Lineamenti epistemologici all’interno delle Scienze umane. Una riflessione a partire dalla teoria dei sistemi autopoietici

di Gustavo Di Santo

Dottore di Ricerca, Università della Calabria

Summary

The work focuses on the theory of the autopoietic systems.

In the paper are defined the following statements:

  • Observation is always a partial, relative, and unique perspective on a phenomenon;
  • From the human sciences, it is possible to observe any phenomenon assuming the following criteria:
    • the observant can define the boards of the systems/phenomenon analyzed;
    • the operation of distinction made by the observant could be described as a mechanical process based on mathematical logic, through the transformation of phenomena in quantifiable variables;
    • the closure of the systems suggests the adoption of an analytical approach based on the analysis of associations or correlations between variables. For this purpose, a theoretical model of “perturbative influences” is proposed in this work.

Keywords:   social mentality, culture, observation, autopoiesis, systems theory.

Sommario

Il presente lavoro introduce un modello d’analisi detto a “influssi perturbativi” basato sui principi statistici di associazione e di correlazione.

Nello specifico, in riferimento alla teoria dei sistemi autopoietici vengono definiti i seguenti punti:

  • l’osservazione è sempre un atto parziale, relativo e unico;
  • l’osservatore definisce il confine del fenomeno da analizzare;
  • il processo di distinzione, può essere descritto come un’operazione matematica, che conduce ad identificare un fenomeno in termini di variabili quantificabili, analizzabili statisticamente.

Parole chiave:mentalità sociale, cultura, osservazione, autopoiesi, teoria dei sistemi.

Parzialità, relatività, unicità dell’osservazione

Un aspetto fondamentale della teoria dei sistemi autopoietici è la sua caratterizzazione in termini relazionali.

Secondo Maturana e Varela, i due biologi che hanno coniato il concetto di “autopoiesi” (dal greco: autos = auto, poiesis = produzione), l’organizzazione di un sistema autopoietico è data come le relazioni che definiscono un sistema come unità e ne determinano la dinamica di interazione e di trasformazioni che il sistema stesso può subire (Maturana & Varela, 2012). La stessa identificazione di un sistema come unità è il prodotto di una distinzione fatta da un osservatore, per cui ne risulta che la nozione di sistema è relazionale non solo in se stessa come caratteristica della sua organizzazione, ma anche per il fatto che un sistema è una relazione tra un osservatore e un’entità, che viene da questi riconosciuta per mezzo di un’operazione (referenziale) di distinzione come unità distinguendola da uno sfondo.

L’osservatore è esso stesso un sistema autopoietico e come tale auto-referenziale. In questo senso, seguendo Luhmann – che rappresenta l’esempio più famoso di trasposizione della teoria dei sistemi autopoietici dall’ambito della biologia a quello sociologico – qualsiasi sistema autopoietico può osservare ed auto-osservarsi e quindi non necessariamente un sistema psichico che opera sotto forma di coscienza, ma anche i sistemi sociali che svolgono le proprie operazioni sulla base della comunicazione. (Luhmann, 1990).

L’osservazione viene quindi svolta da un autore descrivibile come autoreferenziale. Essa è un’operazione di distinzione e di designazione di un quid nel contesto di qualcos’altro, per acquisire informazioni su ciò che viene designato.

L’operazione di osservazione dev’essere pertanto riferita sia all’individuo inteso come sistema psichico e sia al sistema scientifico inteso come sistema sociale, a cui l’individuo è connesso per interpenetrazione (Addario, 2008).

Di fatto, nella descrizione di un fenomeno viene adoperato il codice comunicativo specifico del sistema nel quale l’osservazione è attuata.  Tra individuo e sistema si crea un canale specifico di comunicazione, un medium che consente l’interpenetrazione tra i sistemi (psichici e sociali), in modo che diventino l’uno per l’altro, fonte di perturbazioni fintantoché viene mantenuta la relazione tra essi.

Ciò è facilmente riscontrabile, immaginando il caso di un’interferenza comunicativa dovuta all’adozione di un medium differente di comunicazione all’interno di un sistema sociale. Si pensi, per l’appunto, ad una conferenza accademica sul tema “religione ed economia”, il sistema sociale  di riferimento è il sistema scientifico, definito secondo Luhmann dalla funzione di “descrivere e fare previsioni sugli altri sistemi” in quanto è in grado di analizzare altri sistemi sotto determinati aspetti che risultano inaccessibili ai sistemi stessi (Luhmann, 1990, p. 18),  ed uno dei relatori, un accademico insigne, facendo riferimento ad un passaggio dell’Enciclica  Rerum Novarum  sul tema della giusta mercede, concluda la sua analisi fornendo una descrizione del  capitalismo inteso come  fenomeno iniquo prodotto dal “diavolo”. Una tale posizione può essere recepita dagli altri accademici presenti, o come un’affermazione ironica o come un atto fuori luogo; in entrambi i casi, la comprensione della comunicazione risulta essere distorta in quanto estranea al codice del sistema scientifico, causando un’interferenza di fondo che produce incompatibilità,  ove invece all’interno del contesto sistemico religioso (ad esempio la conclusione di un sermone durante la messa domenicale) non avrebbe prodotto alcuna distorsione cognitiva.

Il sistema è da considerarsi in termini luhmannianicome dato reale; ossia come “insieme di relazioni”. La realtà viene così ad essere costituita da insiemi di relazionied il concetto di sistema anziché definire un’entità ontologica, rimanda al mondo in cui l’osservatore descrive la realtà stessa così come da questi compresa (Jedlowski, 2017).

La prospettiva muta al mutare del sistema osservante. Cosicché il fenomeno o l’ente osservato può divenire conoscibile nei modi e negli aspetti consentiti all’osservatore. La proclamazione del dogma dell’Assunzione della Vergine Maria ad opera di Pio XII nel 1950, può essere recepito dai fedeli, che sono parte dell’ambiente del sistema parziale della Chiesa Cattolica, attraverso il medium della fede, che caratterizza i processi comunicativi del sistema religioso. Al contempo, all’interno del sistema religioso, nella formulazione del dogma di fede, vengono posti in essere processi comunicativi caratterizzati da propri codici di riconoscimento, che traggono la propria validità proprio perché sono parte del sistema, permettendone il mantenimento dell’organizzazione. A sua volta, l’organizzazione sistemica consente la riproduzione ed il rinnovamento degli stessi codici (elementi e relazioni strutturali), garantendo l’autopoiesi e l’auto-referenzialità del sistema stesso. In tal senso, il dogma dell’Assunzione, viene riconosciuto come elemento interno al sistema religioso, perché caratterizzato da un codice comunicativo strutturato che si rifà alla fede (il medium di tale sistema), e viene prodotto a partire da strutture del sistema, come il richiamo al dogma dell’infallibilità papale, all’interno della costituzione apostolica: Munificentissimus Deus (anch’esso unità strutturale interna al sistema religioso).

Figura 1. L’Assunzione dipinta da Tiziano.

Dalla prospettiva del sistema religioso, il dogma dell’Assunzione della Vergine Maria è una questione comunicativa di fede e come tale viene trattata. In una società altamente differenziata, composta da sistemi e sottosistemi, ciascuno con una propria funzione e nicchia di competenza, si moltiplicano le prospettive possibili di osservazione: il sistema scientifico non farà uso del medium della fede per descrivere un dogma, la sua organizzazione non prevede un codesto tipo di comunicazione, così “l’accettazione per fede” rimarrebbe non-compresa, una semplice perturbazione ambientale che non verrebbe colta dal sistema. Ciò non significa che il fenomeno rimane inconoscibile; il sistema scientifico opera attraverso proprie strutture interne secondo la propria organizzazione e coglierà specifici aspetti del fenomeno nei limiti permessi dalla propria costituzione. Così, il dogma dell’Assunzione verrà osservato non come verità di fede (in questo aspetto rimane incomprensibile per il sistema scientifico) ma ad esempio dal punto di vista storico, o in chiave sociologica, secondo criteri attraverso cui risulta possibile per il sistema attuare un processo di osservazione.

Allo stesso modo, la differenziazione sistemica porta definitivamente a questionare il ruolo “dell’intellettuale organico” di stampo gramsciano, nella forma dell’accademico politicamente impegnato. Il problema è nella funzione sociale della ricerca scientifica rispetto al suo engagement per ragioni partigiane. Essendo il sistema scientifico ed il sistema politico autonomi nei rispettivi domini, un codice comunicativo propriamente scientifico non può essere riprodotto all’interno delle strutture comunicative della politica, verrebbe infatti colto come perturbazione ambientale e quindi non compreso.

L’inapplicabilità di un discorso scientifico nel dominio del sistema politico (o religioso), rafforza la necessità di trattare la società come differenziata in sistemi funzionali chiusi. Esiste la comunicazione tra i sistemi, ma questa è garantita dall’autonomia referenziale di ciascuno di essi.  Così, i “paradigmi” di Kuhn come fondamento della prassi scientifica di una o più generazioni di ricercatori o i “programmi di ricerca” di Lakatos, assumono significanza all’interno del sistema scientifico proprio perché adoperano il codice comunicativo del sistema stesso; le influenze esterne al sistema, così come osservatedai due scienziati sociali, vengono riprodotte internamente al sistema, proprio perché riformulate dalle relazioni comunicative presenti come strutture in esso.  Così un sistema psichico nella sua interpenetrazione con il sistema scientifico svolge una determinata funzione, che cambierà a seconda del sistema con cui avviene l’interpenetrazione.

Ogni sistema ha un suo medium di comunicazione e per consentire l’atto d’interpenetrazione è possibile utilizzare soltanto lo specifico canale proprio di ciascun sistema. Così, nel momento in cui si fa esperienza del “sacro”, sarà attraverso il medium della fede che questa viene vissuta a livello psichico; ma volendo comunicare tale esperienza in un convegno scientifico, sarà necessariamente attraverso il codice comunicativo  del sistema scientifico, che diviene possibile creare un canale di interpenetrazione  tra i sistemi coinvolti, in modo da consentire l’aspettativa di comprensione dell’atto comunicativo che è data in ultima analisi dall’organizzazione autopoietica dei sistemi coinvolti; scrivono Maturana e Varela (2012, p. 47):

“Tuttavia la conoscenza come esperienza è qualcosa di personale e di privato che non può essere trasferito, e ciò che si crede trasferibile, cioè la conoscenza oggettiva, deve sempre essere creato dall’ascoltatore: l’ascoltatore capisce, e la conoscenza oggettiva sembra trasferibile solo se egli è preparato a capire”

Ogni sistema ha quindi specifiche regole funzionali che caratterizzano la loro chiusura comunicativa. Da ciò si evidenzia il carattere parziale di ogni osservazione, compresa quella che si effettua all’interno del sistema scientifico. Qualsiasi lavoro di tipo accademico ad esempio, deve rispondere a regole stabilite all’interno del sistema stesso per essere compreso come tale. Si affermano infatti specifiche strutture di elaborazione informativa, come l’insieme dei metodi di conoscenza prodotti dalla sistematizzazione galileiana, nell’ambito delle cosiddette scienze esatte; od anche i criteri metodologici di ricerca nelle scienze sociali.

Di fatto, è necessario rispettare i codici comunicativi e processuali del sistema per porre in essere un rapporto interpenetrativo – ossia creare un processo di riconoscimento – che altrimenti, al di fuori di specifiche regole di compatibilità, non potrebbe avere luogo.

Inoltre, al carattere parziale dell’osservazione, si aggiunge la sua dimensione relativa: all’interno delle possibili strutture relazionali definite dall’organizzazione del sistema, non esiste una rigidità procedurale tale per cui è ammessa una ed una sola modalità di elaborazione del dato ambientale (il fenomeno osservato), ma più modelli di connessione informativa sono riconosciuti come validi. Cosicché, la sociologia come sistema parziale del sistema scientifico, attua le proprie osservazioni attraverso molteplici modelli analitici; si pensi in ambito sociologico alle teorie dell’agire sociale, dell’interazionismo simbolico, dell’agire comunicativo, della scelta razionale, ecc., la stessa visione funzional-strutturalista lhummaniana non è che una delle possibili chiavi interpretative della complessità del mondo come letta dal sistema stesso.

Parzialità e relatività si legano infine all’unicità di ogni osservazione.

Tutti i processi osservativi, come prodotti da sistemi autopoietici reali e contingenti, sono soggetti alla temporalità; cosicché ogni attività interna ed esterna al sistema si inquadra storicamente e risente del momentum in cui una tale attività o processo si attiva. L’osservazione si svolge sempre hic et nunc assumendo quindi le caratteristiche del momento storico in cui si attua. In tal senso è possibile parlare di sincronicità dell’osservazione. Il concetto, nella sua formulazione junghiana (I Ching, 2005)descrive adeguatamente la possibilità di mutamento dell’atto osservativo in riferimento al tempo in cui si svolge. Un fenomeno osservato al tempo t1à risulterà diverso se osservato al tempot2, poiché non solo il fenomeno muta le proprie caratteristiche che si prestano al riconoscimento dell’osservatore, ma anche la stessa osservazione muta in relazione ai cambiamenti occorsi a livello dell’organizzazione strutturale del sistema osservante nel corso del tempo. Tali cambiamenti possono essere innescati dalle perturbazioni avvenute nell’ambiente dello stesso sistema osservante. Ciò non deve far supporre rapporti di causazione di tipo input-output; in quanto è l’organizzazione del sistema che definisce e regola internamente le possibilità d’interazione in cui il sistema autopoietico di volta in volta può entrare.

Ogni cambiamento nei sistemi autoreferenziali è infatti determinato dalla propria organizzazione autopoietica. Il concetto di sincronicità descrive la chiusura sistemica durante lo svolgimento dei processi d’interazione in un lasso temporale definito, rimandando al sistema stesso, ossia ai sistemi coinvolti nella relazione (come atto interpenetrativo), l’elaborazione dei processi di comprensione e quindi modificazione delle strutture di possibilità comunicativa (necessaria al mantenimento della relazione) rispetto alla propria organizzazione hic et nunc.

Sebbene, ogni condotta di ciascun sistema (può trattarsi di sistemi psichici o sociali) sia intrinsecamente autonoma nella sua genesi dalla condotta dell’altro, in quanto determinata internamente solo dalla struttura del sistema comportante, la parte di sé che ciascuno rende visibile diviene per l’altro sistema fonte di deformazioni compensabili che possono essere descritte come aventi significato nell’ambito dell’interazione.

Allo stesso modo, l’osservazione messa in atto da un sistema autopoietico è sincronica nella maniera in cui il processo è contingente ed è prodotto della prospettiva di un sistema che può cogliere solo determinati aspetti di un fenomeno (sia esso un altro sistema, l’ambiente o un particolare oggetto) nei limiti della propria cognizione.

L’osservazione quindi, compresa quella scientifica, è sempre un atto parziale, relativo ed unico:

  • parziale in quanto è propria di uno specifico sistema;
  • relativo in quanto nei limiti organizzativi del sistema, la flessibilità delle configurazioni strutturali consentono diverse modalità di elaborazione informativa;
  • unico in quanto è contingente (ossia si manifesta hic et nunc) e come tale ha carattere sincronico.

