L’Introduzione alla Dottrina della scienza 1813: la formazione al senso per la filosofia

1. Nel suo concreto svolgimento la fichtiana Dottrina della scienza si presenta non solo come un sistema compiuto di filosofia trascendentale, ma anche, e insieme, come il risultato, mai definitivamente fissato, di una ininterrotta attività del pensare, che non si appaga mai dei risultati conseguiti, riflette su nuove questioni, dischiude punti di vista originali, apre nuovi campi di indagine. Le diverse esposizioni della Dottrina della scienza, i manoscritti di “meditazioni personali” (eigene Meditationen) su di essa, che Fichte compose durante il corso della sua vita e che sono stati resi accessibili dalla Edizione storico-critica (Gesamtausgabe [GA]) – come per esempio i Diari degli anni 1813 e 1814 – offrono una chiara testimonianza di questo tratto fondamentale della Dottrina della scienza, compresa e realizzata non solo come dottrina (teoria), ma come attività del pensare. In quanto compenetrazione autocritica del sapere, sapere del sapere, la Dottrina della scienza viene sviluppata attraverso una specifica “praxis” della riflessione (Besinnung) e dell’auto-riflessione (Selbstbesinnung), che devono venire consapevolmente esercitate dal filosofo nella sua ricerca e nel suo insegnamento onde pervenire al contenuto sistematico, all’esposizione stessa del sapere trascendentale. Pertanto la Dottrina della Scienza è insieme sistema e prassi del pensare  ovvero prasseologia (Praxeologik), in cui questa si evidenzia come la premessa dinamica e, allo stesso tempo, come il necessario presupposto del venire in essere del primo elemento, cioè del sistema.

Tale dimensione prasseologica della costruzione della Dottrina della scienza – che per Fichte significa: della filosofia stessa – deve essere esplicitamente presa in considerazione dal filosofo trascendentale, riflettuta criticamente e posta metodicamente in gioco. Che la Dottrina della scienza sia non soltanto teoria della ragione, ma insieme e allo stesso tempo anche prassi della ragione stessa, anzi prassi riflessiva della ragione, riguarda non soltanto la mediazione di un contenuto dottrinale già pronto e costituito, ma anche e soprattutto la costruzione, la costituzione stessa del sistema trascendentale. Quest’ultimo non è infatti una morta impalcatura di concetti fissi, ma un organismo vivente di pensieri creativi, che poggiano sull’intuizione intellettuale ovvero sull’auto-intuirsi (Sich-Anschauen) (o intra-intuirsi [Sich-Einschauen]) dell’intelligenza e che restituiscono la stessa immanente sistematicità dello spirito umano. Il “sistema del figurare” (Bilden) (per riprendere una definizione di Reinhard Lauth) deve essere configurato ed elaborato sempre di nuovo nella vivente attuazione del pensare, ovvero nel figurare (Bilden) stesso[ref] Cfr. Reinhard Lauth, Con Fichte, oltre Fichte, a cura di Marco Ivaldo, Trauben, Torino 2004.[/ref].

2. In diversi luoghi  Fichte porta ad espressione tale caratteristica della Dottrina della scienza usando un termine preciso: arte [Kunst]. Nella Esposizione della Dottrina della scienza 1801-2 ad esempio, egli fa notare che, per praticare la filosofia in quanto Dottrina della scienza, è necessaria “un’arte della riflessione (Besinnung) esercitata fino alla libertà assoluta” (GA II/6, 133). Anche all’inizio della Dottrina della scienza di Königsberg 1807 la Dottrina della Scienza viene caratterizzata come “arte del vedere” (GA II/10, 113). Arte della riflessione, arte del vedere: secondo Fichte la Dottrina della scienza è un esercizio (ovvero una pratica) della riflessione o del  vedere – questo termine (Sehen) esprime per Fichte l’essenza stessa del sapere -, che deve risultare sì dall’osservanza di determinate regole, ma sempre comunque in un libero atto del pensiero. Di qui la parola-guida: arte. Un mero seguire la regola senza la vivente attuazione della libertà non è in nessun modo sufficiente a realizzare la Dottrina della scienza come arte del vedere o del riflettere. Già nelle lezioni Sulla differenza tra la lettera e lo spirito in filosofia del 1794 Fichte aveva chiarito che il fatto di accontentarsi, nel filosofare, dell’applicazione di regole conosciute, non avrebbe prodotto altro che una “pura filosofia per formule (Formular Philosophie)” (GA II/3, 330), forse anche totalmente corretta dal profilo formale, ma mai in grado di corrispondere al vero compito della filosofia in quanto esposizione del vivente sistema dello spirito umano. Per un filosofare vivente e non semplicemente formale – si potrebbe dire – occorre una immaginazione ‘speculativa’, che Fichte in queste lezioni chiama “spirito” (Geist): non c’è Dottrina della scienza senza spirito!

3. Ora, era fondamentale convinzione di Fichte, della cui verità e validità egli è divenuto consapevole con crescente intensità, che la costruzione della Dottrina della scienza come arte del riflettere o del vedere presuppone e richiede la formazione (Bildung) di uno specifico “organo” del riflettere e del vedere stessi. Proprio all’inizio della Dottrina della scienza 1807 Fichte afferma che, grazie all’introduzione nella Dottrina della scienza i suoi uditori “sarebbero diventati partecipi di un senso nuovo, al quale si sarebbe aperto un nuovo mondo” (GA II/10, 111). Un nuovo senso, un nuovo mondo: per poter essere compiutamente compresa e realizzata, l’arte della riflessione – la Dottrina della scienza – necèssita di un particolare senso o organo di senso, da curare e coltivare in quanto tale, e che soltanto può renderci accessibili gli oggetti propri della filosofia (qui designati come “nuovo mondo”)[ref] Cfr. Michael Gerten, Geistige Blindheit und der Sinn für Philosophie. Das systematische Problem einer Einleitung in Fichtes Wissenschaftslehre, in „Fichte-Studien“, 31 (2007), pp. 135-158. [/ref]. Poco prima, nell’anno 1805, nelle lezioni introduttive di Erlangen Institutiones Omnis Philosophiae, appare una formulazione che è significativa per il mio tema: “senso per la filosofia”. Fichte chiarisce che ambito della filosofia non sono gli “oggetti del senso esterno”, ma piuttosto quelli del “senso interno” oppure di “un nuovo senso interno”. Senza di esso ciò di cui la filosofia discorre rimarrebbe una “parola vuota, come il parlare sui colori da parte di un cieco”. Incontreremo ancora questa metafora di cecità e visione. Ora, in queste Institutiones il senso interno di cui si tratta viene designato anche come senso per la filosofia. Leggiamo: “il primo esito assolutamente necessario dell’esposizione filosofica consiste […] in ciò, che grazie alla sua sollecitazione si apra, si sviluppi e venga formato un senso per la filosofia che è specificatamente e toto genere diverso da tutti gli altri sensi e facoltà” (GA II/9, 36). Nessuna arte del riflettere allora senza senso per la filosofia.

4. Il crescente significato che Fichte sembra assegnare al risveglio e alla formazione del senso per la filosofia ha tuttavia anche un altro motivo, che non aveva a che fare tanto con l’interna costruzione del sistema, quanto con le “sorti” della ricezione della Dottrina della scienza – ovvero con la comprensione o con la (frequente) incomprensione della stessa presso il pubblico colto. Ancora nel 1801 Fichte aveva intrapreso il “tentativo” di “costringere i lettori a capire” – come recita il sottotitolo del Rapporto chiaro come il sole – mediante nuove spiegazioni. Egli però si sarebbe reso conto via via che l’eliminazione del fraintendimento del suo assunto fondamentale, e la corretta comprensione dello stesso, non potevano venire “costrette” semplicemente mediante ripetute illustrazioni del contenuto dottrinale, ma che esse richiedevano l’assunzione di una determinata disposizione (o orientamento) spirituale da parte dei lettori o degli ascoltatori. Tale disposizione non può essere indotta per via logica; essa infatti appartiene alle premesse del riflettere logico-trascendentale, il quale a sua volta può diventare cosciente del suo valore intrinseco in via riflessiva. Orbene, l’orientamento richiesto ha come presupposto la formazione (Bildung) del senso per la filosofia, e può venire in essere solo  grazie a quest’ultimo.

Fichte ha trattato ed approfondito questo motivo-chiave della formazione del senso per la filosofia in opere o lezioni che per lo più recano come titolo “introduzione” (Einführung o Einleitung), oppure vengono  designate come “prolegomeni” (Prolegomena) [ref] Cfr. Federico Ferraguto, Filosofare prima della filosofia. Il problema dell’introduzione alla dottrina della scienza di J. G. Fichte, Olms, Hildesheim 2010; Id., Orientarsi nel pensiero e avviamento alla filosofia, in “Il cannocchiale. Rivista di studi filosofici, XXXVIII, 1 (2013), pp. 133-148. [/ref]. Tali elaborazioni tuttavia non devono in nessun modo esser considerate come semplici avviamenti esteriori alla filosofia: esse sono già filosofia, ovvero sono parti integranti del concreto compimento della Dottrina della scienza, se questa deve essere intesa – come ho già sottolineato – non solo come l’esposizione di un contenuto dottrinale determinato, ma come attività della ragione in actu, sì, come “esercizio” del pensare.

5. Un esito maturo di queste riflessioni sulla formazione del senso filosofico è rappresentato dalle lezioni che Fichte tenne dal 4 novembre al 23 dicembre 1813 presso l’Università di Berlino come Introduzione alla Dottrina della Scienza [ref] Della Einleitung in die Wissenschaftslehre 1813 possiamo disporre del manoscritto, edito in J. G. Fichte-Gesamtausgabe der Bayerischen Akademie der Wissenschaften, a cura di R. Lauth, H. Jacob, H. Gliwitzki, E. Fuchs, P. K. Schneider, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt, II/16, pp. 225-314; e di una copia dalle lezioni (Nachschrift), custodita nella biblioteca di Halle, di estensore ignoto, ora pubblicata in GA, IV/6, pp. 351-472.  Esiste anche una Nachschrift dovuta a Jakob Ludwig Cauer, incompleta, passi della quale vengono addotti, dagli editori della GA, come varianti o integrazioni al testo della Nachschrift-Halle.  [/ref]. Nel seguito vorrei porre in risalto soltanto alcuni luoghi di queste lezioni che sono significativi per il mio tema. Esse iniziano con un giudizio molto critico e anzi distruttivo sulla ricezione di quella dottrina (trascendentale) che era stata avanzata prima dalle Critiche kantiane e poi dalla Dottrina della scienza. Tale dottrina (Lehre) “nei  tre decenni [trascorsi dalla prima edizione della Critica della ragione pura 1781] non sarebbe stata assolutamente compresa” (dal manoscritto di Fichte, GA II/17, 232). Fichte osserva che “comprensione, possesso, esercizio del principio fondamentale non hanno ancora avuto luogo” – laddove la non-comprensione del principio rappresenta per lui addirittura “un male minore” rispetto al fraintendimento dello stesso, perché la non-comprensione lascia ancora aperta, e possibile all’umanità, la “trasformazione” della maniera di pensare che è “da attendersi”, mentre il fraintendimento, soprattutto quando creda di aver capito (esattamente) e di aver superato la dottrina compresa, annienta la possibilità stessa di una (giusta) comprensione. Il fraintendimento ostinato, che si reputa superiore, è perciò quello che deve essere assolutamente evitato. Ora, per rettificare la non-comprensione ed eliminare il fraintendimento occorre per Fichte stabilire un punto, che non sembra essere stato del tutto chiaro nemmeno a Kant: “Questo insegnamento presuppone un organo sensoriale [Sinnenwerkzeug] del tutto nuovo, mediante il quale nascerà un mondo interamente nuovo, che per gli uomini ordinari non si dà affatto” (GA II 17, 234). Non si dà accesso alla filosofia trascendentale ed nessuna comprensione della stessa senza l’attività del relativo organo di senso, il quale soltanto è in grado di schiudere il “nuovo mondo” – cioè i veri oggetti della filosofia -, e che già nel 1805 Fichte aveva definito “senso per la filosofia”.

Ora, come risulta dai passi appena citati, il mondo spirituale dischiuso dal nuovo organo sensoriale è completamente sottratto alla percezione di coloro che Fichte definisce “uomini ordinari” (gewöhnliche Menschen): “Per gli uomini quali sono, a seguito della loro nascita, e quali divengono tramite l’educazione ordinaria, questa dottrina è del tutto incomprensibile” (ivi): Gli oggetti di cui parla la filosofia trascendentale non esistono per gli “uomini ordinari”, e ciò perché essi sono sprovvisti del necessario organo sensoriale. Qui riappare la metafora della cecità e della visione, che abbiamo già incontrato, una metafora che – come lo stesso Fichte osserva – risulta particolarmente idonea al tema in gioco, poiché il nuovo senso si rapporta al senso “ordinario” internamente allo stesso modo in cui il vedere e il toccare si rapportano esteriormente. L’“uomo ordinario” è simile al “cieco nato”. Chi volesse parlare con questo di fenomeni (come i colori) che non sono accessibili al toccare, non sarebbe in realtà in grado di parlargli affatto. Peggio ancora sarebbe se il cieco nato pretendesse di capire mediante il toccare quei fenomeni che sono inaccessibili al toccare e accessibili al solo vedere. Il risultato sarebbe o un non-capire, oppure un fraintendere o un equivocare. Proprio quest’ultimo è, secondo Fichte, il destino che è toccato alla Dottrina della scienza: d’esser fraintesa a causa della mancanza dell’organo sensoriale richiesto. Si capisce allora come Fichte sottolinei energicamente che la condizione primaria per rendere comprensibile la Dottrina della scienza è la formazione di un nuovo senso – dell’occhio spirituale – per il quale soltanto possono esistere gli oggetti propri della filosofia. Perciò la Dottrina della scienza – come del resto ogni teoria – è composizione e comprensione in unità di ciò che è dato e conosciuto mediante il senso (= la “percezione immediata”) – solo però non mediante il senso empirico (= ”ordinario”), bensì mediante il senso interno, e da sviluppare dal nuovo. Il nuovo senso è dunque presupposto, vivente premessa della realizzazione della Dottrina della scienza, ciò che per Fichte significa: dell’attuazione della riflessione e auto-riflessione filosofica condotta al suo compimento. Suona di notevole importanza per il mio assunto un’espressione di Fichte in questo contesto, ovvero che la Dottrina della scienza “non sarebbe soltanto dottrina, e nemmeno in primissimo luogo dottrina, ma una trasformazione (Umbildung) completa dell’uomo cui essa giunge. Una ri-creazione (Umschaffung) e rinnovazione (Erneuerung); un ampliamento (Erweiterung) di tutto il suo esserci, da una sfera limitata ad una più alta” (GA II/17, 235). La Dottrina della scienza è non solo dottrina, ma prassi del pensiero, e come tale, cioè in quanto esercizio del pensare, essa possiede una valenza esistenziale. Comporta una metamorfosi dell’uomo ordinario, sì, essa rappresenta per lui una specie di “rinascita” (GA II/17, 237). Ma la metamorfosi e la rinascita presuppongono per parte loro il risveglio e l’esercizio del nuovo senso.

6. Perché nuovo senso? A questa domanda Fichte conferisce, in queste lezioni, una doppia risposta. La prima prende in considerazione la costituzione stessa dello spirito umano; la seconda concerne lo sviluppo spirituale e culturale del genere umano. Riguardo al primo punto Fichte chiarisce che il senso nuovo non è “un senso particolare, partecipato solo a pochi eletti e particolarmente dotati spiritualmente” (GA II/17, 235). Non si danno individui che dispongono di questo senso e altri che ne sono sprovvisti. Una simile opinione sarebbe – come  Fichte si esprime –  “arrogante” e contraddirebbe la sua “intera visione”. Fichte non ha mai dismesso il suo originario umanismo fondato sulla dignità dell’uomo, cioè: fondato sulla dignità di ogni individuo. Ogni individuo ha in se stesso la facoltà di innalzarsi alla conoscenza razionale. Fichte parla in questo contesto di una “disposizione” (Anlage) al senso nuovo, o a un nuovo “percepire” (cfr. la Nachschrift-Halle, GA IV/6, 358 – “percepire” [Vernehmen] è parola apprezzata da Jacobi) – una disposizione che si dà senza eccezione in ogni individuo. Non è la disposizione per il senso spirituale ad essere nuova, perché essa è inseparabile dal nostro essere uomini. Il nuovo che deve venire a manifestazione è il suo “sviluppo” (Entwicklung) . La disposizione deve venire svolta, cioè posta in uso vivente per il percepire effettivo: “Soltanto l’uso reale del senso [interno] è nuovo” si afferma nella Nachschrift-Halle della Introduzione (GA IV/6, 359). Riprendendo la metafora della cecità e della visione: nessuno è, secondo Fichte, spiritualmente cieco per l’eternità. Il cosiddetto cieco spirituale non è privo dell’occhio spirituale e dell’interna forza visiva in quanto disposizione (Anlage); soltanto, quest’occhio è in lui sigillato da una “potenza estranea”, il cui influsso negativo può e deve venire rimosso. Anche se Fichte qui non chiarisce propriamente che cosa si debba intendere con “potenza estranea”, si può supporre che essa rappresenti la forza di ciò che in questo stesso contesto egli designa come “l’ordinaria percezione dell’uomo naturale ” (manoscritto di Fichte, GA II/17, 238). L’introduzione filosofica alla Dottrina della scienza ha infatti come compito di avanzare le premesse per la liberazione dell’occhio spirituale dalla potenza della percezione ordinaria – con il linguaggio della fenomenologia: della “disposizione naturale”. Ho parlato a ragion veduta di premesse, perché l’introduzione filosofica è in grado soltanto di preparare l’apertura dell’occhio spirituale. Che poi questa apertura abbia luogo davvero dipende dalla libera attuazione del pensare, che ognuno deve attivare in se stesso e da se stesso. Chi vuole praticare la filosofia deve – seguendo l’invito a filosofare da parte del “docente della Dottrina della scienza” – lavorare su se stesso e liberamente pensare, “affinché in questa nuova vita creativa possa afferrarlo l’EVIDENZA” (Sullo studio della filosofia, Berlino 1811-1812, GA IV/4, 46). La liberazione dell’occhio spirituale dalle catene e dalle ombre della caverna, per riprendere la celebre immagine platonica, non è dunque un accadimento passivo, ma un’auto-liberazione, che comunque deve avvenire nel nesso interpersonale tra docente e discente, in un dare e ricevere spirituale – ovvero nella comunicazione. L’arte della riflessione, la prassi della ragione potrebbe essere dunque considerata, secondo questa visione, come una risposta liberatrice, una ‘responsività’ (Verantwortung) nei confronti di un appello a pensare in proprio (Selbstdenken).

7. La novità del senso spirituale non riguarda soltanto lo sviluppo della sua disposizione nell’individuo e il suo manifestarsi nella temporalità della singola persona. Questo sviluppo è infatti un processo che avviene non solo in singoli individui, ma si estende, come Fichte sottolinea, all’intero genere umano. Ma come dobbiamo pensare questo sviluppo all’altezza del genere umano? L’Introduzione alla Dottrina della scienza 1813 distingue due momenti (o gradi) di sviluppo del senso spirituale. Essendo quest’ultimo strettamente intessuto con l’essere stesso dell’uomo, Fichte non può né vuole affatto disconoscere che nel passato e fra i contemporanei il senso spirituale sia già stato e sia tuttora, efficace, e attivo. Un passo significativo suona: “Con [questo] senso [e non con quello solo ordinario] si è visto (gesehen) da quando gli uomini esistono, e tutto ciò che di grande e di eccellente si trova nell’umanità, e solo fa sussistere l’umano, proviene dalle visioni di questo senso” (manoscritto GA II/17, 236). Senza l’azione di ciò che Fichte in questo stesso contesto chiama anche la percezione del mondo spirituale, sarebbe divenuto impossibile tutto quel buono e quell’eccellente per cui “il genere umano è conservato nell’esistere” (Nachschrift-Halle, GA IV/6, 359) – perfino la stessa filosofia trascendentale. Il primo momento di sviluppo del senso interiore è perciò caratterizzato dal suo esserci e il suo operare di fatto. Ciò che però assolutamente manca a questo momento, secondo Fichte, è che in esso il senso interiore non viene visto e osservato nella sua differenza ed opposizione rispetto al senso ordinario. Il risultato paradossale di questa assenza di auto-osservazione del senso spirituale, cioè dell’intelligenza (intelligere), è da un lato che le impressioni di ambedue i sensi, quello ordinario ed empirico e quello spirituale, rimangono in qualche modo confuse (= da cui: oscurità, confusione); dall’altro lato è che la vita, priva di un vero legame unificante, rimane divisa in due metà separate (il fattuale e lo spirituale). Confusione e separazione, invece che distinzione e relazione. La Nachschrift-Halle dell’Introduzione adduce su questo tema il seguente chiarimento: Se il senso interiore non viene osservato come tale nella sua differenza da quello ordinario, “gli uomini restano sospesi tra i due mondi, senza poter scoprire il legame tra essi; perciò senza nemmeno poter notare la loro differenza” (GA IV/6, 359).

Il secondo momento dello sviluppo della disposizione spirituale consiste dunque secondo Fichte in ciò: che il senso spirituale in quanto tale deve essere osservato e percepito nella sua fondamentale differenza rispetto a quello ordinario-naturale. Ciò che è effettivamente nuovo per l’umanità è, secondo l’Introduzione alla Dottrina della Scienza 1813, l’auto-vedersi del vedere spirituale, è che venga effettuato un auto-compenetrarsi del senso interiore in una libera attuazione. Fichte definisce questo gradino come “senso del senso”. Quest’ultimo non sarebbe semplicemente la percezione del mondo spirituale (primo gradino), ma la percezione di questa percezione. Solo grazie all’auto-compenetrarsi del senso interiore, o dell’occhio interiore, diviene possibile afferrare unitariamente la differenza e il legame del mondo dato fattualmente e del mondo spirituale, cosa che nel primo gradino di sviluppo, quello del mero esserci del senso interiore, non poteva ancora aver luogo. Il legame unificante entrambi i sensi, quello esteriore fattuale e quello interiore spirituale, è perciò il senso del senso, l’auto-vedersi dell’intelligenza, che secondo Fichte è un principio allo stesso tempo pratico e teoretico. In definitiva è il nuovo senso – proprio quel senso che deve entrare come nuovo nel mondo della manifestazione: il senso del senso -, che realizza la percezione degli oggetti spirituali colta nella sua struttura riflessiva. E senza l’auto-riferimento riflessivo, dice Fichte, la percezione del mondo spirituale non potrebbe neppure considerarsi completamente fondata e assicurata nella sua differenza dalla percezione fattuale.

8. La novità di cui l’Introduzione alla Dottrina della Scienza 1813 vuole essere l’annuncio è dunque l’idea del senso del senso, e insieme l’esortazione che la disposizione al senso spirituale (all’intelligenza, alla ragione) debba essere svolta fino al punto di afferrare se stessa: “Il senso di questo senso, non semplicemente la percezione del mondo spirituale, bensì la percezione di questa percezione in opposizione all’altra [fattuale] – ciò è davvero nuovo” (Nachschrift-Halle, GA IV/6, 359). Ora, questo auto-afferrarsi dell’intelligenza è precisamente ciò che la filosofia trascendentale ha avviato a partire dalla Critica della ragione di Kant e poi mediante la Dottrina della scienza. Ci troviamo allora nel circolo seguente: da un lato la filosofia trascendentale ha ‘scoperto’ il senso del senso e lo ha fatto valere, o quantomeno ha cercato di farlo valere; dall’altro lato la filosofia trascendentale ha questo stesso auto-afferrarsi del senso quale presupposto o premessa della sua stessa costruzione -, tanto che l’assunto trascendentale non viene compreso e deve restare frainteso se questo senso non viene esercitato e praticato. La via d’uscita per sfuggire questa situazione, a seguito della quale il nuovo senso appare contemporaneamente come risultato e come premessa dell’intrapresa trascendentale, è secondo Fichte quella per cui si divenga “convinti della mancanza del nuovo senso” e ci si “impegni a procurarselo” (Nachschrift-Halle, GA IV/6, 359-360). In tal modo mi sembra venga accennato il processo di una educazione (Bildung) riflessiva al senso del senso, cui deve venire riconosciuto un significato centrale nella elaborazione della stessa filosofia trascendentale.

Lo spirito umano deve essere educato allo sviluppo del nuovo senso, del senso del senso, ma una tale formazione, la formazione alla riflessività, è per parte sua una decisiva componente di quella riflessione della riflessione, o riflessione “alla seconda potenza” [ref] Cfr. Luigi Pareyson, Fichte. Il sistema della libertà, nuova ed. aumentata, Mursia Milano, 1976. [/ref], che la filosofia trascendentale è in se stessa – dato che senza esercitazione pensante del senso del senso resta del tutto impossibile non solo l’accesso alla filosofia trascendentale, ma il suo dispiegamento come sistema della conoscenza principiale. Focalizzando l’attenzione sul termine “senso” (Sinn) si potrebbe asserire che senza il senso del senso non sarebbe possibile alcuna radicale riflessione (Besinnung) e autoriflessione (Selbstbesinnung), quale la filosofia trascendentale pretende di essere. Proseguendo questi pensieri Fichte osserva nelle lezioni che il senso del senso rappresenta “un nuovo compito, proposto al genere umano soltanto nella nostra epoca” (manoscritto di Fichte, GA II/17, 236). Il senso del senso non è un mero possesso, che si possa semplicemente detenere e del quale si possa disporre a piacere; educarlo e farlo valere sulla scena filosofica è un compito assolutamente qualificante della nostra epoca. In ultima istanza: il ‘nuovo’ è per noi compito, alla cui libera assunzione e responsabile attuazione siamo appellati. In quanto compito il senso del senso deve venire effettuato sempre di nuovo in una libera attuazione. Non mi sembra sbagliato considerare il motivo del senso del senso e della sua educazione nelle lezioni introduttive alla Dottrina della scienza dell’inverno 1813 come un ultimo legato dell’autore della Dottrina della scienza. Con esso Fichte vuole dire alla sua epoca ma anche alla posterità che la filosofia trascendentale – per poter essere praticata in generale e addirittura compresa – richiede in definitiva una liberazione dell’occhio spirituale e l’apertura di una nuova percezione, che è l’auto-appercepirsi vivente del vedere spirituale. Secondo questo “ultimo” Fichte la filosofia trascendentale sta o cade con lo sviluppo di questa percezione della percezione spirituale, con il veder-si del vedere.

Doveri e fedeltà nell’Italia di oggi: miraggi, farse e prospettive

 di

Domenico Bilotti

Recensione al libro di Alessandro Morelli, I paradossi della fedeltà alla Repubblica, Giuffrè, Milano, 2013, pp. XIV-303 (Collana del Dipartimento di Scienze Giuridiche, Storiche, Economiche e Sociali, Università degli Studi “Magna Graecia” di Catanzaro)

Una considerazione preliminare: sono poche (troppo poche) le ricerche giuridiche in Italia che giustificano la propria tesi di fondo attraverso il ricorso ad un’immagine letteraria e, ancor meno, logico-linguistica. Da lettori, siamo abituati a questa strategia argomentativa dagli scritti di Alvaro de Oliveira o di James Boyd White (meritoriamente portati in traduzione al nostro pubblico dall’impegno dell’editore Giuffré). Tra le eccezioni, per quanto riguarda la dottrina italiana, segnaliamo, un po’ in ritardo rispetto all’effettiva uscita del volume, “I Paradossi della fedeltà alla Repubblica” di Alessandro Morelli. Ancor più, trattare dei doveri, in questo periodo, quando la dimensione pubblica è sottoposta a sempre più palesi arbitri e la sfera privata è inevitabilmente messa sotto stress da un fortissimo arretramento sociale, sembra un’operazione fuori moda, fuori contesto, destinata a non raccontar nulla sull’equilibrio reale dei poteri e, più preoccupantemente, sullo stato dell’effettivo esercizio dei diritti.

