque melmose della nostra quotidianità, tentare di emergere dall’artificialità spettacolarizzata e nevrotizzata entro cui è finita la nostra giornata, significherebbe forse uno sforzo troppo grande, da sostenere spesso da soli, senza gli altri, se non contro gli altri. 

Falsa coscienza

La società globale rappresenta la fase storica nella quale domina il conformismo e il leaderismo. Gli individui sono prevalentemente “entità” accomunate dal sentimento della paura e, per vincere quest’ultima, tendono a rinchiudersi nel cerchio magico della massa. Essere individuo, del resto, significa apparire visibili e dunque vulnerabili. Nella massa, invece, è possibile nascondersi, assumendo un atteggiamento metamorfico. In un orizzonte socio-politico simile, non può che prosperare il leaderismo (che non si può neppure più definire con l’antica e blasonata espressione di cesarismo) di massa.

Ciò accade fondamentalmente perché l’uomo (post)democratico non ha la forza di affrontare le conseguenze ultime delle proprie azioni. L’uomo è un animale servile e mimetico perché fondamentalmente irresponsabile e incapace di lungimiranza: in altre parole, egli appare spesso indegno della sua libertà. Stando così le cose, finire nelle braccia di un qualsiasi tecno-fascismo diviene una possibilità concreta. Del resto, gli stessi uomini che sostengono pubblicamente una causa sono poi totalmente incapaci di comprendere che tanto spesso, nei confronti di quella causa, sono stati aizzati da qualcuno. Più in piccolo (ma mica tanto), ogni volta che si compra un prodotto (solitamente inutile se non dannoso), quanti sono consapevoli di esser stati coartati o perfino spaventati, affinché quella “cosa” venisse comprata? Inutile dire che nel nostro tempo fa parte del comprare una merce anche il votare un qualsiasi personaggio politico, solitamente un imbonitore che vuole vendere a tutti i costi il proprio prodotto – la merce cioè che darà potere a lui e dipendenza ai suoi incauti elettori. Le stesse donne e i medesimi uomini che si lamentano quotidianamente di questo stato di cose sono proprio quelli che preferiscono la chiacchiera, la polemica sterile, la divisione da stadio in partiti contrapposti, il chiudersi dentro le proprie ossessioni nevrotiche, anziché lo studio e che rifuggono, con altrettanta forza, sia il pensiero critico sia la lettura di un semplice testo di filosofia.

E così, alla prova del nostro operare (che è poi l’unico possibile), rifuggiamo azioni concrete, poiché queste ultime ci sembrano al di sopra delle nostre possibilità e delle nostre forze. E così, lasciamo che le cose procedano a loro modo, ossia nella maniera in cui vuole il sistema, non sempre comprendendo che le rivoluzioni autentiche non si fanno “nella sala della pallacorda”, e che, anzi, i mutamenti sostanziali vanno perseguiti tenendo conto delle nostre capacità di intervenire ed operare negli eventi (economici, politici, culturali, emozionali), non escluso affatto, pertanto, il nostro piccolo microcosmo. Il luogo stesso dell’esperienza è stato abbandonato, favorendo l’abolizione di una differenza che omogeneizza l’individuo all’interno di una massa indifferenziata incapace di produrre distanza: «La globalizzazione degli scambi non è dunque economica, come ci si compiace di ripetere dopo lo sviluppo del mercato unico, è innanzitutto ecologica e non interessa unicamente l’inquinamento delle SOSTANZE,  con, per esempio, l’effetto serra atmosferico, ma anche l’inquinamento delle DISTANZE e dei rinvii che compongono il mondo dell’esperienza concreta».

Tutto ciò si stenta a comprenderlo e dal punto di vista della comunicazione pubblica nulla aiuta a elaborarlo, dal momento che il messaggio che dai media si impone chiede di blandire il narcisismo di tutti, non certo l’eroismo etico da parte di qualcuno. Le conseguenze di questo stato delle cose hanno tutte una direzione unica: il rischio reale di diventare una società teleguidata, schiava delle mode, delle ossessioni e di nevrosi imposte, in un mondo in cui non vi è più spazio per qualcosa che ricordi il tessuto sociale e i beni comuni. 

Che cosa rimane? Agli animi spauriti del nostro tempo rimane allora soltanto un generico point d’honneur morale, se non moralistico: placebo per la coscienza, finalizzato a dormire tranquilli la notte se non addirittura a rivendicare superiorità morale rispetto agli altri. Buoni propositi e rappresentazione di sé a tutto tondo positiva: “il mondo è cinico e baro ma io no, io sono diverso”. Insomma, falsa coscienza, dimenticanza utile alla sopravvivenza, arte grossolana per eludere gli aspetti deteriori del proprio opportunismo e della propria codardìa. Storditi dalle paure, siamo difesi da un esercito costantemente crescente di menzogne, capaci di creare un campo esistenziale laddove  l’incoerenza e il disagio la fanno da padroni, mentre il sistema stesso le nutre, accentuandole e guidandole verso mete anodine che, dunque, ne neutralizzano gli aspetti potenzialmente eversivi. La bugia verso noi stessi costituisce il sintomo di un inquinamento destinato a radicarsi sempre di più. 