Alla ricerca del metodo

La filosofia greca antica già contestava la possibilità che tutto potesse essere compreso in maniera scientifica; ad esempio per Platone non sono conoscibili le realtà materiali e per Aristotele quelle accidentali. Il pensiero dei due metafisici, oggi si riflette in una società descritta da Luhmann come funzionalmente differenziata, in cui il sistema scientifico offre un’interpretazione della complessità del mondo che si affianca alle prospettive degli altri sistemi sociali e come tale rappresenta una visione parziale pari alle altre.

In particolare, all’interno del valore conoscitivo della scienza tout court, ossia rispetto alla parzialità dell’osservazione, si presenta la problematica dell’oggettività del sapere scientifico anche in relazione al presentarsi di ogni atto osservativo (che si è già detto essere parziale) come relativo ed unico. Relativo in quanto l’atto osservativo può originarsi da molteplici modelli euristici che fanno riferimento ad un’impostazione scientifica all’interno dei sistemi parziali rientranti nell’ambiente del sistema scientifico (sistema sociologico, storico, ecc.).  Unico poiché ogni atto è contingente e relazionato nel caso specifico all’interpenetrazione tra sistema psichico di chi si dedica – potremmo dire in termini weberiani- professionalmente alla scienza e sistema scientifico.

In tal senso, non pare possibile sostenere un’oggettività delle scienze in generale;ciò è tanto vero per le “scienze dure” – basti

Figura 2 Werner Karl Heisenberg, Premio Nobel per la fisica 1932

pensare alla teoria della relatività di Einstein, al principio di indeterminazione di Heisenberg nella meccanica quantistica ed ai teoremi di incompletezza di Gödel nel campo matematico, – così come per le scienze umane.

In quest’ultimo caso, già Max Weber pur distante da quella che sarà la teoria dei sistemi di Luhmann –  afferma come non esista qualcosa che possa essere considerato oggettivo, ovvero valido per tutti, in quanto ogni aspetto della realtà sociale è sempre filtrato dall’interpretazione di chi la guarda (l’osservatore).

La Parzialità, relatività ed unicità dell’atto osservativo, se da un lato sancisce l’impossibilità di comprensione di un dato fenomeno in maniera integrale, dall’altro non nega la possibilità di raggiungere un certo tasso di oggettività empirica in relazione alla prospettiva del sistema da cui muove l’osservazione. Non esiste un’oggettività in senso assoluto, o detto in termini di teoria dei sistemi, non esiste oggi un sistema in grado di poter rappresentare in termini di senso la complessità del mondo assorbendo in sé le funzioni di tutti gli altri sistemi, cosi da poter formulare atti osservati validi tout court; ma in una società (globale) funzionalmente differenziata diviene possibile riscontrare “possibilità d’oggettivazione” dei risultati di un’osservazione relativa al singolo sistema osservante e valide per esso stesso.

Ad esempio dalla prospettiva del sistema scientifico, Durkheim definisce sociologicamente il “sacro” come prodotto di “un’effervescenza collettiva” ossia di un’esperienza collettiva vissuta come straordinaria. Una simile visione, in cui il sacro viene ad essere mera produzione umana, se è valida quindi comprensibile all’interno del sistema scientifico, risulta essere incompleta se non distorta dalla prospettiva del sistema religioso, per il quale il sacro viene ad essere espressione della esperienza divina (reputata esistente) nell’uomo. Entrambe le prospettive d’osservazione hanno una propria validità intrinseca nei rispettivi sistemi. Ciò tuttavia non permette di dare un valore di verità all’informazione veicolata, in quanto le rispettive informazioni risultano incomprensibili se trasferite da un sistema all’altro, perché gli stessi processi di comunicazione si basano su codici differenti, che rendono impossibile la riproduzione del dato informativo (i risultati dell’osservazione) al di fuori del proprio sistema.

In definitiva, l’oggettività dei risultati di un atto osservativo non fanno riferimento alla corrispondenza del fenomeno osservato nei termini di aderenza alle sue caratteristiche costitutive –  in questo senso il fenomeno rimane inconoscibile– mapiuttosto rimandano ai criteri (euristici) di validità specifici di ciascun sistema.

L’osservazione produce all’interno del sistema osservante un’oggettività dei risultati in relazione al fenomeno analizzato, che fa riferimento alla validità dei processi attuati durante l’atto osservante. Tale validità indica la comprensibilità dell’analisi stessa nel sistema; ossia: i risultati osservati sono compatibili con le premesse dell’osservazione. Detto altrimenti, i codici di comunicazione su cui è effettuata l’osservazione, risultano comprensibili all’interno del sistema, permettendo di cogliere la perturbazione ambientale (prodotta dall’osservazione), come innesco di autonomi processi interni di cognizione – nei sistemi psichici – e di modificazione delle strutture comunicative – nei sistemi sociali. La chiusura autopoietica dei sistemi non permette un passaggio d’informazioni; cosicché l’atto osservativo assume le seguenti caratteristiche:

  • l’informazione non viene assunta dall’ambiente del sistema in termini di input, ma questa può essere elaborata autonomamente dalla prospettiva del sistema operante, a partire dalle perturbazioni che coglie nel medium di comunicazione;
  • il sistema o fenomeno osservato sono per il sistema osservante parte dell’ambiente in cui può entrare in interazione (ciò avviene nel medium), che innesca durante il processo di accoppiamento strutturale, mutamenti di stato autonomi che conducono ad una comprensione dell’entità osservata in relazione al proprio dominio di cognizione, non coinvolgendo le caratteristiche proprie dell’osservato che rimangono inaccessibili;
  • l’interazione stessa, innesca mutamenti di stato nel fenomeno osservato che sono riflessivi ai mutamenti di stato dell’osservatore, sebbene non vi è rapporto di causazione tra le rispettive modificazioni, fintantoché dura l’accoppiamento strutturale nel medium d’interazione. In tal modo, entrambi mutano autonomamente al perdurare dell’interazione, sulla base delle rispettive organizzazioni o codici di condotta interni.

Così definita, l’osservazione rimane un atto proprio del sistema osservante, in grado di dar luogo a risultati “oggettivamente validi” in relazione al sistema stesso.

Rivolgendo lo sguardo al sistema scientifico ed in particolare alle scienze sociali, la comprensione diventa la chiave stessa di validità delle analisi svolte al suo interno: se il fenomeno di studio in sé è inconoscibile, la parte di esso che entra in relazione con l’osservazione può essere tuttavia compreso dalla propria prospettiva, che è sempre parziale, relativa ed unica. All’interno del sistema, la comprensione viene permessa dai criteri di codifica riconosciuti come parte del sistema; così ad esempio il fenomeno del sacro viene compreso in relazione alla sociologia delle religioni, rimanendo incomprensibile rispetto ad una comunicazione dommatica propria del sistema religioso. Nello specifico, i criteri o codici comuni di comunicazione interna,  permettono di creare l’aspettativa della possibilità di comprensione nei sistemi posti in interpenetrazione nel medium comunicativo; essendo infatti i sistemi autopoietici sistemi chiusi, è possibile avere solo la probabilità della riuscita di un atto comunicativo, pertanto la stessa osservazione rimane vincolata ai criteri del sistema osservante e diventa probabilmente comprensibile esclusivamente nel medium di comunicazione.

Dalla prospettiva delle scienze sociali, la teoria dei sistemi può fungere da schema di riduzione della complessità ambientale in funzione di una conoscenza scientifica della società, che si basi sulla (auto)consapevolezza della parzialità, relatività ed unicità dei risultati, che possono venir considerati oggettivi – nei termini di validità –  solo rispetto alla prospettiva adottata.

Modelli matematici ed influssi perturbativi

Figura 3. Vilfredo Pareto.

Con riferimento ai lavori di Pareto (1978) e Henderson (1970), è possibile declinare il concetto di “sistema” per dare luogo ad una tecnica di ricerca (osservativa) di tipo statistico-matematico, affatto differente in linea di principio, alle tecniche applicate all’analisi fisiche dei fenomeni.

Una proposta di riduzione della complessità ambientale per le scienze sociali, passa anzitutto da una schematizzazione dei sistemi sociali in accordo al senso della propria funzione, che permette la differenziazione tra essi. L’operazione di distinzione di un sistema da uno sfondo ambientale è attutata da un osservatore, in questo caso lo scienziato sociale, che delinea i confini del sistema osservato in base alle proprie ipotesi di studio. L’operazione di distinzione non è un atto esterno al sistema osservato, ma si muove nel medium d’interazione con la parte del sistema che si lascia osservare (o detto altrimenti, con la sezione del dominio d’interazioni del sistema osservato, che entrano in accoppiamento strutturale con l’atto osservante), in relazione e nei limiti della prospettiva dell’osservatore (che muove dalle scienze sociali). L’osservatore non crea il sistema, che è esistente per sé, ma lo specifica in funzione al proprio interesse. La definizione dei confini diviene ad essere oggettivante dalla prospettiva dell’osservatore e rimane valida esclusivamente all’interno dell’osservazione.

Dalla prospettiva dello scienziato sociale, l’operazione di distinzione di un sistema da uno sfondo, permette di delineare i confini dell’oggetto di studio, identificando ipoteticamente gli elementi e relazioni che sono costitutivi del sistema e quindi propri dell’organizzazione autopoietica dello stesso.

La distinzione consente una semplificazione dell’oggetto di studio, altamente complesso nei suoi rapporti interazionali con gli atri sistemi sociali e psichici. Si attua di fatto una schematizzazione binaria applicata al principio di identità.

Definire ad esempio il sistema religioso, postulando come necessario il riferimento al trascendente e al soprannaturale; permette di distinguere la religione da altri fenomeni sociali quali possono essere i movimenti ideologici (es. comunismo e nazionalismo) e qualsiasi altra entità che possa rispondere ai bisogni ultimi dell’uomo, consentendo così l’utilizzazione della religione come variabile indipendente in quanto ne sono stati delineati i confini teorici (Di Santo, 2018).

L’identità del sistema (A=A) è caratterizzata dagli elementi e relazioni che garantiscono l’autopoiesi dello stesso e vengono a loro volta riprodotte dall’organizzazione strutturale del sistema; cosicché i componenti relazionali che nell’ipotesi dell’osservatore assumono tali caratteristiche, rientrano nella costituzione identitaria del sistema (valore identitario=1), tutti gli altri vengono esclusi (valore identitario=0).  Può pertanto configurarsi un tipo di codificazione logico-matematica del tipo:   viceversa   che letto in italiano corrisponde: “per ogni x cheappartiene a S allora x ha valore 1, in caso contrario xassume valore 0”; dove x indica i componenti che fanno o non fanno parte del sistema (S) osservato o entro il quale si esplica come parte di esso il fenomeno oggetto di osservazione. A decidere l’appartenenza di un componente al sistema è l’osservatore in base ai presupposti teorici dai quali parte. Ciò non implica che i componenti reputati come facenti parte del sistema in osservazione, lo siano realmente; ma dalla prospettiva dell’osservatore assumono tale caratteristica in ragione dell’impostazione teorica seguita, che valida il processo all’interno del sistema osservante (sistema scientifico). In altre parole, la decidibilità  che  segue  una procedura “meccanica” , ossia da una serie di istruzioni che consentono, in linea teorica, di determinare in maniera effettiva se il dato componente xappartenga (1) o non appartenga (0) al sistema (S), e quindi di attribuire in modo meccanico il valore alla sua funzione caratteristica . Si immagini di dover stabilire se un dato fenomeno appartenga al sistema religioso, una volta che dalla prospettiva dell’osservatore vengono definiti i criteri di confini del “sistema osservato” – ad esempio il riferimento al trascendente e al soprannaturale – a questo punto sarebbe sufficiente rendere calcolabili le variabili prese in considerazione nell’osservazione (il dato fenomeno x, i caratteri di “trascendenza” e “soprannaturalità”) attraverso una ridefinizione matematica delle stesse,  stabilendo in seguito un processo algoritmico che consenta di volta in volta di decidere per ogni fenomeno x se appartenga oppure non appartenga ad S.

Tale modus operandi, permette di considerare singoli fenomeni, che di per sé non costituiscono un sistema autopoietico, e trattarli o come parte di un sistema (analisi del sistema come unità complessa), oppure come insieme unitario di uno (o più) sistemi autopoietici (analisi del sistema come unità semplice).

Definito il fenomeno ed inquadrato all’interno di una configurazione sistemica, occorre tenere conto della distinzione tra sistema sociale e sistema psichico, ove quest’ultimi sono parte dell’ambiente dei primi (Luhmann, 1990).

Il rapporto tra sistemi sociali e sistemi psichici (che possiamo per semplificazione, identificare come individui), avviene tramite i processi interpenetrativi. Ad agevolare il processo d’interpenetrazione tra i sottosistemi sociali (es. politico, religioso, ecc.) e i singoli sistemi psichiciinterviene la costituzione di strutture comportamentali codificate in codici comunicativi inter i sistemi sociali, che rendono possibile a livello individuale la formulazione di aspettative sociali d’interazione, ossia la credenza tacita della probabile riuscita di un atto comunicativo.

Codeste strutture definite da codici comunicativi, definiscono la cultura o detta altrimenti “mentalità sociale” (Marini, 2016) come sistema a sé stante e fungono nei sistemi psichici da risorsa simbolica cognitiva, ovvero da riduttore interno della complessità socio-ambientale, consentendo i processi d’interpenetrazione.

Detto altrimenti, il sistema culturale, che forma la mentalità sociale, definisce le strutture d’interazione inter i sistemi sociali e tra questi ed i sistemi psichici all’interno della società, consentendone il corretto funzionamento e veicolandone le trasformazioni.

Dalla prospettiva qui esposta, le perturbazioni causate a livello dei sottosistemi sociali, vengono ricondotte, attraverso la mediazione della cultura, all’interno di un processo di auto-orientamento individuale che consente da parte dei sistemi psichici di decodificare i processi di stimolo verificatesi nell’accoppiamento strutturale. I processi d’interazione, riformulati all’interno della struttura cognitiva dell’individuo, producono, a loro volta, una ristrutturazione dei codici comportamentali all’interno del sistema culturale, che portano a conservare quegli elementi che mostrano la capacità di cogliere le perturbazioni esterne, dismettendo invece quelli incompatibili (cambiamento culturale).  Ciò da avvio ad un comportamento orientante da parte del sistema psichico, che va a perturbare il sottosistema sociale e così ricorsivamente fintantoché permane l’accoppiamento strutturale e quindi l’interpenetrazione sistemica.

Il processo interpenetrativo funziona solo se entrambi i sistemi condividono lo stesso medium comunicativo e in riferimento all’individuo, se questi riesce attraverso il sistema culturale, a cogliere cognitivamente le mutazioni avvenute in quello che considera il proprio ambiente, ovvero si mostra capace di produrre un comportamento compensativo al mutamento avvenuto nel medium comunicativo. Se ciò non avviene o si interrompe l’accoppiamento strutturale, il sistema che non è in grado di originare comportamenti orientanti interni, non può mantenersi in uno stato di equilibrio, quindi collassa disintegrandosi.