Il testo di Morelli, da questo punto di vista, riesce a superare ogni perplessità, anche perché, pur specificamente collocandosi nel solco della ricerca costituzionale, dimostra non occasionale attenzione al dato “etico”, pre-giuridico, che continua ad appartenere all’ordinamento positivo e che è attutito, privato del suo potenziale e pericoloso paternalismo, proprio dal riconoscimento e, meglio, dalla difesa del pluralismo. Adoperare il testo costituzionale come parametro di una ricerca, del resto, potrebbe apparire azzardato e scarsamente rappresentativo della coscienza comune, esattamente come parlare dei doveri: lo scontro nel Paese, o meglio: le parole d’ordine che abbiamo più spesso imparato a mandare a memoria, è tra un elogio della deresponsabilizzazione assoluta (la svalutazione del dovere, attraverso cui nascondere la sottrazione dei diritti) e un difensivismo oltranzista su categorie inservibili e statiche, come una sorta di primato intellettuale e morale, prima che giuridico, dell’interpretazione letterale della Costituzione, e dell’intangibilità dell’alto compromesso che la sostenne e rese possibile. Anche stavolta, Morelli si dimostra lucidamente non collocabile in nessuno dei due estremi: sfugge alle sirene della totale deresponsabilizzazione sociale, non si abbandona nemmeno alla pratica elogiativa del passato che fu contro il presente che è. E gli riesce bene, proprio perché, da conoscitore delle dinamiche costituzionali in Italia, sa perfettamente che anche nel chimerico “tempo andato” l’attuazione del disposto costituzionale tutto fu fuorché sempre attenta, adeguata, lungimirante.

Segnaliamo, tra le parti più interessanti del volume, al secondo capitolo un rapido e incisivo inquadramento concettuale sulla nascita del sistema repubblicano (pp. 37-65): se ne ammettono, sul piano strettamente giuridico, talune ascendenze romanistiche, come se ne recupera, almeno in parte, l’impalcatura mazziniana. Spesso abbandonata alla retorica del trionfalismo risorgimentale (o antirisorgimentale) e, in verità, non troppo studiata sui suoi presupposti storico-teorici, invece in qualche misura utili anche alla lettura della contemporaneità e della “postmodernità”. Piace alla stessa maniera, nei capitoli III e IV (pp. 71-184), l’influenza di una certa dottrina liberal-democratica nord-americana, laddove si parla di original intent e original public meaning dell’articolo 54 della Costituzione (il dovere di fedeltà, appunto) e si propone, subito a seguire, una critica alla concezione kelseniana che svuota la giuridicità del dovere di fedeltà, proprio perché restringe il suo sguardo a un positivismo convenzionale, dove più che il contenuto della singola norma è sotto la lente del giurista il rapporto tra le diverse norme all’interno del sistema giuridico.

Non mancano, ovviamente (e sono tra quelli che si consigliano), i lati dell’opera che più riguardano vicende realmente vicine allo sguardo del lettore. Innanzitutto, traspare una appassionata difesa della garanzia dei diritti sociali, inquadrando l’Autore il dovere di fedeltà proprio a fondamento di una solidarietà politica. Qui, Morelli immagina tale dovere anche nei confronti delle generazioni future, una solidarietà non meramente anagrafica, molto diversa dal “patto tra generazioni” troppo spesso sbandierato dalla nostra classe politica: quel patto è già avvenuto ed è proprio l’istituto familiare (si spera: un po’ più largo di come si presterebbero a vederlo le letture di comodo dell’articolo 29 della Costituzione) a tenerlo in piedi. E piace pure che il volume ripercorra, con la rapidità funzionale a non togliere carne all’impianto del libro, alcuni temi molto dibattuti – dall’obiezione di coscienza alla configurabilità di alcuni trattamenti sanitari obbligatori, dall’inservibilità del diritto di cittadinanza jure sanguinis ai delitti contro la personalità dello Stato. E se non è infondato provare addirittura a ricercare soluzioni altre, rispetto a quelle suggerite dal Morelli, in via interpretativa, certamente “I Paradossi della fedeltà alla Repubblica” ha il merito di sondare e tenere unite tante piste, di grande e avvertita attenzione.

Rousseau, il giusnaturalismo e gli esiti estremi della critica “liberale”

di Mario Reale

A proposito delle interpretazioni del verum ipsum factum vichiano, Antonio Corsano ha avuto modo di scrivere una volta che ci si trova di fronte a tante letture, tutte ben ragionate, ma tutte così antinomicamente contrapposte ed escludentesi tra loro, richiamate e di nuovo contraddette, da costituire un campo di mobili combinazioni e quasi un «circolo perfetto di obiezioni all’obiezione». La soluzione – dice l’illustre storico della fi­losofia con tono a metà ironico e a metà consenziente – potrebbe essere quella di affidarsi al moderno nominalismo e positivismo logico, rico­noscendo la insormontabile compresenza e la «irriducibile pluralità di quei che Wittgenstein chiama Sprachspiele, di sistemi di segni linguistici l’uno all’altro incomunicabili, salvo che per la estrema riduzione sovvertitrice: una specie di bellum omnium contra omnes di formule semantico-lingui­stiche alle quali non possa dettarsi una regola o cifra di reciproca interpre­tazione, a meno di una estrema decisione sospensiva e agnostica». [ref]A. Corsano, CB. Vico, Laterza, Bari 1956, pp. 99-100. [/ref]

Forse ancor meglio che a Vico, l’osservazione di Corsano si adatta felicemente a caratterizzare la situazione degli studi su Jean-Jacques Rousseau, un autore del resto (e sia detto proprio di sfuggita) che sarebbe ormai ora, dopo i saggi di Fausto Nicolini, tanto importanti quanto carichi di vecchie preclusioni e di tenaci gelosie, di riprendere a studiare anche insieme e accanto al filosofo napoletano, se si vuole cogliere quel ver­sante critico dell’illuminismo e del giusnaturalismo che in forme certo peculiarissime (e perciò tanto più significative) viene appunto illustrato, a livello europeo, dai due autori.[ref] F. Nicolini, Bibliografia vichiana, Ricciardi, Napoli 1947-48, I, pp. 297-301 e Vico e Rousseau in «Atti dell’Accademia Pontaniana», nuova serie, I, Anno Acc. 1947-48 (Giannini, Napoli 1949), pp. 217-239. [/ref]Pure la bibliografia sul ginevrino infatti costituisce una selva intricata e insieme circoscritta suscetti­bile quindi di disposizione in danza attraverso la riduzione delle interpretazioni «in bella serie di antinomiche coppie, l’una fronteggiando esattamente e revocando le ragioni dell’altra»[ref] A. Corsano, CB. Vico, cit., p. 99. [/ref]. È stato scritto in occasione del duplice anniversario russoiano caduto, com’è noto, nel 1962 (due secoli dal Contrat social, due secoli e mezzo dalla nascita dell’autore) che: «nella storia del pensiero politico, Rousseau è forse l’unico grande autore del quale possa dirsi che […] non esiste accordo tra gli studiosi neppure sul modo in cui classificarlo. Quella stessa distinzione, assai elementare, tra pensatori cosiddetti individualisti e pensatori collet­tivisti che presiede a tante storie della filosofia politica, costituisce, nel caso di Rousseau, motivo di controversia e di divisione profonda tra gli interpreti: dei quali una parte vede in lui il teorico del giusnaturalismo, il pensatore che rivendica i diritti naturali dell’uomo contro la società, l’assertore dell’individualismo atomistico liberale, mentre un’altra lo con­sidera, invece, il primo rappresentante moderno di una concezione orga­nicistica o totalitaria della società».[ref] L. Colletti, Rousseau politico, in « Cultura e scuola », Il, 1962-63, n. 6, pp. 143-38. Commentando pubblicazioni uscite in occasione del recente bicente­nario russoiano, anche Roger D. Mastcr invita a rileggere con cura le opere del ginevrino « si l’on veut parler inteliigemment du plus discuté des philosophes modernes» (in Critique, nov. 1965). E l’osservazione non è certo nuova. Cinquant’anni fa Giorgio Del Vecchio scriveva che: « les uns voient Roùsseau le défenseur de la volonté toute-puissante de l’État, le théoricien de l’absolutisme, qui aurait sacrifié toute trace de liberté individuelle au dogme de la souveraineté du peuple, allant, du moins virtueilement, jusqu’a la négation de la proprieté privée; les autres voient en lui le père de la démocratie constitutionnelle et du liberalisme moderne, celui qui rivendique les droit fondamentaux du citoyen, l’individualiste par excellence, qui, abolis­sant toute autorité, aurait donné à l’Ètat la base atornistique de la volonté changeante des individus. A l’un er l’autre titre, selon l’une et l’autre de ces interprétation (souvent très superficiellement comprises), nous voyons Rousseau tantòt exalté at glorifié, tantot combattu et même vilipendé avec une violence de passion sans égale dans l’histoire de la philosophie politique, car on étudie et discute Aristote, Grotius, Hobbes, Spinosa, Locke, Montes­quieu, mais Rousseau on l’aime ou on le hait ». (Des caractères fondamentaux de la philosopbie politique de Rousseau, extrait de la «Revue critique de Législation et de Jurisprudence», Paris 1914, p. 4. Cit. in Robert Derathé, Jean­-Jacques Rousseau et la science politique de son temps, Presses Universitaires de France, Paris 1950, p. 8). [/ref]

Né, come è noto, il contrasto concerne solo il Rousseau politico, ché al contrario si estende a tutte le singole parti e all’insieme dell’opera russoiana, nei suoi elementi di continuità e in quelli di frattura, nella sua interna storicità: basti pensare al classico dibattito sulla posizione del Contrat social rispetto così ai Discorsi, come pure all’Emile, alla Nouvelle Héloïse o anche ai tardi dialoghi di Rousseau giudice di Jean Jac­ques e alle Réveries.

Ora, quando nei riguardi di un autore o di un problema storiogra­fico si viene a creare una simile situazione di semiparalizzante ricchezza, quando — per restate sull’esempio suggerito da Corsano il campo s’infoltisce a dismisura e cresce, lussureggiante, su se stesso, senza che buoni venti vengano ad abbatterne talune recinzioni, ad aprire nuove vie, a mostrare l’infondatezza originaria di antinomie capaci di proliferare all’infinito, allora non v’è chi possa negare la singolare utilità delle let­ture e delle interpretazioni provocatorie. Intendiamo per libro provoca­torio quello che viene d’improvviso a invertire la comune tendenza verso battutissime rotte storiografiche; quello che rovescia, fin nelle premesse ritenute più ovvie, benpensanti letture, familiari pregiudizi e vulgate onestissime, togliendo loro ogni reale credibilità; o anche quello che porta a radicali conseguenze una mezza e timorata verità e ne fa cosi una verità tutt’intera e diversa; quello, da ultimo, che della funzione del provocare accetta su di sé anche i rischi, sotto forma di un’intrinseca unilateralità, seppur feconda, questa volta, e capace di contribuire in modo positivo a un processo di più larga comprensione storiografica.

Rarissimo in quanto esemplare perfettamente riuscito, il libro provocatorio è tuttavia non poco diffuso in forma di approssimazioni ora velleitarie ora mediocri e ora anche felici. Non ne mancano esempi pure in campo russoiano. Così, senza l’aspirazione alla «categoria» della provo­cazione, riesce quasi incomprensibile il libro che Lester G. Crocker ha dedicato qualche anno fa al Contratto Sociale di Rousseau e che di recente è comparso anche in una sciatta e sgrammaticata traduzione italiana.[ref] Rousseau’s Social Contract. An interpretative essay, The Press of Case Western Reserve University, Cleveland 1968; tr. it. a cura di P. Pasqua­lucci, Società Editrice Internazionale, Torino 1971. Di Crocker, sessantenne, già professore di Lingue Romanze e ora Decano di Belle Lettere presso la Western Reserve University di Cleveland (come si apprende dalla breve pre­sentazione editoriale italiana), noto e apprezzato studioso del settecento francese, sono da ricordare una biografia di Diderot e una di Rousseau (J.J. Rousseau: The Quest. 1712-1758, Macmillan, New York-London 1968.) È stato annunciato ma non è ancora uscito, credo, un secondo volume, di cui peraltro sono anticipate « molte idee e sviluppi» nel primo capitolo del libro sul Contratto Sociale, intitolato «Il contesto». (Cfr. p. 11, nota dell’ed. it. cui da ora in poi ci si riferisce). Lo studioso americano ha scritto pure una vasta opera in due volumi sul pensiero e la filosofia morale della Francia deI XVIII secolo, fino a Sade: I) An age of crisis: Man and World in Eighteenth-Century French Tought; 11) Nature and Cul­ture: Ethical Thought in the French Enlightenment, The Johns Hopkins Press, Baltimore 1959 e 1963. Dei numerosi articoli di Crocker abbiamo tenuto presente soprattutto Rousseau et la voie du totalitarisme, pubblicato in Rousseau et la philosophie politique, Presses Universitaires de France, «Annales de philosophie politique», V, Paris 1965, pp. 99-136, (che ci pare sufficientemente riassuntivo delle tesi dello studioso americano) e, per alcuni punti, anche Docilité et duplicité chez J.J. Rousseau, in « Revue d’Histoire Litteraire de la France », n. spec. dedicato al diciottesimo secolo, maggio-agosto 1968, pp. 448-69. [/ref]

O, a dir meglio, diventa un libro da valutare con tutt’altri criteri di quelli adoperati nella critica storica. Mentre invece in forza della carica provocatoria acquista, se non altro nelle intenzioni prime, una sua vero­simiglianza storiografica: si può leggere e si può discutere insomma anche con un approccio di tipo «tradizionale».

Del libro provocatorio, il saggio di Crocker ripete talune caratteri­stiche movenze e, si potrebbe dire,. l’estrinseca struttura. Ecco, innanzi­tutto, il piglio aggressivo del linguaggio che assume i toni, come è stato detto, della «requisitoria». [ref] E. Garin, Introduzione Scritti politici di J.J. Rousseau, 3 voll., Laterza, Bari 1971, p. XXXVIII, L. D’ora in poi indicato con Introduzione e, per i testi russoiani ivi riportati con G., il volume (in numeri romani) e la pagina (in numeri arabi). [/ref]Ecco quindi la constatazione che il proble­ma Rousseau è del tutto aperto, che il ginevrino è figura «inesauribil­mente problematica», che «stiamo ancora imparando a leggere Rous­seau».

Da una simile congiuntura che è certamente ricca ma che pure pre­senta rischi di passionale paralisi («sembra che si debba essere ‘per’ lui o ‘contro’ di lui, che si debba condannano o idolatrarlo, fino al limite del fanatismo») si può e si deve uscire attraverso una spregiudicata analisi che, incurante della taccia di «nemico» che falsi amici di Rousseau possano mettere in circolazione, si dia, senza odi di parte e senza tesi preconcette, a ricercare «oggettivamente la verità». L’invito a ricercare la verità, e tanto più se «oggettiva», non ha in sé, si dirà, assoluta­mente nulla di «provocatorio»: l’unica sorpresa che di solito riserva è quella di rivelarsi falso. Ma Crocker, uscendo dalla genericità, qualifica subito ciò che intende per verità. Un’analisi «vera», deve proporsi una «lettura ‘completa’», aperta cioè alla «totalità degli scritti di Rous­seau» e alla «loro reciproca relazione»; mentre, d’altro canto, questa totalità è già pre-unificata nella esplicita dichiarazione delle Confessioni per cui tutto, più o meno, è politica.[ref] L’opera di Rousseau, per Crocker, si tende comprensibile solo alla luce di un criterio d’interpretazione per intero politico. Ma vedremo presto che la politica da sola non basta: il Contratto altro non è se non il «mezzo», il passaggio obbligato in vista di un disegno più vasto, di cui occorre assolutamente possedere la chiave. [/ref]La Nouvelle Héloise e l’Emile sono «lavori politici» al pari del Contrat ed anzi, se ben letti, se esa­minati alla luce della personalità che li ha espressi, sono in grado di dissipare anche le presunte «contraddizioni» dell’opera maggiore di Rousseau.[ref] Il Contratto Sociale, lo diciamo subito, non ha misteri per Crocker: è un’opera levigata e trasparente. La «divergenza di interpretazioni» nasce da «affermazioni apparentemente contraddittorie o ambigue», accentuate secondo i gusti personali dei critici. L’apparentemente, si risolve nel senso che «in gran parte “contraddizioni” ed ambiguità non esistono»: scompaiono (se abbiamo capito bene) non appena con l’ausilio appunto delle altre opere «politicizzate», si fissi il preciso significato che Rousseau attribuisce a certe parole o a certe idee. Ha scritto di contro Derathé che: «en raison même des multiples allusions qu’il renferme et dont le sens échappe au lecteur actuel, le Contrat Social reste l’un des textes les plus difficiles de la litrérature politique» (J.J. Rousseu et la science etc., cit., Avertissement). [/ref] Facciamo ancora un passo avanti e vediamo come si colona codesta politicità proiettata sulla totalità dell’opera russoiana. Per pene­trarne il senso, afferma Crocker, bisogna in primo luogo superare l’insi­dioso ostacolo rappresentato dalla «terminologia» russoiana: si tratta in questo caso di ricostruire senza pudori e quasi di reinventare, con provocatorio coraggio, il significato esatto («esclusivo e particolare») che Rousseau attribuisce a certe parole-chiavi, come ad esempio a quella di ‘libertà’. Ai fini di una simile operazione esistono oggi condizioni singo­larmente favorevoli; la nostra esperienza storica costituisce un luogo di osservazione privilegiato, capace così di gettare nuova luce sul pensiero di Rousseau, come di condurci a ritroso lungo le teorie di «riorganizza­zione totale della società» che, muovendo dal ginevrino, arrivano in una catena ininterrotta, fino ai nostri giorni.[ref] È lecito, si chiede Crocker, valutare l’opera di Rousseau sotto la sollecitazione del nostro tempo, così lontano e diverso dal suo? La risposta è che «se l’interpretazione delle sue teorie è condotta sulla base del suo stesso pensiero e se ammettiamo aver esse, o teorie analoghe, influenzato ininterrotta­mente l’animo umano dal suo tempo al nostro, allora il suo pensiero e le sue implicazioni possono essere legittimamente valutati dal punto di vista dei nostri stessi giudizi ed esperienze». Meritava un cenno codesta singolarissima teoria della contemporaneità della storia! [/ref]Ma, da ultimo, perché la ricerca della verità sia fruttuosa, perché la totalità-politicità sia indirizzata nel senso giusto e non vada sciupata una felice opportunità storica, è neces­sario che la nuova analisi, invertendo una comune tendenza, si costituisca in consapevole antitesi al conformismo storiografico dominante, rappre­sentato da coloro che ancora credono che il pensiero di Rousseau sia interpretabile nell’ambito della «tradizione democratica liberale», men­tre reagiscono in modo passionale contro coloro che correttamente ve­dono nel ginevrino «il genio e l’innovatore della tradizione totalitaria democratica».

Così, già nelle brevi pagine della Prefazione che Crocker manda avanti al suo libro (e che noi abbiamo sin qui esposte, solo riformu­landole secondo un diverso ordine), troviamo espressa con chiarezza la tesi fondamentale del saggio.[ref] Il Contratto sociale di Rousseau, cit., pp. 7-12. Ma si confronti, per l’ultimo punto, anche l’inizio di « Rousseau et la voie » etc., cit:. « Tout dernièrement, ce sont les soi-disant “defenseur” de Rousseau, ceux qui refusent de voir en lui des tendences totalitaires, qui ont été le plus actifs. Passer en revue toute la question d’un point de vue franchement contraire n’est donc que justice» (p. 99). D’accordo, naturalmente, con quanti ritengono «tota­litaria» la filosofia politica di Rousseau, lo studioso americano pensa che una simile «accusa» (come la chiama) debba farsi più circostanziata e appro­fondita, se si vuole davvero estirpare la distorta «apologetica» di coloro che in Rousseau vedono un democratico-liberale. Costoro commettono due precisi errori. Sono schiavi anzitutto del pregiudizio che scorge un’opposizione irriducibile tra «democrazia» e «totalitarismo», mentre non vedono che la vera contrapposizione è tra «totalitarismo» e «società pluralista» (individualistica e anticollettivistica). In secondo luogo, si fermano alla lettera degli scritti russoiani e non ne comprendono lo spirito: leggono «libertà» e pensano alla libertà come è intesa in seno a una certa tradizione di pensiero occidentale, mentre per Rousseau libertà vuol dire indipendenza nazionale, non oppressione dell’uomo sull’uomo e, da ultimo, uguaglianza. [/ref]

 

Si tratta ora, dopo aver riconosciuto che la situazione degli studi russoiani consente e sollecita interpretazioni provocatorie e che Crocker aspira a condurre una lettura di tal genere, di vedere quali sono, al di là delle intenzioni, i risultati, come sono sostenute e argomentate le tesi del libro, quale il loro positivo contributo, attraverso la carica provoca­toria, a una più feconda comprensione del pensiero di Rousseau.

La confusione tra libertà e eguaglianza riesce, secondo Crocker, esi­ziale ai fini di una corretta interpretazione di Rousseau. Per complicato che sia il problema, non si può certo accusare lo studioso americano di avere le idee poco chiare: « une société vraiment égalitaire — scrive — ne peut jamais être une société libre. La logique, la nature humaine, l’histoire, toutes trois le confirment». Il lettore, posto di fronte ad af­fermazione tanto perentoria e a personaggi così autorevoli[ref] Le apocalittiche invocazioni alla natura e alla storia devono godere di una certa fortuna tra gli odierni critici «liberali» di Rousseau, se anche Jacob L. Talmon nelle Conclusioni a Le origini della democrazia totalitaria (un libro al quale Crocker deve molto e su cui avremo occasione di tornare) scrive che: «il regno della dottrina esclusiva e tuttavia onnirisolutiva della democrazia totalitaria si oppone agli insegnamenti della natura e della storia» (tr. it., Il Mulino, Bologna 1967, p. 348). I passi in francese nel testo sono tratti da Rousseau et la voie etc., cit.) [/ref], si chiede, almeno, se e in qual modo la cosa giovi a meglio intendere Rousseau. Scopre così che l’intera interpretazione russoiana di Crocker si configura come un corollario di codesta affermazione, nel senso che vi si mostrano le conseguenze e gli sbocchi illiberali intrinseci a una teoria egualitaria della società. Scopre che per lo studioso americano è più conveniente avere un padrone piuttosto che abbandonarsi alla follia russoiana di una società in cui tutti gli uomini siano uguali («égalité et esclavage ne s’excluent pas — et d’autant plus facilement si le maître n’est pas un individu, mais l’Etat, la collectivité, ou la volonté générale»). La me­diazione, la coscienza liberale, la linea di difesa e quella di innovazione di Crocker si assommano tutte qui: nella consapevolezza che la libertà per tutti è impossibile, che dalle ceneri di una reale eguaglianza, ricercata in teoria o vissuta nella prassi politica, risorge sempre un potente tiran­no, tanto più temibile in quanto occulto. La filosofia politica di Rous­seau, come hanno visto altri critici «liberali», rientra appieno in questa regola generale, dettata dalla natura e dalla storia. Ma ciò che caratterizza la tesi di Crocker rispetto a quelle che si sono limitate a rilevare l’«in­dole autoritaria e dispotica» della teoria russoiana (e, per questo, non hanno ancora convinto e decapitato la razza degli avversari), è il fatto che la tirannia non è un esito oggettivo, imprevisto o incontrollato della riflessione di Rousseau ma ne costituisce, al contrario, il «nocciolo», la «creazione più originale».

In breve, sarebbe da ascrivere al genio russoiano la prima e classica formulazione di un modello di società totalitaria, conservatosi inossida­bile in questi due ultimi secoli, nonostante le «accidentalità storiche» (come Crocker finemente le chiama). I «punti base», i tratti caratteri­stici e permanenti del modello o archetipo totalitario sono questi: una guida carismatica che, identificandosi con la volontà generale, forma, dirige e controlla il popolo (il Legislatore, il Precettore di Emilio ecc., così come «Hitler, Stalin, Mao-Tse-Tung»); un «ideale di Comunità» che richiede ai suoi membri  un sacrificio devoto e illimitato al tutto collettivo»; assoluto conformismo e «armonica» unanimità; varie e complesse tecniche «per mobilitare e controllare gli animi, la volontà e le emozioni del popolo» (pp. 241 e sgg.).

A differenza di altri critici «liberali», Crocker non ha il problema di individuare i punti di rottura attraverso i quali la teoria russoiana della libertà si tramuterebbe in un sistema di tirannia: poiché ha avuto la trovata ermeneutica di sostituire previamente il termine libertà con quello di reale uguaglianza (e dunque di dispotismo), può squadernare a sostegno della sua tesi l’intera opera russoiana, senza storia interna e senza soluzioni di continuità. Dal giovanile Projet pour l’éducation de M. de Sainte-Marie (1740) [ref] Una lettura del Projct non pare affatto riservare le drammatiche sor­prese fatte balenare da Crocker in apertura del suo libro (cfr. anche Docilité et duplicité etc. cit.). Rousseau affrontando per la prima volta il mestiere di precettore (l’episodio è narrato alla fine del VI libro delle Confessioni) cerca anzitutto di stabilire una sua sfera di autonomia e di autorità distinta da quella paterna, sebbene ad essa complementare. Sono le richieste e i consigli di Rousseau al padre di M. de Sainte-Marie, signore di Mably, che scandalizzano Crocker? Si dice per esempio ad un certo punto che «il vaut mieux qu’il conçoive que les plaisirs et les douceurs sont les suites naturelles de la sagesse et de la bonne conduite que s’il les regardait comme des récompenses arbi­traires…». Lo studioso americano, vi avrà forse scorto la trama di una ma­nipolazione, convinto magari che dove l’arbitrio muore, là nascono le società «totalitarie»? I criteri educativi prospettati da Rousseau, risultano invece sin­golarmente moderati e tradizionali, con la via di mezzo tra il disprezzo e il culto eccessivo delle scienze, con la preminenza accordata in tutti i casi alla « droiture du coeur», sulle «lumières de l’esprit» (si ricordino gli studi di Masson sugli autori e i testi che possono avere influito su queste convinzioni del giovane Rousseau). In sostanza ci pare che la forzatura del Projct fatta da Crocker abbia origine in un’incomprensione del testo. Scrive infatti Rousseau che: «après avoir reinpli M. de Sainte-Marie de bons principes de morale, on pourrait le régarder en un sens comme assez avancé dans la science du raisonne­ment. Mais s’il est quelque point important dans son éducation, c’est sans con­tredit celui-là; et l’on ne saurait trop bien lui apprendre à connaître les hommes, à les prendre par leur vertus et même par leur foibles, pour les amener à son but, et à choisir toujours le meilleur parti dans les occasions difficiles. Cela depend en partie de la manière dont on l’exercera à considerer les objets et à les retourner de toutes les faces, et en partie de l’usage du monde». E si legga ora il commento di Crocker: «lo scopo a cui tende questo sistema di addestramento, ci viene detto, è “sapere come catturare [gli uomini] servendosi delle loro virtù e debolezze per usarli ai propri fini”» (p. 18). Cito da Oeuvres Comnplètes, ed. Hachette, voI. III, Paris 1873. Il Projet è stato ora incluso nel IV volume delle opere di Rousseau edite dalla Pléiade, Gallimard, Paris 1969, pp. 35-51. [/ref]fino agli ultimi suoi giorni, Rousseau avreb­be ripetuto, con un gusto ossessivo dell’iterazione, lo stesso tema. Insen­sibile alle «accidentalità» storiche, Crocker si accanisce altresì a svelare l’irrilevanza di tutte le «accidentalità» letterarie.