In questo orizzonte, sarebbe necessario interrogarsi sul senso del disagio, sulle sue ragioni di fondo e sulle possibilità di, non dico superarlo, ciò che forse non è umano, ma almeno, come dovrebbe essere giusto, di fronteggiarlo. Non mi pare che ciò accada. Mi sembra, infatti, evidente che anche il disagio – di tanti ormai, fuori dall’Occidente ma anche al suo interno -, piuttosto che essere affrontato in vista di una risoluzione che passi attraverso un mutamento effettivo delle condizioni tanto politico-economiche, quanto, soprattutto, antropologico-culturali, diviene più profondo e raggiunge limiti soltanto ieri impensabili. Più occorrerebbe dare senso al vuoto, alle condizioni depressive, agli stati di malessere nevrotici, al fine di controllarli e incanalarli, più essi – invece – si estendono e si radicano. Si tratta evidentemente di un circolo vizioso… Quando non saremo più neppure in grado di vederlo, ebbene, allora non sarà possibile tornare indietro e il vuoto – chissà – ci avrà inghiottiti nelle sue spire – come sabbie mobili che fatalmente risucchiano il viandante incauto.

La fatica della comunità

E, tuttavia, non c’è dolore, anche il più intimo, anche il più intenso, che non possa essere metabolizzato, ricoperto, trasfigurato. Non c’è dolore, né disagio che non possano essere sopportati e sublimati a condizione che li si “curi” con un’aura di bellezza, di opportunità creative, insomma, di vie d’uscita. Tali “soluzioni”, tuttavia, per manifestarsi, per aprire le proprie porte, hanno bisogno di essere costruite, implementate, rese accessibili. Non esiste una via d’uscita dal dolore e dal disagio che non passi attraverso il potenziale di vita raccolto nel proprio contatto con la comunità dei propri simili. La comunità è balsamo vitale per gli esseri umani e lo è ancora di più per l’uomo sofferente, e ci si augurerebbe che avesse davvero ragione Spinoza quando il filosofo olandese affermava che “l’uomo è un Dio per l’uomo”. 

Per attingere al senso della comunità, tuttavia, sarebbe indispensabile uscire da sé. Un individualismo iperblindato come quello contemporaneo, in larga misura costruito dal tecno-capitalismo, si mostra incapace di aprire le immense possibilità che il contatto “confidente” con il proprio “fuori” consente. In fondo, a pensarci bene, la “salvezza” non è quasi mai collocata nel recinto chiuso d’una soggettività, poiché si trova piuttosto nel punto di congiunzione fra il proprio interno e un esterno che costituisce l’universale umano. Accade però che, nel tempo della globalizzazione, fase storica che si proclama aperta e libera, in realtà, le nazioni si allontanino, gli uomini si avvicinino soltanto per ridursi a massa ma appaiono sostanzialmente distanti gli uni dagli altri, i protezionismi economici aumentano e così pure i dazi e le paure globali. La frammentazione fra uomini, fra competenze, fra generi sessuali, all’interno delle medesime famiglie non sono più eccezioni ma s’impongono come la regole stessa del mondo globale. La politica nella sua interezza langue sotto l’impero della tecno-finanza. Gli uomini non soltanto sono lasciati soli ma appaiono addirittura aizzati l’uno contro l’altro da una disperante competizione che provoca guerre fra poveri e lotte quotidiane fra penultimi che non vogliono diventare ultimi, sotto gli occhi grassi e obesi di nuove élite ignoranti e tracotanti, ciniche e ottuse, buone ormai soltanto ad inventare strumenti di menzogna sempre nuovi. 