In questo modo, il sistema culturale funge da meccanismo di regolazione omeostatico a “retroazione negativa” in riferimento alle perturbazioni ambientali scaturite dai sistemi (sociali e psichici) nel medium d’azione. Fintantoché le perturbazioni sono ricondotte all’interno del circuito regolatore, l’individuo adopera in maniera “automatizzata” seppur non acritica la cultura come risorsa simbolico-cognitiva d’interpretazione del vivere quotidiano, orientando l’elaborazione dei propri comportamenti in base ad essa

Appare centrale in questo senso, teorizzare un modello interpretativo, che tenga adeguato conto della cultura come variabile (o aggregati di variabili), applicabile operativamente rispetto le dimensioni di essa che si vogliono cogliere nella misurazione.

Così l’influenza esercitata dal sistema culturale all’interno dell’interazione tra sistema psichico-sistemi sociali, può essere analizzata adoperando un modello teorico, che traduca il concetto di “perturbazione” in una “misura” rilevabile statisticamente.

A tale scopo, viene qui suggerito di adottare  un modello d’analisi basato sulla tecnica statistica della associazione  a cui può far seguito (o sostituirsi), l’analisi di correlazione e l’insieme delle tecniche proprie dell’analisi  fattoriale (es. analisi delle componenti principali, analisi delle corrispondenze, analisi delle corrispondenze multiple); quest’ultima in grado di evidenziare strutture latenti o dimensioni non misurabili direttamente all’interno di un insieme di variabili direttamente osservabili (definite dall’osservatore), che si relazionino con tali tratti latenti; non limitandosi quindi a rappresentare l’esistenza di un’associazione statistica tra variabili ma predisponendo un’interpretazione scientifico-relazionale delle stesse.

La scelta di adottare un modello associativo, si lega al paradigma teorico qui adottato dei sistemi autopoietici, che respinge la concezione di causazione dei fenomeni.

Si è detto come la perturbazione non costituisce un attività di tipo causale che traduce l’azione di un elemento X (sia esso un sottosistema sociale  o psichico) su Y e viceversa; ma essendo ogni sistema chiuso (a qualsiasi livello) a causa del suo carattere autopoietico, l’azione di un sistema sull’altro si presenta come un orientare reciproco all’interno dei rispettivi domini cognitivi, ovvero attraverso l’accoppiamento strutturale  il sistema X innesca (perturba) nel sistema Y attività cognitive strutturalmente determinate dall’organizzazione cognitivo-culturale di Y stesso, è un processo di auto-orientamento, il cui risultato finale (l’output) è indipendente dall’innesco (Seidl, 2004), che ha dato avvio all’attività cognitiva stessa (in quanto il processo interno è già determinato dalla propria organizzazione).

Questo processo interpenentrativo tra sistemi psichici sottosistemi sociali, mediato dalla cultura, giustifica la proposta di un modello interpretativo basato su “influssi perturbativi” o di tipo associativo.

Il modello ad influssi perturbativi respinge quindi l’idea di relazione di tipo input-output; poiché tale relazione non tiene sufficientemente in conto della chiusura sistemica degli individui e dei sottosistemi sociali, che si traduce in una chiusura cognitiva dei primi e di una chiusura in termini di organizzazione strutturale dei processi di creazione delle proprie unità simboliche, dei secondi.

Sia l’individuo e sia i sottosistemi sociali sono sistemi chiusi, autoreferenziali ed autopoietici, non possono quindi sussistere scambi informativi diretti.

L’individuo è in rapporto interpenetrativo con i sottosistemi sociali fintantoché perdura l’accoppiamento strutturale, ovvero vi è un medium comunicativo condiviso. Tramite il medium, in cui si inserisce la cultura, i sottosistemi sociali ed i sistemi psichici entrano in interpenetrazione instaurando un rapporto perturbativo.

Così, il processo interpenetrativo, prodotto dall’accoppiamento strutturale tra sistemi, genera sollecitazioni attraverso il medium di comunicazione nel quale si inserisce la cultura come fattore mediante. Tali sollecitazioni vengonoricondotte rispettivamente all’interno del dominio cognitivo del sistema psichico (l’individuo) e nelle strutture organizzative dei sottosistemi sociali coinvolti nei rapporti di relazione.

Il concetto di chiusura sistemica non preclude che possano avvenire modificazioni all’interno del sistema (sia esso a livello sociale o psichico), ma queste non rispondono ad una logica di nessi causali, quanto piuttosto ad un complesso rapporto di inneschi di attività auto-organizzate.  La mentalità sociale muta, ma ciò dipende da modificazioni autoindotte all’interno della propria struttura; i sottosistemi sociali innescano i processi interni alla mentalità che possono condurre al cambiamento. In presenza di un ambiente altamente dinamico, ovvero ove sono elevati i processi di interpenetrazione tra sottosistemi sociali e tra questi e gli individui, l’aumento degli stimoli perturbativi comportano a livello di sistemi sociali una ridefinizione  delle nicchie di azione (ed è il caso dei processi di modernizzazione che producono una trasformazione della nicchia del sottosistema religioso) ed a livello individuale, la probabilità di mutamento della mentalità sociale (condizionata dai cambiamenti che accadono a livello dei sottosistemi sociali).

Nel caso dell’individuo, il sistema culturale, benché elaborato razionalmente a livello dei singoli (razionalità assiologica – Boudon 1980, 1986, 2007), lega al contempo gruppi di individui (aventi determinate caratteristiche quali: una lingua comune, stessa area geografica, stesso periodo storico, ecc.), che condividono a livello simbolico-cognitivo, un orientamento orbitante attorno ad una determinata scala di valori gerarchicamente strutturata.

In definitiva, il processo di “associazioni perturbative” permette di analizzare l’impatto dei  sottosistemi sociali, sul processo decisionale dell’individuo e viceversa, tenendo in conto la mediazione comunicativa esercitata dal sistema culturale – o detto altrimenti dalla “mentalità sociale” – trattando i fenomeni sociali (la stessa interazione comunicativa tra sistemi psichici avviene all’interno dei sistemi sociali) come variabili statisticamente analizzabili, in riferimento alla prospettiva teorica dell’osservatore.

Quo vadis?

In conclusione, attraverso l’adozione del paradigma interpretativo dei sistemi autopoietici, si è qui discusso sulla necessità di trattare qualsiasi osservazione effettuata all’interno del sistema scientifico ed in particolare nell’ambito delle scienze sociali, come parziale, relativa ed unica:

  • parziale in quanto muove dalla prospettiva del sistema scientifico;
  • relativa in quanto adotta codici di riduzione della complessità ambientale che sono definiti dal sistema stesso, che si esplicano in differenti modelli teorici di comprensione informativa, validi per sé all’interno del sistema;
  • unicain quanto è contingente (ossia si manifesta hic et nunc) ed è prodotta dall’interpenetrazione di un sistema psichico (il ricercatore) con il sistema sociale; ossia l’osservazione si attua attraverso una delle lenti di differenti paradigmi di ricerca – del sistema scientifico dispiegandosi nei modi compresi dall’osservatore (che è un sistema chiuso) su un fenomeno che lascia osservare quella parte di sé che entra in interazione con l’osservazione stessa (carattere sincronico dell’atto).

Da ciò emerge l’impossibilità di sostenere un’oggettività tout court della conoscenza prodotta dal sistema osservante sul fenomeno oggetto di studio. Si configura, invece, una “possibilità di oggettivazione” dei risultati che è specifica al solo sistema osservante e che dipende dalla comprensibilità dell’informazione prodotta all’interno del sistema, a seguito dell’innesco durante l’interazione osservativa, di specifiche procedure strutturali di produzione date dall’organizzazione del sistema stesso.  La comprensibilità conoscitiva dipende dalla validità dei codici d’informazione adoperati in maniera autonoma dal sistema osservante rispetto alla riduzione delle perturbazioni ambientali, che vengono accolte dal sistema come fattori innescanti dei propri processi di produzione informativa.

In altre parole, all’interno del sistema scientifico, ad essere compresi come oggettivamente validi, non sono i risultati in sé, ma i processi interni (criteri metodologici), che hanno condotto alla produzione di una determinata conoscenza all’interno del sistema, la quale sarà comprensibilelimitatamente al sistema stesso.

Ad essere “probabilmente” compresi sono quindi i processi che portano ai risultati, i quali acquisiscono validità interna al sistema, in virtù del riconoscimento dei codici (criteri metodologici) che regolano tali processi e di cui i codici stessi sono composti (autoreferenzialità).

La riduzione dell’oggettività (e della trasmissibilità) della conoscenza ad “oggettività rispetto allo specifico sistema”, porta a riflettere sulla capacità del sistema scientifico di produrre informazione interna che sia funzionale ad una conoscenza scientifica (pertanto particolare) del sistema-società.

Da qui la possibilità di un processo osservativo all’interno delle scienze sociali, che sulla base dei codici processuali definiti dai paradigmi euristici della teoria luhmanniana definisca un modello di ricerca – intesa come atto osservativo – riconosciuto come operazione valida all’interno del sistema.

Viene dunque proposto a partire dal concetto di “sistema”, un modello interpretativo di tipo statistico-matematico in grado di rendere possibile (probabile) il riconoscimento dei risultati prodotti come validi oggettivamente all’interno del sistema scientifico.

Il modello detto ad “influssi perturbativi” si basa sull’assunzione della chiusura autopoietica dei sistemi psichici e sociali. Una tale prospettiva esclude ogni tipo di rapporto di causazione nel senso di input-output; cosicché ad essere osservabile è il rapporto di relazione tra i fenomeni, che si traduce in un’analisi delle associazioni (oppure correlazione) degli stessi.

È l’osservatore (il ricercatore) che quantifica i fenomeni di studio in variabilicalcolabili operativamente, inserite in un contesto di differenziazione dei confini sistemici entro i quali i suddetti fenomeni acquisiscono significato per l’osservatore stesso, che si basa su un processo di distinzione binaria: dentro/fuori il sistema coinvolto, in relazione al principio d’identità. L’operatività del modello inoltre, deve tener conto, dell’impatto della “mentalità sociale”, sulla relazione dei fenomeni di studio, attraverso una scomposizione dimensionale del sistema culturale in variabili operative, a seconda delle ipotesi di partenza da cui muove l’osservazione.

Codesta proposta dev’essere considerata per ciò che di fatto è: un’analisi (osservazione) interna al sistema scientifico che muove dalle scienze sociali ed adotta un particolare paradigma di analisi così come compreso dall’autore del presente lavoro. Come tale, rimane una prospettiva parziale, relativa ed unica.

 

Bibliografia

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Boudon, Raymond (1980), La logica del sociale, Milano: Mondadori.

——— (1986), Il posto del disordine, Bologna: Il mulino.

——— (2007), Essais sur la théorie générale de la rationalité, Paris : Presses Universitaires de France.

Di Santo Gustavo (2018), Valori Religiosi e Sviluppo in Brasile: Cattolicesimo e (Neo)Pentecostalismo verso la convergenza?Tesi di dottorato, Università della Calabria.

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Jedlowki Paolo, (2017), Il mondo in questione. Introduzione al pensiero sociologico, Roma: Carocci editore.

Luhmann Niklas, (1990), Sistemi Sociali. Fondamenti di una teoria generale, Bologna: Il Mulino

Marini Matteo B. (2016), Le Buone Abitudini. L’approccio culturale ai problemi dello sviluppo, Roma: Donzelli Editore.

Maturana, Humberto R. & Francisco J. Varela (2012), Autopoiesi e cognizione. La realizzazione del vivente, Venezia: Marsilio Editore.

Pareto Vilfredo (1978), Compendio di Sociologia Generale, Torino: Einaudi Editore

Parini, Ercole G. (2007), Scienza e Tecnologia, in: Grande T. & Parini E. G. (a cura di), Studiare la società. Questioni, concetti, teorie, Roma: Carocci Editore.

Seidl, David (2004), Luhmann’s theory of autopoietic social system, Ludwig-Maximilians-Universität München School of Management, Vol.2.

Weber Max, Il Metodo delle Scienze Storico-Sociali, Pietro Rossi (a cura di), Einaudi, formato E-pub.

 

 

Contro la frammentazione

In un tempo in cui gli uomini, in quanto singoli e in quanto specie, appaiono adagiati su un terreno che di stabile non ha più nulla, in un periodo storico che vede ciascuno di noi come un piccolo quanto insignificante ingranaggio d’un apparato tecnico sempre meno controllabile dal suo costruttore, in questo tempo, occorre ricordarsi che l’uomo è strutturato su un’identità che ha un centro psico-fisico unitario e che la comunità degli uomini non può essere frammentata senza produrle danni irreversibili.

L’uomo è un intero e l’umanità stessa non può essere concepita se non nella sua interezza. In un tempo segnato dalle grandi conquiste della tecnica, peraltro, l’uomo è ancor di più parte costitutiva ed essenziale dell’intera umanità: in un periodo storico segnato dalla globalizzazione culturale, sociale, economica, tutto ciò è del tutto (e a tutti) evidente. Ancor più evidente e decisiva, però, è l’interrelazione ambientale quando si assuma con chiarezza che viviamo in una fase temporale nella quale un qualsiasi “incidente” di tipo tecnico, qualsiasi evento che si registri in un determinato continente, prima o poi è in grado di diffondersi su larga scala, producendo danni catastrofici e spesso irreversibili. Per quanto riguarda poi il fenomeno dell’immigrazione transcontinentale, vero e proprio fenomeno esodale del contemporaneo, è sotto gli occhi di tutti che la mancanza d’una geopolitica globale e di istituzioni internazionali in grado di andare al di là di logiche spazio-temporali miopi e spesso ottuse e meschine, e dunque incapaci della sia pur minima lungimiranza, hanno prodotto e produrranno inesorabilmente fenomeni che minacciano di azzerare l’intero campionario dei diritti umani nella cui elaborazione si è affaticato l’Occidente da secoli.

Sulla base di considerazioni di questo tipo – forse troppo semplici per poter essere intese nella loro importanza epocale – occorre allora ripensare radicalmente l’essere dell’uomo, riconnettendolo strettamente con le sorti del suo mondo. Non c’è uomo senza mondo, mentre al contrario il mondo senza l’uomo è pensabile sia logicamente sia storicamente. In questa luce, dobbiamo aver chiaro che, se è senz’altro vero che è l’essere umano a produrre il mondo, è ancora più vero che il mondo possiede delle leggi che non possono essere alterate senza che l’umanità nel suo complesso ne debba risentire.

Entrando dunque in una logica di questo tipo (nulla è più necessario in sede politica di tali consapevolezze), una delle prime conclusioni a cui è necessario giungere è che le discipline settorializzate – così come gli interessi regionalistici – costituiscono un’espressione disastrosa del nichilismo imperante. Dividere le scienze e gli ambiti della produzione umana (simbolica o reale che siano), impedire la loro comunicazione essenziale, cioè, risulta del tutto irresponsabile ed è totalmente sbagliato. Così come è sbagliato e politicamente criminale costruire aree geopolitiche caratterizzate da crisi (economiche e politiche) permanenti, se non da vere e proprie guerre locali. In altri termini, tutto ciò va a costituire l’antefatto teorico di un tempo che, non occupandosi più del mondo, non è più in grado di curare neppure gli interessi fondamentali dell’uomo.