«I critici — scrive sono stati messi troppo spesso fuori strada dall’ambiguità di linguaggio del ginevrino e dalla doppiezza della situa­zione che crea. La Nouvelle Héloise non è, come sembra, un’educazione alla libertà ma un capolavoro di manipolazione umana dove la libertà è definita come una decisa conformità meccanica a valori prestabiliti e schemi di comportamento. Il Contrai Social non è lo schizzo di una so­cietà libera ma il progetto di una società liberamente reggimentata. Non dimentichiamoci che nello Stato di Rousseau la ricerca e la libera discus­sione devono essere eliminate in nome della libertà e che l’uguaglianza è una meta giustificante un enorme sistema di oppressione e violazione dello spirito e dell’anima individuali: un sistema che, unico, può assicu­rare l’apparente eguaglianza. Rousseau non concede mai agli uomini quel tanto di libertà che gli permetta di crearsi il proprio destino, di essere realmente autodeterminati: né nell’Emile, né nella Nouvelle Héloise, né negli scritti politici. Il popolo sarà sovrano: ma il suo destino è deciso dalla leadership (chiaramente implicata dal Contrat e stabilita negli scritti successivi), che controlla l’opinione, l’educazione, la sorveglianza e altre limitazioni. Rousseau aveva una fissazione psicologica sull’illusione o l’in­ganno o la main cachée: viene nutrita sempre l’illusione dell’autodeter­minazione, non la sua realtà» (pp. 247-48).

Questa pagina, che abbiamo voluto riportare per intero, e che for­nisce, oltre tutto, una misura inconfondibile del valore della traduzione italiana, contiene il completo arsenale interpretativo di Crocker: una sorta di schema che viene applicato, con variazioni di poco conto, a tutte le altre opere di Rousseau. Quantunque lo studioso americano abbia una buona conoscenza di testi russoiani, il tema del totalitarismo vince sem­pre, annullando tutte le differenze, tutti gli sviluppi, tutti i motivi diver­genti: quando la parola non basta, soccorre a questo scopo l’inciso, la lettura guidata, il confronto con altre opere, con la «vita, personalità ed esperienza del mondo, i sogni e la forma mentis» dell’autore»(p. 75). Ultimata la lettura del primo capitolo del libro, intitolato «Il contesto» (del Contratto Sociale), quel che rimane in mente è la «tesi», ripetuta e amplificata fino alla monotonia, mentre le opere russoiane sono eteree apparizioni che non ancora prendono corpo e già dileguano. Ecco in que­sto modo evocato il Discours sur les sciences et les arts (Rousseau si co­struisce finalmente la «figura che era venuto cercando: guida, maestro e profeta dell’umanità; un ruolo che implica un certo fanatismo» [p. 23]) e la prefazione al Narcisse; il Discours sur l’origine de l’inégalité (la po­litica rinvia all’educazione, ma questa per Rousseau significa «un pro­cesso di addestramento o indottrinamento in vista di quello che egli chiama ‘docilità’: un processo per render la gente governabile e per de­terminarne il comportamento» [p. 28]) [ref] Per un’ironia della sorte, è Rousseau stesso che alla fine del Discorso sull’ineguaglianza parlando della barbarie ritornata che caratterizza l’estremo disfacimento della società fondata sulla disuguaglianza, denuncia con forza quello stato di uguaglianza-schiavitù e di dispotismo totalitario in cui Crocker vorrebbe ravvisare la «direzione profonda dell’opera del ginevrino. « È qui l’ultimo sbocco della disuguaglianza e il punto d’arrivo che chiude il circolo, toccando il punto da cui siamo partiti. Qui tutti i privati tornano ad essere uguali, perché non sono niente, e i sudditi non avendo altra legge oltre la volontà del padrone, né il padrone altra norma oltre le proprie passioni, le nozioni relative al bene e i principi di giustizia tornano di nuovo a sva­nire. A questo punto tutto si riporta alla sola legge del più forte… » (Discorso sull’ineguaglianza, G. I, pp. 201-202). È noto che su questo passo Engels fonda la sua interpretazione dialettica e premarxiana di Rousseau: «qui abbiamo dunque, già in Rousseau, non solo un corso di idee che è perfettamente eguale a quello seguito nel Capitale di Marx, ma, anche nei particolari, tutta una serie di quegli stessi sviluppi dialettici di cui si serve Marx». (Antidiihring, tr. it. Editori Riuniti, Roma 1971, pp. 147-49). Per Iring Fetscher (Rousseau, auteur d’intention conservatrice et d’action révolutionnaire, in Rousseau et la philosophie politique, cit.) Engels avrebbe dimenticato in questo caso il «fatalisme résigné de Jean-Jacques». È una curiosa svista dei curatori del vol. III delle Oeuvres complètcs di Rousseau nella Bibliothèque de la Pléiade (Gallimard, Paris 1964, p. XXIII) avere indicato proprio l’Antidiihring come significativo del poco tenero giudizio formulato da Engeis (e da Marx) nei con­fronti di Rousseau. [/ref]e l’Economie politique (final­mente «possiamo scorgere ciò che è realmente importante e originale nella dottrina del ginevrino: non solo i fini e le istituzioni ma anche le tecniche di intervento sull’individuo. Se non si compie questo passo finale, quello che conta, è vano e del tutto futile parlare di unità collet­tiva o governo della volontà generale» [p. 36])[ref] Crocker ritiene di poter polemizzare con Derathé, il quale nella Intro­duzione all’Economie politique per l’edizione della Pléiade (voL III, cit., p. LXXVIII) dice che sono «parmi les plus belles qu’il ait jamais écrites» le pagine «d’inspiration individualiste» che nella seconda parte di questo scritto Rosseau dedica al tema del rispetto da parte dello Stato «de la liberté ou de la sùreté des citoyens». Commenta lo studioso americano (pp. 113-14): «Mi è del tutto impossibile seguire Derathé […]. Le belle pagine cui si ri­ferisce non dicono nulla del genere e non trattano della libertà individuale, ma dell’idea di comunità, l’idea che tutti sono parti dello stesso corpo e sotto la protezione della “madre comune dei cittadini” (notare qui di nuovo l’idea dei cittadini come bambini)»; e prosegue sfoderando il tema consueto della «manipolazione del comportamento». Senonché Derathé è in questo caso del tutto fuori causa. Le pagine «individualiste» non le ha inventate lui: sono scritte nel testo di Rousseau e costituiscono uno stridente contrappunto alla lettura (così contenta di sé) di Crocker. Invece di farne un punto di verifica per la propria tesi, lo studioso americano preferisce, peggio che ignorare, «trasfigurare» queste pagine, seppure con scarso controllo critico (in un’altra nota a p. 252 sottolinea infatti la discorde peculiarità dell’Economie politique). Al fondo di questa polemica di Crocker deve esserci ancora un poco sosteni­bile giudizio di C.E. Vaughan, secondo cui Rousseau sarebbe stato discepolo di Locke e libertario nei Discorsi, per divenire ultracomunitario e collettivista nell’Economia politica e nel Contratto (J.J. Rousseau. The Political Writings edited by C.E. Vaughan voll. 2, Basil Blackwell, Oxford 1962 (1ª ed. Cam­bridge University Press 1915). [/ref]. Ecco ancora la Lettre à M. D’Alembert («i metodi della manipolazione e dell’inganno sono così radicati nell’animo di Rousseau da venire alla luce anche qui» [p. 43]) il Projet de Constitution pour la Corse («ma il punto essenziale resta la cattività psicologica dell’individuo, il suo soggiogamento e la sua doci­lità […]. Nella seconda parte di questo trattato, Rousseau stende un programma di irreggimentazione veramente stupefacente» [p. 58]), le Consiclerations sur le gouvernement de Pologne («l’inganno e le mes­sinscene teatrali sono sempre gli stessi. Così come l’atteggiamento di Rousseau verso il ‘popolo’: una massa di pecore» [p. 64]).

Poste queste premesse, il Contratto Sociale (al quale è dedicato il secondo capitolo del libro) diventa davvero, come presto vedremo, quel testo luminoso in tutte le sue parti che Crocker già ci aveva anticipato. L’approccio all’opera maggiore di Rousseau avviene infatti sulla base della convinzione (capace di lasciar di sasso chiunque abbia una qualche familiarità con i testi russoiani) che ciò «che più colpisce, nel pensiero del ginevrino, è la sua coerenza» (p. 51); mentre i temi intorno a cui una simile coerenza è chiamata ad esercitarsi sono quelli, ormai notissi­mi, dell’instaurazione di un io collettivo o volontà generale che sani l’egoismo e l’aggressività degli uomini riuniti in società, dell’insufficienza ai fini del raggiungimento di questo scopo delle leggi in quanto tali e del contributo decisivo arrecato invece dalla manipolazione del compor­tamento e dalle varie tecniche di controllo (pp. 69-70).

In questa prospettiva, è comprensibile che Crocker cerchi di fare ecletticamente proprie le interpretazioni che vedono nella città russoiana una trasposizione secolarizzata della città divina, quelle che assumono una chiave di lettura decisamente premarxista, o quelle che insistono sull’importanza, nell’elaborazione della teoria politica di Rousseau, del modello «autoritario» di Sparta e Ginevra (pp. 77-84).

Prima tuttavia di affrontare il Contratto Sociale nella sua redazione definitiva, lo studioso americano si sofferma a lungo sul Manoscritto di Ginevra e, in particolare, sul capitolo che s’intitola De la société générale du genre humain. La lettura è, in queste pagine, alquanto più articolata e puntuale che non in altre parti del libro: emerge bene, così, la natura del dissenso russoiano da Diderot, la demistificazione del concetto di società generale, la proposta di risanamento politico o dell’«arte con­dotta a perfezione». Ma ecco che dopo aver toccato problemi impervi e non di fado stridenti l’analisi di Crocker, con uno scarto significativo, torna a rifugiarsi nella tesi di sempre (Rousseau punta a un solo scopo: usare «vari sistemi di indottrinamento» affinché il cittadino «sia in­dotto a credere che l’interesse generale è il suo personale» [p. 92-93]). O, nel migliore dei casi, finisce per far propria, in maniera acritica però, e non senza gravi fraintendimenti, la interpretazione, illustre quanto di­scutibile, di C. E. Vaughan[ref] Per la tesi di Vaughan (che è, essa sì, un buon esempio di lettura «provocatoria») sul posto assolutamente rivoluzionario che a Rousseau spette­rebbe nella storia del pensiero politico a causa della rottura con la tradizione giusnaturalistica e liberale, ci si riferisce soprattutto alla Introduzione e al commento ai Political Writings, cit. (D’ora in poi indicati con Pol. Wr.) Da tenere presente, dello stesso autore anche gli Studies in the History of political philosophy before and after Rousseau, Manchester 1925. [/ref]. Ne viene fuori, così, un Rousseau total­mente estraneo alla tradizione giusnaturalistica, che, «in un sol colpo, riduce la giustizia all’utilità ed istituisce la legge come unico criterio del bene e del male» (p. 92). Decisamente non si può dire che le distin­zioni siano il forte di Crocker: laddove Vaughan formula ipotesi e deli­nea la via di maggiore originalità e rigore che, a suo parere, Rousseau si sarebbe lasciato sfuggire (la radicale sostituzione cioè del criterio di utilità comune alla convenzione, al patto sociale che, al pari dello stato di na­tura, costituirebbe invece un elemento perturbante della dottrina rus­soiana)[ref] « …the Contract and the state of nature are only disturbing elements in his theory of Right», Pol. Wr. cit., p. 44. [/ref], Crocker scopre, «in un sol colpo», fatti compiuti.

Eppure, a gettare qualche luce sulla questione, che del resto è cen­trale ai fini di quelli che Crocker ritiene gli sviluppi «tirannici» di Rousseau, sarebbe stato sufficiente leggere con una certa attenzione pro­prio il passo del Manoscritto di Ginevra (II, 4) frettolosamente messo agli atti come prova dell’antigiusnaturalismo russoiano. In questo passo infatti Rousseau nonché proporsi una demolizione indiscriminata della tradizione giusnaturalistica, distingue un «diritto naturale propriamente detto» (che in quanto fondato su di un «sentimento vero, ma molto vago», cede ai colpi implacabili dell’amore egoistico di noi stessi) e un diritto naturale ragionato (che nasce invece nell’ambito della società ga­rante della reciprocità di comportamento, per cui, guidati come sempre dal principio della «ripugnanza a fare il male», ma non più frenati dal timore di riceverne, «siamo tratti […] a comportarci con gli altri uomini press’a poco come coi nostri concittadini»). E poco innanzi, discutendo del carattere «universale o generale» della legge (così riguardo alla vo­lontà come riguardo all’oggetto), Rousseau aveva scritto che  il più gran­de vantaggio che scaturisce da questa nozione è di mostrarci con chiarez­za i veri fondamenti della giustizia e del diritto naturale. In effetti, la prima legge, la sola vera legge fondamentale che deriva immediatamente dal patto sociale è che ciascuno deve preferire in ogni caso il maggior bene di tutti»[ref] Manoscritto di Ginevra, G. II, p. 55.«Senza dubbio — così si poneva il problema all’inizio del capitolo — c’è per l’uomo una giustizia universale emanata dalla sola ragione e fondata sul semplice diritto dell’umanità, ma tale giustizia, per essere ammessa deve essere reciproca». [/ref]. Solo in questa prospettiva, del resto, può essere ade­guatamente valutata, al di fuori di pii pudori, la questione della priorità della legge sulla giustizia, nel senso che la legge fonda, o meglio, rifonda la giustizia garantendone l’assoluta e perfetta efficacia.

Certo, si tratta di una luce fioca, di una traccia grezza e tutta an­cora da lavorare; ma è quantomeno singolare che Croeker, per provare la rottura del giusnaturalismo operata da Rousseau, sia andato a pescare proprio il testo su cui Derathé fonda la sua confutazione del Rousseau antigiusnaturalista di Vaughan.

Le ragioni di Derathé sono note a tutti gli studiosi di Rousseau (sebbene Crocker mostri di non tenerne per nulla conto) e costituiscono il nucleo di un libro che, comunque lo si voglia giudicare nei suoi risul­tati, è tra le cose più serie e solide che la letteratura russoiana di questo secondo dopoguerra abbia prodotto. È necessario ora, in riferimento al problema che si è sollevato, farvi qualche cenno. Dal fatto che Rousseau, come già aveva fatto Hobbes, neghi il principio della socievolezza origi­naria, dice lo studioso francese, non si può inferire il ripudio di ogni idea di legge naturale. Al contrario, Rousseau, in più luoghi della sua opera, riconosce una legge naturale diversa da quella civile-contrattuale e ad essa superiore. Vaughan ha ragione quando sostiene che non è pos­sibile contratto o patto originario senza legge naturale che vincoli i li­beri contraenti a rispettare la parola data; ma ha torto quando carica i toni e costruisce un’inutile (ancorché ben congegnata) situazione dram­matica secondo cui Rousseau, avendo dapprima mosso una critica radicale alla legge di natura, e trovandosi poi a maneggiare l’idea di contratto sociale (che invece, di necessità, alla legge di natura rinvia), avrebbe sciolto la contraddizione sopprimendo o dimenticando la critica e mante­nendo in vita (con scelta poco coerente e poco felice) il tradizionale contrattualismo.

In realtà, sostiene Derathé, del discorso di Vaughan va rovesciata la premessa: che esista cioè una critica radicale di Rousseau alla legge di natura. L’attacco sferrato nel Discorso sull’ineguaglianza non deve trarre in inganno: Rousseau non intende liquidare la legge di natura o di ra­gione in quanto tale, nega solo che una tale legge si ritrovi già allo stato di natura. L’uomo primitivo, tutto istinto e impulsi, come non parla, così non possiede l’uso attuale della ragione; l’istinto basta per ora alle sue necessità, mentre la ragione, in potenza e come atrofizzata, comparirà e si svilupperà solo con il rapporto sociale.

Per tal modo: «cette argumentation ne tend aucunement à ruiner l’idée traditionelle de loi naturelle. Elle ne prouve pas qu’il soit faux de dire que la loi naturelle consiste dans les maximes de la droite raison, mais seulement qu’elle ne saurait sous cette forme s’appliquer à l’etat de nature».

Il problema allora si scinde, logicamente, in due aspetti: da una parte importa sapere cosa succede prima che la nozione di legge naturale sia conquistabile e conquistata; dall’altra in che rapporto si pone la legge naturale rispetto ad una legge civile (o patto sociale) che essa non ha fondato e alla quale, anzi, è posteriore. Sul primo punto, la tesi di De­rathé è che per Rousseau la recta ratio non esaurisce il diritto naturale: esistono principi regolativi anteriori alla ragione (istinto di conservazione e pietà verso gli esseri sensibili) dai quali, come si dice nel Discorso sul­l’ineguaglianza, scaturiscono «tutte le regole del diritto naturale». Queste regole formano nello stato di natura una morale naturale o diritto di natura «propriamente detto», ma sono soffocate e quasi annientate dallo scatenamento delle passioni, e possono essere ristabilite dalla ragione, in forma di «diritto naturale ragionato», solo quando la società riesca a farsi garante della reciprocità di comportamento fra gli uomini.

Sul secondo punto, Derathé ritiene che, sebbene posteriore alla legge civile, la legge di natura sia anche in Rousseau, come in tutti i giusnatu­ralisti, ad essa superiore: il potere dello Stato è assoluto solo «in ap­parenza», mentre in realtà è limitato dal rispetto verso la legge di natura e quindi dal mantenimento della distinzione tra cittadino e uomo. «Sur ce point, les conclusions de Rousseau rejoignent entièrenient celles de l’école du droit naturel, et pour lui, comme pour Locke ou Pufendorf, la loi civile ne doit rien commander qui soit contraire à la loi naturel­le». Ma allora, si dirà, in che consiste l’«alienazione totale» dell’asso­ciato alla comunità su cui tanto batte l’interpretazione di Vaughan? Per lo studioso francese, si tratta, con le parole stesse di Rousseau, di uno «scambio vantaggioso» e cioè di un «artificio» attraverso il quale l’uomo civile rientra in possesso, sotto altra forma, dei beni di cui già godeva nello stato di natura; o, secondo una citazione da Del Vecchio, si tratta di una finzione di metodo affinché i diritti che sono inseparabili dall’uomo gli siano formalmente conferiti anche dallo Stato.

Ma con ciò, si vuole forse dire che dopo la ponderosa fatica del Derathé la questione del rapporto di Rousseau col giusnaturalismo è de­finitivamente risolta, al punto che richiamarsi a posizioni divergenti costituisce un intralciante anacronismo? No di certo; sono ben altre le obiezioni da muovere al Crocker. Quanto al libro di Derathé, pur avendo al suo attivo molti pregi, non si può certo dire che pervenga, e nemmeno su questioni quanto si voglia puntuali e circoscritte, a risultati definitivi. Un libro che abbia per tema Rousseau e la scienza politica del suo tem­po, implicando, tutt’insieme, una ricognizione complessa e vastissima sulle fonti e le influenze operanti nel ginevrino, una lettura integrale dei suoi scritti e quindi un tentativo critico di stabilirne la collocazione nella storia del pensiero, politico, non può che presentarsi come opera aperta di documentazione, orientata verso una complessità crescente di voci e di richiami, tesa più ad allargare il quadro e a sperimentare vie nuove, che non a cogliere, intensivamente, sintesi documentarie o concettuali. Le immagini del pozzo senza fondo o delle scatole cinesi sono perfettamente adeguate a ricerche di questo tipo.

Ma accade spesso tuttavia che Derathé dimentichi la natura e i li­miti costitutivi del suo lavoro. Si assiste allora ad un salto verso con­clusioni affrettate e non sempre strettamente richieste dalla base documentaria da cui sono precedute. L’innegabile lucidità dello studioso fran­cese si fa in questi casi troppo lucida e refrattaria alle asperità del testo, mentre la tendenza a mettere sempre d’accordo Rousseau con se stesso comporta, come scotto, talune approssimazioni e riduzioni, talune espun­zioni o escogitazioni ermeneutiche.

Per restare più da vicino alla polemica con Vaughan, si deve notare che lo studioso francese, nonostante lo sforzo di approfondimento che lo ha portato a spezzare e ad articolare il rapporto di Rousseau col «giusnaturalismo» in direzione di un documentabile rapporto con sin­goli pensatori giusnaturalisti (e in particolare con Pufendorf), continui poi a riferirsi a una «scuola del diritto naturale», da lui assunta senza storia interna, in una sorta di immota atemporalità e perpetuità di temi che andrebbero (per non risalire al pensiero greco) dalle definizioni cice­roniane del diritto naturale fino a Rousseau[ref] Un rilievo simile a questo era stato mosso al libro di Derathé in una recensione di Giuseppe Pansini, comparsa sulla «Rivista storica italiana»1954III, pp. 431-39, dove si lamentava che tra i molti autori studiati da Derathé non ci fosse «altro legame che quello, troppo generico invero, del loro confluire nella cosiddetta scuola [del diritto naturale], e solo distinguendo fra essi i giuristi dagli scrittori politici». Poco convincenti peraltro le rima­nenti osservazioni mosse al Derathé e principalmente ispirate all’«bisso in­colmabile» che esisterebbe tra Hobbes e Rousseau. [/ref].

Ora, a noi sembra che finché non si faccia un tentativo di storiciz­zazione che, tenendo ferma la complessa peculiarità delle teoriche giusna­turalistiche, colga i motivi comuni o di «scuola» nel loro sviluppo, nel loro differenziarsi, nell’accresciuta consapevolezza dell’insufficienza e delle aporie cui va incontro la tematica della legge di natura, nei nodi di cri­si sempre più manifesti tra ‘600 e ‘700, e, soprattutto, nel singolare in­contro con la nascente considerazione o «scienza» della storia, la que­stione del giusnaturalismo russoiano risulterà altamente problematica, se non proprio improponibile. Ha un bel dire Derathé che le argomentazioni di Rousseau non insidiano «l’idée traditionelle de loi naturelle». Cosa è mai e cosa ha a che fare con la «legge vera» di Cicerone, eterna e sempre data, una legge di natura come quella di Rousseau che non c’è alle origini e che viene conquistata dall’uomo solo ad un certo momento della sua storia? Anche ammettendo la linea conciliativa di Derathé circa il diritto naturale primitivo e il diritto naturale ristabilito su base ra­zionale, resta il fatto che la vita sociale se è produttiva di razionalità (nel senso che ne determina il passaggio all’«atto») non produce alcunché di simile alla legge di ragione.

La società ha sì il potere di distruggere, con lo sfrenamento delle passioni, quella che Derathé con denominazione impropria chiama «mo­rale naturale» (o altrimenti diritto naturale primitivo, diritto naturale «propriamente detto», ecc.) ma al suo posto lascia il vuoto, o meglio vi lascia la mistificazione sistematica e la penosa impotenza. Nello stato di natura l’uomo non ha la nozione di legge; mutata la primitiva condi­zione, conosce solo la legge civile (iniqua) e a sua immagine si crea e si finge la legge naturale (di ragione). Se non è mistificato, il ricorso alla legge di ragione è comunque tardivo, dato che i suoi elementi «comin­ciano a svilupparsi solo quando lo sviluppo precedente delle passioni rende impotenti tutti i suoi precetti». E, in conclusione, il «preteso trat­tato sociale dettato dalla natura», ossia le «prescrizioni» naturali, sono chimeriche e oscillano sempre tra l’essere «sconosciute» e l’essere «inat­tuabili», sicché «non si può fare a meno di ignorarle o di infrangerle». [ref] Manoscritto di Ginevra, G. II, p. 6 e sgg. Derathé polemizza con l’interpretazione di Vaughan secondo cui il «preteso trattato social» sta per diritto naturale. A suo parere invece equivale a «socievolezza originaria». Ma la discussione non ci pare del tutto bene impostata. Si riferisca pure, infatti, al diritto naturale, non per questo Rousseau vuol dire che il diritto naturale è sempre e in quanto tale chimerico, ma solo che lo è alle origini della storia umana. Del resto i due significati possono anche coincidere nel senso che la forma comune attraverso cui si presentava il discorso sul diritto naturale allo stato di natura, era storicamente appunto quella della socievolezza originaria. [/ref]

Certo, si deve fare il debito posto alla gradualità del processo di de­cadenza e alla possibilità di interventi che valgano a contenerlo, a raffre­narlo; si deve fare posto ai risvolti ambigui e agli sviluppi alternativi che il corso storico per Rousseau consente; e, infine, si deve ricordare la dialettica opportunità per cui si può «ricavare dal male stesso la me­dicina che deve guarirlo »[ref] Manoscritto di Ginevra, G. II, pp. 9 e sgg. [/ref]. Ma in nessuno di questi casi (siano essi escludentisi o compresenti in Rousseau) la legge di ragione ha diretta­mente un ruolo di più felice incidenza. Quand’anche la sua nozione fosse limpida oramai ed inequivocabile per molti uomini e, al limite, per tutti gli uomini tranne uno, non per questo avrebbe la benché mi­nima capacità di intervento sulle situazioni positive e storicamente date. La serrata polemica di Rousseau con l’articolo Droit naturel di Diderot, pubblicato nel V tomo dell’Enciclopedia, verte proprio su questo punto: l’insufficienza di una confutazione giusnaturalistica opposta al raisonneur violent come lo chiama Diderot o a l’homme indépéndent, come preferi­sce chiamarlo Rousseau, e insomma al solitario che si pone fuori del tes­suto sociale e ne mette radicalmente in discussione i fondamenti. Si può essere d’accordo sull’essenza della giustizia, ma che interesse ha il conte­statore anarchico a farsi giusto nella prassi e a «separare […]se stesso da sé» al punto da scegliere la specie e non quel «primo precetto della natura» che è la conservazione di se stessi [ref] Ibidem. [/ref]? Ciò che manca è una ga­ranzia di reciprocità per cui al comportamento ispirato al diritto di ragione corrisponda un pari comportamento in tutti gli uomini. Alle ori­gini della storia umana una simile reciprocità non c’è (né può esserci); la società civile presenta una grottesca deformazione della reale recipro­cità, nel senso che mentre conferisce forza di sanzione giuridica all’ine­guaglianza di fatto e all’avvenuta divisione tra ricchi e poveri, pretende poi di far coincidere l’essenza e la generalizzazione di questa situazione con la «universale benevolenza» di tutti gli uomini, con la realizzazione della legge di ragione; sicché il problema, non mai risolto e solo sfigu­rato, al pari della «statua di Glauco», si ripresenta intatto e con grande spicco tra quelli ai quali il contratto sociale russoiano vuole fornire ri­sposta consapevole e definitiva.

Un punto di quella celebre definizione ciceroniana di legge naturale che, come ricorda Derathé, tutti i teorici del giusnaturalismo si compia­cevano di porre in bella mostra in testa ai loro trattati, deve avere parti­colarmente colpito Rousseau. La recta ratio, vi si dice, è conforme a natura, comune a tutti gli uomini, eterna; essa è osservata dai buoni ma non smuove i cattivi («quae tamen neque probos frustra iubet aut vetat nec improbos iubendo aut vetando movet»)[ref] De Republica, III. 22. Cito dall’edizione della «The Loeb Classical Library», London-Cambridge, Massachussets 1959, p. 210. [/ref]. Che cosa è mai questa legge assoluta perenne e inderogabile e in che rapporto sta con la poli­tica e con la storia, se può assoggettare al suo comando supremo alcuni uomini e lasciarne altri nella più completa indifferenza? Si può dire che l’intricato e peculiarissimo rapporto di Rousseau con il giusnaturalismo si sviluppi tutto a partire da questo punto: come far sì che la legge di ragione, uscendo dalla posizione inefficace e sempre battuta di prescri­zione morale (individuale) divenga fatto di tutti, e si realizzi durevolmen­te attraverso la politica? Questa impostazione, originale e pochissimo di «scuola», comporta due conseguenze, tra loro strettamente connesse. La prima è che la legge di ragione non ha di per sé nessuna potenza opera­tiva, ma ha previamente bisogno di un atto politico o «rivoluzionario» l’instaurazione della legge, del patto sociale giusto che la riformuli («il più grande vantaggio che scaturisce da questa nozione [la legge] è dimostrare con chiarezza i veri fondamenti della giustizia e del diritto naturale»), la rimetta in circolazione consentendone un dispiegato svi­luppo in forma di diritto naturale ragionato o giustizia (posteriore alla legge).