La maggioranza dei cittadini è convinta di cambiare le proprie condizioni di vita in virtù del voto. Dopo un sacrale giretto nell’urna, l’homo democraticus ritorna però alla sua vita, senza che nulla sia stato modificato nelle sue azioni. La democrazia, un regime politico delicatissimo, un sistema che può rinunciare a tutto meno che ad un potere costituente autonomo e, almeno in linea generale, razionale, si fonda invece su un individuo incapace di modificare i propri comportamenti più semplici e quotidiani e che si mostra costantemente etero-diretto.  Evidentemente, dobbiamo dedurne che il sistema non vuole cambiare e che, anzi, è il sistema stesso che si difende da elementi eversivi (se non reali almeno potenziali) attraverso la passivizzazione delle masse. E si difende assai bene. Il sistema capitalistico è sopravvissuto a crisi epocali gigantesche e a contorcimenti e spasmi che hanno forgiato una forza titanica. Alleato con la democrazia, il sistema di produzione capitalistico ostenta una condizione di libertà, fa mostra di concedere a ciascuno il proprio spazio, nella direzione di un autogoverno ben radicato nell’etimo stesso della parola demo-crazia. Si tratta evidentemente di una finzione. Abbiamo a che fare con una struttura molto sofisticata – che si avvia a forme assai elaborate di eugenetica -, dominata da forme di razionalità strumentale esclusivamente volte all’aumento di una potenza che passa attraverso il profitto da parte di un’oligarchia (sempre più) ristretta di ricchi. Il capitalismo, sistema niente affatto rozzo e grossolano, dopo le plurisecolari esperienze della sua storia, ha imparato a fondo una lezione formidabile, indispensabile ai sistemi politici complessi: la flessibilità, la duttilità e l’estremo pragmatico, capace di appropriarsi delle forze antagonistiche e di farne motore per il proprio dinamismo. In tal modo, esso si mostra in grado di “sussumere” in sé anche le opposizioni che inevitabilmente scaturiscono dalle contraddizioni che esso produce.  

Il limite della sedicente libertà democratica, tuttavia, non è percepito fino a quando qualcuno rompe i canoni imposti dalla società, testando su di sé le contromisure utili adottate dal sistema per riportarlo sulla “retta” via. Del resto, è noto: ciò che costituisce davvero l’essenza del potere (è una frase attribuita a Voltaire) coincide esattamente con ciò che non si può contestare. L’ordine sociale si mantiene attraverso una continua esposizione ad apposite indicazioni che indottrinano, distraggono, manipolano, corrompono, tanto da rendere tollerabile l’insostenibile, democratico l’arbitrario, vera la menzogna.  

E così, inevitabilmente, stupefacenti, ansiolitici, antidepressivi e psicoanalisti si arrogano il diritto di ricoprire la (potenziale) gioia della comunità e della condivisione di emozioni con una coltre opaca e appiccicosa di inganno triste, ed uomini non repressi ma depressi celebrano le tristi liturgie della nuova dialettica costituita dall’inclusione (nella mangiatoia) e dall’esclusione da essa.  

IL BELLO, LA VITA E LA MORTE. FILOSOFIE A TEATRO.

E questo resta a dire: vivremo d’oltremorte,

e di morte pure vivremo

Saint-John Perse

 

In loving memory of Norie Kajihara

 

 

  1. L’importanza della bellezza – Perché la bellezza è necessaria ?

La domanda a titolo del nostro incontro – «perché la bellezza è necessaria?» – può essere affrontata da diversi punti di vista. La bellezza ha anzitutto a che fare intimamente con la vita, ma anche con il suo contrario/correlativo, la morte. Come avrà avuto modo di argomentare prima di me U. Galimberti, la bellezza è, o obbedisce senz’altro alla «legge segreta della vita». Ma dobbiamo intenderci preliminarmente su una definizione condivisa di che cos’è la vita, dal punto di vista filosofico. Partiamo dunque da questa definizione, che metteremo a fuoco a poco a poco. La vita è, secondo me, come riteneva a ragione un grande fisiologo della fine del Settecento – François-Xavier Bichat (1771-1802) – tutto quell’insieme di funzioni, di forze, di tendenze e di operazioni che nell’organismo vivente, in ogni essere vivente, resistono alla morte[1].

Resistere alla morte. Vivere significa reagire a tutte quelle forze di aggressione, di disgregazione, di divisione, che intaccano la nostra capacità di agire e di essere. Badate bene, si tratta di tendenze contenute intimamente nella costituzione naturale di ogni vivente. Non sono estranee ad esso (apoptosi, morte cellulare ecc.). Ora, la bellezza è una parte essenziale di quelle funzioni di resistenza alle tendenze distruttive o autodistruttive del vivente che ne caratterizzano la natura.

Questo è il carattere proprio della vita, cui la bellezza partecipa: Resistenza. Per i Greci esistevano due maniere di dire «vita». Zoè, si dice della vita naturale, organica, lo stato degli esseri animati finché in essi dura il principio delle sensazioni e del moto, l’essere in vita; e ciò vale anche per l’intelligenza e lo spirito come attività (Aristotele, Metafisica: è gar noù enèrgheia zoè: «perché l’attività dello spirito pensante [intelletto] è vita…»). Bìos, si dice invece della vita storica, l’esistenza e la vita spirituale umana, la vita per il tempo che si vive coscienti e per il modo in cui si vive. In entrambi i casi, i Greci concepivano anch’essi la vita (Bìos/Zoè) come resistenza alla morte. Qui appunto interviene la bellezza, legata, con la sua necessità, alla vita Bìos/Zoè.