In modo particolare per le discipline filosofiche, inoltre, da sempre considerate a giusta ragione il collante di tutte le scienze, oltre che l’attività principale dell’uomo in quanto essere pensante, bisognerebbe entrare nell’ottica secondo la quale la conoscenza o è “integrale” o non è affatto. Nessuna particella dell’umano, in questo senso, può rendersi autonoma in maniera anarchica, nella convinzione che l’intero non reagisca.

L’impero della tecno-finanza estesa a livello planetario, tuttavia, va in direzione diametralmente opposta. È del tutto ovvio che rientra negli interessi precipui del capitale dividere uomini, Stati, aree geopolitiche e saperi. Assistiamo così al sempre più incalzante processo di disgregazione individualistica a cui fa seguito da presso una costruzione artatamente costruita di conflitti fittizi messi in scena ad uso e consumo del capitale e delle classi dominanti. Donne contro uomini, bianchi contro neri, guerre fra poveri, sovranità assoluta di visioni del mondo antisociali e grette come il neo-liberismo prima e l’ordo-liberismo a seguire. Evidentemente, tutto ciò nel mentre asserisce di incorporare una verità storica, alle sensibilità più acute si manifesta per quello che è, ossia un tentativo di distruggere le masse orizzontali e compatte della modernità nella direzione di un’atomizzazione sociale sempre più estesa. Nulla sembra più evidente, infatti, di quanto i processi di soggettivazione contemporanei stiano costruendo un uomo senza alcuna appartenenza: fuori da tessuti comunitari e da radici ambientali. Sta emergendo e sempre più consolidandosi un modello (post)umano passivizzato, senza passato e senza futuro, interamente appoggiato sulla tecnica e con addosso una crescente sensazione di superfluità. Inutile far notare come individui di tale sorta (atomizzati ed irrelati) non possano in alcun modo sfuggire alla presa irresistibile del potere tecno-finanziario. Inutile sottolineare, altresì, quanto un dispositivo di “verità” di questo tipo sia del tutto funzionale all’edificazione e al consolidamento progressivo di una massa di “diseguali” che ha tutti i vantaggi dalle divisioni interne che vengono operate nelle masse di “uguali”.

In questo quadro, credo che debba essere la filosofia, anzitutto, a segnalare la necessità di un cambio radicale d’orizzonte. Ovviamente, non parlo della filosofia da “torre d’avorio”. Meno ancora di quella autoreferenziale che gioca i propri narcisismi nelle conferenze per élite sempre meno significative sul piano pubblico o che imperversa all’interno delle ritualità annose ed inveterate del potere accademico. Mi riferisco, molto diversamente, alla filosofia che ha per oggetto il pensiero e l’unità dello spirito umano che al pensiero corrisponde. Credo, infatti, che, da questo punto di vista, la filosofia sia anzitutto una politica. Una politica degna di questo nome, infatti, sa bene che il suo compito è quello di guardare alla comunità (lato sensu) nel suo complesso e al rapporto originario fra gli uomini, nel quadro di un bisogno ineludibile di costruzione del “luogo” del loro stesso abitare. Non c’è politica adeguata a se stessa che non sappia coinvolgere nella sua prassi quotidiana la filosofia, ossia l’unica disciplina capace di disporre di una visione complessiva dell’uomo in quanto singolo e in quanto specie. L’uomo che deve essere preso in considerazione, inoltre, non può più essere “il soggetto razionale” della tradizione illuministica, o il “cittadino” della tradizione statualistica moderna, né tantomeno l'”agente economico” tipico delle posizioni liberali, bensì un essere peculiare che si caratterizza essenzialmente per un’esposizione radicale all’evento della sua stessa esistenza.

Per giungere ad un approdo di questo tipo è chiaro che tutte le scienze sono utili e necessarie: anche quelle che non avevano mai raggiunto la dignità di “scienza accademica”. A patto, però, che tutte loro possano essere riconnesse al senso filosofico più generale ed originario possibile. Ad esempio, costituirebbe una buona filosofia quella che ritornasse a porre domande ingenue, come quelle dei bambini o dei poeti, o comunque di coloro che sanno proporre “uno sguardo straniero” sul mondo. Una buona filosofia è tale quando si mostra capace di porre in un colpo solo davanti ai tanti paradossi e alle innumerevoli contraddizioni che caratterizzano l’esistere.

In conclusione, dunque, credo che sarebbe necessario che la filosofia diventasse una visione dell’uomo esprimibile attraverso una politica internazionalistica. Per converso, occorrerebbe una politica capace di stringere una nuova, sacra alleanza con la filosofia.

Sarebbe urgente che la filosofia mutasse il suo senso e la sua ispirazione settorializzata e divenisse “antropologia politica”.

Antonio Martone

 

 

VIDEO – I valori dell’illuminismo: colloquio tra Robert Louden e Paolo Quintili

Il presente dialogo tra Quintili e Louden, ponendosi nel solco del pensiero kantiano, tenta di offrire una risposta alla risorgenza della religione, o delle “fedi religiose” nelle sue componenti irrazionalistiche ed entusiastiche . Intorno ad esse, richiamandosi ai valori propri dell’illuminismo, si intende ricostruire le fondamenta di una “ragione illuminata” e secolarizzata ( “la ragione deve essere la nostra fede”) che possa fungere da principio guida alla comprensione dell’altro (soprattutto se appartenente a una differente cultura e tradizione linguistica). Aprire uno spazio di dialogo tra le differenti interpretazioni di fede vuol dire recuperare un messaggio universale di eguaglianza e di “fratellanza” che leghi insieme tutti gli uomini.

Politica 4.0

Salvini domina la scena mediatica; Di Maio lo insegue a qualche lunghezza di distanza; Conte, il cui titolo sarebbe anche Presidente del Consiglio, annaspa; Mattarella, saggio custode dalla Costituzione, a volte è costretto a metterci una pezza. Berlusconi torna a salire o a scendere in campo; Renzi batte le ali e fa chicchirichì, Martina “regge”, Calenda inventa il Fronte Repubblicano, per scimmiottare i Francesi, solo che noi siamo una repubblica, sì, ma senza repubblicanesimo. Questa è la politica italiana 4.0, come si usa dire oggi, in uno scenario dominato dall’abbraccio Putin – Trump fatto per disarticolare, con mezzi diversi, l’Europa e farne evaporare financo l’idea.

Quella che sto per raccontare è una storia triste, che ai più darà fastidio, perché è sempre preferibile evitare fare i conti con la realtà. Ma la racconterò ugualmente per un altro “perché”: perché, per ricominciare a fare politica, occorre sapere da dove si viene.

La politica, che la mia generazione e molte precedenti avevano conosciuto con i suoi pregi e difetti, è finita. Aveva più di tre secoli sulle spalle. Nata con lo Stato moderno, territorio, confini, popolazione di appartenenza, articolatasi in Stato “assoluto” prima e “di diritto” poi, si è sviluppata secondo categorie capaci di interpretare, e quindi dare significato, all’agire degli uomini e delle generazioni: idee, progetti, decisioni.

La “categorie” sono, infatti, costrutti mentali, formati da astrazioni intellettuali, capaci di dare un nome, una identità, all’esperienza umana, consentendone, quindi, una interpretazione ed una direzione. Anche “esperienza” è una astrazione intellettuale, con la quale si definiscono quelle azioni della vita, individuale o associata, alle quali il soggetto assegna un significato; non ogni nostra azione, infatti, per ciascuno di noi assume il significato di “esperienza”; alcune segnano la vita, altre passano nell’indifferenza.

Ho fatto questo inciso, probabilmente un po’ noioso, per arrivare a dire che la fine della politica è determinata dalla estinzione di quelle categorie (nel senso che ciò che si è estinto è il concetto stesso di “categoria”, per ragioni che dirò di qui a poco), che ne hanno costituito la vita in quell’arco di tempo chiamato “modernità”. Ne nomino alcune: “popolo”, “nazione”, “borghesia”, “proletariato”, “classe”, “democrazia”, “dittatura”, “libertà”, “uguaglianza” e, infine, il binomio “destra / sinistra”. Non so se sono tutte, ma quelle che comunque voglio mettere in gioco, dal momento che hanno fatto la storia politica, sociale e culturale che abbiamo conosciuto.

All’origine di tutte queste “categorie”, ve ne è una che è stata il tratto distintivo della “modernità”: quella di “Soggetto”, che può essere individuale, associato, organico e collettivo.

Tralascio “popolo” e “nazione”, per arrivare subito alla borghesia come soggetto (ed alla sua scomparsa, ma di questo più avanti). Come soggetto storico, la borghesia non coincideva con la semplice detenzione del capitale, ma era un modo, soprattutto etico-culturale, di intendere il rapporto imprenditorialità – profitto. Non occorre scomodare Max Weber per saperlo, basta leggersi l’affresco contenuto ne “Il Borghese” di Franco Moretti (Einaudi, Torino 2017) per rendersene conto. “Borghesia” evoca altre due categorie che hanno segnato la storia tra Otto e Novecento: “classe” e “proletariato”. È Marx ad introdurre i due termini, l’uno generale l’altro specifico, come segni di una lettura scientifica della storia. Alla base vi è la categoria generale “soggetto collettivo” che viene denominato “Classe”; ne segue che borghesia e proletariato si specificano come “classi” nelle quali si articola la società ed alle quali viene ricondotto il conflitto che ha da sempre attraversato la società. Soprattutto, l’introduzione della “classe” è servita a dare un nome unificante a quella massa di umanità prima dispersa, senza nome, perché frantumata dalla condizione umana di operaio sottomesso alla classe borghese, titolare dell’impresa industriale. Una moltitudine dispersa che, in virtù del luogo ove svolge per intero sua vita, la “fabbrica”, acquista, così, un nome: “classe operaia”. L’operaio, nel momento che prende coscienza di sé, grazie alla materialità fisica della fabbrica e del suo stare gomito a gomito vicino all’altro, identico a sé, ed alle macchine, prende coscienza della sua dipendenza, ma anche della essenzialità del suo lavoro per il profitto dell’impresa. Acquista consapevolezza di essere non un semplice individuo, ma di costituire insieme a tutti i compagni di lavoro un soggetto unico, collettivamente identificabile. Capisce che ha di fronte a sé, come altro soggetto, il padrone della fabbrica, con il suo capitale e con il relativo profitto, che si genera però solo grazie al lavoro operaio. Secondo questa interpretazione, accanto alla classe operaia, anche la borghesia viene letta come “classe”, individuata dal rapporto impresa – capitale – profitto – lavoro.

La storia viene allora intesa, interpretata e raccontata come conflitto tra due classi: quella operaia e quella borghese e su questa contrapposizione si rimodellano categorie storicamente più antiche come quella di democrazia, libertà, uguaglianza, e ne nascono interpretazioni nuove come quella di socialismo e liberalesimo, che danno vita a quella dicotomia storica, che ancora oggi viene recitata nella retorica quotidiana, destra / sinistra.

Ho fatto questa rapidissima rassegna di termini carichi di cultura, per arrivare ad una riflessione: la “categoria” politica denominata “sinistra” è strettamente legata all’esistenza storico-interpretativa di un soggetto collettivo che acquista identità e vita per mezzo della materialità del lavoro consistente nel posto fisso in un luogo determinato: la fabbrica. Anche la “destra”, quella meritevole storicamente di questo nome, è legata alla stessa materia costitutiva ed alla esistenza della borghesia. Solo che le due vicende sono divenute, nei decenni recenti, diverse. La “destra” può ancora essere evocata con qualche riferimento, più che altro retorico, per la ragione che ciò che è ancora vivo e vitale è il nesso “capitale-profitto”. Nesso che è solo il simulacro materialistico della “destra”. Infatti, i capitalisti di oggi non possono più dirsi “borghesi”, poiché l’egoismo finanziario ha preso il posto dell’investimento produttivo, per l’inversione che si è determinata tra economia materiale e finanza. Di conseguenza: il “liberalesimo” che segnava lo spirito borghese si è deformato in “liberismo” e la concorrenza del “mercato” in “mercatismo”.

Con la fine di queste due categorie sono venuti meno anche gli strumenti propri della politica in quanto “pensiero”: la riflessione ed il progetto. Dicendo questi ultimi termini, pensiero – riflessione – progetto, metto in campo quella destrutturazione temporale prodotta dalla tecnologia elettronica, che ha sostituito la temporalità diacronica (passato – presente – futuro) con la a-temporalità dell’impatto. Questa sostituzione ha spostato l’agire umano dalla riflessione alla reazione; dal progetto all’immediatezza del risultato. Quindi “pensare”, che è una attività diacronica, è divenuta una attività se non impossibile, quanto meno inutile. E con il pensare sono venute meno le sue strutture costitutive: la ri-flessione e le “categorie” interpretative della realtà. L’algoritmo, che ha sostituito il pensiero, ha deformato l’oggi ed il domani, il presente ed il futuro, nella fredda immediatezza del risultato, nel quale ogni variabile è assorbita in un mero calcolo di percentuale di rischio.

L’affermarsi della dimensione dell’immediatezza è ciò che ha prodotto il domino della economia finanziaria sull’economia reale, del profitto immediato sull’investimento nel tempo, e tutto questo ha prodotto quella globalizzazione mercatista che ha esautorato lo Stato e con questo la effettiva pregnanza di ogni categoria politica. Nel mercato globale, ciò che fa la differenza è la riduzione dei costi di produzione; la fabbrica, allora, diviene una appendice del lavoro robotizzato ed il posto di lavoro non può più essere “fisso”. Senza fabbrica e privato del posto fisso, il lavoratore diviene un mero individuo, lasciato solo, in perenne competizione con altri per guadagnarsi la giornata. Il mercato globale e la finanza hanno frantumato, perciò, la pensabilità stessa di un “soggetto collettivo”. Tant’è che oggi l’unico soggetto che ancora può essere identificato con questo aggettivo, “collettivo”, sono i pensionati, perché è l’unico soggetto che può essere pensato unitariamente, in quanto ha una sua definita identità dovuta alla sua stabilità.

In un mondo fatto così, se la “destra” può avere ancora uno spazio, certamente non più ideale, ma materialmente legato al nesso capitale – profitto, la “sinistra”, privata della fabbrica, del posto fisso, ed insieme di un “soggetto collettivo” e, con questi, privata anche dell’idea di futuro, perde la sua stessa struttura costitutiva. Attenzione: con questo, non intendo dire che l’idea di “sinistra” sia necessariamente legata alla categoria del conflitto, poiché il soggetto collettivo non è, del pari “necessariamente”, dal punto di vista storico-politico, un soggetto conflittuale. Lo era nella lettura marxiana, ma questa non è l’unica possibile.

Voglio, invece, sottolineare un altro aspetto. La “destra”, pur perdendo il suo essere “borghese”, ma conservando il profitto, può sopravvivere alleandosi con i robot; la “sinistra”, invece, non può fare a meno degli uomini. Ed è da qui che occorre ripartire, facendo a meno del soggetto collettivo, per il quale sono venute meno le categorie intellettuali che lo costituivano, per tornare a cogliere, invece, l’origine di ogni dimensione esistenziale.