La seconda è che la legge naturale non solo non si ritrova allo stato di natura (sul che, fatte talune precisazioni, tutti possono essere d’accordo), ma nemmeno appartiene, semplicemente, alla società civile. Dietro la pacifica trasposizione della legge di natura dal primo stato al secondo che per Derathé Rousseau avrebbe operato, si nasconde in realtà l’intero problema della storia. E se è sempre buona regola di pru­denza non leggere Rousseau con occhi compattamente catastrofici, nel segno cioè di una decadenza progressiva e rettilinea della storia, se è bene tener ferma, oltreché la necessità, l’ambigua fecondità del vivere sociale, è anche vero che per quante realizzazioni e attuazioni di virtualità la so­cietà comporti (e, prima fra tutte, l’aver condotto l’uomo a sottrarsi alla fissistica datità animale e dunque a farsi in senso proprio uomo), essa rimane singolarmente battuta, scoperta e insufficiente proprio dal lato del «diritto naturale». Sfuggito alla primitiva condizione, semiani­malesca, di essere ottuso e sensitivo, e pervenuto a uno stato di gran lunga più complesso e più ricco, l’uomo è in pari tempo decaduto da un equilibrio originario, retto dai principi anteriori alla ragione, ed è entrato nel tempo della dispersione e della sopraffazione, a cui è estra­neo ogni riferimento all’ordine naturale, ogni idea di «legge» o di «diritto».

In questo senso la società civile è la negazione, l’esatta antitesi del diritto naturale, ed è lo scarto tra i due momenti che in definitiva con­sente una decisa condanna della società civile. Il diritto naturale è ciò che manca perché la dispersione possa ordinarsi in cosmo e possa ricosti­tuirsi in equilibrio della comunità umana. Ma a questo fine, come si è detto, il diritto naturale non ha alcuna forza diretta di mutamento, ed è necessario che intervenga un atto di rottura — il patto sociale legit­timo — a spianargli la strada. Ciò vuoi dire che la «trasposizione» di cui parla Derathé ha, nel rapporto di Rousseau col giusnaturalismo, una portata molto più sconvolgente. Il diritto naturale non si trova più alle origini ma alla fine della storia così come l’abbiamo vissuta, e solo dopo che c’è stata la legittimazione del contratto; non è un criterio rego­lativo da sempre dato e connaturato all’uomo, è una conquista, un punto d’arrivo al quale l’umanità può, in taluni casi, pervenire[ref] Per Rousseau, ‘ha scritto Paolo Casini, «la loi naturelle non è più — come presso i giusnaturalisti classici — una norma eterna “scritta nel cuore” e realizzata nel diritto positivo dei vari popoli; è, al contrario, un prodotto dell’evoluzione della ragione, emergente in seno alla società civile. E’ un ideale di giustizia da realizzare, potenzialmente “rivoluzionario”» (Rousseau e Di­derot, in « Rivista critica di Storia della Filosofia», luglio-settembre 1964). [/ref].

In presenza di un’impostazione del problema così nuova e così in­trecciata ad una serrata demolizione dell’astoricità dei principi della «scuola» giusnaturalistica (segnatamente, nella prefazione al Discorso sull’ineguaglianza e nel Manoscritto di Ginevra), riesce abbastanza com­prensibile che studiosi seri e spregiudicati come Vaughan siano stati in­dotti a fare tabula rasa del problema del giusnaturalismo in Rousseau, o semmai a tenerlo in piedi in forme tutt’affatto surrettizie, come un com­promesso tra un pensiero nuovo, geniale (che non riesce però ad essere fino in fondo se stesso) e tradizionali concetti del pensiero politico — come ad esempio quello di contratto sociale — inesplicabili fuori di una fondazione giusnaturalistica. Senza dubbio Derathé riesce in linea di mas­sima vigoroso e persuasivo quando, confutando la tesi generale di Vau­ghan, mostra la non estrinsecità e anzi l’intima aderenza di taluni temi della tradizione giusnaturalistica al pensiero di Rousseau. A riprova di ciò stanno in primo luogo una vasta serie di raffronti testuali che mo­strano come Rousseau venga formando il suo pensiero a stretto contatto con taluni pensatori «giusnaturalisti»: così con i «giureconsulti» (Gro­zio e Pufendorf, il loro traduttore francese Barbeyrac e il ginevrino Bourlamaqui) come con i «politici» (Hobbes e Locke). Ed è questa indubbiamente la strada che Derathé percorre con maggiore sicurezza e convinzione, anche se il terreno è sterminato e le citazioni e i rinvii sono moltiplicabili quasi all’infinito. In secondo luogo, ci sono i testi rous­soiani che mostrano come i temi del diritto naturale continuino ad avere rilevanza cospicua anche quando il pensiero del ginevrino assume la sua configurazione più tipica e originale. Ed è questo viceversa il terreno dove Derathé, preoccupato forse di stabilire troppo solide continuità di pensiero, rischia di non cogliere la novità né, per certi aspetti, la portata rivoluzionaria della teoria politica di Rousseau (già sottolineata, quasi un secolo fa, da uno studioso come Otto von Gierke, anche lui attentissimo a delineare la lunga e complessa storia di concetti politici che in qualche modo sfociano nel Contratto Sociale[ref] Giovanni Althusius e lo sviluppo storico delle teorie politiche giusnaturalistiche, tr. it., Einaudi, Torino 1943. [/ref]). Che senso ha ad esempio dire che sul punto dei rapporti tra legge naturale e potere sovrano «les conclusions de Rousseau rejoignent entièrement celles de l’école du droit naturel, et pour lui, comme pour Locke ou Pufendorf, la loi civile ne doit rien commander, qui soit contraire à la loi naturelle»? Non valgono i richiami al fatto che Rousseau «se plaçait suecessivement à deux points de vue différents» o alla distinzione tra questioni d’origine storica e que­stioni di valore per avallare un appiattimento che voglia riportare Rous­seau a Locke ignorando la configurazione e il nesso affatto nuovi in cui la legge civile (giusta) si viene oramai a trovare con la legge di natura. Si tralascino pure i problemi puntuali sollevati da Vaughan (ad esempio la soppressione nella redazione definitiva del Contratto del capitolo del Manoscritto sulla società generale del genere umano) e intorno ai quali la confutazione di Derathé può sembrare (e talora veramente lo è) insuf­ficiente, ispirata a una linea ora minimizzatrice e ora troppo conciliante.

Resta che se solo il patto, attraverso l’alienazione contrattuale e la garan­zia di reciprocità, vale a porre in essere il diritto naturale ragionato, al­lora evidentemente una grande importanza si deve annettere, proprio ai fini di una ricostruzione che voglia tener fermo e recuperare tutte le istanze giusnaturalistiche di Rousseau, al momento della rottura di quel­l’iniquo patto sociale che è la reale negazione e, insieme, la parodistica contraffazione della legge di natura, nonché alle forme e ai modi in cui all’interno del contratto sociale russoiano la nuova dimensione «ragio­nata» del diritto di natura ha modo di dispiegarsi. Ora invece proprio su questo punto l’analisi dello studioso francese riesce riduttiva e con­venzionale, poiché assegna a Rousseau un esito compattamente lockia­no, dove l’alienazione è un mero scambio in forza del quale l’uomo civile rientra in possesso dei diritti e dei beni che già aveva nello stato di natura e che sempre avrà con sé, dato che sono inseparabili dalla sua natura. È solo quindi formalmente, per una sorta di finzione giuridica, che lo Stato può conferire o riconferire i diritti naturali sotto forma di diritti civili[ref] Fa venire in mente codesta asettica interpretazione dell’«aliénation totale» di Rousseau quella di Pierre-Maurice Masson, il quale chiamato alle armi per lo scoppio della prima guerra mondiale, mentre il suo bel libro sulla religione di Rousseau era in corso di stampa, e avendo preso la decisione di mandare avanti il lavoro e di correggere le bozze «en redescendant dès avant-lignes», scriveva in un post-scriptum dal fronte che in ciò non vi era nulla di «impertinent ou frivole», perché le arti della pace si accompagnano sempre ai fragori della guerra e perché non era poi tanto inopportuno occu­parsi di Rousseau, dal momento che « nul n’a su poser plus fortement que l’auteur du Contrat Social les maximes du citoyen sous les armes; et c’est seulement dans la nation mobilisée pour sa défense que l’on peut accepter cette “aliénation” qu’il réclamait, “l’aliénation totale de chaque associé avec tous ses droits à toute la comrnunauté”. Mais Jean-Jacques est encore là pour nous rappeler que le citoyen n’est pas tout l’homme…». (La réligion de J.J. Rousseau, Hachette, Paris 1916, vol. I, pp. IX-XI) [/ref].

Anche Derathé in definitiva deve ripristinare, in pieno Contratto Sociale, la distinzione tra l’uomo (al quale appartengono i diritti natu­rali) e il cittadino; sicché alla politica spetta il compito, limitato e tradi­zionale, di accompagnare e proteggere dall’esterno, senza lacerazioni trop­po drammatiche, quell’assolutezza di diritti della coscienza individuale, di fronte alla quale tende a colmarsi lo stesso profondo solcato tra stato di natura e stato civile e s’instaura una sorta di continuità che urta, a parer nostro, contro il nerbo forte della riflessione di Rousseau sulla storia. «Il y a sans doute […] bien de la différence entre l’indépenden­ce naturelle et la libertà civile, mais la seconde est un équivalent de la première, et tous les efforts de Rousseau tendent à trouver un système politique qui reste conforme à l’idéal du droit naturel» [ref] Tutte le citazioni sono tratte dal cap. III, sez. 4 (La loi naturelle) del libro di Derathé, ed. cit., pp. 151-71. Da tenere presente per la polemica con Vaughan (che del resto, come si è detto, è uno dei fili conduttori del libro) anche le pagine della Conclusion (365-79). Sulla doppia scaturigine della morale in Rousseau dall’istinto e dalla ragione che fonda per Derathé il doppio di­ritto naturale, « istintivo » e « ragionato », si veda Le rationalisme de J.J. Rousseau, Presses Universitaires de France, Paris 1948, pp. 113-25. [/ref].

Di recente, in occasione della seconda edizione del Jean-Jacques Rousseau et la science politique de son temps,[ref] Vrin, Paris 1970. Il testo è immutato, salvo alcune pagine di aggiorna­mento bibliografico. [/ref] Garin è tornato breve­mente ma con grande equilibrio sui pregi e i limiti dell’opera. «Senza dubbio ha scritto su talune tesi generali del Derathé è possibile il dissenso; a volte viene fatto di sentire più penetrante, pur nelle sue unilateralità, il vecchio Vaughan. Su punti capitali come il concetto di diritto naturale, o il contratto sociale, è difficile seguire senza riserve il Derathé. Impossibile consentire con lui quando viene svuotando della sua carica eccezionale, di sapore ‘teologico-metafisico’, l’atto di ‘alienation totale de chaque associé avec tous ses droits à toute la communauté, ri­dotto nella sua interpretazione a un artifice, anzi, con l’appoggio di un testo di Giorgio del Vecchio del 1914, a une .finction de méthode. Con tutto questo l’opera del Derathé resta fondamentale, non solo per le ana­lisi veramente ammirevoli dei testi dei giusnaturalisti, ma per l’equilibrio con cui definisce i rapporti di Rousseau con quella letteratura, offrendo a un tempo il materiale per un ricco commento al Contratto».[ref] Ristampe di opere su Rousseau, in « Rivista critica di Storia della Filosofia », ott.-dic. 1971, pp. 455-59. [/ref]

Si deve solo aggiungere che Derathé ha ben presenti la statura in­tellettuale di Vaughan, la forza della sua interpretazione (che giudica «vigoureuse, personelle, systématique, parfois contestable, mais toujours suggéstive »[ref] J. J. Rousseau et la science etc., cit., p. 442. [/ref]), nonché la difficoltà di confutarne in maniera diretta e sullo stesso terreno di robustezza «sistematica» la tesi generale e i suoi perentori sostegni. Nello stesso tempo però lo studioso francese ha il merito di individuare bene (e prima di tutto sul terreno storico, di for­mazione del pensiero politico) il punto critico dove la lettura di Vau­ghan, per essere coerentemente «sistematica», si fa troppo «personale», scade cioè nell’arbitrio, procedendo per estrapolazioni e secche espun­zioni, diventa, come dice Garin, «unilaterale». I maestri di Rousseau, afferma Vaughan, sono, nell’ordine di importanza, Platone, Montesquieu e Locke; e Derathé ha buon gioco nel mostrare come il quadro di questa pur intelligente triarchia sia destinato a sfaldarsi e ad ampliarsi: non solo con il vasto capitolo sui giureconsulti ma anche con la reimpostazio­ne di quel rapporto di Rousseau con Hobbes che lo studioso inglese tende sempre a collocare in secondo piano o ad ammettere solo per questioni di dettaglio.

Né le difficoltà riguardano solo le fonti di Rousseau, i suoi mae­stri. Quando si provi a misurare più da vicino l’attendibilità della linea interpretativa di Vaughan si assiste subito a un dirompere di difficoltà, di complicazioni e talora di contraddizioni che ne minano la bella strut­tura. Si prenda per fare un solo esempio quel capitolo del Manoscritto di Ginevra sulla società generale che è in qualche modo l’architrave della tesi di Vaughan, poiché non solo conterrebbe la critica radicale di Rous­seau alla nozione stessa di diritto naturale ma rappresenterebbe altresì (in forza della sua soppressione), il non rettilineo compromesso russoia­no con la tradizione giusnaturalistica. È questo capitolo, secondo il pa­rere dello studioso inglese, «a moment of speculative insight», «a masterpiece of philosophical criticism» e così via[ref] Pol. Wr., cit., pp. 16-17. [/ref]; ma a parte le iper­boli «filosofiche», provi il lettore a leggerlo onestamente e a dargli un senso compiuto; lo tenga quindi fermo nel contesto del Manoscritto (avendo d’occhio la seconda parte di quel cap. 4,  libro II, che non com­pare nel Contratto Sociale e sulla quale molto opportunamente Derathé richiama spesso l’attenzione); e provi da ultimo a confrontarlo con la Prefazione al Discorso sull’ineguaglianza (con cui più evidenti sono i legami) e con la redazione definitiva del Contratto (con cui pure ha un collegamento molto importante, seppure più mediato). Ben presto si vedrà che già la prima e più semplice di queste operazioni — quella cioè di accordare prima facie il testo con se stesso risulta, e tutt’altro che di rado, un’impresa quasi disperata; che difficoltà sempre maggiori sorgono non appena si voglia inserire il brano in un contesto più ampio e significativo. Così come si presenta e senza un minuto lavoro di analisi, di sforzo interpretativo e di confronto critico, il capitolo sulla società generale è un testo, verrebbe voglia di dire, quasi inservibile, una specie di canovaccio buono a molti usi ma non certo a puntellare una tesi così tagliente e perentoria quale è quella di Vaughan.

In conclusione, si può dire, certo, che la specifica risposta di De­rathé all’interpretazione di Vaughan lascia spesso insoddisfatti. Ma si deve tener fermo il fatto che quella di Vaughan è una tesi e si direbbe meglio un’ipotesi di lettura, per quanto brillante, intelligente e sugge­stiva possa risultare; mentre il lavoro di Derathé ha caratteri completa­mente diversi e rappresenta, come si è già accennato, una sorta di coro aperto a voci sempre nuove e che a fatica si lascia ridurre in forma. Quando lo studioso francese si tiene a questo carattere del suo libro, perviene altresì, per via diretta o più spesso indiretta, a una buona con­futazione di Vaughan, poiché ne complica e ne rimette in discussione i tratti caratteristici e, in definitiva, piuttosto rigidi. Altrove invece, o per difetto di storicizzazione (si ha una lettura continuamente oscillante tra la nuda citazione isolata dai testi e la generalizzazione della «scuola del diritto naturale»), o per difetto di singole analisi (per conclusioni, a volte discutibili o poco felici), si giunge a risultati di fronte ai quali Vaughan ancora «tiene», sebbene talvolta più per la debolezza dei critici e la complessità dei problemi che non per propria e intrinseca forza di persuasione. Chi voglia riprendere oggi lo studio dei problemi d’interpretazione russoiana posti da Vaughan, non può farlo, crediamo, ignorando la lezione di Derathé. Mentre ci pare estremamente utile, in tempi in cui se molta è la fortuna di cui gode Rousseau, frequentissima è anche la ten­denza a definirlo per essenza e a farne bandiera dei più vari colori, ri­prendere questi problemi e questa polemica, il dibattito insomma sul giusnaturalismo, dal quale solo può scaturire una delineazione del posto che a Rousseau spetta nella storia del pensiero politico meno approssi­mativa di quella che oggi non si possegga.

Ma è ora di tornare, dopo questa lunga digressione, a Crocker, il quale da parte sua risulta singolarmente reticente o sbrigativo nei riguar­di dei temi or ora richiamati. Eppure non v’è chi non veda l’importanza preliminare che la questione del giusnaturalismo riveste ai fini dei problemi da lui trattati. Se lo studioso americano avesse avuto un qualche interesse alla ricostruzione storica del pensiero di Rousseau, è indubbio che proprio in questa direzione avrebbe dovuto volgere la sua attenzione. Invece c’è nel suo libro una gran fretta di «appoggiarsi» a talune inter­pretazioni «storich » della teoria politica di Rousseau (per quel tanto che servono) e di passare subito a quegli sviluppi «tirannici» ai quali l’autore intende evidentemente affidare il meglio dei suoi contributi agli studi russoiani.

L’importante quindi, in tema di leggi o diritti naturali, è di sbaraz­zare subito il terreno affermando (sulla base di un Vaughan irrigidito e di una folla di pii interpreti-esorcisti di Rousseau) che nel Contratto Sociale «ogni concetto di diritti individuali naturali, anteriori o sopravvenienti, è fuori questione» (p. 107).

Ma la cosa ha conseguenze ancora più vaste. Nella sua caduta il giusnaturalismo trascina con sé anche il problema russoiano dello stato di natura e della bontà originaria (e anche questo deve essere un ricordo a metà di Vaughan). «Per Rousseau, si afferma, nessuna confutazione del nichilismo egoistico si deve basare sulla natura o sulla società esi­stente» (p. 91). L’equiparazione della natura alle società esistenti è dovuta non tanto al fatto che (come si dice nel famigerato capitolo del Manoscritto) «le leggi della giustizia e dell’uguaglianza non contano nulla per chi vive a un tempo nella libertà dello stato naturale e sotto il giogo dei bisogni propri della società»[ref] Manoscritto di Ginevra, G. II, p. 14. [/ref], quanto piuttosto al fatto che la natura di Rousseau, nell’analisi di Crocker, altro non contiene se non quegli istinti aggressivi e laceranti, quella malvagità originaria che, senza alcun trapasso, si ritrova appunto a fondamento delle società costituite. In conclusione, si avrebbe una ripetizione dello schema hobbesiano[ref] Che emerge, oltreché da i punti’ di partenza anche dai punti di arrivo. «In forma surrettizia, il Nostro raggiunge lo stesso fine di Hobbes: un potere illimitato del Sovrano. Ma quest’ultimo non è più un monarca dispotico, bensì un’onnipotente volontà generale. Di fatto, la tirannia potenziale è molto più grande in Rousseau… » (p. 104). [/ref]: stato di natura (che comprende in Rousseau tutto il tempo storico e il dispiegarsi del patto sociale iniquo) contrapposto allo stato civile creato dal contratto giusto. Con un gusto discutibile della drammatizzazione Crocker, elimina tutte le scansioni intermedie e vede campeggiare solo questi due titanici personaggi: «Nature» e «Culture» (come suona appunto il titolo di uno dei suoi libri). I liberali, i politici empirici, i sani sperimentatori delle tecniche del vivere sociale, egli pensa, stanno dalla parte della natura; i dogmatici, i pensatori «totalitari» che vogliono rifare l’uomo dal nulla, come Hobbes appunto, Rousseau e Marx, sono per un radicale annullamento della natura a vantaggio della «cultura». Così Crocker può scrivere che: «con una vera collettivizzazione del­l’uomo possiamo superare le contraddizioni e por rimedio a quello che la natura non è riuscita a fornire. Rousseau dichiara utopisticamente che la prima legge della nuova società sarà che ognuno preferisca sempre il bene di tutti a quello suo personale. La natura sarà allora rovesciata» (pp. 91-92).

Si lasci da canto il facile ricorso all’utopismo, che pure, così come è argomentato da Crocker, fa venire in mente una bella pagina della Critica kantiana dove si dice che meglio varrebbe studiare «con nuove cure» il pensiero politico di Platone, piuttosto che «metterlo da parte come inutile sotto il troppo misero e nocivo pretesto della sua inattua­lità» o, altrimenti, cercare di liquidarlo con quel «triviale appello a una presunta esperienza contraria», di cui non v’è nulla «di più dan­noso o di più indegno di un filosofo»[ref] Critica della ragion pura, tr. it. Gentile-Lombardo-Radice, Laterza, Bari 1963, p. 307. [/ref]. Resta il fatto che questo uto­pismo è a sua volta ottenuto al prezzo di una schematizzazione insieme falsa e poverissima. Si abbandona anzitutto la problematica dello stato di natura (e la cosa non è giustificata né dal fastidio che senza dubbio ingenerano le ricorrenti e variamente camuffate letture primitivistico-­pastorali di Rousseau, né dalla preminenza che si voglia accordare al pen­siero politico sugli altri aspetti dell’opera del ginevrino, poiché anche questa prospettiva di lettura risulta fortemente interessata alle pri­missime origini della storia umana); e quindi si lascia di fatto cadere, sommerso in una buia notte di corruzione, anche il travaglio complesso e fecondo, non solo rovinoso, che si accompagna alla nascita e all’evoluzione della società (il tema specifico cioè del Discorso sull’ineguaglianza); per giungere così ad un Contratto sociale che in quanto è stato isolato dal tessuto di riflessioni russoiane sulla storia (da quella cioè che nel capitolo più volte richiamato del Manoscritto di Ginevra è definita da Rousseau come la ricerca volta a conoscere «di dove nasca la necessità delle istituzioni politiche»)[ref] Manoscritto di Ginevra, G. II, p. 3. [/ref], si configura come una terra bruciata che è possibile caricare di significati immediatamente mistici o assolutistici, intesi come semitaumaturgica risposta a un compatto universo di depra­vazione.

Non è, beninteso, che questo elementare schema diadico di lettura, scopertamente basato sul ritmo corruzione-salvezza, sia peculiare a Croc­ker. Al contrario, c’è stato spesso al centro della rinascita di studi e inte­ressi russoiani degli anni più recenti, una radicalizzazione di questo tipo, secondo cui al contratto-salvezza (non importa poi se assunto nel signi­ficato, positivo, di felice parametro politico-rivoluzionario o in quello, negativo, di cattivo surrogato escatologico), fa riscontro una storia come storia di mera e semplice alienazione, di cui non importa più tanto sa­pere come e perché si è alienata, né in quale nesso si trovi con lo stato di natura (subito dato, senza mai un dubbiò, come ipotetico e, quel che è peggio, subito relegato tra la mitologia di fatto non utilizzabile ai fini di una migliore comprensione di Rousseau) o con l’affermazione (non operante e perciò dogmatica) circa la bontà originaria dell’uomo. E nondi­meno, quantunque lo studioso americano citi esplicitamente qualcuno di questi autori o correnti interpretative, fa una certa impressione leggere in lui codesto schema allo stato grezzo, per così dire; fa impressione assistere, ad esempio, alla totale assimilazione di Rousseau a un filosofo come Hobbes (ma del resto un simile pericolo è latente in ogni inter­pretazione che tenga fuori o non colga adeguatamente nei suoi sviluppi il punto fermo della contrapposizione di Rousseau al «sofista» Hobbes e al «retore» Agostino: la naturale bontà dell’uomo) [ref] Le espressioni sono nella Lettera a Beaumont, in Oeuvres complètes, ed. Hachette, vol. III, cit. I testi più significativi su questo punto in Discorso sull’ineguaglianza, G. I, pp. 161-62;Manoscritto di Ginevra, G. II, p. 10; Scritti sull’Abate di Saint-Pierre, G. II, pp. 370-72.  [/ref]; e infine fa im­pressione vedere a quali usi estremi si può ancora piegare, con Crocker, uno schema che ha già spalle così forti da reggere letture politicamente antitetiche di Rousseau.

Le pagine che Crocker dedica al Manoscritto e le altre che abbiamo qui richiamate, hanno lo scopo d’introdurre l’analisi più diretta del Con­tratto Sociale, che difatti occupa tutta la seconda parte del capitolo cen­trale e più importante del libro. I temi fatti segno a discussione riguar­dano i caratteri della sovranità e il concetto di volontà generale, il Legi­slatore-guida, il problema della maggioranza e le tecniche di voto, la reli­gione civile. Ma la lettura riserva scarse sorprese: gli argomenti e i luo­ghi comuni di una polemica antirussoiana vecchia di due secoli, citati alla rinfusa (il contemporaneo di Rousseau accanto al collega di stanza di università), sono chiamati a dare man forte a conclusioni che o confer­mano pienamente ciò che il lettore già conosce, o ne dipendono con pre­vedibile ovvietà. Ora, il problema non è, come Crocker ritiene, quello di accettare la sua interpretazione o, in caso contrario, di stare dalla parte di Rousseau, di volere a tutti i costi idealizzarlo e, per così dire, disin­nescarlo, presentandolo in «una prospettiva più piacevole» (p. 172 e passim). L’agiografia è proprio fuori questione; e il «partito» di Rous­seau è un falso obiettivo polemico, che ha il solo risultato di mettere a nudo i metodi di lavoro di chi se ne serve.

Nessuno può negare fondamento a talune delle classiche obiezioni al Contratto Sociale richiamate da Crocker, ed è veramente difficile sostenere che il concetto di volontà generale, che la figura e la funzione del Legi­slatore siano cose facili da intendersi, del tutto congruenti (nel disegno del Contratto e in quello più vasto dell’opera russoiana), o che, in una diversa prospettiva (e con tutte le approssimazioni che un simile discorso comporta), siano cose in linea diretta riconducibili alla tradizione di pen­siero liberal-democratica. Il punto è, più semplicemente, di sapere se queste difficoltà interne ed esterne di lettura debbano costituire stimolo a una migliore comprensione di Rousseau (e, attraverso di lui, a una mi­gliore comprensione anche di noi stessi e di taluni nodi politici del no­stro tempo) o se invece debbano servire da puntello per una mediocre operazione inquisitoria e moralistica che nel personaggio di Rousseau cerchi di scaricare prima e quindi di esorcizzare, senza larva di media­zione storica, i propri convincimenti e — meglio si deve dire — le proprie paure politiche[ref] Quando Crocker sottolinea il fatto che Rousseau è tanto un teorico e un manipolatore di idee quanto (e la cosa gli deve sembrare ben più grave) una sorta di agitatore politico (per es. p. 118) si ricorda certamente, anche qui, di Vaughan (per il quale Rousseau è «as much a practical reformer as a politicalphilosopher» Pol. Wir. cit., p. 2) ma proietta la cosa in un contesto così allarmato e terroristico (con quei riferimenti, tra l’altro, alla «conce­zione sovietica» della verità e dell’errore, p. 122) da far venire in mente più che lo studioso inglese, il senatore Joseph McCarthy e la caccia ai «sovversivi» dell’America degli anni ‘50.  [/ref].