Abbiamo bisogno del bello come di una forza coadiuvante, perché il bello, in se stesso, rinforza la resistenza, ne è una delle sue più alte espressioni. La bellezza accresce la potenza di agire e di essere dell’organismo vivente, ne estende le capacità di sentire, di accogliere in sé, positivamente, le stesse forze ostili del mondo esterno.

Secondo Bichat – che era un fedele discepolo di Spinoza – il mondo delle «cause esterne» è un mondo attivo di forze che, nel loro insieme, tendono a consumare, a distruggere il singolo «modo» d’esistenza del vivente che è l’uomo. Questo modo d’essere finito che è l’uomo, è sostanzialmente reattivo in rapporto ad esse. L’uomo è per lo più passivo rispetto alle forze d’azione esterne; e questa sua forza di reattività diminuisce e si smorza gradualmente, si esaurisce col tempo del Bìos.

Perché il bambino è così vivente e vitale? «Perché», osserva Bichat «c’è sovrabbondanza di vita in lui, cioè perché la reazione sorpassa l’azione». Il bambino è in sé un essere fragile e la sua forza reattiva è proporzionale in eccesso, alla forza attiva immensamente superiore delle cause del mondo. La vita del bambino è dunque tutta volta a resistere alle innumerevoli forze che possono essergli – e a volte gli sono, di fatto – ostili. «L’adulto invece vede stabilirsi l’equilibrio tra le due forze», continua Bichat, «– di azione della natura e di reazione dell’organismo – e perciò stesso vede questo turgore vitale scomparire, lentamente. La reazione del principio interno diminuisce nel vecchio, mentre l’azione dei corpi esterni resta la stessa; allora la vita langue e avanza insensibilmente verso il suo termine naturale, che giunge quando ogni proporzione cessa»[2].

Cosa permette dunque di rallentare, ossia di resistere meglio alle forze d’azione esterne? Questo «qualcosa» è la bellezza e, in genere, sono le cose belle di cui siamo in grado di godere o capaci di produrre. Molti grandi artisti hanno concepito e anche teorizzato questa normatività del vivente, strettamente congiunta all’opera dell’arte come resistenza a forze, ossia come pulsare di vita. Un primo esempio: Wassily Kandinsky, in Punto linea superficie. Contributo all’analisi degli elementi pittorici, Milano, Adelphi, 1986, p. 171, nel capitolo «superficie di fondo», afferma:

Scopo della teoria [dell’arte]. E lo scopo di un’indagine teorica è:

  1. Trovare il vivente,
  2. Renderne percepibile il pulsare, e
  3. Stabilire quale sia l’elemento normativo del vivente stesso.

In questo modo si raccolgono realtà viventi – in quanto fenomeni singoli e nelle loro connessioni. Trarre conclusioni da questo materiale è il compito della filosofia, ed è un lavoro sintetico, nel senso più alto del termine. Questo lavoro conduce a delle rivelazioni interiori – nella misura in cui ciò è concesso a ogni epoca.

La pittura astratta di Kandinsky è tutta volta alla scoperta di quell’elemento di resistenza «pulsante» del vivente di cui l’arte si deve fare espressione. Un caso esemplare è l’ingiunzione del pittore, rivolta agli allievi e al pubblico, alla base dei corsi che tenne dal 1922 al Bauhaus (Weimar, Dessau, Berlino: 1919-1933): «Ascoltate la forma!», mettetevi in un nuovo rapporto con l’opera d’arte affinché essa ci apra una possibilità di esplorazione, che è «la possibilità di entrare nell’opera, diventare attivi in essa e vivere il suo pulsare con tutti i sensi».

Vediamone un altro esempio, il caso di una composizione pittorica dell’artista nel suo farsi. La figura 20 del trattato Punto, linea superficie, p. 198: «Tensioni e controtensioni diagonali con un punto che provoca il pulsare interno in una costruzione esterna»

 

 

L’unione elementare di punti pulsanti, di linee di forza su una superficie di fondo, apre alla costruzione basilare del disegno di una «Struttura orizzontale verticale con diagonale contrapposta e tensioni del punto, schema del quadro»: Comunicazione intima (1925) [p.206].

 

 

La tela in questione diventerà infine il famoso Rosso, giallo blu  e In Blue conservati alla Kunstsammlung Nordrhein-Westfalen (Düsseldorf), cui farà seguito il quadro dello stesso anno, Piccolo sogno in rosso, derivato dalla seguente «struttura lineare».