Occorre, cioè, tornare alla riscoperta pratica della struttura originaria del nostro essere uomini. È più semplice di quanto si creda. Basti soffermarsi solo un attimo su di un dato evidente, ma che troppo spesso sfugge: che ciascuno di noi, essendo un ente finito, ha necessariamente un altro IO accanto al suo, non uguale, ma sicuramente pari, in quanto IO. Ne segue che ciascuno di noi oltre ad essere per se stesso un “IO” è, allo stesso tempo, anche un “ALTRO” per l’IO dell’altro. E questo è un dato strutturale della soggettività, assolutamente non modificabile, poiché non modificabile è il nostro essere enti finiti. Possiamo ignorare questa nostra condizione umana: si può essere egoisti, individualisti, cinici, senza scrupoli, crudeli e violenti, ma queste scelte della persona non modificano la struttura della relazionalità intersoggettiva, anzi, la violano. Vale a dire che, poiché ciascun IO contiene in sé l’ALTERITA’, violare l’ALTRO è come violare quella parte del se stesso che costituisce, integrandolo, il nostro stesso IO.

In questo pensiero, che è una presa d’atto, risiede il germe di quella solidarietà che dovrebbe costituire la linfa e la bussola di una nuova sinistra: non più un soggetto organico, storico-collettivo, ma una “rete” costituita dall’erigere a sistema quella relazionalità intersoggettiva che costituisce l’essenza del nostro essere uomini sulla terra.

Bruno Montanari

La lotta tra insicuri (È venuto il momento della disobbiedenza civile)

La lotta tra insicuri (premessa di Luciano Monti, docente di Politiche dell’Unione Europea LUISS)

 

In questi concitati giorni di scontri istituzionali (a livello europeo e interno al nostro paese) sulla gestione dei flussi migratori e sul soccorso in mare dei naufraghi, non è possibile ragionare solo “con la pancia” e orecchiando slogan e grida.

I cosiddetti “sovranisti” che si trovano uniti nell’affermare la priorità degli interessi nazionali perimetrati dai confini geografici, non si trovano poi d’accordo su una politica migratoria che presupponga un sia pur minimo concerto tra paesi appartenenti allo stesso continente. La verità è che emergono questioni non solo politiche, ma anche economiche, giuridiche e etiche. Non è possibile leggere il fenomeno migratorio in atto limitandosi a uno solo di questi aspetti.

Le questioni economiche mettono in rilievo due fattori entrambi sottovalutate nel contingente dibattito politico. Il primo fattore è quello demografico, che ci delinea un’Europa (e in particolare l’Italia) con una popolazione sempre più anziana a detrimento del tasso di occupazione e in ultima istanza (causa proporzionale alterazione del tasso di dipendenza) dell’equilibrio dei sistemi di Welfare. Il secondo è quello legato all’aumento dei divari tra i redditi die cittadini, che ha spinto molta della popolazione italiana, originariamente appartenente alla classe media, alla soglia di povertà. Tra questa, una fetta importante è costituita da nuclei familiari con capofamiglia under 35.

Entrambi i citati fattori economici generano tuttavia un fenomeno sociali rilevante: l’insicurezza sul proprio futuro. A sua volta l’insicurezza conduce ad atteggiamenti di arroccamento sulle proprie prerogative (per esempio la difesa a oltranza dei diritti acquisiti anche quando è palese la disparità di trattamento) e di intolleranza (la paura che “il nuovo arrivato” usurpi qualche opportunità).

Sono così convinto che la radice della soluzione al problema dei flussi migratori (da taluni economisti addirittura auspicati) non vada solo cercata nella loro regolamentazione, ma nella rapida attuazione di quel pilastro sociale europeo che i paesi membri hanno sancito l’anno scorso a Göteborg. Pilastro che ha proprio l’obiettivo di restituire quella sicurezza economica e sociale che oggi manca a molti dei cittadini europei: un pilastro che, alla stregua della politica migratoria, non può essere risolto su base nazionale, ma necessariamente su vasta scala. Politiche comuni, strumenti comuni e mutualizzazione di rischi e oneri sono alla base di queste politiche

Paradossalmente, la proposta della componente pentastellata del governo, incentrata sul reddito di cittadinanza, offrendo una soluzione strutturale al problema dell’insicurezza sociale, mina la base ideologica leghista, che su tale timore si basa.

Per affrontare gli aspetti giuridici e etici della gestione dei flussi migratori, propongo invece l’estratto del contributo dell’amico Pier Virgilio Dastoli, che prova a fare chiarezza, invitando tutti quantomeno a porsi le domande corrette e a darsi qualche risposta, non dimenticandosi che anche la citata componente economica va tenuta in debito conto.

 

È venuto il momento della disobbedienza civile (estratto) di Pier Virgilio Dastoli (Presidente Cime)

 

Le ripetute incursioni del Ministro degli Interni Matteo Salvini nella politica migratoria sollevano questioni essenziali non solo politiche e morali ma di diritto interno, europeo e internazionale. Le tre dimensioni sono strettamente collegate e non possono essere esaminate separatamente.

L’azione internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimo è regolata dalla Convenzione internazionale firmata ad Amburgo il 27 aprile 1979 ed entrata in vigore il 22 giugno 1985 sulla base di un accordo internazionale elaborato dall’Organizzazione Marittima Internazionale volto a tutelare la navigazione con esplicito riferimento al soccorso marittimo e che resta a tutt’oggi la pietra miliare dei salvataggi in mare per la Guardia Costiera che è tenuta ad osservarla e per i governi nazionali che sono tenuti a farla osservare.

L’Italia ha dato applicazione alla Convenzione, dopo averla ratificata, con il Decreto Interministeriale dell’8 giugno 1989 con un’organizzazione territoriale al cui centro agisce il Comando Generale diretto attualmente dall’Ammiraglio Pettorino con funzioni di Centro Nazionale di Soccorso in Mare (IMRCC) che opera attraverso il numero 1530.

Il suo braccio operativo è rappresentato dalla Guardia Costiera che è l’organo competente per l’esercizio delle funzioni di ricerca e salvataggio in mare con criteri conformi al diritto internazionale. L’IMRCC oltre ad intervenire in caso di soccorso di mezzi e cittadini italiani è incaricato del soccorso a mezzi e persone straniere.

Un naufrago non è, secondo il diritto internazionale, un richiedente asilo o un immigrato illegale o – come si dice con una parola che ha assunto un suono dispregiativo – “clandestino” (i“clandestini” erano coloro che durante la Resistenza svolgevano attività antifasciste) ma una persona che deve essere soccorsa, salvata da rischio di annegamento e curata.

Nel momento in cui un naufrago entra nel territorio dell’Unione gli si applicano i diritti previsti dalla Carta dei Diritti Fondamentali che proteggono tutte le persone che stanno sul territorio europeo con alcune eccezioni limitate a diritti civili e politici.

La Guardia Costiera è composta in Italia da 12.000 fra ufficiali e sottoufficiali appartenenti a un corpo autonomo che dipende in primis (formazione, addestramento, aggiornamento, avanzamento delle carriere, corresponsione economica) dal Ministro della Difesa poiché si tratta di un corpo della Marina Militare.

La Guardia Costiera dipende funzionalmente dal Ministro delle infrastrutture e dei Trasporti che si avvale delle articolazioni centrali (Comando Centrale di Roma) e periferiche (Capitanerie di Porto) per la gestione tecnica e amministrativa di tutti gli aspetti correlati al comparto marittimo sia terrestre sia tecnico-nautico.Il Corpo si interfaccia inoltre con altri ministeri come l’Ambiente, le Politiche Agricole, i Beni Culturali e con gli Interni ma solo per quanto riguarda la sicurezza degli ambiti portuali.

Il Corpo è coordinato dal Comandante Generale normalmente che può provenire dalla Marina Militare o dallo stesso Corpo delle Capitanerie di Porto come l’attuale Ammiraglio Pettorino.

Il Comandante Generale deve agire dunque nel rispetto della Convenzione di Amburgo i cui principi e le cui regole operative prevalgono sulle leggi e sulle regole operative italiane. Egli deve agisce anche nel rispetto la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea perché, se non agisse, potrebbe essere denunciato per omissione o rifiuto d’atti d’ufficio.

In tutti questi anni e agendo nel rispetto della Convenzione di Amburgo e della Carta dei Diritti dell’Uomo, la Guardia Costiera Italiana ha salvato decine di migliaia di uomini, donne e bambini.

Per questa ragione pensiamo che essa dovrebbe essere candidata al Premio Nobel della Pace.

Il Comandante Generale risponde dei suoi atti al Ministro della Difesa e al Ministro per le Infrastrutture e i trasporti (nel caso del governo italiano a Toninelli) o dal Presidente del Consiglio con il placet di questi due ministri e non è tenuto a obbedire agli ordini del Ministro degli Interni che, se rivolti alla Guardia Costiera, si configurano come una violazione dell’atto normativo con cui il Presidente del Consiglio ha attribuito le deleghe ai membri del suo governo.

La disobbedienza agli ordini del Ministro degli Interni si configura come una forma tutta speciale di Civil Disobedience perché non si tratta di ribellarsi ad una legge ingiusta ma di ignorare un ordine tre volte illegittimo: esso contravviene alla Convenzione di Amburgo, alla Carta dei Diritti Fondamentali, alle deleghe attribuite dal Presidente del Consiglio ai suoi ministri.

Vale la pena di ricordare qui il saggio di Don Milani “L’obbedienza non è più una virtù” del 1965.

Lo stesso modello di Civil Disobedience si applica a tutti coloro che agiscono in mare

con funzioni di ricerca e di salvataggio: medici e infermieri, organizzazioni non governative, navi mercantili…. che dovrebbero ispirarsi all’insegnamento del radicale americano Howard Zin nella sua raccolta di saggi Disobbedienza e Democrazia la cui teoria era “è giusto disobbedire ad atti ingiusti”.

(Pier Virgilio Dastoli, Presidente del Consiglio Italiano del Movimento Europeo-CIME)

 

                            Luciano Monti

Normazione, amministrazione, giurisdizione e governo

Riflessioni elementari su disegno ed esercizio della sovranità nell’ordine costituzionale vigente

 

Per secoli, l’Occidente (in senso geografico, dal punto di vista eurocentrico al quale si guardavano le cose) si era caratterizzato per il fatto di praticare culture politiche di “autogoverno” (erano – in ambito mediterraneo – le prevalenti: vi guardavano il mondo greco; quello italico, etrusco e romano in particolare; quello cartaginese). In tali culture l’idea generale (a prescindere dalle specifiche declinazioni che se ne facevano) era che la “sovranità” (la condizione politico-giuridica che permetteva ad una “comunità politica” di essere indipendente) fosse un attributo “della” comunità (nel suo insieme). La quale comunità gestiva dunque tale sua sovranità attraverso modalità concrete (complesse e – anche significativamente – diversificate) connotate da un elemento comune. Ciascuna (sottolineo: ciascuna) delle manifestazioni necessarie a dare forma organizzata alla propria vita collettiva ed ordinato svolgimento alle relazioni che in essa intervenivano (creazione delle “regole” di indirizzo, da un lato, ed “attuazione amministrativa e giudiziaria” di esse) prevedeva il concorso – diretto o mediato – di tutte le componenti sociali della comunità interessata.

 

  1. Non vi è dubbio che uno dei problemi più acuti venuti in evidenza negli ultimi decenni della nostra esperienza costituzionale sia il disequilibrio che è venuto nel tempo a definirsi tra i cosiddetti “poteri” (tra i quali si ripartisce il governo di una collettività politica) e, in particolare, tra quello di “indirizzo” (governativo-parlamentare), da un lato, e quello “amministrativo” e “giurisdizionale”, dall’altro, entrambi (più visibilmente il secondo), tendenzialmente sempre meno percepiti come disponibili ad operare in sintonia con le indicazioni del primo e perciò sempre più come autoreferenziali.

Non credo di tradire la realtà se osservo che la esistenza della questione sia un fatto oggi generalmente riconosciuto.

Ma credo anche che se non si guarda alle cose con la radicalità elementare che – sola – ne può lasciare comprendere le cause, non se ne comincerà mai a venir fuori. Altra cosa – molto più difficile – sarebbe immaginare anche linee di concreta soluzione. Ma ognuno comprende come ciò non solo aprirebbe immediatamente (non potrebbe non essere) un dibattito divisivo importante su obbiettivi, priorità e tempistiche, ma distoglierebbe l’attenzione dalle cause “prime” del fenomeno. Quelle la cui mancata individuazione ha reso – negli ultimi decenni (almeno due) – quel dibattito (tutt’altro che mancato) privo del suo presupposto primo: le ragioni “strutturali” che lo giustificano. Le quali vengono ben prima delle ovvie (e naturali) concrete divisioni sulle soluzioni. Sono la sola premessa possibile (di metodo insomma) verso una eventuale “condivisa” (nella necessità e non nella convenienza di parte) riconsiderazione della questione.

 

  1. Parlerò con la elementare sommarietà indispensabile.

Ogni sistema politico non può non darsi una struttura di decisione e di gestione organizzata. Il che esso fa in coerenza, ovviamente, con la propria visione di governo. Seguendo dunque una logica di coinvolgimento collettivo (visione “partecipata”) o una invece di “concentrazione” (più o meno intensa). In altre parole, secondo l’idea di sovranità da esso adottata.

I sistemi politici occidentali (tra i quali anche il nostro si situa) sono eredi, da questo punto di vista, di una duplice tradizione storica, che ne ha segnato variamente le vicende (e che li ha anche resi profondamente diversi nei loro concreti assetti).

Per secoli, l’Occidente (in senso geografico, dal punto di vista eurocentrico al quale si guardavano le cose) si era caratterizzato per il fatto di praticare culture politiche di “autogoverno” (erano – in ambito mediterraneo – le prevalenti: vi guardavano il mondo greco; quello italico, etrusco e romano in particolare; quello cartaginese). In tali culture l’idea generale (a prescindere dalle specifiche declinazioni che se ne facevano) era che la “sovranità” (la condizione politico-giuridica che permetteva ad una “comunità politica” di essere indipendente) fosse un attributo “della” comunità (nel suo insieme). La quale comunità gestiva dunque tale sua sovranità attraverso modalità concrete (complesse e – anche significativamente – diversificate) connotate da un elemento comune. Ciascuna (sottolineo: ciascuna) delle manifestazioni necessarie a dare forma organizzata alla propria vita collettiva ed ordinato svolgimento alle relazioni che in essa intervenivano (creazione delle “regole” di indirizzo, da un lato, ed “attuazione amministrativa e giudiziaria” di esse) prevedeva il concorso – diretto o mediato – di tutte le componenti sociali della comunità interessata (quasi mai ordinate secondo logiche di uguaglianza: nemmeno dove prevalevano, come ad Atene, forme di governo “democratico”). La maiestas era insomma, in quella visione, della “civitas” e non di un qualunque organo di essa. E il correlato esercizio dell’imperium che tale maiestas giustificava avveniva sempre perciò attraverso soggetti (magistrati) individuati mediante procedure (di investimento nelle funzioni) collettivamente controllate e la cui concreta attività era disciplinata da un “accompagnamento” in itinere (“pareri” necessari, collegialità/concerto dell’atto, possibilità di interventi inibitori) e da un controllo successivo (valutazione dell’operato) ispirati dalla stessa preoccupazione.