L’assoluta mancanza di mediazione storica deve essere sottolineata con particolare forza. Crocker contrappone Rousseau ai padri del libera­lismo, ma, a veder bene, così angusta, provvisoria e privatistica è l’im­magine che egli ha della tradizione liberale, che Rousseau finisce per tro­varsi in compagnia fin troppo eccellente. La stessa posizione di Locke pare ad un certo punto compromessa (p. 97, nota) e il baluardo più sicurò dei valori liberali sembra essere affidato agli scrittori americani dei Federalist Papers e a Denis Diderot.[ref] Sul ‘liberalismo’ di Diderot molto ci sarebbe da dire. In tutti i casi non è agevole ricavarlo, come tenta di fare Crocker, dall’articolo Droit naturel. La definizione di volontà generale presenta in questo articolo un’assolutezza ‘antiliberale’ che lo studioso americano si sforza invano di esorcizzare. La questione, da lui sollevata, del «controllo» della volontà generale «da parte delle coscienze individuali» (che ci sarebbe per Diderot, mentre non ci sarebbe per Rousseau) non ha molto senso. Per Diderot infatti, la volontà generale decide «circa la natura del giusto e dell’ingiusto», ad essa tutti si rivolgono per sapere quel che devono fare, ciò che devono volere, persino se convenga loro vivere o morire; ed essa è «sempre buona», non ha ingannato mai, né può ingannare, mentre le volontà singole «sono sospette» e «l’uomo che ascolta soltanto la volontà particolare è nemico del genere umano». Del resto Rousseau nel Manoscritto di Ginevra (G. II, pp. 8-9) è perfettamente d’accordo con questa concezione diderotiana della volontà generale, e ne critica solo la pra­tica attuabilità. Può essere vero, come dice Crocker, che Rousseau «rimpiazza l’ordine naturale delle leggi, ricercato da altri philosophes, con il volontarismo», che risolve l’etica nella politica ecc., ma è così ovvio poi il nesso tra libe­ralismo e naturalismo? Come ha scritto Jacques Proust, «l’article Droit naturel de Diderot est fondé sur la négation de la liberté humaine, ou plus exacte­ment sur la négation du libre arbitre» (Diderot et l’Encyclopedie, Colin, Paris 1962, pp. 386 e sgg. Cfr. in particolare i passi sulla radicalità dell’organicismo diderotiano rispetto a quello russoiano, sulla volontà generale come derivante dalle leggi immutabili della specie e non certo dalle «volontés muitiples asso­ciées librement et fortuitement», sui principi filosofici che fanno da sfondo a quell’affermazione di Diderot circa la compatibilità dell’interesse individuale con quello generale, su cui Crocker vorrebbe fondare la sua nozione di libera­lismo esemplare). I passi di Crocker riportati sono alle pagine 157-58. Le citazioni dell’articolo Droit naturel di Diderot, sono tratte dall’Antologia di voci dell’Enciclopedia curata da Paolo Casini, Laterza, Bari 1968, pp. 392-97. [/ref]

Le angosce politiche di Crocker, l’ansia verso un futuro sempre più « totalitario», nonché l’estrema disponibilità emblematica di Rousseau trovano la loro celebrazione in un capitolo, senza paragone il più brutto del libro, che si intitola «Influenze e analogie» (pp. 173-239). Quasi non bastasse avere già detto che Mussolini in una frase delle celebri Conversazioni raccolte da Ludwig «riassume succintamente il pensiero di Rousseau» (p. 134, nota)[ref] La frase è: «Tutto sta nella propria abilità a controllare le masse come un artista». [/ref], quasi non bastasse avere tirato in ballo, a proposito della guida o Legislatore di Rousseau, Hitler, Stalin e Mao­-Tse-Tung, lo studioso americano vuole mostrare in questo capitolo che la nefasta influenza del ginevrino non solo si è esercitata nel passato (dalla rivoluzione francese[ref] « Marat, Billaud-Varenne, Saint-Just e Robespierre, fanatici autoritari impregnati di assoluto, erano infarciti del suo pensiero… » p. 181. [/ref] ai «precursori ottocenteschi del nazismo» — a cominciare da Hegel — ai marxisti, ai nazionalisti) e si esercita nel presente, ma getta la sua nera ombra persino sul futuro quale è stato, con ragionevole fantasia, immaginato in tre noti romanzi usciti tra il 1930 e il 1950: Brave New World di Huxley, Walden Two di Skinner e 1984 di Orwell. Il parallelo tra l’opera di Rousseau e le tre utopie (o antiutopie, come vengono chiamate) anglosassoni, è tirato per qua­ranta pagine. È noto che in lavori di questo genere, sempre difficili e rischiosi, occorrono intuizioni non banali e mano felice. Ma le «intui­zioni» di Crocker, del resto già notissime al lettore, sono (con i tiran­ni, i controlli occulti e i tiranneggiati) un monumento di banalità, e, quanto a finezza letteraria, è come veder affidato un saggio di lettera­tura comparata alle cure di un contabile. Una frase, posta all’inizio del capitolo, ci pare che metta in piena luce le non troppo oscure pieghe freudiane che sono alla origine dello scritto, mentre ne viene altresì a co­stituire un apprezzabile giudizio critico conclusivo. «È senza dubbio sleale e pericoloso dice Crocker cercando faticosamente di negare che la cosa lo riguardi — giudicare Rousseau non per quello che ha scritto ma alla luce degli incubi della storia» (p. 173)[ref] Il volume si chiude con una Conclusione, su cui ci siamo già soffermati (pp. 241-80) e con una Bibliografia (pp. 281-287), dove accade di veder citato, (nella stessa pagina e in bell’ordine alfabetico), accanto a molto Crocker, a talune edizioni di Rousseau e a taluni studi su Rousseau (scelti senza molto criterio), la Politica di Aristotele e Ferguson, Fichte (I. G., Adresses, Chicago 1922), le Lezioni sulla storia della filosofia di Hegel e Hume, Joseph de Maistre e Plato (The Republic), il Marat-Sade di Peter Weiss, Tucidide e Spi­noza (B. de, Writings on Political Philosophy). Mancano invece la Bibbia e Omero, B. Shaw, Mark Twain e P. Taparelli d’Azeglio. [/ref].

 Come il lettore ha visto, nemmeno in chiave «provocatoria» dun­que il libello di Crocker riesce ad acquistare una sua credibilità. La pro­vocazione è nelle parole, mai nelle cose: sta sempre fuori dai testi di Rousseau, e fuori della portata interpretativa dello studioso americano,

il quale, se talora la toglie in prestito, ha subito il potere di depotenziar­la, facendola innocua. E, con la provocazione, cadono pure le condizioni che dovrebbero renderla possibile. Così Crocker potrà ben sostenere il carattere «aperto», «inesauribilmente problematico» dell’opera rus­soiana, la necessità che questa sia sottoposta a una lettura «totale», e così via: appena si scende dal piedistallo delle dichiarazioni programmatiche, non certo Vaughan (per il quale l’opera di Rousseau dovrebbe essere studiata «as a whole») né Cassirer (che dà inizio al notissimo saggio su Il problema Jean-Jacques Rousseau rilevando, appunto il carattere aperto e problematico dell’opera del ginevrino) vengono in mente, ma piuttosto una sorta di parodia delle loro interpretazioni (la problemati­cità come funzione dell’intolleranza, la «totalità» come riduzione di una complessa opera letteraria a un solo significato e a una sola parola). Così pure, quand’anche si dia, senza troppo sottilizzare, per buona l’afferma­zione sulla felice disposizione del nostro tempo a capire Rousseau, ri­mane sempre da precisare che la cosa ha un qualche senso per chi sia presente al proprio tempo, non per chi, come Crocker, dice nazismo e avrebbe potuto dire (come in effetti dice), senza nulla mutare, rivolu­zione francese: tanto i due momenti sono omogenei nel tessuto morali­stico della sua storia, immobile nonostante il ricorrente assalto che i fa­natici «totalitari» muovono ai buoni «liberali».

Quel che da ultimo resta in questo Rousseau di Crocker che non si spiega all’interno della sua opera (o, il che è lo stesso, si spiega subito e troppo), non si spiega all’interno di una storia del pensiero politico, né all’interno della storia civile e politica, è un puro e semplice rinvio alla motivazione psicologica. «Se si accettano questi due modelli della personalità autoritaria e della società totalitaria — sarà chiaro, credo, guardando al carattere e al pensiero di Rousseau, come egli sia un esem­pio classico di ambedue» (p. 241). Il meccanismo peraltro che innesta il Rousseau «totalitario» al Rousseau «autoritario» e viceversa, è di una semplicità sconcertante. Come se intorno alla psicologia russoiana non si stesse ormai accumulando una biblioteca, ricca di pagine talora complesse e penetranti, si preferisce impostare il problema dalla preisto­ria, con una tecnica da corso popolare. Il ginevrino dunque è «un outsider alienato, tormentato da complessi di inferiorità, indegnità e colpa», do­minato da «tendenze ossessive e paranoiche»; lo scontro con la realtà per una così fragile personalità non può che essere punteggiato da fru­strazioni e fallimenti; ed ecco allora la reazione che si fa anarchica con­danna dapprima, e quindi trasferimento della propria «debolezza morale e personale» nella forte figura del capo-legislatore, nonché nella sicurezza di un universo dominato da rigidi valori morali e da una disciplina in sommo grado repressiva (pp. 27, 70-71, 244-46, ecc.).[ref] Tra i caratteri che definiscono la «personalità autoritaria» di Rousseau, Crocker vede: «certezza soggettiva, un. modo di vedere da cospiratore, etno-centrismo e nazionalismo […], ammirazione degli uomini forti e delle virtù militari, discriminazione di gruppi di gente inferiore, rigidità e assolutismo…» e così via in un elenco ancora lungo. (Cfr. anche Docilité et dupiicité, cit., dove la tesi ha ampi sviluppi: «Rousseau, qui est un exemple classique de fixation érotique au niveau anal-oral, a manifesté les traits habituels à ce oaractère: narcissisme (masturbation), homosexualité latente et, surtout, soumission éro­tique prenant des formes masochistes» etc. Le informazioni di Crocker in­torno al modello di personalità autoritaria sono ricavate da Identity and Anxiety: Survival of the Person in a Mass Society, a cura di Stein, Vidich e White, Glencoe 1960. [/ref]

Poiché il Rousseau «autoritario» ha nel confronto dei testi lo stesso rapporto di occasionale verosimiglianza e di sistematica forzatura che ha il Rousseau «totalitario», si ha un intreccio esplicativo prefissato che rende quasi del tutto superflua (recati gli esempi del caso) l’analisi di Crocker e che acuisce fino all’intollerabilità quel vizio tautologico che è sempre latente in chi vuole simpliciter surrogare alla storia dei testi e dei fatti la spiegazione psicologica, per cui (essendo la stessa psicologia di un autore consegnata solo ai suoi testi e alla sua storia) si trova o nella necessità di uscire dal circolo e di fare comunque storia, o, all’inverso, di scambiare l’ipotesi o l’intuizione psicologica iniziale con la conclusione e di trovarsi sempre a dire che una cosa è così perché è così.

Ma se quanto veniamo dicendo è vero, ci si potrebbe obiettare, perché occuparsi così a lungo di un libro come quello di Crocker, ri­schiando a nostra volta di cadere in quei toni predicatori e requisitori che più si rimproverano allo studioso americano? Non è forse ancora valida l’antica verità secondo cui conviene lasciar marcire per proprio conto e senza invischiamenti ciò che si ritiene puro errore? Per nostro conto è ancora valida e confessiamo di esserci dilungati ben al di là di quanto, in ogni caso, la qualità del libro di Crocker avrebbe richiesto. Ciò è avvenuto per due motivi. Anzitutto per via del singolare fastidio che l’inutile aggressività di un libro come Il Contratto sociale di Rousseau suscita, e quindi per l’istintiva reazione di volerlo isolato da quella vasta arena dove studiosi, quanto si voglia diversi tra loro, sono civil­mente impegnati nel non facile compito di capire Rousseau e il senso politico della sua opera. Può accadere infatti, dal più al meno, che con un’operazione culturale non proprio felice, condotta all’insegna di un falso senso di spregiudicatezza e d’una disponibilità a «lasciar parlare voci diverse» (anche le voci che non hanno nulla da dire?), si traduca in italiano (con tante voci di buoni studi russoiani che giacciono inascol­tate!) proprio il libello di Crocker; e può accadere anche ad un critico equilibrato e felice come Garin di suggerire un certo recupero del saggio di Crocker, che, pur essendo «più vicino alla libellistica che alla critica storica», avrebbe «tuttavia il merito […] di esasperare aspetti reali del pensiero di Rousseau».[ref] Insieme a quello di «mettere in evidenza i rischi un certo tipo di attualizzazione, che procede astraendo dal contesto storico e dalla genesi dei problemi, ma soprattutto ritagliando un’immagine di comodo per opera­zioni ideologiche contingenti, simmetriche ad altre opposte ma analoghe» (Introduzione, cit., pp. XVI-XVILI). Ma confessiamo di non riuscire a capire bene il senso di questo secondo «merito»Se si vuol dire che Crocker, in quanto esaspera «aspetti reali» di Rousseau, perviene altresì a mettere a nudo ideologiche letture che niente «esasperano» perché sono del tutto al di là del contesto storico e dei reali problemi russoiani, la cosa ci pare discutibile. Se invece (come suggeriscono le «operazioni ideologiche […] ad altre opposte ma analoghe») si vuol dire che l’«attualizzazione» di Crocker essendo ro­vesciata ma identica nel procedimento ad altre attualizzazioni di segno opposto, rivela, nello stesso tempo la fragilità propria e quella altrui, allora la cosa ci pare più accettabile e avremmo da fare solo qualche riserva intorno alla par­ticolare «qualità» dell’interpretazione di Crocker confrontata con altre «attua­lizzazioni». Di più, ci pare che non sono solo le «larghe possibilità» offerte talora da una stessa pagina di Rousseau, (né solo un’identità formale di pro­cedimento), a suggerire letture diverse, quanto piuttosto la espunzione di ta­luni problemi, la semplificazione sistematica, la «modernizzazione» pseudo-­drammatica a costituire un terreno comune dal quale prendono le mosse le operazioni di lettura più disparate (e ciò è tanto vero che Crocker, per arri­vare al Rousseau autoritario-totalitario, si giova di letture marxiste, cattoliche, e di quant’altre «attualizzazioni» riesce a reperire sul mercato). In complesso peraltro il giudizio di Garin su Crocker è pienamente accettabile (cfr. anche Ristampa cit.: «leggendo certe pagine del Crocker viene addirittura in mente, ed è significativo, l’insieme di invettive e di spropositi, che ai tempi in cui civettava con Mussolini, Giuseppe Renzi scriveva contro gli “arzigogoli”, la “fabbricazione” della volontà generale e la “funesta impostura politica” di Rousseau e di Kant… ». Per la critica al concetto russoiano di «liberté bien reglée» come è intesa da Crocker, Garin rinvia a Roger D. Master, The political Philosophy of Rousseau, Princeton University Press, 1968. Di Master si leggano pure le pesanti riserve contro la «fastidiosa» storiografia di Crocker in Critique, cit. La risposta, poco convincente, di Crocker è in Docilité et duplicité cit. [/ref]

In secondo luogo, ci siamo occupati così a lungo di Crocker perché il suo libro ci è parso esemplare per illustrare gli estremi sbocchi e il non più proponibile vicolo cieco in cui si vengono a cacciare le interpre­tazioni che intendono porsi come un proseguimento aggiuntivo e non propriamente critico delle classiche obiezioni «liberali» al pensiero di Rousseau. Il discorso è molto complesso e richiederebbe una massa di riferimenti. All’origine del Rousseau «tirannico» di Crocker c’è indub­biamente la lezione dei «dottrinari» della Restaurazione francese e so­prattutto di Benjamin Constant. Si potrebbe anzi mostrare, senza molta difficoltà, che quanto vi è di interessante, nel saggio di Crocker sul terreno storico-politico, è per intero ripreso da originarie tesi costantiane. In pari tempo però, si deve tener presente che la critica di Constant a Rousseau (sebbene non si prefigga compiti di comprensione storiografica, ma sia dettata dalla viva polemica politica) riesce ben più ricca e com­plessa di quella dei suoi epigoni. L’obiettivo dell’autore dei Principes de politique non è quello di liquidare moralisticamente Rousseau, quanto piuttosto, si direbbe, quello di riportarlo — dopo averne vivamente criticato gli «eccessi», dopo averlo violentemente separato da se stesso e sterilizzato entro la tradizione di pensiero politico alla quale anche il proprio liberalismo appartiene. L’incompatibilità e l’esclusione assolute sono riservate nel Discorso sulla libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, all’abate Mably; mentre per Rousseau si lavora sul «vivo» e sul «morto», sulla scissione tra «il puro amore della libertà» che anima «questo genio sublime» e la debolezza della sua teoria politica, capace di fornire «pretesti funesti a più di un tipo di tirannia»[ref] E sempre nello stesso Discorso: «Quando il caso vuole che io mi in­contri con loro anche su un solo punto [con i «detrattori» di Rousseau], diffido di me stesso…». Ancora più decisa è una variante di questo passo che si trova in Dello spirito di conquista e dell’usurpazione nei loro rap­porti con la civiltà europea, Rizzoli, Milano 1961: «Non intendo associarmi ai detrattori di Rousseau, i quali, attualmente, sono numerosi. Una folla di menti subalterne, che impiegano i propri successi di un giorno a mettere in dubbio tutte le verità coraggiose, si agita per diffamare la sua gloria: ragione di più per usar cautela nel biasimarlo. Egli è stato il primo a rendere popolare la coscienza dei nostri diritti; alla sua voce, i cuori generosi, gli animi indipendenti si sono destati; ma ciò ch’egli sentiva fortemente, non ha saputo definirlo con precisione» (p. 102). Da un punto di vista, certo più sostan­ziale, si veda soprattutto la conclusione del Discorso con quella auspicata mediazione tra la libertà politica degli antichi e la libertà dei moderni e con quella denuncia dei pericoli di chiusura privatistica intrinseci alla libertà dei moderni, attraverso le quali Constant vuole certamente pagare il suo conto alla lezione russoiana. Tutte le citazioni sono tratte da B. Constant, Principi di politica (con in app. il Discorso sulla libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, e in apertura un importante saggio introduttivo di Umberto Cerroni, Editori Riuniti, Roma 1970, pp. 55-58 e 228-31). Sulla mediazione constantiana tra libertà civile e politica, si veda Guido Calogero, La ‘libertà degli antichi’ e la ‘libertà dei moderni’. Note su Constant. Ora in Saggi di Etica e di teoria del Diritto, Laterza, Bari 1947, p. 71. [/ref].

Chi vuole riprendere a studiare criticamente il significato storico della polemica antirussoiana di Constant non può, a parer nostro, igno­rare questo complesso tentativo di continuità e di appropriazione oltre­ché di radicale frattura; e non può non proiettano sullo sfondo di quel disegno più ambizioso e più generale, in cui Constant intende presen­tarsi come il critico e, insieme, il razionale continuatore e l’interprete del secolo dei lumi e della rivoluzione francese (per questo aspetto, Rous­seau è messo al bando in quanto ispiratore del Terrore, ma insieme è ri­visitato e riacquistato in quanto vigoroso sostenitore di quel sentimento della libertà da cui erano scaturiti, con la giusta reazione all’ancien régime e al privilegio, lo spirito liberale dell’89).

Crocker, da parte sua, reputa la rivoluzione francese un episodio di fanatismo e accoglie la critica di Constant alla teoria politica di Rous­seau e agli eccessi del ‘94 come un verbo, come una statica lezione. Si ha quindi un proseguimento rettilineo ma anche esangue e impoverito poiché manca non solo ogni nerbo di attuale ripensamento critico, ma perfino la capacità di cogliere la polemica constantiana in tutta la sua sto­rica complessità. A questo punto, gli sviluppi «tirannici» del Crocker, poiché hanno perso il contatto vivo con i nodi critici su cui si fondano, si configurano come una costruzione arbitraria o come una revisione di bucce. Così se il senso della critica di Constant è che Rousseau «aveva il sentimento della libertà ma non ne aveva la teoria», tutto il senso del­l’analisi dello studioso americano consiste nel mostrare che no, che Rous­seau non aveva neanche il sentimento della libertà, che non poteva avere la teoria perché non aveva il sentimento, e non aveva il sentimento per­ché era psicologicamente squilibrato, e insomma consiste nella semplice spiegazione psicologica surrogata alla complessità della politica e della storia (di cui peraltro non si riesce mai a fare del tutto a meno).

Naturalmente, questa divaricazione e accentuazione di toni «tiran­nici» all’interno di una comune tematica di critica «liberale» a Rous­seau, non riguarda solo Crocker. Derathé ha ricordato quante schiere di interpreti del totalitarismo tirannico di Rousseau (per lo più anglo­sassoni) la lettura di Vaughan si sia tirata dietro. Lo studioso americano appartiene indubbiamente a questa tradizione interpretativa, ne ripete luoghi comuni e modi verbali, ma vi apporta in più una virulenza di toni e una sistematicità di inveramento psicologico che sono espressione, a nostro parere, non solo del suo personale temperamento, ma, più an­cora, delle reali e sempre più accentuate difficoltà cui va incontro il ten­tativo di proseguimento acritico della lettura «liberale» di Rousseau.

Basterà a questo proposito fare un solo esempio, mettendo breve­mente a confronto il saggio di Crocker col fortunato libro di Talmon su Le origini della democrazia totalitaria comparso in edizione originale giusto venti anni fa. Indubbiamente Talmon è una delle dirette fonti di ispirazione del lavoro di Crocker e, pertanto, si ritrovano in lui molti dei concetti e delle interpretazioni che abbiamo sin qui discusso (la «demo­crazia totalitaria», il liberalismo sperimentale contrapposto al fanatismo messianico, la «vena paranoica» di Rousseau, l’anarchismo che si tra­muta in rigida disciplina, l’assoluta autosufficienza dell’ordinamento sociale, il Legislatore che forma l’uomo secondo «un’immagine ben deter­minata», la sovranità popolare e la volontà generale, punti cardine di una «moderna religione laica» e così via). Ma esiste insieme tra i due autori un punto di diversificazione[ref] A tacere, naturalmente, della maggiore urbanità e complessità di Talmon (che ha, tra l’altro, consapevolezza di scrivere un libro «personale», ispirato da preoccupazioni etico-politiche). Nelle Origini della democrazia totalitaria, si distingue (o si cerca di distinguere) un totalitarismo di destra da uno di sinistra, è più accettabile e storicamente fondato il rapporto Diderot-Rousseau, l’esito totalitario di Rousseau è visto come un «paradosso» da spiegare etc. [/ref], che a noi pare molto importante. Talmon sa ancora che la «democrazia totalitaria» è al pari di quella «liberale», «parte integrante della tradizione occidentale»; che i due tipi di demo­crazia mettono capo alle «stesse premesse»[ref] «La democrazia totalitaria lungi dal costituire un fenomeno di sviluppo recente, ed esterno alla tradizione occidentale, ha le sue radici nel ceppo comune delle idee del diciottesimo secolo. Essa si manifestò come orientamento distinto e identificabile durante la rivoluzione francese e da allora ha conti­nuato il suo corso senza interruzioni». [/ref], che la comune tradizione si rompe nel corso della rivoluzione francese[ref] «È estremamente importante rendersi conto che quello che oggi è rite­nuto un fatto essenziale e concomitante della democrazia, cioè la diversità di opinioni e di interessi, era ben lontano dall’essere considerato essenziale dai padri della democrazia del diciottesimo secolo. I loro postulati originari erano l’unità e l’umanità. L’affermazione del principio della diversità giunse più tardi, quando le conseguenze del principio dell’omogeneità erano state dimostrate durante la dittatura giacobina». [/ref], sotto la pressione del Terrore e, più in profondità, d’una diversa concezione della proprietà [ref] «Le classi possidenti, sorprese e spaventate dal dinamismo sociale dell’idea dell’ordine naturale, si affrettarono a liberarsi della filosofia che precedentemente avevano abbracciato con tanto entusiasmo, come arma nella loro lotta contro il privilegio feudale». Le citazioni sono tratte dall’ed. it. cit., pp. 7, 10, 13, 55, 63-65, 341. [/ref]. Per Crocker invece, i «totalitari» discendono da una regione teologale, punti di contatto tra le due forme di democrazia non ce ne sono, o, se ci sono, appartengono ancora una volta alle categorie dell’inganno sub­dolo e della colpevole stupidità. «Non c’è dubbio che la portata storica della dottrina di Rousseau, ha pesato nel senso della interpretazione democratica perché pensatori liberali se ne sono impadroniti senza capirne la funzione nel grande schema del ginevrino» (p. 116).

 

Adattamento digitale a cura di Manfredi Camici
 

Sul Rousseau politico e sul Rousseau à part entière

Poiché, senza alcuna esclusione preventiva, la sezione «Pagine roussoiane» sarà spesso dedicata, in senso largo, al Rousseau politico, conviene interrogarsi anzitutto sulla legittimità di questa scelta: se non costituisca cioè una riduzione di campo troppo parziale rispetto alla totalità delle opere di Rousseau, ai molteplici e disparati campi in cui il ginevrino ha genialmente esercitato i suoi talenti. Dopotutto, si può obiettare, una qualche giustificazione deve pur essere avanzata, se non pochi e importanti testi critici a lui dedicati nel secolo XX si occupano appena delle sue opere politiche (per es. il fine libro di Starobinski, senza contare le opere tematicamente delimitate come quelle di Masson o di Gouhier). Il tema della parte e del tutto, com’è facile intuire, conduce alla questione dell’«unità» del pensiero di Rousseau. Il problema è qui di vedere se gli scritti politici costituiscano una sorta di universo, importante quanto si voglia, ma autonomo e separato, o se sono invece connessi agli altri e vari interessi, rappresentando persino un buon un filo conduttore per avvicinarsi, fin dove è possibile, al cuore unitario o meno frammentario dei diversi pensieri e della multiforme attività intellettuale di Rousseau. Dentro questo tema, se ne incontra un altro, ancor più interessante ai nostri fini, e cioè se gli stessi scritti politici costituiscano un mondo unitario, o se non siano essi stessi internamente contrastanti.

Innanzitutto, inferire da ciò che gli scritti politici rappresentino solo uno tra i molti interessi di Rousseau sarebbe eccessivo e fuorviante. È sempre utile richiamare in proposito le tante testimonianze roussoiane che indicano nella politica un terreno privilegiato, a partire dal celebre asserto secondo cui «tout (tient) radicaliment à la politique»: una fondamentale intuizione fatta risalire al periodo veneziano (1743-44), ma richiamata come più che mai vera una quindicina di anni dopo, quando le Institutions politiques erano viste da Rousseau come l’impresa più importante da compiere, l’opera della sua vita (O.C. I, 404). La politica, inoltre, costituisce il più costante e duraturo interesse di Rousseau, il più lungo impegno di lavoro. Il quindicennio di maggiore attività, da metà secolo alla metà degli anni ’60, reca un forte segno politico, tra l’elaborazione critica e la ricerca di una «bonne socialisation». La stessa decisione di «rinunciare» al progetto delle Institutions politiques, così com’era stata preceduta, è seguita da un intenso lavoro sulla politica, che dal Contratto sociale arriva fino agli scritti sulla Corsica e sulla Polonia.

Queste considerazioni tuttavia, rilevanti circa l’importanza dei temi politici in Rousseau, ancora non ci dicono molto riguardo al punto della totalità. Intorno al tema dell’Unité dans l’oeuvre de J-J Rousseau (G. Lanson, 1912) e, si capisce, al suo opposto, la disorganicità o le «contraddizioni», si potrebbe costruire una storia delle interpretazioni del ginevrino: dalla fine dell’‘800 fino, per esempio, al monumentale lavoro di A. Philonenko, che vede il centro fortemente unitario di Rousseau nel grande tema filosofico, posto all’altezza sistematica di Kant e Fichte, dell’insormontabilità del problema del male («il n’existe pas de bonne solution au problème du mal»), nonostante ogni tentativo di porvi riformistico rimedio – contro la banale tradizione del ginevrino come «philosophe du bonheur». (J.-J. Rousseau et la pensée du malheur, 3 voll., Vrin, Paris 1984).