Anche la forma d’arte apparentemente più lontana da questo «pulsare vitale», esprime la stessa intenzionalità. Altro esempio, la narrativa di Franz Kafka. Vediamo che anch’essa esprime quel fattore resistenziale della bellezza, ma in maniera paradossale. Il senso del suo lavoro ci viene presentato in modo toccante da una testimonianza della compagna di Kafka, Milena Jesenská (1896-1944), a proposito dell’elemento della malattia e del dolore del mondo, al centro della scrittura kafkiana. Kafka s’è dedicato a dipingere un mondo malato, ai confini della morte. È ancor sempre questione di vita e di morte, e di resistenza a questa in Kafka (e nella «kafkeità», secondo la felice espressione di M. Kundera). In questo dipingere la malattia, s’esprime il paradosso della resilienza dell’artista, cioè l’abbandono della vita a vantaggio della morte (le forze delle cause esterne), quando la vita ha smesso di vivere autenticamente. E lo scrittore realizza comunque il capolavoro di resistere, abbandonandosi al mondo, per mezzo della scrittura.

Milena Jesenská, in F. Kafka, À Milena, Traduction de l’allemand et introduction par R. Kahn, Caen, Nous, 2015, p. 297, subito dopo la morte di Franz, avvenuta il 4 giugno del 1924:

Franz Kafka. […] Essa [la malattia] gli conferiva una delicatezza quasi incredibile e una raffinatezza intellettuale quasi macabra, che non ammetteva compromessi; ma lui, l’essere umano, s’era caricato sulle spalle della sua malattia tutta la sua paura intellettuale dinanzi alla vita. Era timido, timoroso, dolce e buono, ma i libri che ha scritto sono crudeli e dolorosi. Vedeva il mondo come popolato da demoni invisibili, che dilaceravano e distruggevano l’essere umano privo di difesa. Era troppo chiaroveggente, troppo saggio, per poter vivere, troppo debole per combattere, debole come lo sono gli esseri nobili e belli, che non sanno accettare la lotta, con la loro paura dell’incomprensione, della malvagità, della menzogna intellettuale, perché conoscono in anticipo la loro impotenza e sanno che coprono di vergogna, con la loro sconfitta, i vincitori… Tutti i suoi libri descrivono l’orrore d’un’enigmatica incomprensione, di una innocente colpevolezza tra gli umani.

E Franz pare risponderle, pochi mesi prima di morire, con la più forte e la più bella definizione dell’amore che io conosca:

L’amore è che tu sei il coltello con il quale io scavo in me…

(L’amour c’est que tu es le couteau avec lequel je fouille en moi…).

Osserviamo più da vicino questa definizione dell’amore. L’amore, afferma Kafka, è un «essere» («è che tu sei…») vitale/mortale («il coltello»), che «scava», cioè in certa misura ferisce, colpisce nel fondo, a volte anche mortalmente, nell’essere dell’uomo. Vedete come s’avvicendano e si completano, nella bellezza della scrittura kafkiana, i due poli della vita e della morte, nell’avventura creativa della bellezza letteraria, che richiama alla mente, direttamente, un’altra polarità, più celebre e anch’essa complementare, quella (freudiana) di Eros e Thanatos, amore e morte, sempre associati nelle vicende del cuore umano.

 

  1. Ma che cos’è precisamente la bellezza?

La questione della necessità della bellezza, come stiamo vedendo, si allarga dunque a sfere di esperienza dell’esistenza umana basilari, fondamentali, che chiamano in causa il vissuto comune ed essenziale a ciascuno di noi: l’amore, la conoscenza, la morte, la resistenza al male, alla distruzione ecc. E in tutto ciò, la bellezza lavora a nostro vantaggio. Ma che cos’è precisamente la bellezza, non solo nell’arte ma in generale, nell’esperienza dell’uomo? Vorrei qui partire da un brano delle stesse considerazioni di Kandinsky che abbiamo letto poco fa. Il grande pittore affermava, a proposito del lavoro dell’arte: «… In questo modo [cioè rendendo sensibile, esprimibile il pulsare del vivente] si raccolgono realtà viventi – in quanto fenomeni singoli e nelle loro connessioni».

L’accento va posto sul concetto di «connessioni». La bellezza in rapporto a me che ne godo, è la capacità di cogliere il maggior numero di connessioni tra «i fenomeni singoli», «in quanto realtà viventi», connessioni che nel mondo di tutti i giorni restano atomizzate, sparse e irrelate. Non percepite. La bellezza in rapporto alla cosa stessa (cioè all’opera d’arte o alla cosa naturale che diciamo «bella») è la sua capacità di suscitare, nello spettatore, il maggior numero di connessioni tra i tanti fenomeni o realtà viventi che prima – prima dell’incontro con l’opera – non vedevamo. La bellezza insomma è ciò che apre e rivela, in noi e fuori di noi, un universo nuovo di senso, di connessioni viventi tra i fenomeni, tra gli uomini e le cose. La bellezza dà conto di ciò che vi è di essenziale, di fondamentale in quelle connessioni. Io intenderei la bellezza come Heidegger intendeva la verità, cioè come a-lethèia (ἀλήθεια) non-nascondimento, non-oblio, sensibilità per le connessioni nascoste, tra le cose e gli uomini.