Questa visione della sovranità cedette il passo – da Augusto in avanti (in un tempo nel quale dunque l’intero Occidente era stato ormai, da circa due secoli, ricondotto di fatto ad un unico “governo”: quello di Roma) – ad una nuova visione (che si sarebbe a lungo proiettata nel tempo).

Le difficoltà (drammaticamente emerse in un secolo e mezzo di profondo travaglio, sfociato alla fine anche in una lunga stagione di guerre civili) di mantenere costante l’equilibrio conseguito nella distribuzione di funzioni e competenze, quale disegnatosi nei secoli (ed orientato a rendere possibile un ordinato concorso collettivo alla gestione politica della comunità: autogoverno) portarono ad una novità radicale. Al posto di una visione che vedeva nella sovranità un’attribuzione “della” civitas ne subentrò una che la concepiva ora come attribuzione di un organo di questa (in pratica: il princeps).

Si trattò di un cambiamento di cose che avrebbe segnato la storia occidentale per quasi due millenni. Con enormi conseguenze sulle “culture” sociali e politiche che si sarebbero nel tempo succedute (molteplici e varie sotto i più diversi aspetti, ma costanti nel vedere la sovranità come attribuzione di un organo della collettività).

 

  1. Quando alla fine del Settecento – per effetto finale delle rivoluzioni francese e americana – l’Occidente (che ormai non era più un luogo “geografico”, ma un’“area culturale”: quella legata, per i vari tramiti, all’antico luogo geografico) – tornò all’idea dell’autogoverno (come rimedio ai guasti della concentrazione della sovranità che la storia metteva sotto gli occhi di tutti), immaginò di doverne anche fissare i cardini che avrebbero reso la pratica non degenerabile in “concentrazioni fattuali” del potere, che ne determinassero una sostanziale identificazione con una parte soltanto della collettività (quella materialmente in grado di occuparne gli spazi più ampi).

Tali cardini (continuo a semplificare radicalmente) furono visti in alcuni strumenti organizzativi (variamente declinati in concreto, con conseguenti rilevanti differenze di efficienza/efficacia pratica dei vari sistemi che ne sarebbero nel tempo venuti), ma tutti ispirati ad alcune comuni idee di base.

Constatata la impossibilità – per le incommensurabili dimensioni, sia fisiche (i nuovi “stati”) che “giuridiche” (i soggetti “cittadini”) delle nuove collettività rispetto alle antiche civitates – di replicare modelli di partecipazione “diretta” all’autogoverno, si ricorse all’idea di una partecipazione attuata in forme “rappresentative”.

Per prevenire il rischio di vanificazioni fattuali (legate alle dinamiche di riposizionamento delle forze sociali) dell’ordine di governo concordato con il “patto fondativo” che dava vita alle nuove collettività (che prendevano il posto dei regimi cancellati con le rivoluzioni avviate), si ricorse all’idea di una architettura scritta (costituzione) delle strutture di governo. In essa la distribuzione delle funzioni e delle competenze doveva essere improntata all’idea di una “divisione” dei poteri/funzioni (realizzata attraverso l’attribuzione di tali poteri/funzioni a “istituzioni” (legislative, amministrative, giudiziarie) non comunicanti e il più possibile “indipendenti” ciascuna da ogni altra. Nella convinzione che gli eventuali “eccessi” (rispetto all’intervenuta ripartizione) sarebbero stati reciprocamente prevenuti/corretti dall’esercizio indipendente della funzione attribuita.

Per impedire che i fattuali conflitti (e le connesse dinamiche di potere delle forze sociali) perpetuassero il rischio di un “diritto” privo di generale controllo collettivo, si immaginò di scongiurarlo attraverso l’adozione della “legge” quale unica espressione possibile della normazione.

 

  1. Si è trattato di errori. Determinati da una visione tutta “ideologica” delle cose (della quale l’illuminismo era stato la culla finale), che ha preteso di cancellare la storia dalla realtà.

Nessuno dei tre “pilastri” ha retto all’impatto con la storia.

Nessuno degli ordinamenti ispirati a quei principi è sfuggito al disastro di inefficienza che (in misura ovviamente diversa, in ragione della varietà delle declinazioni) è sotto gli occhi di tutti. E che alimenta un vento di reazione spesso reso cieco dalla rabbia e dunque non meno pericoloso del perseverare ostinato nella conservazione dell’inconservabile.

L’ Occidente deve reagire. E il solo modo per farlo è il cominciare con il prendere coscienza di errori ed imprevidenze.

 

  1. La realtà “sociale” (come “definita” nelle articolazioni dagli interessi tendenzialmente omogenei ed aggregabili che le guidano) poteva probabilmente essere immaginata come “rappresentabile” alla fine del Settecento. E lo era anche forse ancora alla metà del secolo scorso. Di sicuro non lo è più oggi. Ed appare dunque indispensabile convincersi della necessità di rivedere (il quomodo è altra cosa) i meccanismi pubblici di “delega”/“investitura”/“controllo” dell’esercizio delle funzioni politiche (legislative e amministrative).

La società contemporanea è divenuta una società – come ama dirsi – “liquida”, nella quale gli interessi si compongono/scompongono con una grandissima rapidità e, soprattutto, si esprimono in direzioni molto difficilmente aggregabili. Il che spiega per altro perché i “movimenti” abbiano preso il posto dei “partiti” e perché gli orientamenti si formano sempre più a partire dalle “soluzioni” proposte (e sempre meno dalla più o meno presunta coincidenza di interessi di “classi”: quali oltretutto?).

Nessuno immagina, naturalmente, che nuove soluzioni “formali” (l’adozione insomma di assetti normativi più aderenti alla realtà delle cose) possano, da sole, rimettere in funzione i meccanismi inceppati. È sempre l’uomo l’insuperabile attore. Le dinamiche di potere hanno una “fattualità” non facilmente imbrigliabile. Dipendono molto dalla “cultura” dei protagonisti. Ma è certo che esse abbiano tuttavia necessità di “forme”. Ne sono condizionate. Ed è certo perciò che se quelle adottate sono inappropriate, non vi potrà essere adeguata efficienza.

Non si può più rinviare l’apertura insomma di una seria discussione.

 

  1. Ma parimenti indispensabile appare una riflessione sulla “legge”.

Non perché sia in sé erroneo pensare ad essa come strumento “moderno” di regolazione collettiva. Non ne sono negabili né la tempestività con la quale permette di provvedere, né la più elevata certezza (del diritto) che essa consente di conseguire.

Ma perché non possono trascurarsi le conseguenze (sotto gli occhi di tutti) del punto di vista adottato. Che ha fatto ritenere sufficiente preoccuparsi di assicurare procedure collettivamente (politicamente) “controllate” di creazione della legge e non parimenti importante preoccuparsi anche di individuare strumenti per mantenerne collettivamente “controllata” anche l’applicazione.

La “legge” non può essere lo strumento diretto di disciplina della organizzazione e gestione delle relazioni sociali. Ne può dare solo (ed è anche opportuno che accada) l’indirizzo. Non ne può dettare (almeno sempre) la concreta disciplina. Lo impedisce la inesorabilità delle trasformazioni (e ora anche la rapidità con la quale esse maturano).

La distanza tra “creazione formale” della “regola” e tempo di applicazione della stessa ne impone un’applicazione realizzata attraverso gli “occhiali” di coloro che leggono la realtà da disciplinare. Il significato “attuale” della regola è quello che vi vede chi la applica (non chi la crea). E gli stessi fatti che lo inducono a stabilirlo (la realtà materiale alla quale egli è chiamato a dare disciplina) sono, a loro volta, espressione di “comportamenti” (dunque di costumi operativi) che raramente corrispondono a quelli tenuti in considerazione da chi ha costruito l’enunciato formale (la legge).

Non basta l’adozione di una “legge” perché si possa dire che si sia fissato il “diritto” che ne discende. La “normazione” vivente non è quella voluta da chi vi ha dato “indirizzo” (legislatore), ma è quella di chi (amministratore) dà ad essa “attuazione”. E non possiamo perciò continuare a trascurare le conseguenze concrete di un sistema costruito senza alcuna considerazione di tale elementare verità.

Autogoverno non può che voler dire possibilità di “controllo” costante, da parte della collettività (con modalità almeno mediate), dei processi politici che la fanno vivere: adozione delle regole di riferimento e amministrazione della realtà in coerenza con esse. Una civitas (grande o piccola che si voglia) è sovrana se le decisioni che la riguardano (di indirizzo e di gestione) sono di coloro che ne sono i cives (come soggetti politico-costituzionali). Sia che le adottino direttamente, sia che lo facciano investendone organismi concordati (e da essi controllati).

 

  1. Non la faccio lunga. Mi limito ad una sola, ma spero sufficiente considerazione.

La possibilità di una “normazione” coincidente con la “legge” è impraticabile. La legge non può essere sufficiente. Necessaria (per l’indirizzo delle cose), si tradurrà in strumento di concreta valutazione normativa (permetterà insomma la disciplina di una concreta vicenda) attraverso la insuperabile mediazione di chi è chiamato ad attuarla. Riceverà “significato” da costui (dall’interpretazione che egli ne darà). La legge non “vive” insomma (non può vivere) se non attraverso la intelligenza, la sensibilità, l’attenzione, il pensiero di chi ne gestisce la sua “attuazione”. La quale dunque ha un ruolo “politico” (generale) non diverso da quello di colui che crea la legge.

Le due “funzioni” si integrano insuperabilmente.

Esse possono certo (ed è ben pensabile che sia opportuno che accada) essere affidate a “soggetti istituzionali” distinti. Ma entrambi i soggetti (istituzionali) in questione devono – all’interno almeno di un sistema che attribuisca la “sovranità” alla volontà collettiva (art. 1 della costituzione del 1947) e ne consideri possibile solo una delega di esercizio (artt. 1.2 e 101.1) – ricevere un trattamento omologo.

Non è possibile che uno dei due (nel nostro caso: il parlamento) dipenda (per l’investitura nella funzione e per il controllo di esercizio che subisce) dal “sovrano” (la collettività dei cives, che appunto lo “elegge” e ne giudica politicamente l’operato alla successiva scadenza elettorale) e l’altro (il corpo giudiziario) ne sia invece sottratto.

Se questo accade (come nel sistema adottato dal nostro costituente), il secondo non solo inevitabilmente prevale sul primo, ma (se gode anche di assoluta indipendenza nell’esercizio della funzione: artt. 104 ss.) può sovrapporsi (nei fatti) allo stesso titolare della “sovranità”. Amministrerà infatti le regole secondo il proprio insindacabile giudizio. E poiché – nell’eventuale contrasto tra “significato” della legge (quale inteso dal “legislatore”) e significato di essa (quale inteso dal “giudice”) non potrà che prevalere (nel concreto esercizio della funzione) che il secondo (è del giudice la “decisione” del caso), la “normazione” (la concreta disciplina che i fatti riceveranno) non sarà più quella immaginata dal legislatore, ma quella voluta dal giudice. E tutto questo (ragione non secondaria delle tensioni maturate) nonostante l’architettura (costituzionale) disegnata abbia proclamato di volere piuttosto, semmai, il contrario (“soggezione” del giudice alla legge: art. 101).

Nell’immaginare possibile una “normazione” affidata unicamente alla “legge” si è solo dato espressione ad un impulso emotivo.

Si è inteso cancellare dall’ordine giuridico ciò che la storia dimostra essere invece il solo contenuto compatibile con la possibilità di mantenere elevato il tasso generale di consenso nei confronti dei suoi assetti: un contenuto fattuale delle “regole” (il “dettato applicato” di esse) il più possibile prossimo ai “costumi” collettivi praticati (con generale approvazione). Quelli che orientano insomma gli indirizzi della normazione (li rendono quelli “attesi”: leggi) e quelli che ne permettono poi un’attuazione giudiziaria percepita come la “dovuta”.

In nome di un “ideologico” astratto (e immobile) “dover essere”, si è trascurata l’insuperabile (dinamica) “storicità” dell’essere.

Si sono dimenticate due cose.

Da un lato, che le scelte “normative” sono frutto (ordinariamente) di esperienza: vengono dall’osservazione, in sede “amministrativa”, dei “problemi” che hanno necessità di regolazione e dalla opportunità di introdurre regole mancanti/nuove/diverse rispetto alle esistenti.

Dall’altro, che la “regola” (massimamente se “chiusa” in un “enunciato formale”) è costruita sull’osservazione di una realtà che sarà altra (non potrà che essere altra, tanto più in tempi di rapide trasformazioni della realtà materiale) nel momento nel quale diverrà necessario “amministrarla” (adottare la decisione pratica o giudiziaria richiesta dalle circostanze). Insomma: per essere “amministrata” (applicata) una “regola” deve essere “letta” (interpretata nel suo significato normativo) e “adattata” alla realtà che ne reclama applicazione (anche qui in forza di una “lettura”). Due operazioni (interpretazione della “regola” e del “fatto”) che non possono che essere dell’interprete. Dunque di chi applica. La legge non vive del suo “dettato”, ma dell’ “interpretazione” che ne viene data. Il diritto (la normazione/disciplina che dalla legge si ricava) non è dunque ciò che ha voluto il “legislatore”, ma è ciò che (nei fatti) ne ritiene il suo “amministratore”: funzionario/giudice.

Averlo dimenticato ha dato occasione ad una gravissima incoerenza di sistema. Che ha determinato, alla lunga, le tensioni che viviamo.

Il potere “politico” (governativo-parlamentare) esaspera le sue “grida” (ne moltiplica il numero, ne estende nel massimo il dettato), nella speranza di stringere l’amministratore in binari rigorosi. L’amministratore (il giudice in particolare: aspetto di macro-evidenza della questione) guarda con i suoi occhiali alla realtà ed attribuisce alla “regola” (ormai persino quanto alla sua “esistenza” in ambiti un tempo ritenuti assolutamente e intransigentemente sottratti alla “interpretazione”: vedi il cd. “concorso esterno”) un significato che non ha altro riferimento che se stesso (ovviamente come “corpus”, non a caso “gerarchizzato”, e poi anche “organizzato” per indirizzi ideologici: vedi gestione delle carriere ad opera del consiglio superiore della magistratura).

Nella costruzione “rivoluzionario/illuministica” della “legge/veicolo unico della normazione” (illusoriamente adottata per contrastare – non va certo disconosciuto – secoli di pratiche illiberali e partigiane di interpretazione) si è consumato l’abbaglio di fondo. Che ha assunto come possibile una “vigenza” della legge in sé, indipendente dalla sua “attuazione” (amministrativa/giudiziaria). E dunque come sufficiente un’esposizione a controllo “politico” della sola funzione legislativa.