Ma, in ogni caso, il problema dell’unità in un pensatore è in realtà sempre difficile; difficilissimo in Rousseau. Scrisse una volta E. Garin che «in un certo senso tutte le opere di Rousseau sono politiche». L’affermazione è al fondo vera, e certo più determinata di quella che metta al centro il concetto di «homme», del resto interno allo stesso ambito politico e in più esposto a diventar retorico; ma la questione, che del resto Garin sapeva, è come si precisi il «senso» unitario della politica in sé e in rapporto al tutto. Prima ancora che si ponga il problema della parte e del tutto, riguardo alla concordia tra le opere di Rousseau, nella loro folta varietà di temi, già gli scritti politici sono essi stessi campo di battaglia tra sostenitori dell’unità o di fratture e discontinuità. Si tratterebbe dunque di ricostruire, paradossalmente, l’unità a partire da un campo già in se stesso scisso. Che si può dire, preliminarmente, su questo punto (sul quale si dovrà in ogni caso analiticamente tornare)?

A mio parere s’incontrano, innegabilmente, discordanze e anche, se così si vuol dire, «contraddizioni» nelle opere politiche di Rousseau, sebbene la pia e irresistibile forza dell’immediata unità spinga spesso gli interpreti a ignorarle nella loro radicalità e a ricucirle subito in un qualche tessuto di coerenza. Il caso più evidente – ma altri non mancano, come nella relazione tra il Contratto e altri scritti politici – è quello del nesso tra il Discorso sull’ineguaglianza e il Contratto, le due maggiori opere «politiche» di Rousseau e tra le sue più grandi in assoluto. Premesse, impostazioni ed esiti a rigore si collocano, in queste due opere, lungo una linea di incompatibilità, se non di vera e propria contrarietà. Il tentativo di connetterle attraverso il criterio del «rimedio al male», sembra ignorare la gravità della malattia, e conferisce al Contratto (una conseguenza che Althusser rigorosamente tirava) una portata troppo lievemente riformistica. Eppure limitarsi ancora a rilevare la «contraddizione» (come talvolta si diceva un tempo) tra i due scritti sarebbe oggi assoluto segno di povertà interpretativa. Che si fa in questi casi? Il problema, senza arrestarsi a rilevare discordanze, è quello di «costruire», per così dire, una trama ermeneutica meno scontata e più sottile, entro cui l’unità possa trovare posto. L’unitaria totalità, quando si diano in un autore importante, divaricazioni e incoerenze, non è mai un dato iscritto nell’immediatezza dei testi, quasi che solo una lettura distratta o capziosa, lontana dall’intelligente buon senso, avesse impedito di metterlo in luce.

Per escogitare ambiti più intelligenti e comprensivi di connessione, almeno relativa, tra posizioni che sembrano a prima vista inconciliabili, è necessario così risalire ai problemi più profondi e radicali che sono all’origine della discrasia. La premessa essenziale di una simile operazione, come s’è detto, è anzitutto di non negare, quando si mostrino con sufficiente evidenza critica, le discontinuità, i mutamenti di prospettiva, o i vicoli chiusi cui certe strade conducono. L’unità può non consistere in un solo centro o in una sola determinazione, ma si può anche articolare attraverso una pluralità di soluzioni possibili, diverse e convergenti tutte verso lo stesso scopo. Ma, certo, non è sempre facile riconoscere le domande e i problemi unitari che sorreggono e guidano anche percorsi alternativi e divaricanti. Per esempio, come nel caso che s’è ricordato, lo stesso problema può mutare prospettiva, forma e svolgimento, dando vita a un vero e proprio ricominciamento, a partire dalla posta iniziale, dell’intero cammino, dove tuttavia quello nuovo lascia almeno intravedere qualche traccia di quello vecchio. La difficoltà sta dunque nel pervenire a forme di unità che appartengono, più ancora che alle risposte e alle soluzioni, alla natura delle questioni problematicamente messe in campo; così come è l’interpretazione teorica e non il dato empirico a produrre il proprio oggetto, la trama entro cui le soluzioni trovano il loro significato.

E’ certo paradossale, a sviluppo di questo discorso, che un’opera come quella di Philonenko, tra le maggiori del secondo ‘900, ritrovi il filo unitario del pensiero di Rousseau nel segno del fallimento (échec), per cui tutti i campi cui il ginevrino ha posto mano si rivelerebbero alla fine dominati dalla disgrazia e dalla miseria, dall’infelicità e dal male. Ma, al di là ora di ogni altra considerazione, lo scacco, le soluzioni solo apparentemente riuscite e coerenti, e in realtà cariche di interne e rovinose faglie, devono certamente entrare a far parte, come del resto sempre accade, dell’universo «unitario» dei pensieri di Rousseau. L’unitario problema per cui si cercano soluzioni vale sia nel caso degli esiti più o meno favorevoli, sia in quelli deludenti; e certo, la pluralità delle vie tentate è tanto segno di ricchezza tanto di insoddisfazione. Questa considerazione potrebbe essere svolta riguardo a opere di diversa natura, come la Nouvelle héloïse o l’Emile, ma basterà fare per ora un cenno proprio agli scritti politici.

Rousseau, com’è noto, è, segnatamente nel Contratto, autore di una teoria politica normativa persino prepotente, che ha fondato la sua fortuna e le sue disgrazie. Mi sono invece convinto (anche di questo si dovrà a lungo discutere) che la grandezza di Rousseau in quanto pensatore politico risieda – lungo il grande modello machiavelliano e, per certi versi, anche hobbesiano – in una sorta di permixtum tra le istanze normative, con la loro sovresposizione di coerenza risolutiva, e la sotterranea consapevolezza realistica circa la possibilità che la trama della positiva costruzione teorica riesca a resistere alla forza dissolvente delle cose, ossia della “natura” degli uomini, ostinata nei suoi comportamenti e ostile a ogni grande trasformazione politica. L’esigenza normativa sembra occupare per intero il campo della teoria politica, ma il disincanto sulla tenuta connettiva dell’intero ha bisogno di puntelli, di nuove figure, come il legislatore, o di nuovi terreni, come la religione civile, che e contrario danno spessore ai dubbi, ricorrenti per tutta l’opera, circa la debolezza dell’ideale costruzione contrattualista, insidiata dall’invincibile natura della particolarità, dalla preferenza accordata al moi individuale piuttosto che a quello commun. Riuscita normativa e scacco realistico si tengono, e la grandezza dell’opera per un verso ne esce intatta, mentre per altro verso la potenza delle obiezioni getta un’ombra insostenibile. Ma proprio l’insieme costituisce, senza paradosso, un percorso carico d’insegnamenti. La filosofia, è, più ancora che risoluzione di problemi, e già   trionfo armonico della metafisica, il luogo  di apprendimento del dubbio e dell’individuazione formalizzata delle difficoltà. Gli échecs dei grandi classici danno molto da pensare, essendo a volte più istruttivi delle stesse costruzioni “riuscite”, e un’unità raggiunta per vie travagliate può essere più vitale, più vicino a noi, di quella che sembra procedere lungo cammini diretti.

Di fronte a un campo d’interpretazione che sembra, ed è, piuttosto arduo, vi sono però una sorta di più agevoli variazioni: quali che siano le conclusioni cui Rousseau perviene nelle opere strettamente politiche, c’è, da parte sua, la disponibilità a riformulare in altri scritti, in modi diversi e più agevoli, se non proprio nel loro rigore le medesime questioni, temi che a esse si avvicinano – e non solo per una semplice parentela di famiglia. Il problema della connessione tra gli scritti politici e le altre opere di Rousseau, da cui siamo partiti, s’incontra significativamente a questo punto. Il problema della compossibilità unitaria di opere diverse, discordanti in sede politica e in rapporto incerto con l’intero, si stempera in una sorta di più larga unità, certo essa stessa problematica, sottesa a tutti i testi di Rousseau. Ogni opera mantiene, nonostante ciò, la sua distinta personalità. Il Contratto sociale, in particolare, non può mai esser compreso se di esso si perde la sua peculiarità specifica e «tecnica», persino sorprendente in un autore che si vuole autodidatta, a riprova di quanto il lavoro sulle Institutions politiques sia stato lungo e appassionato, colto e approfondito, oltre che innovativo. Se fosse altrimenti, non già l’unità si perderebbe, ma la varia individualità delle opere, ridotte alla stanca ripetizione di un monotono tema.

Con la trama dei difficili problemi, in qualche caso persino insolubili, che il Contratto mette in campo, bisogna così duramente misurarsi, senza che siano possibili né scorciatoie né rinvii a più larghi orizzonti tematici, usati come passe-partout. E tuttavia, se si perde lo sfondo del problema più generale entro cui Rousseau viene disponendo le specifiche e ardue articolazioni dei suoi «principi di diritto politico», ci si trova non di rado dinanzi a un muro impenetrabile. Per un solo esempio, la lunga e monotona interpretazione d’antan del Contratto come manifesto prima giacobino, e quindi di ogni realtà che, approssimativamente, vien detta «totalitaria», cade già – a tacere di ogni altra critica interna e storica – appena sia  vista entro il quadro più largo di problemi in cui Rousseau iscrive la sua opera. Fuori di questo ambito complessivo, il Contratto diventa quasi (ed è conclusione cui s’è giunto) un’inspiegabile stravaganza, un contrappasso singolare, e non la radicale esplorazione di un polo interno a una costitutiva relazione, che mai, pur nella diversa accentuazione dei suoi momenti, può essere smarrita.  Per questo, in breve, è necessario e utile affidarsi a una rete di pensieri, di trama forte e larga, che mentre sta al fondo della riflessione politica, ne oltrepassa e attenua i significati più specifici, ed è perciò disposta, come momento unitario di variabile autonomia, a trasferirsi in contesti diversi, anche in quelli che sembrano e sono più lontani dal diretto ambito politico.

Quale sia ora il nodo più unitario della riflessione di Rousseau, rispetto al quale la politica può fare da filo conduttore privilegiato, si può dire in questa sede in poche parole, ed è del resto intuitivamente noto già da quel che s’è detto: riguarda in generale il problema della socialità, la fondamentale relazione tra la natura propria, persino irripetibile, degli individui, nella loro tensione a una piena e compiuta libertà, e la trama comunitaria, con i suoi ineludibili obblighi e il suo fascino, nelle cui strutture i singoli si trovano fatalmente a vivere. Il tema della relazione tra individuo e comunità o società (o stato), da sempre centrale nella riflessione politica, esploso, comprensibilmente, nell’età moderna, è ancora ben presente nel nostro orizzonte storico, sebbene spesso, nell’ovvietà del discorso ordinario, sfoci in banali genericità, dove i due poli (ormai quasi solo quello della sovranità degli individui) sono contrapposti in forme rigide e arcaiche. Al tempo stesso però, consumato e generico quanto si voglia nella sua formulazione il tema di per sé non è niente affatto irrilevante. Dai tempi di Rousseau, la filosofia, le scienze umane (compresa l’economia), la psicanalisi e altri saperi  hanno lavorato, da diverse prospettive, a dar forma spessore e direzione a questo problema. Nessuno, certo, riprenderebbe oggi la questione nei termini in cui fu posta da Rousseau; e tuttavia la permanenza della lezione di Rousseau è assicurata dal fatto che i risultati di questa complessa ricerca non si sono depositati nella comune coscienza e nell’ordinario sapere. Anzi, è forse impossibile che ciò accada, poiché la ricerca, come nello stesso Freud, si conclude lungo un margine di indeterminazione, dove c’è posto, insieme con la speranza, per quella realtà democratica o, in generale, per quelle forme di relazione umane che non si lasciano ricondurre a “scienza”. La permanenza di Rousseau, fuori della pura ricostruzione storica, sembra affidata appunto alla presenza ci ciò che vi è di elementare e di radicale nel rapporto tra le individualità e la totalità sociale.

Tuttavia, per continuare a esercitare un simile ruolo, la posizione di Rousseau non può essere colta solo in un punto debole e, per così dire, residuale. Nel lungo cammino percorso dal tema di individuo e società la riflessione roussoiana occupa un posto cruciale. Accennerò qui solo a due questioni: la radicalità e la complessità, o i molti piani in cui la questione si articola. Il ginevrino, s’è detto, non “inventa” certo il tema, ma l’articola e lo riformula in modi decisivi, originali e inconfondibili. In generale, dall’antichità al ‘700, parlando alla grossa, il problema veniva pensato nel senso che, quali che fossero le ulteriori distinzioni e persino opposizioni, c’era in ogni caso una positiva solidarietà di fondo tra i due momenti dell’individuo e della società, legati che fossero da umana razionalità, empatia o interessi. La radicalità di Rousseau arriva fino a esplorare, contro ogni naturale sociabilità e in maniera del tutto inedita, la via della completa assenza di relazione sociale; o, all’opposto, quella, più battuta, di un rapporto sociale e politico così compatto da rendere funzionali a esso le individualità. Uno spettro estremo di possibilità racchiuso nei termini che compaiono nel titolo del libro di B. Baczko: solitude e communauté (qui in senso forte).

La solitudine è, in primo luogo, quella dello stato di natura, che apre, prima della tempesta della diseguaglianza e dell’universale alienazione, lo scenario felice, o almeno pacificato, del Discours sur l’inégalité. La relazione sociale si mostra qui, come nel Freud di Disagio della civiltà, la peggiore, la più dolorosa e insieme la più ambigua (visto che noi stessi ne produciamo le forme) causa di infelicità umana. In un bel passo di una nota al Discours sur l’inégalité (OC III, 202), sono freudianamente tenute insieme sia la più facile e anzi strepitosa vittoria ottenuta dagli uomini sugli ostacoli opposti della natura esterna – abissi colmati, montagne abbattute, paludi bonificate –, che pone rimedio a una delle principali fonti del disagio degli uomini, sia la dura permanenza della difficoltà a superare lo sforzo o la fatica dello stare insieme (l’enfer, come si dirà), ossia la più forte e indomabile resistenza esercitata dalla natura interna; anzi, oltre e contro Freud, la corsa al dominio sulla natura, comprova come «non è senza pena che siamo giunti a diventare così infelici». Ma la solitudine, che pure comanda la distinzione fondamentale in Rousseau tra stato di natura e stato di società, è qui la radicale, e persino un po’ disperata premessa, un gesto estremo che mai riesce veramente a dimenticare ciò che avverrà dopo, nell’inesorabile accadere «sociale» della storia, ed è pertanto già disposta alla critica e al superamento, non appena abbia adempiuto la sua funzione di critica impensata. Al capo opposto del folgorante inizio, in un complesso intreccio di esperienza esistenziale e riflessione teorica, s’incontra la solitudine dell’ultimo Rousseau dei Dialogues e delle Rêveries, quando sembra che ogni legame con la socialità e la politica, con le relazioni umane, sia ormai interrotto e dissolto. Ma in realtà, anche qui, come nello stato di pura natura, la difficile relazione non perde mai del tutto l’altro dei suoi poli, sicché lo sprofondamento in sé e nella solitaria foresta è sempre segnato da nostalgia o timore per quel mondo sociale degli uomini che sembra non esserci più.

Di contro ai poli della solitudine, sta la communauté, la forza sostenuta di una socialità fortemente coesa, e non solo nel Contratto. Ma se la solitudine era veramente una sorta di esperimento mentale, seppur geneticamente avvertito, circa la possibilità di un solo polo, scisso da una relazione avvertita come inscindibile, le esperienze opposte, comunitarie, non giungono mai a una simile radicalità, poiché la forte tensione sociale, che pur sembra talvolta unilaterale nel Contratto, non perde mai di vista, fosse anche in modi travagliati e complessi, la centralità della relazione e il problema di trovare una positiva soluzione di equilibrio tra i due momenti; fino al punto, come promette il Contratto, di cercar di avvicinarsi addirittura all’ideale per cui, unendosi agli altri, gli uomini restano liberi «come prima» (OC III, 360). Un obiettivo questo francamente irrealizzabile, come il Contratto duramente sperimenterà, e tuttavia una sorta di filo conduttore che esplicita almeno il senso della ricerca, la tensione a risolvere in pacifica unità, senza sacrifici, i momenti di una difficile relazione.

Intanto però, a stemperare e ad allargare il problema, ci sono, come s’è detto, vie laterali più agevoli, approssimazioni che rinviano alla molteplicità degli approcci possibili a un tema che non si lascia stringere in un solo capo. Così, c’è una sorprendente vicinanza «tematica» tra il Contratto e le grandi opere composte e pubblicate in un tempo prossimo: La nouvelle Héloïse e l’Emile. Se per l’Emilio – la grande opera di pedagogia «naturale» che del resto s’incrocia con la stesura, la pubblicazione e i contenuti del Contract – la cosa è  del tutto evidente, la stessa Eloisa, a lungo letta da grandi masse di lettori come una storia d’amore tormentato tra Saint-Preux e Julie, mostra ad occhi più esperti, come quelli di Starobinski, tutti i suoi legami con il mondo in senso largo politico; e quasi canonico è divenuto il paragone tra la piccola comunità di Clarens e quella che agisce al fondo del Contratto, con un arricchimento al tempo stesso nell’interpretazione del grande romanzo e della maggiore opera politica. Vie insomma del tutto diverse per avvicinarsi al cuore sfuggente di un medesimo problema, quasi prove d’esecuzione di un tema simile nelle tonalità più disparate. E la stessa cosa può dirsi per altre opere di Rousseau. Le Confessioni, per esempio, tormentata e mondana replica moderna all’antico itinerario agostiniano dello spirito a Dio, riesce incomprensibile fuori della fitta rete di relazioni sociali e in senso largo politico, che fondano, con la stessa identità, la pretesa autenticità del protagonista.

Qualche parola, infine, su quella che abbiamo detto la complessità, o l’interferenza di più piani nel modo roussoiano di porre il problema di individuo e comunità. Gli scritti di Rousseau che diciamo «politici» sono in realtà composti di tante cose, si muovono su piani diversi, sono ricchi di prospettive differenti tra loro, e non a caso si è avuto più volte il dubbio se includere o no alcune opere nelle raccolte che portano questo nome. Si dovrebbe ogni volta tener conto dei molteplici significati e delle varie elaborazioni che Rousseau attribuisce, esplicitamente o no, a «politique» – mai restringendosi all’angustia di ciò che si diceva o ancora stancamente si dice «dottrina politica». Così, solo esemplificativamente, politico può dirsi l’ambito fattuale dove l’uomo sperimenta sia l’angoscia e il malheur che la sua fragile felicità. Che «tout (tient) radicaliment à la politique» vuol dire che in quest’ambito si trova il segreto della natura dei popoli e delle società, della qualità delle vite individuali, dell’alienazione non meno che della riappropriazione di sé. Straordinaria intuizione di Rousseau è quella di fare della politica, identificata con i grandi movimenti sociali, il criterio ermeneutico di una storia e critica della civiltà, che è a tutti gli effetti politica, anche quando essa non riesca a esprimersi in forme positive ma ribadisce e aggrava il «cercle» governato dall’ineguaglianza sociale. Infine, per limitarci solo a questi cenni, politica è la riflessione di Rousseau quando s’innalza fino alla schietta e antica filosofia dell’uno e dei molti, della parte e del tutto, nel segno dell’amato Platone.

La filosofia delle donne: uguaglianza, differenza, in-differenza

Nel secolare percorso della vicenda umana non c’è dubbio che quella della donna sia una storia a sé. Le lunghe ed estenuanti lotte condotte dall’«altra metà del cielo», prima alla ricerca dell’uguaglianza, quindi, in epoca a noi più vicina, per rimarcare la differenza dall’essere maschile, derivano innanzitutto da alcuni fondamenti della cultura occidentale, e da politiche sociali concrete, che hanno impostato il rapporto con la donna all’insegna della discriminazione e della maledizione.

1. Un antico pregiudizio

Che si tratti di un essere fisiologicamente connaturato al male, capace di accoglierlo e di produrlo (e riprodurlo?) in maniera perfino inimmaginabile da parte dell’uomo, è convinzione radicata e agevolmente riscontrabile nel panorama culturale dell’Occidente. Se è la prima donna Eva a convincere il primo uomo Adamo a disobbedire al volere divino, introducendo così nel mondo il peccato e soprattutto la morte, secondo la chiosa di S. Paolo (Biblia sacra: Rom 5,12), morte che Dio non aveva previsto originariamente per la sua creatura prediletta (Biblia sacra: Sp 2,24); è sempre una donna, stavolta la moglie, a tentare il buon Giobbe, descritto di per sé come «integro e retto, timorato di Dio ed estraneo al male», esortandolo a maledire Dio per tutti i colpi gratuiti ricevuti (Biblia sacra: Gb 1,1 e 2,9).

Né le cose andavano meglio nella cultura della Grecia antica, dove la donna era vista come un essere irrazionale e ferino, sostanzialmente portatore di discordie, guerre e, infine, morte. Nel poema esiodeo de Le opere e i giorni è Pandora, una donna, colei che recita il ruolo di portatrice dei doni che gli dèi fanno agli uomini (fra i quali proprio le donne), dando in questo modo inizio alle interminabili sciagure che da quel momento li avrebbero colpiti (Esiodo, Opere e giorni: vv. 80-82).

Paradigmatico il caso della Medea raccontata da Euripide, che in seguito al tradimento del marito rivela quella che significativamente il tragediografo descrive come un’«indole odiosa e feroce che tutta la riempie» (Medea, vv. 103-104), fino al punto di uccidere i figli e negargli persino la sepoltura, pur di vendicare il proprio sentimento offeso e infliggere dolore al coniuge fedifrago.

Alla furia animale, la Medea di Euripide aggiunge anche l’immancabile nota irrazionale, per esempio quando al marito Giasone che piangeva la morte dei due cari («Figli miei diletti») ella, che pur li aveva uccisi con crudeltà, riesce a rispondere «[diletti] alla madre, non certo a te» (Medea, v. 1397). Una visione, quella di Medea, al tempo stesso olistica e totalitaria (il nucleo famigliare come entità unica e indistinta, per cui il male che colpisce un singolo elemento coinvolge, deve inevitabilmente coinvolgere anche tutti gli altri), ma anche figlia di una deresponsabilizzazione ritenuta del tutto tipica della donna (non sono io a uccidere i figli, è stato mio marito con il suo gesto fedifrago e distruttivo. Io anzi li amo, lui no).Questa connotazione originaria con cui viene definita l’essenza della donna fin dai testi più antichi e fondanti della tradizione occidentale, è certamente alla base di tutto il portato di discriminazioni intellettuali e sociali che ne sono seguite, e che trovano in san Paolo, ideologo del cristianesimo, il suggello più autorevole.

E’ lui, infatti, che pur in altre opere aveva pronunciato delle parole inaudite per quei tempi, ispirate alla perfetta uguaglianza fra tutte le creature di Dio, comprese il maschio e la femmina (Biblia sacra: Gal 3,26-28), ad esprimersi in maniera inequivocabile attraverso delle vere e proprie sentenze che sarebbero rimaste indelebili sulla parete della coscienza cristiana e occidentale:

Voglio tuttavia che sappiate che capo di ogni uomo è Cristo, capo della donna è l’uomo e capo di Cristo è Dio […] Le mogli siano obbedienti al proprio marito come al Signore […] Le donne tacciano nelle assemblee, perché non è permesso loro di parlare: siano sottomesse, piuttosto, come recita la legge (Biblia sacra: 1Cor 11,3; Ef 5,22; 1Cor 11,8).

Una vera e propria paura della donna, mista a una sottovalutazione a dir poco sospetta, visti i toni estremi, che certamente, come scriveva Jean Delumeau nel suo illuminante La peur en Occident (1978: 309), non costituisce una prerogativa esclusiva dell’ascetismo cristiano, visto che a Roma si considerava la «debolezza» o «pusillanimità» mentale della donna (imbecillitas mentis) come un dato perfettamente naturale, e anche nella tradizione greca, malgrado l’ampio lasso di tempo che separò le opere di Esiodo e Omero dall’Atene democratica, le cose non cambiarono molto, visto che un campione della democrazia come Pericle poteva affermare (anticipando S. Paolo) che «la virtù più grande di una donna è saper tacere» (cfr. Fossier 1991: 360).

2. Fra tradizione pagana e cristiana

L’analisi incrociata della tradizione cristiana e di quella pagana conduce sostanzialmente allo stesso assunto di fondo: quello di una creatura, la femmina, viziata fin dall’origine, difettosa e quindi portatrice insana di un virus malefico ben capace di distruggere l’armonia terrena, e anzi, a pensarci bene, perfettamente in grado di identificarsi con quel «male» che è caratteristica della vita mondana segnata dall’assenza di Dio e quindi del Bene (privatio boni).

Per la tradizione pagana Aristotele si impegna a descrivere con analisi minuziose l’inferiorità e la difettosità dell’anatomia femminile rispetto a quella maschile, concludendo che le femmine «sono per natura più deboli e più fredde, e si deve supporre che la natura femminile sia come una menomazione» (Aristotele, De gen. anim.: 775a, 15- 16), ma anche lo stesso Platone, pur alieno dal maschilismo viscerale degli altri filosofi antichi, nel Timeo (90e – 91a) immagina che la donna sia stata prodotta da un processo di corruzione dell’uomo.

Per la tradizione cristiana, si può ricordare S. Ambrogio, che nella fisiologica diversità fra l’uomo che è spirito (mens) e la donna che è sensazione (sensus), riteneva di scorgere la risposta al quesito teologico del tempo, cioè se fosse più colpevole Adamo oppure Eva nell’aver ceduto alla tentazione del maligno: sicuramente Adamo, perché lei non era particolarmente furba, e aveva dalla sua la scusante della stupidità» (S. Ambrogio, De inst. Virg.: PL 16, col. 325). Ma anche S. Tommaso, che nella Summa theologiae riprende proprio Aristotele e la definizione che questi dava della donna in quanto «maschio mancato» (mas occasionatus), per arrivare a confermare la sua sottomissione e inferiorità rispetto all’uomo (subiectio et minoratio), nei confronti del quale ella svolge un ruolo di aiuto, ma soltanto finalizzato a «cooperare alla generazione» (in adiutorium generationis), perché per tutto il resto altri maschi potevano essere ben più efficaci.

E del resto, che di solo aiuto si tratta, lo evinciamo dal fatto che anche nella procreazione è comunque l’uomo, con il suo seme, a svolgere un ruolo attivo (virtus activa), mentre a quell’essere «difettoso e mancato» (deficiens et occasionatus) che è la donna resta una mera funzione passiva di instrumentum procreationis (Tommaso d’Aquino, Summa Theol.: I, q. 92, arg. 1,2, co. e ad. 1).

Insomma, irrazionalità, debolezza (fisica ed emotiva), pusillanimità, difettosità generalizzata della sua natura, ma ancora, aspetto imperdonabile e irrecuperabile per la cultura cristiana, «porta del Diavolo» (diaboli janua), «prima ad abbandonare la legge divina» (legis prima desertrix), di fatto vera e propria incarnazione del male (Tertulliano, De cultu foem.: PL 1, col. 1419).

Siamo di fronte a un marchio indelebile, destinato a caratterizzare per secoli la reputazione e la condizione della donna, nonché a giustificare ampiamente l’oppressione maschile e le discriminazioni attuate nei suoi confronti lungo i secoli. Marchio tanto indelebile quanto influente: indelebile perché non risolvibile neppure con l’educazione e l’istruzione, influente perché capace di convincere di ciò persino una personalità illuminata come quella di J.J. Rousseau (non certo l’unico), che nell’Émile ou de l’éducation scrive:

Tutta l’educazione delle donne deve essere relativa agli uomini. Piacere loro, essergli utili, farsi amare e onorare da loro, allevarli da giovani e prendersi cura di loro da adulti, consigliarli, consolarli, rendere la loro vita piacevole e dolce: ecco i doveri delle donne in tutti i tempi e ciò che bisogna insegnargli fin dalla loro infanzia (Rousseau, O.C.: II, 637).