Prendiamo un altro esempio, prima di arrivare al teatro, che passa di nuovo per la pittura, la grande pittura che ha sempre in sé qualcosa di profondamente teatrale. L’opera del Caravaggio, La Cattura di Cristo (Taking of Christ), conservata alla National Gallery of Ireland di Dublino. Si tratta, a mio avviso, del quadro più bello del Caravaggio, sia dal punto di vista tecnico, per l’uso magistrale dei colori e dei chiaroscuri, sia dal punto di vista narrativo, per la drammaticità della composizione, la forza dell’espressione delle figure ecc. Da vent’anni ne tengo una copia appesa nel mio studio all’Università. La vidi per la prima volta, dal vivo, a Dublino esattamente vent’anni fa, nel 1999 e fu una folgorazione. Da quella volta, l’opera mi ossessiona (in bene s’intende). Il quadro ha una storia rocambolesca: fu scoperto o ritrovato nel 1990 a Dublino dal critico d’arte Sergio Benedetti, presso il convento dei Gesuiti, e identificato come opera del Caravaggio da Francesca Cappelletti e Laura Testa. L’opera è dunque una new entry nella storia dell’arte; è «Il Caravaggio perduto» (Jonathan Harr, Rizzoli, 2006), per questo è tanto più importante ed essenziale per la nostra conoscenza del grande artista. È prima di tutto un’opera che dà molto a pensare. L’artista ha saputo cogliere, diremmo, l’attimo essenziale dell’evento, nella rappresentazione, ed è stato in grado di dargli il massimo del senso, la maggiore sensatezza. E dunque la maggiore intensità estetica ed espressiva.

Cosa ne fa tutta la forza espressiva? Anzitutto, è il sapore naturale, vivente – «pulsante» direbbe Kandinsky – delle connessioni tra i fenomeni che esprime. Quali? C’è in primo piano la sofferenza del Cristo, illuminato al centro, un centro relativamente spostato a sinistra, nella luce che emerge dall’ombra dei contorni.  È una sofferenza mite, rassegnata. Poi abbiamo, muovendo da sinistra verso il centro della composizione, il repentino pentimento di Giuda che tenta di baciare Cristo, abbracciandolo, come a farsi perdonare. Il volto di Giuda esprime l’angoscia, l’ansietà viva per le conseguenze della sua azione. Infine, proprio al centro geometrico della composizione, troviamo la violenza del potere: quest’incredibile braccio metallico, lucente, del soldato, anonimo, senza volto, che afferra il Cristo e insieme tenta di allontanare Giuda che lo abbraccia. Segue l’insieme dell’apparato militare che si concatena ad esso: gli altri due soldati e l’uomo con la lanterna. L’armatura è volutamente anacronistica: esprime una specie di attualità eterna, atemporale, del gesto della violenza, che è di ieri, come di oggi e di sempre. Ai margini, infine l’urlo, la disperazione dell’apostolo Giovanni e degli altri apostoli nell’ombra che lo spettatore immagina facilmente, pur non vedendoli, in secondo piano, nelle tenebre.

La fonte di luce viene dalla lanterna che il personaggio, all’estrema destra del quadro solleva in alto, in cui alcuni interpreti hanno voluto riconoscere, molto verosimilmente, il volto stesso dell’artista, Michelangelo Merisi. Ma la distribuzione della luce è più complessa, anarchica direi, a esprimere la concitazione della scena. Consideriamo ad esempio il riflesso lucente che spicca al centro della tela, dal braccio corazzato del soldato e dai volti di Cristo e Giuda. La luce geometricamente non può provenire dalla lanterna che sta dietro di loro. I personaggi ricevono dunque la loro luce dall’alto. La Grazia divina si posa sui personaggi quasi a redimerli del peso dell’evento… Grazie a Caravaggio, in questa tela, noi cogliamo le connessioni viventi di Sofferenza, Pentimento, Angoscia, Violenza, Disperazione, nel loro senso essenziale, più profondo. Noi vediamo, capiamo, sentiamo cosa sono veramente Sofferenza, Pentimento, Angoscia, Violenza ecc. per noi, nelle nostre proprie esistenze attuali, quotidiane, come in una sorta di tranfert espressivo, dalla cosa allo spettatore.

La bellezza della Cattura di Cristo, dunque, apre per noi un universo di connessioni prima inaudito e invisibile, tra oggetti dell’esperienza – quella sofferenza, pentimento, angoscia ecc. – che coglievamo in altro modo (o che anzi non coglievamo affatto). Qui li vediamo nella loro piena sensatezza, nella pienezza del loro senso. E ogni volta che osserviamo la tela sentiamo pulsare quella cosa vivente, la riviviamo fortemente. È ciò che accade quasi sempre, quando contemplo la riproduzione del quadro appesa nel mio studio.