Senza dire della illusione (“complementare”) che vi potesse essere un “bilanciamento” (tra le due funzioni) determinato da spinte e controspinte (check and balance). La spinta che determina reazione è quella macroscopica (le leggi ad personam, il predicato uso alternativo del diritto di una certa stagione). Non anche quella quotidiana e strisciante, ben più stravolgente ed incisiva (come l’azione giurisdizionale che si traduce in normazione “sostitutiva”/”integrativa” di quella “legislativa”). Qualcuno ritiene reversibile a quella voluta dalle “forme” la costituzione “materiale” invalsa o cancellabile dall’ordine giuridico vigente un qualunque orientamento “suppletivo/correttivo” della legislazione adottato in sede giurisdizionale?

 

  1. Il problema non riguarda solo la relazione tra “legislazione” (attribuzione del parlamento) e “amministrazione giudiziaria” di essa (attribuzione del corpo giudiziario). Riguarda anche (e prima ancora) la libertà stessa di esercizio parlamentare della funzione legislativa.

Per effetto dei meccanismi adottati (controllo di costituzionalità delle leggi ad opera di una apposita “corte”), l’esercizio della sovranità disegnato – in materia di legislazione – ha dovuto scontare non solo la “correzione strisciante” (in sede di attuazione giudiziaria delle leggi) ad opera di un corpo giudiziario (che avrebbe dovuto esservi solo “soggetto”), ma anche i limiti (ai quali si sono sommati nel tempo quelli derivanti da vincoli internazionali di ancora più complessa decifrazione di compatibilità con la “sovranità” collettiva come affermata nella carta) derivanti da giurisdizioni sovranazionali.

Le tensioni esplose sono sotto gli occhi di tutti.

Non affronto il problema delle giurisdizioni esterne e mi limito al problema del giudizio di costituzionalità.

Ognuno comprende bene come già l’adozione stessa di una costituzione scritta “rigida” sia causa di ovvie questioni da fronteggiare. Essa non può reggere all’impatto con le trasformazioni della realtà. Lo dimostra all’evidenza, d’altra parte, il prevalere nei fatti su di essa (ormai da tutti accettato) della cd. costituzione “materiale”. Dunque della insuperabile esposizione di quella scritta ad una rivisitazione continua del significato dei suoi enunciati.

Se a ciò aggiungiamo il combinarsi di una tale visione di cose (costituzione scritta) con la esposizione della legislazione ordinaria ad un giudizio di conformità ai principi e ai valori della costituzione non possiamo sorprenderci dell’apertura di un problema ancora più grave.

Rimettere la “interpretazione” di “costituzionalità” di una “legge” ad una “corte” priva di un forte raccordo politico con la “sovranità collettiva” rischia di trasformare in legislatore “di fatto” un soggetto (la corte) che “di principio” non si vorrebbe lo fosse (essendosi appunto la legislazione immaginata piuttosto, nel disegno di “esercizio” della sovranità adottato, come prerogativa esclusiva di organismi elettivi a ciò esplicitamente delegati). Nel legiferare il parlamento ha di certo “interpretato” esso stesso la costituzione. Ma la “lettura” che ne ha fatto non è quella che – secondo un diverso, altrettanto soggettivo, punto di vista – ne doveva fare. Con una differenza: che il parlamento è la sede delegata dichiarata (art. 1.2) di esercizio della “sovranità” legislativa e la corte è un organo che, almeno dichiaratamente, non ne ha avuto alcuna (e tantomeno prevalente).

Nessuno nega che senza un qualche meccanismo di controllo del suo permanente rispetto (da parte del soggetto legiferante) sarebbe privo di senso darsi una “costituzione”.

Ma non può non osservarsi come il meccanismo di controllo adottato (avendo manifesto contenuto “politico”) avrebbe dovuto preservare almeno la possibilità che l’esercizio di tale controllo avvenisse attraverso modalità che non spostassero (senza dichiararlo e senza preoccuparsi comunque di un qualche coordinamento) la titolarità della funzione. Non si può, da un lato, dichiarare – ed enfatizzare (coro unanime della classe politica di ogni tempo e colore) – che titolarità ed esercizio della sovranità sono del popolo (come rappresentato) e, nello stesso tempo, porre le premesse perché nei fatti l’elemento fondante dell’ordine sociale (la normazione concretamente vivente) sfuggisse ad ogni controllo sociale.

La incoerenza del sistema adottato è assolutamente palese.

Da un lato, si è affidata la normazione (ritenuta coincidente con la legislazione astratta) ad un organo (il parlamento), al quale è espressamente (ed esclusivamente) delegato (attraverso procedure collettive controllate di formazione dello stesso) l’esercizio della sovranità. E del quale, inoltre, si è, altrettanto espressamente, prevista la periodica verifica collettiva della corrispondenza del suo operato alla volontà popolare. Dall’altro, si è voluto però, nello stesso tempo (nell’ambito cioè dell’architettura costituzionale adottata), prevedere che la “effettività” (la concreta “vigenza”) della legislazione votata dipendesse dal giudizio di un organo (la corte costituzionale), privo di un (almeno paritario) fattuale raccordo con la sovranità popolare.

È veramente difficile contestare l’impressione che – quanto alla funzione legislativa – l’esercizio di questa sia passato nei fatti (per la pervasiva influenza dell’orientamento della corte in ordine al “significato costituzionale” delle leggi) in capo ad un organo al quale invece – esplicitamente – esso si nega (e del quale, in coerenza con tale astratta negazione, sono state regolate perciò composizione e legittimazione). E non può perciò meravigliare se – nella considerazione comune – il “giudizio di costituzionalità” (a misura in cui si è diffuso ed intensificato nei contenuti) abbia finito (come da qualche decennio ormai si constata) con l’essere percepito come l’espressione non solo fattuale, ma anche usurpata, della sovranità politica.

Che il problema abbia assunto in Italia proporzioni più gravi che altrove è, d’altronde, sicuro.

Negli altri paesi a costituzione scritta, la situazione (anche limitando lo sguardo solo a quelli di maggiore rilievo politico) è non solo molto varia, ma sempre anche molto diversa dalla nostra.

Negli USA è vigente un giudizio “diffuso” di costituzionalità (contenuto, ai fini della uniformità delle valutazioni, dal ruolo che – in un sistema di vincolo giurisdizionale al “precedente”, secondo la gerarchia fissatane – assume il giudizio della Corte Suprema). In Francia ne vige uno invece “preventivo”. In molti se ne adotta uno “accentrato” e “successivo” come (in via quasi esclusiva) accade in Italia. Ma dove questo accade (Austria, Germania, Spagna ad esempio) la relativa disciplina non coincide con quella italiana. A parte il problema delle modalità introduttive (da noi incidentali: subordinate dunque ad un giudizio sommario di ammissibilità da parte del giudice ordinario), vi è comunque, dal punto di vista che stiamo considerando, una differenza molto significativa quanto alla ben più accentuata legittimazione “politica” dei giudici costituzionali che in tali diversi ordinamenti si osserva. Per restare ai casi evocati: in Austria – la patria del modello – i giudici sono solo di indicazione governativa e parlamentare; in Germania, è lo stesso (sono tutti di indicazione parlamentare, secondo un bilanciamento che tiene conto anche della struttura federale dell’ordinamento). Nella stessa Spagna – nella quale il modello è più vicino al nostro – i   giudici sottratti alla indicazione “politica” (parlamentare/governativa) lo sono nella misura di un sesto (i 2 indicati dalla magistratura, sui 12 totali), in Italia in quella di un terzo (5 su 15), che diviene addirittura dei due terzi (se si tiene conto che anche quelli di nomina presidenziale non possono ritenersi di espressione governativo/parlamentare).

Ognuno comprende bene le profonde differenze concrete che ne conseguono.

Nei sistemi di controllo “diffuso” – si induce un percorso di mediazione continua e si attenua perciò il rischio di un’eccessiva unilateralità di orientamenti.

In quelli di controllo “concentrato” (preventivo o successivo) tutto si lega alla composizione delle corti. Se interamente “governativo/parlamentare”, si favorisce ovviamente una più immediata possibile identificazione della responsabilità “politica” degli indirizzi adottati di quella che può farsene invece quando le corti siano costituite (come in Italia) secondo logiche che ne accentuano invece l’indipendenza (e quindi una più facile sottrazione agli indirizzi assunti dagli organi ai quali spetta l’esercizio della sovranità politica).

 

  1. Una sola semplice conclusione: l’ordine politico contemporaneo non recupererà certo efficienza solo perché avrà risolto uno (per quanto centrale) dei suoi problemi. Ma di quelli le cui ragioni sono chiare esso deve cominciare con urgenza ad occuparsi. Ignorare le evidenze non aiuta, come non aiuta di certo non vedere le debolezze del sistema adottato e l’urgenza di aprire una seria approfondita riflessione sulle possibili vie di uscita. Né facili. Né prossime. Ma indispensabili.

 

M. Barcellona, Dove va la democrazia, Castelvecchi 2018

Mario Barcellona

Dove va la democrazia?

Castelvecchi, Roma 2018, pp. 87, € 15,00.

 

 

 

 

Il breve saggio, che con questo titolo, sarà a breve pubblicato da Castelvecchi, tratta della crisi della democrazia.

L’idea da cui muove è che all’origine di questa crisi stia uno scontro, che è insorto circa cinquant’anni fa soprattutto sul terreno del rapporto tra politica ed economia e che ha radicalmente ridisegnato la stratificazione sociale e gli immaginari individuali e collettivi. Per questo ne tratta a partire dal celebre Report su “La crisi della democrazia”, redatto a metà degli anni ’70 del secolo scorso da M.J. Crozier, S. Huntington e J. Watanuki: la crisi in esso diagnosticata suggeriva la destrutturazione delle società del Welfare ed è da questa destrutturazione che nasce, appunto, la crisi di oggi.

La Postdemocrazia di C. Crouch, la Controdemocrazia di P. Rosanvallon e la Democrazia deliberativa degli allievi di J. Habermas suggeriscono che la democrazia possa essere salvata dall’esterno delle istituzioni rappresentative, attraverso un demos che si organizzi fuori da quelle forme e da quei partiti che fino a qualche tempo fa le avevano vivificate.

La tesi di questo saggio è che, invece, non ci sia un “esterno”, un “fuori” intrinsecamente diverso dalle istituzioni della democrazia che, di per sé, sia in grado di salvarla. Perché la sua crisi comincia proprio da questo “esterno”: essa viene da una mutazione antropologica, che investe i pensieri e le prassi, che ridetermina la cifra quasi prepolitica delle relazioni sociali, che alle molteplici solidarietà della società di un tempo sostituisce una universale singolarizzazione, una individualizzazione di massa, che produce in ciascuno una percezione di sé astratta dalle proprie condizioni, materiali e spirituali, di esistenza e lo rende “impolitico” e, perciò, “irrappresentabile”.

Come si è osservato in una precedente riflessione (Tra Impero e Popolo. Lo Stato morente e la sinistra perduta, Castelvecchi, 2017) di cui qui è sembrato giovasse ricordare alcuni passaggi, la progressiva estinzione delle sovranità nazionali e la robottizzazione e informatizzazione dell’economia hanno stravolto i rapporti di lavoro e con essi gli assetti generali delle società: la stratificazione sociale ha preso la forma di una clessidra, ove la parte superiore è occupata dalle élite, dalle loro corti e dai minores che esse garantiscono ed in quella inferiore trova posto tutto il resto, l’insieme molteplice dei non protetti.

A questa modificazione dei rapporti sociali e politici si è, però, accompagnata una ancor più radicale modificazione del modo in cui gli uomini intendono sé stessi ed i rapporti tra loro: un orizzonte, ove a ognuno è dato di salvarsi da solo. Di questa modificazione, che prende forma nell’ascensa dell’ordo˗liberalismo a “pensiero unico” e che consiste in una universale singolarizzazione delle società, è figlia la “morte della politica” e sono nipoti i populismi di oggi. Essa consiste in una universale astrazione dalle condizioni di esistenza di ogni individuo e procura che il disagio di una tal “società liquida” sia esternalizzato: la singolarizzazione rende latente il conflitto e, senza conflitto, c’è solo l’indistinto del popolo, che cerca le ragioni del suo malessere in un altro da sé e riesce a vederlo solo nell’indistinto di una superfetazione parassitaria del potere o del diverso che viene da fuori. Ma le è anche parente quel che ai populismi si contrappone e che però, seppur con ben altri fini, ne ripete il paradigma, solo svestendolo dal disagio e dal risentimento: la predicazione che la distinzione tra destra e sinistra, ossia la disputa sull’ordine ed il governo sociale, è del tempo che fu.

È, per l’appunto, questa modificazione dell’immaginario che fa di questa società una società impolitica e irrappresentabile.

Le origini della politica moderna e i mutamenti cui la rappresentanza è andata incontro dal tempo dell’ideazione dello Stato moderno giovano a comprendere meglio questo passaggio cruciale.Nel grande artificio secondo il quale è stata pensata l’origine dello Stato moderno, il patto sociale esibiva una fondazione politica, che, però, dava vita ad un ordine al cui funzionamento la politica rimaneva del tutto estranea. E postulava un popolo concepito come dispera multitudo, che ha voce solo una volta e solo nella finzione della sua stipula. L’ordine, perciò, stava fuori dallo Stato, nel particolare delle relazioni private, e lo Stato metteva in scena solo l’interesse suo proprio, l’interesse generale. Questo Stato, dunque, non conosceva la politica come disputa sull’ordine e non conosceva la rappresentanza se non come rappresentazione dell’artificiale unità della moltitudine.

Politica e rappresentanza entrano nel mondo solo quando la liquidità della dispersa moltitudine hobbesiana prende a solidificarsi e quando la società dei liberi e uguali proprietari di J. Locke prende a divedersi tra proprietari e non proprietari.       Il loro presupposto è, dunque, la distinzione, ossia l’oltrepassamento della doppia astrazione su cui si è inaugurata la modernità, quella del popolo (che metteva in scena l’unità artificiale di un’indistinta moltitudine) e quella dell’eguale soggetto proprietario (che consegnava il retro-scena della ribalta pubblica all’incommensurabile singolarità dei portatori di diritti e dei loro interessi particolari).

Politica e rappresentanza, dunque, prendono la scena della Modernità solo quando il suo immaginario originario viene rimosso, solo quando il posto della dispersa moltitudine di un tempo è preso da solidificazioni, appartenenze organizzate, che pongono le condizioni imprescindibili della politica e della democrazia rappresentativa. La crisi di oggi nasce, così, da una sorta di ritorno di quell’immaginario originario: il popolo si ripresenta di nuovo come moltitudine degli individui irrelati e le solidificazioni della politica si dissolvono nella società liquida della universale singolarizzazione.

Nel domani di una tale società singolarizzata non ci può essere, allora, che una democrazia singolare. Una democrazia che, sul versante della politica, produce disincanto e rancore per fronteggiare i quali può solo consegnarsi a crescenti divaricazioni tra governo e società. E che, coniugandosi con la rivoluzione economica della tecno˗scienza, produce già, e sempre più produrrà, una società divisa, dove la nuova moltitudine degli esclusi rischia di essere confinata in una nuova riserva sussidiata proprio perché non aspiri più a lavorare.