Il timore che la fragilità innata impedisse alle donne di impegnarsi negli studi più alti è stato condiviso anche al di là dell’Oceano, e per di più quando già eravamo da poco entrati nel XX secolo. Negli Stati Uniti, infatti, alcune commissioni mediche vennero incaricate di analizzare le prime studentesse con lo scopo di prevenire il sovraffaticamento del cervello e verificare il timore diffuso che lo studio troppo impegnativo potesse implicare la sterilità delle loro ovaie (Matthaei 1985: 5).

Un pregiudizio imponente e sedimentato nel sentire comune degli individui dalla matrice culturale più varia e diversa. Un vero e proprio muro all’apparenza insormontabile, destinato a separare la donna dal raggiungimento di una consapevolezza e di una riconoscibilità culturale e sociale in grado di parificarla all’uomo.

3. Uguaglianza e differenza

La ricerca di una parità, infatti, o se si preferisce dell’uguaglianza, è stato il leit-motiv costante delle prime battaglie culturali condotte in difesa delle donne, quasi un programma minimo di reazione, si potrebbe dire col senno di poi, volto a tentare di scalfire quel grande muro costruito con le pietre della maledizione e del pregiudizio. Prendiamo il caso di Mary Wollstonecraft, per esempio, che esattamente trent’anni dopo l’Emilio di Rousseau compone un’opera, forse la prima sistematicamente compiuta nel panorama della letteratura femminista, che sembra una risposta diretta al filosofo francese. Per esempio là dove scrive che «per rendere il contratto sociale veramente giusto, con lo scopo di diffondere quei principi illuminanti che soli possono migliorare il destino dell’uomo, alle donne deve essere concesso di fondare la propria virtù sulla conoscenza, cosa scarsamente possibile se non vengono educate con gli stessi criteri e obiettivi degli uomini» (Wollstonecraft 1792 (1891): 250).

La scrittrice inglese riconosce il livello inferiore delle donne dell’epoca, per lo più interessate all’aspetto estetico, alle storie d’amore e alla sola, piccola e misera, dimensione privata. Ma imputa tale condizione non a un’inferiorità congenita, bensì alla società governata dai maschi, che esclude la maggior parte di loro dalla possibilità di ricevere un’educazione culturale e mentale adeguata.

Si tratta di un’esplicita richiesta di uguaglianza delle opportunità, con delle finalità neppure troppo sconvolgenti (per l’ordine valoriale della tradizione occidentale). Infatti Wollstonecraft sottolinea sì la «massima importanza» che deve essere riconosciuta all’educazione nazionale delle donne, con lo scopo ultimo di renderle «creature razionali» e «libere cittadine» affinché possano diventare «buone moglie buone madri» (Wollstonecraft 1792: 255 e 257).

Certo, si era saliti di livello. In quel «libere cittadine» era comunque insita un’istanza sociale che ha caratterizzato per oltre un secolo la fase cosiddetta «liberal-democratica» della lotta femminista, e che si poneva come scopo quello di far raggiungere alle donne un trattamento paritario all’interno delle società liberali che si erano affacciate alla rivoluzione industriale.

Fatto sta che i protagonisti della tradizione liberale si guardarono bene dall’accogliere tale istanza, tanto che anche lo stesso pregiudizio negativo nei confronti delle donne fece riscontrare un salto di qualità. Non più confinato alla sola sfera dell’indole e della conformazione fisica più debole (e quindi inferiore), ora si tentava di bollare la donna come costituzionalmente incapace di coltivare delle virtù pubbliche e civili, insomma di interessarsi al bene della collettività e della società. Ed è in nome di questo ulteriore pregiudizio che i pensatori liberali, ma anche gli stati che si richiamavano a tale nobile tradizione, esclusero per secoli le donne dal godimento di quei diritti politici e sociali che pur essi teorizzavano con tanta enfasi.

Basti pensare al padre del liberalismo economico, Adam Smith. Questi, ritenendo che il possesso della generosità e dello spirito pubblico fosse fondato sullo stesso principio della giustizia, distingue la generosità dall’umanità e conclude che quest’ultima è una virtù della donna, mentre la prima appartiene all’uomo. Il «sesso debole» è sì fornito di umanità e maggiore sensibilità rispetto al maschio, ma si tratta di una dote che si estrinseca nella sfera privata, quella della cerchia ristretta degli affetti. Nel più ampio ambito sociale la donna è meno generosa e meno disposta a impiegare i beni propri o della propria famiglia per il bene della collettività (Smith 1759: 190). Allo stesso modo la pensava Tocqueville, compiaciuto nel notare come nella democrazia americana ci si guardava bene dall’impegnare le donne negli affari politici e sociali, che esulassero da quell’ambito famigliare in cui lei è sì la regina, ma comunque sottoposta all’uomo che ne è il «capo naturale» (chef naturel) (Tocqueville 1951 sgg., t. I, v. II: 219-220). Non c’era niente da fare, insomma, perché il pregiudizio naturalistico si estendeva con grande facilità anche all’ambito sociale, portato avanti da quegli stessi autori liberali da cui era lecito attendersi una ricerca dell’uguaglianza delle opportunità.

È a partire da questi presupposti che il movimento femminista decise di compiere un salto di qualità, concentrandosi sul principio della «differenza sessuale» e non più su quello dell’emancipazione e della ricerca della parità fra uomo e donna. Gli scritti di autrici come Luce Irigaray e Julia Kristeva ebbero un’influenza enorme soprattutto sul movimento femminista italiano, artefice di una dura requisitoria contro il concetto di uguaglianza inteso come momento incapace di valorizzare le differenze di un essere, quello femminile, che doveva uscire dall’ordine costituito maschile e liberarsi dai rischi dell’omologazione. Insomma, se «lo sfruttamento delle donne è fondato sulla differenza sessuale, non può risolversi che attraverso la differenza sessuale», secondo le parole della stessa Irigaray (Boccia 2002: 155-8).

La donna, insomma, almeno quella immaginata dalle femministe, prende le distanze da quel cosmo maschile che l’ha culturalmente bollata e relegata ai margini più bassi del consorzio sociale, e nel fare questo, in maniera coerente, si trova a rimettere in discussione ogni aspetto della storia del pensiero, della storia e della prassi politica, persino del linguaggio, poiché questi sono tutti rami di una pianta malata all’origine: la pianta di un mondo pensato dagli uomini e per gli uomini, in cui la donna è destinata a recitare un ruolo marginale, quando non subordinato o del tutto strumentale (servile).

4. Per un nuovo femminismo tra Freud e Hegel

Non è compito di questo saggio tentare di trarre un bilancio della deviazione estremistica posta in essere dal movimento femminista negli ultimi decenni del XX secolo, né certamente di tentare un bilancio esaustivo della vicenda femminile nel suo complesso, quanto piuttosto evidenziare quello che mi sembra un ulteriore salto di qualità nel rapporto tra filosofia e pensiero femminista.

Questo ulteriore salto di qualità è composto certamente da slanci in avanti significativi, ma anche da ripensamenti tanto inaspettati quanto prolifici sul piano della speculazione scientifica e su quello di una nuova percezione che le donne posso avere della propria identità di genere.

L’occasione è fornita dall’uscita, per i tipi di Mimesis, del Manifesto per un nuovo femminismo, a cura di Maria Grazia Turri (pp. 236), filosofa ed economista dell’Università di Torino, che si avvale dei contributi di studiose e studiosi di estrazione culturale e ambiti disciplinari diversi.

Dalla lettura di questo testo, veniamo a scoprire un cambiamento radicale di atteggiamento che si manifesta fin dalla premessa contenuta nel saggio intitolato «Specchio», della psicologa e ricercatrice dell’Università di Bologna Sara Giovagnoli. La cui lettura mi ha ispirato una parafrasi del celebre incipit del Manifesto di Marx ed Engels: un fantasma si aggira dentro l’animo di ogni donna! Tremendamente capace di condizionarla, di fornirla di senso come anche di annichilirla.

Si tratta dello sguardo dell’uomo, una sorta di vero e proprio specchio interiore attraverso cui la donna cerca quell’approvazione in cui reperire finalmente una propria identità pacificata. In questa strettissima dipendenza dall’approvazione dello «sguardo» maschile risiedevano l’errore fatale e la debolezza congenita della donna fin dai tempi di Simone de Beauvoir, che nel suo celebre Il secondo sesso (1949) scriveva già di una «fanciulla che ha sognato se stessa attraverso gli occhi di uomo: negli occhi di un uomo la donna crede finalmente di ritrovarsi» (de Beauvoir 1949: 627).

Lo scopo supremo dell’amore umano è il medesimo dell’amore mistico, ossia l’identificazione con l’amato, la ricerca della sua approvazione, il bisogno di servirlo, di trovare in esso l’identità e il senso della vita, che altrimenti sfuggono tragicamente relegando l’individuo in una dimensione chiusa e soffocante. Senza speranza alcuna di un possibile salvezza.

L’essere che ama per antonomasia è la donna, come scriveva il Nietzsche de La gaia scienza, capace del «dono totale dell’anima e del corpo», con una dedizione incondizionata che fa del suo amore «una fede, la sola che abbia» (cit. in de Beauvoir 1949: 623). La forza dell’uomo consisterebbe proprio in questo disequilibrio, perché esso non si concede mai del tutto, non abdica mai per farsi servitore della donna amata, mentre a lei è concesso di amarsi soltanto attraverso l’amore che ispira, secondo le parole di de Beauvoir riportate in apertura del suo saggio da Giovagnoli (p. 195).

Questo aspetto, possiamo dire consustanziale all’animo femminile, è quanto forse è stato più trascurato dall’ala estremista del movimento femminista, che nel rimarcare la «differenza» delle donne ha spesso dimenticato di «pensare» (e quindi concettualizzare) quelli che sono gli elementi anche di debolezza insiti in quella differenza:

Così come Freud vedeva nelle donne della sua epoca il motivo portante del disagio della civiltà e il simbolo evidente della repressione sociale – scrive Giovagnoli con perspicacia profonda e suggestiva – così oggi, nell’illusiva parvenza di parità, nella corsa alla conquista del negato, possiamo vedere nella donna moderna una persona altrettanto frustrata, non più vittima della repressione sociale, ma della sua stessa repressione. È lei stessa che si vincola, che si impone delle rinunce, che castra il suo essere donna e si getta tra le braccia della nevrosi. Forse è meglio cadere vittima per propria mano che per quella altrui? Meglio una castrazione autoinflitta di una subìta? Ma poi, a prezzo di tutto ciò, le donne di oggi hanno realmente maggior potere? Abbiamo parlato dell’attrazione, sfruttata come oggetto, un mezzo per arrivare alla mèta finale (affermazione dell’intelletto). Ma, a parere di chi scrive, più che una proprietà della donna, sembra una concessione dell’uomo. Nell’illusione del pieno controllo del mezzo, ci troviamo ancora una volta a subire una decisione altrui. Il credere di sfruttare questo potere è un misero ripiego per nascondere un’ulteriore imposizione. È in realtà l’uomo che ci concede il potere illusorio dell’attrazione, che non è mai appartenuto fino in fondo alla donna. Scarso o nullo è, in verità, il potere che ella ha sulla razionalità maschile (p. 206).

Ora, tralasciando il fatto, peraltro non marginale, su quanto converrebbe all’economia globale della società che la donna riuscisse effettivamente a «scalfire» l’impianto razionale dell’uomo (materia di discussione pressoché infinita), bisogna prendere atto di un dato filosofico sostanziale che sembra uscire da questo Manifesto: la proposta di riappacificazione del pensiero femminista con Freud (o quantomeno un tornare a leggerlo con obiettività e profitto), il cui contenuto obiettivamente maschilista di alcuni scritti è stato fin troppo volgarmente esasperato, ma anche con Hegel, il pensatore su cui le femministe storiche proponevano di «sputare».

E non tanto lo Hegel che riproduceva gli schemi reazionari già visti, per esempio nella Fenomenologia dello spirito, in cui definisce il «feminino» come l’«eterna ironia della comunità», l’elemento limitato e limitante pronto a sminuire il fine universale del governo riconducendolo a fine privato, a «possesso e orpello della famiglia», oppure nella Filosofia del diritto, dove attribuisce all’uomo una vita sostanziale e reale che si realizza nello stato e nella scienza, a differenza della donna, per cui ciò avviene esclusivamente nell’ambito della famiglia (Hegel 1807, v. 2: 34; 1821: § 166).

Quanto piuttosto, potremmo dire, con il metodo dialettico hegeliano, nella misura in cui esso permette di superare la contrapposizione duale maschio/femmina, per rimettere al centro il concetto di individuo, non più sospeso nella dicotomia differenza/uguaglianza, ma riconosciuto e sintetizzato nel concetto di libertà (che le contiene, o le dovrebbe contenere, entrambe).

Un aspetto quanto mai centrale per l’epoca odierna, in cui occorre andare oltre, e qui risiede una tesi dirompente del volume, per superare quel femminismo anacronistico che, rimanendo comunque ancorato alla rigida distinzione di genere (o «differenza»), dimentica «tutto il resto del mondo», come scrive la curatrice Maria Grazia Turri nel suo lungo saggio introduttivo. Come per esempio i gay uomini, a cui una femminista storica del calibro di Luisa Muraro voleva negare il diritto di adozione dei bambini, ma anche i transgender, gli ermafroditi etc..

Mai come oggi, insomma, un pensiero femminile e femminista che voglia superare le rigide dicotomie dell’ordine maschile, nonché la logica del dominio e dell’esclusione che lo sottende, deve innalzarsi alla considerazione dell’individuo nella sua irriducibilità generica e sessuale, compiendo un salto di qualità che comprenda le persone non nella loro «differenza», quanto piuttosto nell’in-differenza che le caratterizza come esseri umani (a prescindere dal sesso, dalla razza, dal censo etc.). Cosa che del resto era stata intuita già da Judith Butler nel suo Gender Trouble del 1990 (ora rieditato in italiano attraverso una pregevole edizione per i tipi di Laterza: J. Butler, Questioni di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità, pp. 221), là dove scriveva che «la categoria del sesso e l’istituzione naturalizzata dell’eterosessualità sono costrutti, fantasie o feticci, categorie politiche e non naturali» (Butler 1999: 126).

Il superamento dell’antico pregiudizio di cui è stata vittima la donna, in nome del quale si è esercitato su di essa un dominio secolare, non può essere superato, almeno non da un pensiero femminista che opera in un’epoca e in una civiltà evolute e libere, attraverso la riproduzione di schemi dicotomici che possono generare nuove forme di dominio e di esclusione. Attraverso questo snodo fondamentale può essere ancora attuale il grande contributo, e la nobile lotta, che il pensiero femminile e femminista hanno condotto, conducono e condurranno contro quella volontà di potenza che alberga irrimediabilmente nell’essere umano. Uomo, donna, gay o transgender che sia.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Aristotele: il testo greco delle singole opere è citato dall’edizione Aristotelis Opera, 11 vv., E Tipographeo Academico, Oxonii 1837
Biblia sacra: vulgatae editionis, Sumptibus P. Lethielleux, Parisiis 1891 (i passi biblici vengono citati direttamente nel testo secondo la vulgata canonica)
Boccia M.L. (2002): La differerenza politica. Donne e cittadinanza, Il Saggiatore, Milano
Butler J. (1999): Gender Trouble. Feminism and the Subversion of Identity, Routledge, New York – London 1990
De Beauvoir S. (1949): Il secondo sesso, Il Saggiatore, Milano 2008
Delumeau J (1983).: La Péché et la Péur. La culpabilisation en Occident, XIII-XVIII siècles, Fayard, Paris
Esiodo: Opere e giorni, in Opere, testo greco a fronte, Utet, Torino 1977
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Id. (1821): Lineamenti di filosofia del diritto, Bompiani, Milano 2006
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Platone: il testo greco delle singole opere è citato dall’edizione Platonis Opera – The Works of Plato, 5 vv., Clarendon Press, Oxford 1901-1907
Rousseau J.J.: Oeuvres complete, 4 vv., A. Houssiaux Libraire, Paris 1852
Smith A.(1759): The Theory of Moral Sentiments, Liberty Fund, Indianapolis 1984
Tocqueville A. (1951 sgg.): Oeuvres complètes, Gallimard, Paris
Tommaso d’Aquino: Summa theologica, diligenter emendata, De Rubeis, Billuart et aliorum notis selectis ornata (1266-1273), 6 vv., Marietti, Torino 1932
Turri M.G., a cura di, (2013): Manifesto per un nuovo femminismo, Mimesis, Milano
Wollstonecraft M. (1792): A Vindication of the Rights of Woman, Scott, London 1891

Paolo Ercolani insegna storia della filosofia e teoria e tecnica dei nuovi media all’Università di Urbino. Collabora all’inserto culturale del Corriere della sera («La Lettura»), è redattore della rivista Critica liberale, oltre che fondatore e membro del comitato scientifico dell’Osservatorio filosofico (www.filosofiainmovimento.it). Fra i suoi libri, che più volte hanno suscitato un dibattito acceso sui media nazionali: Il novecento negato. Hayek filosofo politico (Perugia 2006); Tocqueville: un ateo liberale (Bari 2008); La storia infinita. Marx, il liberalismo e la maledizione di Nietzsche (Napoli 2011) e L’ultimo Dio. Internet, il mercato e la religione stanno costruendo una società post-umana (Bari 2012).

Martin Heidegger e il nostro tempo

di
Francesca Brencio

Numquam se plus agere quam nihil cum ageret, numquam minus solum esse quam cum solus esset Catone

Pagine heideggeriane è un progetto che nasce con l’intenzione di fornire uno strumento per l’approfondimento del pensiero di Martin Heidegger, fornendo una selezione di testi del filosofo tedesco selezionati per temi, affiancati da una letteratura critica ragionata sia italiana sia straniera, che offra al lettore delle indicazioni bibliografiche iniziali con cui approfondire lo studio di questo pensatore.

Heidegger è un filosofo molto discusso, nel bene e nel male, uno degli ultimi esponenti del pensiero che ha riproposto i grandi interrogativi della metafisica nutrendo l’ambizione di oltrepassarla: fortemente critico verso un uso disincantato della tecnica, spesso tacciato di esser più incline a pensare all’essere che non all’uomo, implicato nei fatti politici della Germania nazista, assertore della fine della filosofia e della necessità di un pensiero poetante. Capita così che Heidegger diventi o il maggior esponente del nichilismo nell’epoca contemporanea, o uno dei più genuini pensatori che abbiano tematizzato problemi teologici nel dibattito corrente; o, ancora, che diventi un intellettuale al servizio di un’ideologia.

Eppure Heidegger è molto più di questo.

Karl Löwith non ha mai risparmiato ad Heidegger nessuna critica; egli scrive esplicitamente, all’inizio della seconda edizione dell’opera Saggi su Heidegger, che l’intento del libro era quello di rompere il silenzio e l’aura che attorniava la figura del “maestro” Heidegger da parte di tutti coloro che se ne ritenevano discepoli. Eppure, proprio Löwith ce lo racconta così: « In lui, soprattutto, è all’opera l’energia originaria, tenace e concentrata di un sapere teso nella sua intensità e di una meditazione che tutto penetra del suo elemento, espunge il consunto schematismo di ogni nostro vecchio concetto, e rimette in questione criticamente tutta la tradizione del pensiero filosofico, indagandone passo a passo la fonte e la portata» [ref] K. LÖWITH, Saggi su Heidegger, trad. it. a cura di C. Cases e A. Mazzoni, Einaudi, Torino 1966, p. 124. [/ref].

Il pensiero di Heidegger ha percorso un’onda sinusoidale ricca di momenti diversi: è passato da una fiorente fortuna ad una «(relativa) “disgrazia” in cui pare essere caduto, perlomeno nell’ambito di una certa cultura accademica» [ref] P. D. BUBBIO, Bentornato Heidegger, prefazione a F. BRENCIO, Scritti su Heidegger, Aracne, Roma 2013, p. 17. [/ref]. Ridicolizzato dalla filosofia analitica, a causa della sua “oscurità” e “confusione”, nell’ambito della filosofia continentale ha conosciuto una vera autorevolezza: «Considerato il “padre nobile” dell’ermeneutica filosofica contemporanea, eletto a punto di riferimento imprescindibile da Gadamer, ed enormemente apprezzato dalla scuola fenomenologica francese, Heidegger ha mantenuto una posizione di assoluto rilievo per tutta la seconda metà del ventesimo secolo. Ma sul finire del secolo, qualcosa è cambiato anche in quel contesto. Da una parte, l’ideale del prospettivismo, avanzato da un’ermeneutica considerata come la nuova koiné del nostro tempo (secondo la celebre definizione di Gianni Vattimo), sembrava aver esaurito la sua forza propulsiva. Dall’altra, una filosofia analitica sempre più aggressiva sbarcava anche in Europa […]. E così, nel giro di qualche anno, anche nelle università del continente europeo […] Heidegger è stato messo da parte. Secondo alcuni era, semplicemente, “passato di moda”; mentre secondo altri il suo pensiero era stato eccessivamente sopravvalutato, e ora giustamente lo si ridimensionava» [ref] Ibidem, p. 17 e s. [/ref].

La filosofia, purtroppo, è soggetta alle mode come ogni altro prodotto dell’uomo e così anche Heidegger è stato l’oggetto della dea bendata. Eppure credo che insistere oggi sulla necessità di avvicinarsi al suo pensiero, accogliendone soprattutto gli interrogativi sia l’aspetto più stimolante. Se è vero, come scriveva Hegel, che la filosofia è il nostro tempo appreso col pensiero, allora “saper stare” dentro le domande heideggeriane rimane una delle vie privilegiate di accesso alla filosofia, accesso che impone l’onesta abitudine di dismettere il vezzo delle etichette per andare incontro ad una comprensione critica della sua filosofia. Forse Gadamer non era poi tanto lontano dal vero quando scriveva: «Se uno è convinto di essere “contro” Heidegger – o anche se si crede semplicemente di essergli “favorevole” – si renderebbe ridicolo. Non è così semplice passare davanti al pensiero» [ref] H. G. GADAMER, I sentieri di Heidegger, trad. it. a cura di R. Cristin e (solo per il cap. 8) G. Moretto, Marietti, Casale Monferrato 1987, p. 98. [/ref]. A prescindere dalla posizione di pensiero che si voglia assumere davanti ad Heidegger, non si può negare che egli si sia inserito nella filosofia andando a toccare i nodi concettuali più problematici e delicati del nostro patrimonio teoretico.

La ricchezza della speculazione heideggeriana non può facilmente essere semplificata. Tuttavia, se fra tutti gli interrogativi che si diramano dal suo procedere ne dovessimo rintracciare uno che funga da bussola con cui addentrarsi al suo interno, questo potrebbe essere il seguente: come può l’uomo, un essere finito, mortale, consegnato al tempo, comprendere se stesso (l’essere dell’esserci) e il mondo che abita non semplicemente come essere della mancanza ma facendo della sua propria finitezza il punto di forza del suo essere, del suo esistere, del suo fare? E da questo interrogativo, ancora altri non meno importanti: come può inverare la sua propria vita attraverso un esistere autentico? Come può far sì che le sue molteplici capacità non si trasformino in maglie pericolose che riducano la sua libertà? Come può questo stesso essere recuperare un senso sacro del mondo e nel mondo in un’epoca che vive nella povertà di tutte le povertà? Cosa ha da dire la filosofia a questo uomo? In che modo la filosofia può dialogare con le scienze umane?

Forse ci saranno studiosi che sosterranno che non è Heidegger il pensatore adeguato a rispondere a questi interrogativi, soprattutto allorquando essi, pur essendo posti sul terreno della filosofia, chiamano in causa anche altre discipline che si occupano dell’uomo, e forse, a loro modo di vedere, le argomentazioni portate potrebbero essere valide, anche se cuique interpretandi usu suo. Tuttavia Heidegger è ancora in grado di offrire validi concetti con cui rispondere a queste domande e porne delle nuove.

Questo “stare” nella domanda heideggeriana è lo strumento con cui interrogare il nostro tempo e il nostro spazio, rendendoci interpreti attenti e critici contro ogni soluzione prêt-à-porter del pensiero. Usando un’espressione che spesso torna nelle opere del filosofo tedesco, “il soggiorno” presso le domande è un permanere in esse attraverso l’esercizio della critica: non è un avvitarsi negli interrogativi attraverso i virtuosismi della riflessione filosofica, ma un verificare la fondatezza delle domande riconducendole a quelle essenziali e per questo originarie, cioè le domande ultime. Heidegger incalza l’interlocutore, a oltre trent’anni dalla sua morte, con le domande sulle cose ultime, sulla fondazione del mondo e procede per disvelarle, per toglierle dal loro nascondimento, operazione questa che si realizza nella penombra dell’esercizio ermeneutico in cui la parola è sempre Lichtung.

Proprio la parola della filosofia heideggeriana esige uno sforzo da parte del lettore, sovente disabituato ad un linguaggio che procede per metafore, che trae linfa dalla poesia, che prende a prestito – a volte anche impropriamente, come ricorda Gadamer – le parole guida del pensiero greco o che si avventura per le vette della metafisica. La parola che Heidegger affida alla filosofia reclama aderenza alla cosa di cui parla, cifra questa che connota in modo inequivocabile lo stile dell’autore. Tale aderenza può essere compresa attraverso tre significati. È l’aderenza alla cosa: la parola aderisce alla cosa, ne diventa non semplicemente segno fonetico ma ne accoglie l’esistenza allo stesso modo di come la terra (Boden) accoglie i viventi. È l’aderenza alla terra: la parola aderisce alla terra del Baden, ai suoni tipici della Mundart permettendo alla concretezza delle cose di diventare tangibile solo con il nominarle, senza scadere tuttavia in una specie di sentimentalismo ombelicale. Infine, è aderenza al pensiero: la parola non è meramente uno strumento con cui parlare e dare forma al pensiero ma testimonia quella meditazione sull’essere che ha impegnato Heidegger per tutta la sua esistenza; così l’incompiutezza linguistica di Essere e tempo segna già agli albori della sua storia la ricerca del linguaggio capace di nominare le cose, capace di dire l’essere, capace di far abitare il mondo poeticamente, rifuggendo da ogni ingenuo romanticismo.