 

  1. Il carattere eminentemente teatrale della bellezza

Accennavo al principio, analizzando la tela del Caravaggio, al carattere teatrale di questa rappresentazione della Cattura di Cristo. Il teatro è infatti la forma basica di espressione artistica, comune a tutte le altre. Mi spiego. Anzitutto, senza dubbio è la più antica. L’arte del teatro, e quella dell’attore in particolare, non fanno che portare al più alto grado di potenza d’espressione le risorse del solo strumento che l’uomo non abbia dovuto inventare, per fare arte: il corpo; e lo strumento annesso al corpo, della voce. Questi sono i soli strumenti dell’arte drammatica, strumenti sommamente naturali. Quindi tutti gli uomini, in potenza, possono fare arte con la propria voce e il proprio corpo, fare teatro.

In secondo luogo, la parola greca θέατρον  [τό] ha una radice molto chiara, dal verbo θεάομαι, che significa «guardare», «ammirare», «osservare», «contemplare» – θέατρον  è il luogo dell’ammirazione –, da cui il sostantivo θέα (visione, vista, contemplazione) e, più importante, il θεωρέω-in, lo «stare a guardare», di nuovo, «contemplare», stavolta con lo spirito, senza usare gli occhi; da cui il termine θεωρία [ἡ], parola-chiave della filosofia: contemplazione (della mente), considerazione, meditazione, studio, riflessione ecc. sulle cose della vita. Teatro e teoria (filosofica), come si vede, hanno una radice linguistica comune, una radice che è, in primo luogo, antropologica.

In terzo luogo, infatti, di tutte le arti, l’arte drammatica è quella più mescolata con la trama della nostra vita. È vita in atto, messa sotto gli occhi dell’uomo che così si contempla e afferra il senso del proprio agire, del proprio patire, del proprio essere. Basta gettare uno sguardo attorno a noi per vedere il teatro nascere spontaneamente e prosperare per così dire allo stato diffuso. Recitare la commedia, prendere cioè delle posizioni corporee e vocali nei riguardi di un nostro simile, è un esercizio naturale non solo umano, ma proprio di tutti gli esseri viventi, dal quale nessun animale è esente. Si chiama mimetismo nell’animale e nella pianta; il gioco, la recitazione e la postura, nell’animale stesso e nell’uomo, questi sono già teatro, cioè spettacolo vivente. L’uomo imita i gesti della natura (e se stesso) per vedersi e per comprendersi.

In quarto luogo, il teatro si apparenta, nelle sue origini, al rito sacro, dove il termine sacer sta ad indicare lo spazio separato, ritagliato, della rappresentazione drammatica, che si distacca dalla realtà quotidiana per riprodurla, imitarla all’infinito. Nei riti funebri si mette in scena (ancora oggi) la storia del defunto, se ne rievoca la memoria, se ne imita in qualche modo la vita, per trattenerla con noi. Al rito funebre, che celebra e allontana la morte, si associa poi il rito orgiastico, il rito dionisiaco che esalta la vita e la fecondità – ed è il corrispettivo parallelo del rito funebre, sin dall’antichità – fino al gioco scenico della rappresentazione teatrale. La via è la stessa, è unica. La tragedia (τραγῳδία) prende origine dal sacrificio sacro del τράγος, il capro, di cui essa è il canto (ᾠδή [-ῆς, ἡ], «il canto del capro») – ma non è la prima forma di teatro, bensì il punto di approdo di un millenario percorso di ritualità scenica, che tiene insieme la bellezza, la vita e la morte.

È verosimile che la prima opera d’arte umana, ancor prima delle celebri pitture rupestri del neolitico (circa 18.000-30.000 anni fa: le Grotte di Lascaux o di Altamira), sia stata un’opera teatrale. È quel rito orgiastico, raffigurato sulle pareti delle grotte preistoriche, con il quale il cacciatore veste le pelli dell’animale che deve cacciare (il bisonte o il cervo), ne imita le immagini, i gesti, le posture, per poterlo meglio avvicinare, assimilare a sé, e dunque catturare. Ne portano testimonianza diretta la Grotte di Altamira in Spagna o quella dei Trois Frères in Francia

 

 

 

 