Robot e intelligenza artificiale – si osservava nel saggio che si è prima ricordato – sembra promettano di distruggere più lavoro di quello che la crescita da essi promossa produce. Si riprospetta così, in una forma inedita, un’antica contraddizione: l’iperbolica crescita della produttività espande incessantemente le capacità di produrre merci, ma riduce incessantemente le basi salariali del loro consumo.

Probabilmente il capitalismo troverà il modo di sottrarsi ad un esito infausto del suo rinnovato matrimonio con la tecno˗scienza. Ma le conseguenze per la società si intravedono già: precarizzazione e, poi, inoccupazione, insicurezza e solitudine, e una democrazia singolare che conta sempre più sull’indifferenza e l’astensione. Lo scenario che preannunciano è quello di una società spaccata in un nucleo operoso, in grado di accedere ai consumi della produzione tecnologica, ed una grande riserva, ove il “resto” è confinato proprio per non lavorare e sono somministrate assistenza e rassegnazione.

Solo un nuovo immaginario, che riprenda a distinguere e ad aggregare, seppur nel modo necessariamente diverso che a questo tempo è proprio, potrebbe, dunque, inaugurare un ritorno della politica e il ridispiegamento di una democrazia che ridia corpo alla rappresentanza.

Se si vuole sottrarre la democrazia al destino singolare che l’oggi promette, occorre, perciò, chiedersi se e immaginare come la società possa tornare a pensarsi politicamente e ad organizzare in conseguenza la propria rappresentanza, e dunque come si retrocede o si oltrepassa l’universale singolarizzazione, dalla quale dipende, e nella quale propriamente consiste, la sua crisi.

Concepire un altro immaginario e un’altra democrazia, restituita alla politica ed alla rappresentanza, potrebbe sembrare utopico: non c’è più lo Stato su cui politica e rappresentanza erano cresciute, non ci sono più i confini a riparo dei quali esso aveva preso forma e si erano resi pensabili progetti di società, un’universale contingenza sembra la sola cifra secondo la quale il mondo di oggi si lascia trattare. Ma pensare che non si possa ormai che registrare tutto questo vorrebbe dire che le società hanno cessato di auto-istituirsi, che l’immaginazione che ne ha segnato i tempi si è ormai spenta, che la fonte delle sue significazioni si è definitivamente inaridita, che il logos della tecno-scienza sposata col mercato e la sua economia l’abbia irrevocabilmente prosciugata. E questo, forse, non è ancora detto.

Su questo, che è il vero spazio della politica e della democrazia, l’unico, occorrerebbe, allora, iniziare a riflettere.

 

La politica fuori dal corpo del sovrano

Nell’intervento “La politica al tempo dei robot. Ovvero si dà ancora un principio speranza?”, Bruno Montanari traccia un quadro impietoso delle trasformazioni intervenute nella postmodernità, con l’esplosione della comunicazione digitale, che oggi si traduce anche in una delle frontiere più avanzate dell’economia.

L’accento di Montanari era sulla cosiddetta “novazione antropologica”, generalmente elusa dalle riflessioni nell’ambito sulla fenomenologia del lavoro. In generale, sintetizzando in maniera forzosa, egli denunciava uno scadimento del pensiero entro “l’immediatezza dell’attrazione e della reazione emotivo-operazionale”. In questo quadro, viene meno non solo la dimensione collettiva su cui avevano poggiato le grandi soggettività “politiche” moderne, ma anche il “futuro” come orizzonte progettuale consegnatoci dal “passato”. Resta il “puro e secco immediato”, scandito dalla temporalità delle tecnologie.

Ora, certamente le questioni poste da Montanari presentano un’assoluta urgenza, e meritano di essere approfondite. Vorrei qui, però, portare soltanto alcuni elementi di riflessione, al fine di allargare l’orizzonte della discussione.

Innanzitutto credo sia necessario cogliere l’eterogeneità che caratterizza le forme di relazione e di produzione nel mondo digitale. Se spazi sempre più ampi sono occupati da comunità “create” dai privati, veicolando i canali di relazione in direzione dell’immediatezza, della neutralità e dell’impersonalità, è anche vero che sempre più frequenti sono le esperienze in cui sono i soggetti a rivestire un ruolo “creativo” e propulsivo.

Le esperienze di innovazione sociale che abitano il mondo vario e frastagliato dell’economia digitale nascono spesso dalla risposta di soggetti in carne e ossa a bisogni sociali eccedenti, nell’ambito di una crisi strutturale dei modelli di protezione sociale novecenteschi. Pur sviluppando forme di solidarietà e di cooperazione inedite, tali esperienze prendono forma entro piattaforme di proprietà di grosse corporation orientate alla massimizzazione del profitto. In questo quadro, la necessità di sopravvivere non può che spingere i soggetti in questione verso la concorrenza e l’autosfruttamento.

In questo quadro, c’è forse da pensare a come la politica possa dare spazio alla capacità trasformativa dei soggetti, sfuggendo a quel modello piramidale, ereditato dal sovranismo moderno, che concepiva il motore della politica nella testa del sovrano, capace di trasformare la moltitudine in popolo.

La liberazione, allora, non può che chiamare in causa i soggetti in carne e ossa, al di là di qualsiasi visione a priori della società. Qui è necessario non rinunciare al metodo dialettico, che ci insegna ad assumere la costitutiva apertura dialettica dell’uomo al mondo e agli altri, che lo espone alla storicità dell’orizzonte di senso in cui nasce e si forma. In questo quadro, anche il potere ha carattere relazionale, ed è possibile opporglisi solo decidendosi contro di esso, guadagnando spazi di decisione, senza rifugiarsi nella nostalgia per “natura umana” immune alla storia o per una qualche essenza al di fuori del potere stesso. Ma è un affare che investe la capacità di auto-determinazione dei soggetti, che è un rapporto in divenire, mai chiuso una volta per tutte.

È questo, forse, l’orizzonte per un nuovo umanesimo, che ci sfida a pensare la possibilità di una politica plurale, dal basso, al di là del corpo del Leviatano.

Giacomo Pisani

Il secolarismo arabo come forma dell’islamismo politico

L’Islam dei giorni nostri, in particolare le teorie pubbliche della comunità politica fondate sulla precettistica religiosa, utilizza ancora la giustificazione teocratica offerta dalla fede per legittimare la propria azione. Paradossalmente, argomentazioni religiose adottano i giuristi tunisini che difendono il divieto della poligamia e argomentazioni religiose sfoderano gli opinionisti turchi che invitano Erdogan a riconsiderare la punibilità dell’adulterio femminile. È ancora più stucchevole che l’osservatore esterno, soprattutto se di cultura laico-occidentale o se di ascendenza islamica ma da tempo incardinato nelle culture e nelle accademie occidentali, entri nel dibattito pretendendo di spiegare ai musulmani come si debba essere musulmani, ai leader religiosi come si debba attuare la religiosità nelle relazioni sociali.

Conflitto di interessi e Stato di diritto

Perché mettere in relazione “conflitto d’interessi” e “Stato di diritto”? Per la ragione che il conflitto di interessi non riguarda solo Berlusconi e simili. E’ una situazione a più ampio spettro. Essa non si realizza solo nella mescolanza di interessi economici privati e funzione politica (caso emblematico Berlusconi, appunto), ma prende corpo ogni qual volta un soggetto, portatore di uno specifico interesse privato (non solo economico, ma semplicemente “di parte”, cioè “parziale”), occupando, allo stesso tempo, una posizione pubblica, che gli conferisce un potere tale da incidere sugli interessi generali della collettività, opera in modo da subordinare quest’ultimo (l’interesse generale) al soddisfacimento del primo (l’interesse di parte).

Si inverte, così, il fine dello Stato diritto: non è più il diritto, nella sua articolazione base, sfera pubblica – sfera privata, a controllare il potere, ma è quest’ultimo, il potere, costituito dalla mescolanza di interessi privati e funzione pubblica, a controllare lo Stato.

Oggi siamo esattamente in questa situazione. Per capirla, muovo da una riflessione sul presente che mi porta a svolgere una premessa di ordine generale.

“Stato di Diritto” è divenuta una formula vuota, sia per la gente comune che per il personale politico ed anche giornalistico (largamente inteso). Per la prima, la gente comune, più che vuota quella formula è del tutto priva di significato, essendo venuta meno qualsiasi idea di “diritto” e, ancora di più, di “ordinamento”. Inoltre, con l’incombente presenza dell’Europa, è evaporata anche la figura dello Stato. Per la gente comune il diritto coincide con i giudici, con la galera, con le tasse, e così via; con quelle realtà, insomma, che sperimenta quotidianamente sulla propria pelle. In più, la pervasività dei social ha fatto perdere, nella mentalità comune, la distinzione tra sfera personale, e dunque “privata”, e sfera sociale, e dunque “pubblica”.

A sua volta, l’ambiente della comunicazione giornalistica, che, per mestiere, è avvezzo ad usare l’espressione “Stato di diritto”, vi fa riferimento in modo spesso generico. Più come evocazione di una formula taumaturgica, tra il rito e la protesta, che non, invece, per sottolinearne quei profili specifici che costituiscono, per il cittadino, la garanzia della correttezza ordinamentale dei comportamenti posti in essere da chi detiene il potere politico.

Profili, che oggi vengono trascurati, in omaggio ad un primato della efficacia materiale dei comportamenti e delle azioni, al posto della loro qualificazione giuridica. Essi sono: la distinzione, già sottolineata, tra sfera degli interessi privati e sfera degli interessi pubblici o generali (l’antico “bene comune”), dalla quale deriva la specifica legittimazione soggettiva degli operatori politici che è diversa, in quanto pubblica, rispetto a quella dei “portatori di interessi”, che sono semplici cittadini privati.

Vengo ora alla questione del “conflitto di interessi”.

L’idea di “Stato di diritto” e la funzione storica che ha esercitato, sono state quelle di trasformare una affermazione di fatto di un potere personale in una funzione impersonale di governo della cosa pubblica. Tale trasformazione è stata affidata alla oggettività e tipicità propria delle regole del diritto, le quali sono state pensate come capaci di controllare, in funzione del perseguimento dell’interesse generale, l’esercizio del potere da parte di chi lo aveva conquistato e di stabilire in base a quali regole potesse legittimamente esercitare tale potere (la “legittimazione soggettiva”, appunto). Se le cose stanno così, allora si comprende perché la legittimazione dei soggetti e la connessa distinzione tra sfera privata e sfera pubblica sia decisiva.

Da questa premessa di ordine storico, ma del tutto vigente ancora oggi, ne discende che l’attuale governo della Repubblica, contiene un “conflitto di interessi”, pervasivo almeno su due piani.

In primo luogo, il “contratto” che è alla base della costituzione dell’accordo di governo; in secondo luogo, la conseguente indicazione del Presidente del Consiglio. Il punto è che tale conseguenzialità riveste una precisa valenza giuridica, assolutamente non secondaria e dunque non trascurabile.

Andiamo per ordine: la fonte contrattuale dell’accordo di governo. Qui il conflitto di interessi è il seguente: un “contratto”, essendo un atto di diritto privato concluso da soggetti di diritto privato, come in realtà sono Salvini e Di Maio, e le rispettive entità che rappresentano, è efficace solo per i contraenti mentre, in virtù del ruolo istituzionale, cioè “pubblico” che i due soggetti incarnano, quel contratto acquista efficacia erga omnes, come accadeva per il vecchio contratto collettivo concluso dalle organizzazioni sindacali negli anni ’70 e seguenti. Con una differenza che considero decisiva: che, per giustificare giuridicamente l’efficacia erga omnes di quel contratto, si sono affaticate schiere di illustri giuristi, da Costantino Mortati a Francesco Santoro Passarelli, da Gino Giugni a Federico Mancini. Oggi, invece, nessuno se ne è fatto carico, tanto è venuta meno la distinzione tra sfera privata e sfera pubblica e la connessa distinzione di efficacia dipendente delle rispettive “fonti”: privata, il “contratto”; pubblica, le procedure costituzionali. La conferma di questa confusione è dimostrata dalla mescolanza tra interessi di parte e interesse generale che emerge dall’attività giornaliera dei due massimi sottoscrittori del contratto: Di Maio e Salvini, appunto, entrambi Vice Presidenti del Consiglio e anche Ministri della Repubblica. Prova ne sia la recente assenza del Ministro dell’Interno ad una riunione europea, di sua specifica competenza istituzionale, per privilegiare un impegno elettorale del suo partito; subordinando così l’interesse generale ad un interesse “di parte”. Non a caso, la comunicazione mediatica continua a dire che entrambi continuano a fare campagna elettorale; senza però mettere in luce che proprio qui sta il conflitto di interessi.

Secondo punto: la figura del Presidente del Consiglio. Se alla sua origine vi è una fonte contrattuale, anche la sua legittimazione è contrattuale, quindi “privata”; tale figura, allora, si presenta piuttosto come quella di un mero mandatario della volontà dei contraenti. E non è senza significato “materiale” che essi sono anche vice-presidenti del consiglio, quasi stabilire di fatto un sostanziale rapporto di mandato rappresentativo conferito al Presidente.

Mi si può obiettare che, in passato, sia Berlusconi, sia Renzi abbiano ricoperto ad un tempo la funzione pubblica di Presidente del Consiglio e quella privata di segretario del partito; è vero, e questa è stata una stortura del sistema elettorale, al quale si è voluto dare una inclinazione maggioritaria senza intervenire in modo esplicito e lineare sull’intero sistema, che avrebbe richiesto anche una coerente modifica costituzionale. Vi è però una differenza: che nell’attribuire l’incarico di formare il governo non vi fu alcuna forzatura della procedura; in altre parole, cioè, non vi fu alcun “contratto” originario. La procedura costituzionale, infatti, che fa capo all’iniziativa esclusiva del Presidente della Repubblica, sta a significare che la formazione del governo si pone al di sopra dell’interesse di parte, rappresentato dai singoli partiti. Così formato, il Governo si rivolgerà al Parlamento per ottenere la fiducia, che non proviene dai partiti, ma dei “gruppi parlamentari”. Non bisogna dimenticare che il Governo è un organo “esecutivo” e che la sovranità appartiene al Parlamento, che è formato non dai partiti ma dai “gruppi parlamentari”. E’ proprio in questa separazione tra il privato dei partiti ed il pubblico dei “gruppi parlamentari” che l’interesse generale trova affermazione prevalente sull’interesse particolare dei soggetti politici che formano il Governo.

In definitiva, la vicenda attraverso la quale è emerso il presente governo è costituzionalmente inedita. Essa dà luogo ad un conflitto di interessi, tra portatori di un interesse privato e ruolo pubblico – istituzionale connesso, formalizzato in un “contratto” con efficacia erga omnes, che, essendo di mero fatto, priva quei soggetti della necessaria legittimazione soggettiva.

Credo che questo costituisca il vero vulnus inferto alla Costituzione, perché potrebbe diventare una prassi tanto strisciante quanto inconsapevole, attraverso la quale i detentori di un potere di fatto possano infischiarsene delle procedure costituzionali e convertire un consenso parziale in una sorta di “volontà generale”.

Bruno Montanari