Platone conserva memoria, fin dentro la filosofia, di questo percorso antropologico che dà corpo al bello scenico, assimilando entro di sé i due percorsi paralleli, del rito funebre e del rito orgiastico, i quali danno vita alla bellezza della rappresentazione. Il primo tipo di opera filosofica compiuta che la cultura occidentale abbia prodotto è, in effetti, una specie di opera teatrale: il dialogo platonico. Che cos’è il dialogo platonico? È una messa in scena di discorsi tra personaggi concreti, ciascuno dei quali incarna un’idea, un tipo ideale che agisce sulla scena della pòlis. Agendo, nel dialogo, il personaggio principale, il protagonista, in genere il filosofo (Socrate), mette in crisi le idee ricevute, i pregiudizi, i luoghi comuni, in nome di una verità profonda (ἀλήθεια) e di una scienza (ἐπιστήμη) o sapienza (σοφία) che stanno al di là dell’opinione corrente (δόξα). Platone, nella Repubblica, condannò gli artisti del suo tempo, in quanto facevano «imitazioni di imitazioni». Le cose materiali sono imitazioni delle idee eterne, dunque la mimesis degli artisti è una specie di doppia copia del reale, di cui una buona Repubblica deve saper fare a meno. Tuttavia, Platone stesso adotterà il procedimento teatrale della messa in scena per far passare il messaggio della superiore bellezza della verità filosofica, rispetto alla banalità della dòxa, l’opinione volgare.

Platone così mette in scena proprio quest’incontro/scontro tra la verità filosofica e l’opinione comune. Ed è questo lo spazio comune tra la filosofia e il teatro: lo scontro permanente, vivente e visibile su una scena pubblica, tra la verità e l’opinione ricevuta, tra la σοφία (sofìa), la saggezza/sapienza, che coglie l’intima bellezza e il senso vero delle cose, e la cognizione superficiale, e in fin dei conti falsa e priva di fondamento, delle cose stesse.

Nell’attività che ho diretto all’Università di Roma «Tor Vergata» in questi ultimi anni, il Laboratorio di Filosofia e Teatro, insieme alla troupe di teatranti professionisti «Ygramul» (diretta dal M° Vania Castelfranchi), abbiamo tentato di mettere alla prova quest’approccio teatrale alla filosofia. Abbiamo cioè tentato di risalire alle fonti del gesto filosofico-teatrale platonico, che si ripropone in età moderna a partire dall’età del Rinascimento (con Giordano Bruno), fino a noi, nella stessa forma di conflitto tra verità (bellezza) e dòxa, vita e morte. Fino alle grandi opere teatrali di due filosofi drammaturghi di rilievo: Jean-Paul Sartre (1905-1980) e Albert Camus (1913-1960). Di Camus, nell’a.a. 2016-2017 e 2017-2018, abbiamo lavorato alla messa in scena del suo adattamento teatrale dei Demoni di Dostoevskij (con il titolo: Les Possédés, 1959). È l’opera-testamento del filosofo, scrittore e romanziere francese, premio Nobel per la letteratura nel 1957.

 

In questa drammaturgia (di Vania Castelfranchi), tratta dall’adattamento da me realizzato, per ridurre le cinque ore circa dell’originale a un’ora di spettacolo – è sensibile e visibile al più alto grado la tensione basica che fonda ogni opera artistica e la sua bellezza: la tensione morte-vita-bellezza, ossia la resistenza estetica alla morte. La trama è quella dostoevskiana. Su questi stessi temi, sto terminando di scrivere un libro, di prossima pubblicazione, dal titolo del nostro incontro di oggi: Filosofie a teatro. Studi sulla messa in scena filosofica delle idee (Castelvecchi Editore).

Come ho cercato di mostrare, la bellezza ha una sua necessità intrinseca che s’impone in forza della sua stessa prossimità alla natura della vita umana – e alla vita in genere –, per la quale l’arte teatrale, e la filosofia, sono le componenti, gli strumenti essenziali di lotta e di resistenza alla morte.

Vorrei concludere con un’affermazione eloquente di A. Camus a proposito del suo lavoro d’intellettuale, a cavallo tra filosofia e teatro: «Perché faccio teatro? Me lo sono spesso domandato e la sola risposta che sono riuscito a darmi, fino ad oggi, vi sembrerà probabilmente di una scoraggiante banalità. Molto semplicemente perché una scena di teatro è uno dei luoghi del mondo in cui sono felice…».

Paolo Quintili

Civita di Bagnoregio, 4 agosto 2019

[1] F.-X. Bichat, Recherches physiologiques sur la vie et la mort (1800), éd. par A. Pichot, Paris Flammarion, 1994, p. 57: «Divisione generale della vita. Si cerca in considerazioni astratte la definizione della vita; la si troverà, credo, in quest’idea generale: La vita è l’insieme di funzioni che resistono alla morte. Tale è, in effetti, il modo d’esistenza dei corpi viventi, che tutto ciò che li circonda tende a distruggere. I corpi inorganici agiscono incessantemente su di essi; essi stessi esercitano gli uni sugli altri un’azione continua; presto soccomberebbero, se non avessero in loro un principio permanente di reazione. Questo principio è quello della vita; sconosciuto nella sua natura, non può essere apprezzato se non tramite i suoi fenomeni; ora, il più generale di tali fenomeni è quest’alternanza abituale di azione da parte dei corpi esterni, e di reazione da parte del corpo vivente, alternanza le cui proporzioni variano secondo l’età» [Trad. nostra].

[2] Ibid., p. 58.