In una conferenza del 1965 dal titolo La fine del pensiero nella forma della filosofia – pubblicata nel 1984 da Hermann Heidegger con il titolo La questione della determinazione della “cosa” del pensiero – Heidegger disse: «La filosofia è giunta alla sua fine […]. Nella fine della filosofia si compie quella direttiva che, sin dal suo inizio, il pensiero filosofico segue lungo il cammino della propria storia. Alla fine della filosofia il problema dell’ultima possibilità del suo pensiero diviene affare serio» [ref] M. HEIDEGGER, Filosofia e cibernetica, trad. it. a cura di A. Fabris, ETS, Pisa 1988, pp. 30-34. [/ref]. La questione dell’ultima possibilità della filosofia è dunque l’orizzonte di senso in cui siamo chiamati a pensare. Forse può apparire una deriva nichilista quella di chiamare in causa la fine della filosofia in un momento storico in cui vari dibattiti animano la scena teoretica italiana e non solo: penso al dibattito sul nuovo realismo, alla querelle fra filosofia analitica e continentale, all’attenzione manifestata negli ultimi anni da parte della filosofia per tutti i viventi sollevando la “questione animale”, alla rinascita di studi verso i classici. Altresì si tradirebbe il senso genuino di questa espressione se ci lasciassimo facilmente ingannare dalle parole e considerassimo la “fine della filosofia” in un puro senso negativo, come un mero cessare, come il venir a mancare di un processo, se non addirittura come impotenza e incapacità. Se così fosse, a questa nota espressione heideggeriana spetterebbe lo stesso destino che è toccato alla famosa espressione hegeliana intorno alla “morte dell’arte” – espressione questa, è bene ricordarlo, mai usata da Hegel, bensì coniata da Benedetto Croce al fine di indicare il ruolo dell’arte all’interno del sistema, cioè la sua Auflösung [ref] Cfr. D. FORMAGGIO, La “morte dell’arte” e l’Estetica, Il Mulino, Bologna 1983 [/ref].  Proprio per capire cosa si intende con questa “fine della filosofia”  occorre tornare alla riflessione compiuta da Heidegger sulla metafisica occidentale e sull’oblio dell’essere da essa realizzato, al compimento che realizza sin dalla sua fondazione, cioè alla Grundfrage. E’ in questa direzione che va interpretata questa espressione. «La fine della filosofia si mostra come il trionfo della dominante fondazione di un mondo tecnico-scientifico e dell’ordinamento sociale conforme a questo mondo» [ref] M. HEIDEGGER, La fine della filosofia e il compito del pensare, in E. MIRRI, Il pensare poetante, trad. it. a cura di E. Mirri, C. L. E. U. P., Perugia, pp. 144-148. [/ref]. Avremo modo di leggere le pagine dell’autore sulla questione dell’oltrepassamento della metafisica e dell’oblio dell’essere, così come quelle sulla questione della tecnica e del pensiero poetante. Tuttavia, in questa sede introduttiva, mi sembra utile ribadire l’importanza delle indicazioni heideggeriane sulla possibilità della filosofia nel nostro tempo, tempo in cui «l’uomo, che non è più né il “figlio di Dio”, né il “fine della natura”, né il “soggetto della storia” [. . . ] bensì è l’esistente in cui l’essere si espone come fare senso [. . . ]. L’uomo non è più il significato del senso [. . . ] ma è il suo significante [. . . ] perché ne indica e ne apre il compito» [ref] J. L. NANCY, Sull’agire. Heidegger e l’etica, trad. it. a cura di A. Moscati, Cronopio, Palermo 2005, p. 32. [/ref]. Dopo la fine dei sistemi forti, cioè di quelle speculazioni in grado di spiegare, giustificare e fondare la realtà more geometrico, dopo la “morte di Dio” che ha occupato un posto privilegiato nella speculazione novecentesca – teorizzazione hegeliana, aforisma nietzscheano, visione del mondo, impasse metafisica contro cui il filosofare stesso si è imbattuto e ha dovuto rimettersi in discussione per cercare di rispondere all’interrogativo che nasceva dal vuoto occupato dal fondamento – dopo l’inaugurazione del post-moderno come scenario storico in cui si consumano e si interpretano le scienze che parlano dell’uomo e sull’uomo, il compito del significante “uomo” è rimesso in questione nello spazio della filosofia e del suo fare, creando nuovi orizzonti di senso, o per usare un’espressione evocativa di Bloch, utopie irrealizzate, da intendersi non come fughe nell’irreale, bensì  come scavo per la messa in luce delle possibilità oggettive insite nel reale e lotta per la loro realizzazione. Pertanto, ogni declinazione della domanda sul senso del Dasein è un “angolo di mondo” che Heidegger ci invita a comprendere per poterlo abitare. Attraverso la sua speculazione, egli ha voltato le spalle alla coscienza dell’idealismo tedesco in direzione dell’effettività dell’esistere dell’uomo: l’esserci è posto sempre come mio “esserci” e non cede il passo all’io generico di cartesiana provenienza, ma si radica nel terreno del “qui e ora”, della progettualità (futuro) e della rammemorazione (passato). Questa costante attenzione all’esistenza singola, finita, concreta, manifestata sin dall’ultimo corso universitario a Freiburg nel 1923 [ref] Cfr. M. HEIDEGGER, Ontologia. Ermeneutica dell’effettività, trad. it. a cura di G. Auletta, Guida, Napoli 1998. [/ref], non solo collidono con quella interpretazione di Heidegger che lo vede uno studioso più interessato all’essere che non all’uomo, ma soprattutto gettano luce sulla possibilità di una riscoperta della sua filosofia in termini d’esistenza. L’algebra dello spirito si inverte e dalle profondità dell’essere siamo prepotentemente richiamati ad una visione fenomenica dell’esistente, dell’uomo, nella sua finitezza e trascendenza.

La metamorfosi del signor P(otere)

Parafrasando un celebre frammento di Eraclito, in cui il grande filosofo antico si riferiva alla natura, potremmo dire che l’epoca della società in rete, o della globalizzazione, è quella in cui il Potere ha subito una trasformazione tanto poco percettibile quanto sostanziale e profonda: siamo infatti passati dal Potere che nasconde, censura, manipola o coarta il flusso delle informazioni (o disinformazioni), a quello che ama nascondersi, trasfigurare i propri meccanismi di funzionamento e influenza, mascherare i luoghi del proprio abitare e operare. Lo scopo è sempre lo stesso, la perpetuazione del Potere stesso, ma le modalità mutate debbono indurre a più di una riflessione.

1. Luci e ombre

Il Potere che ama nascondersi è quello a cui non importa più se e quanto la popolazione possa o debba sapere, perché il suo essere nascosto, tale per cui non si sa bene chi lo detiene, da dove e con quali modalità di esercizio, gli consente comunque di attuare un dominio sulla pubblica opinione (nonché sulle menti e sui corpi degli individui), ancora più capzioso perché in grado di inserirsi nei meandri della mente collettiva e assurgere al rango di senso comune consolidato, pensiero unico difficilmente smentibile se non al prezzo di essere tacciati di follia o paranoia.

A un livello squisitamente tecnico la questione non deve sorprendere più di tanto, se è vero che già Platone ci aveva insegnato che le malattie degli occhi, per cui essi finiscono col non riuscire più a vedere, sono di due tipi e hanno due cause: «il passaggio dalla luce all’ombra e dall’ombra alla luce» [ref] Platone, Repubblica: VII, 518a, testo greco in Platonis Opera-The Works of Plato, a cura di J. Burnet, 5 voll., Clarendon Press, Oxford 1901-1907. [/ref]

Tanto l’oscurità più totale, quanto un eccesso di luce producono degli esseri umani incapaci di pervenire alla distinzione chiara delle cose e quindi alla conoscenza, limitandoli bene che vada a una pallida percezione di ombre scambiate per oggetti reali. E qui entra in gioco la Rete, onnipotente e generosissima dispensatrice di informazioni infinite e di ogni genere, in cui è possibile rintracciare l’avallo a qualsiasi ipotesi anche strampalata e al suo contrario.

Il risultato, ovviamente, è quello di una impossibilità di approssimarsi a delle verità nitide, abbagliati dalla troppa luce dell’«opulenza informativa» e dimentichi che il tutto confina paurosamente con il nulla. Entriamo così nel nerbo di quel «cambiamento radicale» nelle modalità di attuazione del disegno coercitivo del potere di cui ci parlava Maldonado: «Nel passato, anche quello più recente tale disegno faceva ricorso all’indigenza informativa, ora invece è l’opulenza informativa che viene privilegiata» [ref] T. Maldonado, Critica della ragione informatica, Feltrinelli, Milano 1989, pp. 89-91. [/ref] .

Siamo perfettamente all’interno dell’intuizione di Platone, ripresa efficacemente da Günther Anders quando nel 1980 descriveva il «metodo odierno» del potere, che impedisce la comprensione non più fornendo poche notizie ai cittadini, ma fin troppe, mettendoci in una condizione per cui «veniamo sopraffatti da una tale abbondanza di alberi affinché ci venga impedito di vedere la foresta», e impedendoci quella «visione d’insieme» delle cose che per Hegel rappresentava una dote imprescindibile nel cammino della conoscenza [ref] G. Anders, L’uomo è antiquato. La terza rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino 1980, p. 234. [/ref].

2. L’èra post-democratica

Che non si sta parlando di questioni minimali, è un fatto agevolmente riscontrabile non appena ci si riferisca ai grandi padri del liberalismo contemporaneo, concordi nell’affermare che il cammino della democrazia, per quanto imperfetto e irto di contraddizioni, avanza inesorabile soltanto laddove vi siano cittadini informati e critici, disposti a impegnarsi nelle faccende della società civile in seguito all’acquisizione di una conoscenza che si traduce in costruzione del bene comune. Informazione e autonomia critica sono le doti fondamentali dei cittadini di una democrazia, quelle che permettono di esercitare il «controllo pubblico del potere», «tanto più necessario in un’età come la nostra in cui gli strumenti tecnici di cui può disporre chi detiene il potere per conoscere capillarmente tutto quello che fanno i cittadini è enormemente aumentato, e praticamente illimitato» [ref] N. Bobbio, Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino 1984, p. 19. [/ref].

Insomma, se una delle essenze dell’essere umano è quella di configurarsi come homo politicus, nella misura in cui si serve della propria ragione e delle conoscenze a disposizione per contribuire al progresso della società, questa facoltà va potenziata e resa possibile dalla «pianificazione» di un consorzio sociale in cui siano ampiamente garantite le libertà degli individui, a partire da quelle «istituzioni sociali che proteggano la libertà di critica e di pensiero» e impediscano di votarsi a platoniche «autorità pseudo-razionali» [ref] K. Popper, The Open Society and Its Enemies, 2 voll., Routledge & Kegan Paul, London 1973, v. II, pp. 238-9. [/ref] .

L’autorità più razionale che ha reso possibile il progredire delle società occidentali è lo Stato, inteso come res publica e quindi luogo in cui l’individuo è cittadino in quanto caratterizzato da diritti e doveri universalmente riconosciuti (almeno in linea teorica), a cominciare dal diritto-dovere per antonomasia: l’espressione di un consenso politico ed elettorale informato e maturo, volto alla formazione di quel potere legislativo in vista del bene comune.

Naturalmente, il potere dello Stato, esposto alle degenerazioni e agli abusi propri di ogni condizione di supremazia, oltre che a livello costituzionale e di equilibrio dei poteri, dovrebbe essere controllato dai cittadini stessi, la cui vigilanza interessata alla tutela dei propri diritti porta a un controllo efficace degli stessi governanti, secondo quanto sanzionato dalla stessa Corte di giustizia dell’Unione europea [ref] Cfr. L. Dubouis – C. Gueydan, Les Grands Textes du droit de l’Union Européenne, Dalloz, Paris 2002, t. I, pp. 440-2. [/ref].

Si tratta di quella «democrazia di sorveglianza» [ref] P. Rosanvallon, La contre-démocratie. La politique à l’âge de la défiance, Seuil, Paris 2006, cap. I. [/ref] di cui parla Pierre Rosanvallon, che oggi viene minata dal forte indebolimento dei due pilastri su cui essa ha trovato fondamento e determinatezza pratica e concettuale: da una parte lo Stato, ormai «incapace di controllare le reti globali della ricchezza, del potere e delle informazioni» [ref] M. Castells, Communication Power, Oxford University Press, Oxford 2009, p. 296. [/ref] ; dall’altra l’opinione pubblica, uniformata, indebolita e alla fine resa passiva da un sistema di vecchi e nuovi media fondato su quella che Pasolini chiamava «misologia», cioè da un’operazione meticolosa e sistematica di distruzione del libero pensiero, dell’autonomia critica e dell’impegno politico e culturale, al punto da qualificare la nostra come l’epoca della «mediacrazia» [ref] Cfr. P.P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano 1999, p. 139 per il concetto di «misologia»; e P. Ercolani, L’ultimo Dio. Internet, il mercato e la religione stanno costruendo una società post- umana, prefazione di Umberto Galimberti, pp. 186 sgg. per la teoria della «mediacrazia». [/ref].

3. L’impero invisibile

Sulle macerie dello Stato e di un’opinione pubblica informata e critica si è determinato un Potere nuovo, che trova nell’economia e nella tecnica i pilastri su cui fondarsi. Un Potere sovranazionale e ramificato ben oltre i confini statuali, capace di essere al tempo stesso in tutti i luoghi e in nessuno. Che alla ricerca del bene comune sociale ha sostituito il perseguimento del profitto economico, mentre alle dinamiche istituzionali fondate sul consenso e sul pronunciamento democratico dei cittadini oppone sempre più la platea virtuale, indistinta e quindi sterile della popolazione in Rete.

Quello che Daniel Estulin ha chiamato «potere invisibile», perfettamente in grado di sostituirsi al vecchio Stato, esattamente come l’idea di «Paese» viene soppiantata da quella di «Impresa mondiale Spa» e il «popolo» stesso perde di rilevanza a favore dei più impersonali «interessi» [ref] D. Estulin, El imperio invisible, Bronce, Barcelona 2011, epílogo. [/ref] . Lo sappiamo bene noi in Italia, del resto, che per un anno abbiamo avuto un governo, quello presieduto dai cosiddetti «professori», capitanato da un Presidente del Consiglio (Mario Monti) che non si faceva alcuno scrupolo a dichiarare che il suo obiettivo non era il benessere dei cittadini e della loro qualità della vita, bensì il soddisfacimento degli asettici e impersonali diktat numerici imposti dai famigerati mercati.

Un potere invisibile e apparentemente impersonale, quindi, di cui è arduo scorgere la localizzazione precisa e anche gli individui che la compongono, ma che vede delimitata con certezza la sua piattaforma ideologica e programmatica: il neo-liberismo più spinto e incurante delle istanze politiche e di giustizia sociale, la ricerca spasmodica ed esclusiva del profitto, in nome del quale tutti gli stati sono chiamati non solo a sottomettersi ai diktat dei mercati, delle agenzie di rating e dell’FMI, ma a riconfigurarsi del tutto fino ad assumere la nuova identità di stati-mercato o stati imprese. In cui evidentemente gli abitanti non sono più cittadini depositari di diritti politici e sociali, ma soggetti consumanti e pedine di un ingranaggio i cui fini non hanno a che fare con il benessere diretto della popolazione.

Si tratta di un meccanismo tanto efficace quanto pervasivo e globale, che ha condotto lo studioso finlandese di politica internazionale Heikki Patomäki a esprimersi in termini di «sistema panottico» [ref] H. Patomäki, Democratizing Globalization, Zeld, London 2001, p. 101. [/ref] , quindi capace di vedere tutto e tenere sotto controllo ogni cosa, senza però lasciarsi scorgere a sua volta con chiarezza da chi non vi è dentro.

Un potere del genere è perfettamente in grado di influenzare e perfino determinare le politiche degli stati, fino proprio a sostituirvisi del tutto, perché opera in un contesto, quello della globalizzazione e dei network, che sembra aver realizzato il sogno secolare dei liberisti di ogni tempo: un campo di azione dove non vi sono regole che intralciano il libero gioco della concorrenza, dove non vi sono limiti etici o persino morali imposti dai governi, dove insomma non ci sono le leggi né lo Stato, e persino a livello diplomatico sono le negoziazioni fra grandi imprese a contare nei rapporti di forza internazionali, ben più di quanto possano incidere gli attori istituzionali e governativi [ref] Cfr. S. Strange, The Retreat of the State. The Diffusion of Power in the World Economy, Cambridge University Press, Cambridge (Mass.), pp. 64 sgg.. [/ref] .

Si tratta di una regressione rispetto alla grande conquista politica acquisita dal genere umano con la modernità: se allora si costruirono i grandi stati seguendo l’imperativo per cui «bisogna uscire dallo stato di natura», oggigiorno siamo tornati a un terreno di libertà talmente assoluta (per i soggetti economici e tecnocrati più forti e influenti) da configurarsi come anarchia, quella dimensione in cui l’unico criterio in vigore è la legge del più forte.

4. Homo sapiens/homo videns, homo politicus/homo religiosus

Come è fisiologico e perfino necessario che accada, il terreno su cui è avvenuta questa mutazione strutturale del potere, è stato sapientemente preparato da quella che possiamo definire una vera e propria «riconfigurazione dell’essere umano». Insomma, da una vera e propria riconfigurazione delle menti di coloro che formano l’opinione pubblica, dei cittadini destinatari dei messaggi e della propaganda che il potere vuole (e ha interesse di) diffondere.

Si tratta di ricostruire in maniera sintetica, e quindi inevitabilmente schematica, un percorso lineare. Il primo stadio è avvenuto quando, con l’esplodere del mezzo televisivo, le nostre società hanno gradualmente introiettato la dimensione in cui si rivela «la centralità dello schermo e la nascita di una cultura delle immagini» [ref] J. Van Dijk, The Network Society. Social Aspects of New Media, Sage, London 2006, p. 213. [/ref] . Ciò aveva condotto, per esempio secondo il politologo italiano Giovanni Sartori, a quella che lui definiva una regressione dall’homo sapiens all’homo videns, regressione prodotta da un mezzo, quello televisivo, «che inverte il progredire dal sensibile all’intelligibile e lo rovescia nell’ictu oculi, in un ritorno al puro e semplice vedere» da cui risulta

atrofizzata tutta la nostra capacità astraente, di elaborazione cognitiva di ciò che guardiamo e, con essa, «di tutta la nostra capacità di capire». Il secondo stadio è quello per cui è avvenuta la trasformazione dall’homo politicus all’homo religiosus, ossia da un uomo che si fa carico kantianamente delle proprie responsabilità esistenziali e sociali, utilizzando la propria ragione per migliorare il consorzio umano senza la presunzione di risultati ottimali e definitivi, a un uomo che, per dirla con Freud, sacrifica volentieri buona parte della propria autonomia e libertà per sottomettersi a degli ordini superiori da cui aspettarsi un risultato ottimale e definitivo. Forze trascendenti o trascendentali che, alla stregua di un dio, come potrebbero essere la Rete o il Mercato, garantiscano all’uomo di potersi occupare esclusivamente dei propri scopi individuali ed egoistici perché tanto v’è una mano invisibile, un ordine spontaneo, o un’armonia prestabilita a garanzia comunque del progresso e della prosperità della società intera [ref] Per una disamina più approfondita e dettagliata di questo passaggio, mi permetto di rinviare al mio L’ultimo Dio. Internet, il mercato e la religione stanno costruendo una società post-umana, prefazione di Umberto Galimberti, Dedalo, Bari 2012, in particolare il cap. I («L’innocenza del divenire»). [/ref] . Si tratta di un passaggio epocale che non ha segnato soltanto il trapasso dalla società industriale a quella in Rete, ma anche e soprattutto la fine di una certa forma mentis illuministica, in cui prevaleva il sapere aude di kantiana memoria, a favore di un ritorno al noli altum sapere sed time che San Paolo aveva lanciato come monito all’uomo cristiano.

Oggigiorno non ci viene più richiesto di votarci alla forza trascendente di un dio, sottomettendoci al quale otterremo la salvezza eterna, bensì di affidarci anima e corpo alle virtù salvifiche del dio Mercato, i cui effetti benefici dobbiamo aver fede che saranno garantiti malgrado per ottenere il risultato sarà necessario un certo numero di vittime. Una forma di escatologia terrena che abbiamo già visto nel corso della storia, per la quale si doveva essere disposti a tollerare sacrifici e vittime nell’immediato in vista del bene supremo finale garantito.

5. Dalla società dell’informazione a quella della formazione

Molte di queste riflessioni e considerazioni si sono sviluppate attraverso la lettura di due volumi recentemente usciti nel nostro Paese. Apparentemente diversi, negli argomenti trattati come nella biografia degli autori (uno degli storici più importanti al mondo da una parte, e quello che forse è il massimo esperto di televisione in Italia dall’altra), ma in realtà legati da un filo rosso quanto mai importante, che può essere espresso in questi termini: si tratta di due volumi la cui lettura consente di comprendere come si sono trasformate le società occidentali nel passaggio epocale dalla società industriale, o dal vecchio mondo pre-Ottantanove, all’epoca della globalizzazione e dei network. Carlo Freccero, nel suo Televisione (Bollati Boringhieri 2013), riesce perfettamente, attraverso appunto l’analisi dell’old media più famoso, a delineare tanto i connotati delle società europee (tradizionalmente costruite sugli ideali del servizio pubblico, della giustizia sociale e, più in generale, di una concezione del consorzio umano in cui il profitto non ricopre un ruolo determinante), quanto i fondamenti culturali della società americana (Stato minimo, competizione sociale, massima centralità del profitto come ideale regolativo). La seconda è quella che ha prevalso con l’affermazione del mondo globalizzato, attraverso un passaggio storico culturale che Freccero sintetizza in una pagina che vale la pena di riportare:

«Il Novecento come teatro delle grandi ideologie politiche finisce simbolicamente con la caduta del muro di Berlino. Cade il muro dell’ideologia, cade il muro del comunismo […] Ma il crollo di un muro non significa necessariamente il raggiungimento della libertà. E’ un lieto fine, come nelle favole. Ma se nelle favole c’è il lieto fine è perché la narrazione si interrompe nel momento migliore […] Il crollo del muro di Berlino, così come è stato immortalato dai filmati e dalle fotografie, è diventato un icona di libertà. Ma celebra semplicemente la sostituzione di un ordine con un altro ordine, di un muro con un altro muro: annunciava l’uscita dal comunismo, ma, allo stesso tempo, affermava la vittoria di quel liberismo duro e puro, dei cui eccessi paghiamo oggi le

spese dopo il crollo, altrettanto simbolico, del mercato di Wall Street» (C. Freccero, Televisione, Bollati Boringhieri, Torino 2013, pp. 125-126).

Dall’altra parte troviamo lo straordinariamente ricco volume in cui Antonio Carioti intervista, con domande mai banali né comode, lo storico Luciano Canfora praticamente su duemila anni di storia del mondo (Intervista sul potere, Laterza, Roma-Bari 2013). Ed è proprio da questa notevole ricostruzione di lungo periodo (resa possibile dalla cultura storica sterminata di Canfora), in cui la storia antica si intreccia con quella moderna e contemporanea attraverso accostamenti e similitudini suggestivi, che si aprono degli squarci illuminanti di riflessione sul cambiamento epocale dei nostri tempi. Tempi per i quali Canfora arriva a parlare di «post-democrazia», poiché «siamo entrati in una fase in cui la democrazia politica è quasi completamente archiviata: ormai il potere è in gran parte delegato a soggetti non elettivi, di carattere tecnico, magari anche ragguardevoli, che si impongono attraverso strumenti sempre più sofisticati» (p. 28).

Di fronte a un Occidente in piena implosione («la catastrofe è sotto gli occhi di tutti», p. 255), in cui il potere è esclusivamente potere economico, mentre la cultura e il consenso democratico devono sottomettersi alle logiche quantitative e strutturalmente inique di un capitalismo a cui è venuto a mancare il suo contraltare (quel comunismo rispetto al quale Canfora, comunque, non nega un bilancio storico anche fallimentare), lo storico non si tira indietro e formula una proposta costruttiva che, ci piace pensare, deriva proprio dal concetto di historia magistra di ciceroniana memoria:

«Io mi limito ad avanzare un’ideuzza, che spesso ripeto. A mio parere, il luogo dove le tendenze oligarchiche dominanti possono e devono essere messe in discussione è il laboratorio immenso costituito dal mondo della formazione e della scuola. Per quanto ammaccato in mille modi, nei nostri paesi avanzati resta una struttura che tocca e pervade l’intera società. E’ lì che l’educazione anti-oligarchica, su base critica, può farsi strada. Ecco perché, facendo un bilancio di quanto mi è accaduto di pensare nel corso di questi anni, ritengo che deprezzare e dequalificare il mondo dell’insegnamento, tanto nella scuola quanto nell’Università, sia un gesto suicida» (L. Canfora, Intervista sul potere, a cura di A. Carioti, Laterza, Roma-Bari 2013, p. 264).

In effetti, da queste parole del grande storico italiano si può evincere quello che è probabilmente il tratto saliente della società emersa dalla fine del Novecento: una società dell’«informazione» in cui il Potere ha visto bene di mortificare e marginalizzare al massimo grado il momento della «formazione», storicamente necessario alla costituzione di un’opinione pubblica critica e impegnata sul versante della res publica.

Né del resto ci si può più nascondere dietro a presunte teorie del complotto o della cospirazione, tendenti a dileggiare e smentire coloro che parlano di poteri forti e invisibili perfettamente in grado di controllare la vita pubblica e, soprattutto, quella privata di milioni di cittadini grazie al monitoraggio segreto delle telecomunicazioni.

Le recenti rivelazioni fornite al grande pubblico dall’ex tecnico della Central Intelligence Service Edward Snowden, infatti, dimostrano in maniera inoppugnabile come, per esempio la National Security Agency del governo americano, ha escogitato un sofisticato sistema tecnologico per monitorare tutto il traffico pubblico e privato di Internet e non solo, consentendo di ascoltare, leggere e decrittare e-mail, telefonate e navigazione in Rete dei privati cittadini. Il New York Times è arrivato a scrivere senza mezze misure che i documenti svelati da Snowden «rendono manifesto che la Nsa considera la propria abilità di decrittare informazioni una facoltà di vitale importanza, in cui essa compete con la Russia, la Cina ed altre agenzie di intelligence» [ref] Cfr. N.S.A. Able to Foil Basic Safeguards of Privacy on Web, The New York Times del 6 settembre 2013, p. A1. [/ref] .

Non ci possiamo permettere la visione idilliaca di un mondo, per dirla con le parole del poeta Tadeus Borowski, governato dalla giustizia e dalla moralità, perché in realtà la condizione umana è quella in cui «il delitto non viene punito, né la virtù premiata», ma soprattutto dobbiamo essere consapevoli che «il mondo è governato dal potere» [ref] Cit. in J. Hillman, Kinds of Power. A Guide to Its Intelligent Uses, Doubleday, New York 1995 p. 244. [/ref] , un potere che è tanto fisiologico che esista

quanto necessario che lo si conosca e lo si tenga quanto più possibile in una posizione trasparente e al servizio del bene della comunità. Abdicare rispetto a questo compito, significa rinunciare alla possibilità più essenziale di cui disponiamo in quanto abitanti di questo pianeta: quella di essere (ragionevolmente) liberi.

Paolo Ercolani insegna storia della filosofia e teoria e tecnica dei nuovi media all’Università di Urbino. Collabora all’inserto culturale del Corriere della sera («La Lettura»), è redattore della rivista Critica liberale, oltre che fondatore e membro del comitato scientifico dell’Osservatorio filosofico (www.filosofiainmovimento.it). Fra i suoi libri, Il novecento negato. Hayek filosofo politico (Perugia 2006); Tocqueville: un ateo liberale (Bari 2008); La storia infinita. Marx, il liberalismo e la maledizione di Nietzsche (Napoli 2011) e L’ultimo Dio. Internet, il mercato e la religione stanno costruendo una società post-umana (Bari 2012).

La costituzione dell’uomo moderno, o dell’Illuminismo incompiuto

Ogni sforzo di comprensione del proprio tempo, così come ogni tentativo di analisi delle dinamiche insite nello spazio vitale che condividiamo con i nostri simili, necessita di un’indagine sulla struttura mentale e culturale dell’uomo nel proprio contesto storico.

In effetti, l’essere umano evoluto, quello che comunemente definiamo Homo sapiens sapiens, conduce la sua esistenza secondo una relazione stretta, costante e continua tra la parte invisibile della mente, interiorità ambientale, e quella visibile, esteriorità ambientale. In tutte e due le prospettive, si tratta comunque di funzionalità mentali, secondo le quali la classica divisione ecologica che concepisce l’ambiente come qualcosa di esterno alla mente umana risulta fittizia, perché per il nostro cervello ogni azione rimane, sempre e comunque, situata nell’ambiente che esso stesso crea come riferimento.

L’uomo pre-moderno era un soggetto confinato nell’intimo della propria esistenza personale, estraneo alla propria storia. L’individuo non era altro che uno spettatore, ai bordi dei sentieri attraversati da quei pochi protagonisti che segnavano le epoche esercitando poteri politici, culturali e spirituali, basando la propria posizione di predominio su giustificazioni divine e discendenze nobili.

La discendenza di sangue, la trasmissione di antichi codici linguistici, il possesso di conoscenze ristrette a pochi eletti, fornivano gli strumenti per un dominio assoluto sul resto dell’umanità, plasmando storie e tradizioni, fornendo all’identità di interi popoli l’imprimatur di poche famiglie. D’altra parte, era questo l’unico modo per conservare atteggiamenti comportamentali e mentali che producessero una superficiale idea di mutamento, nella conservazione di una tradizione che non si doveva né si poteva scalfire.

L’assolutismo politico dell’ancien regime si affermò come necessità politica all’indomani della fine delle guerre di religione [ref] Per un approfondimento su assolutismo e guerre di religione cfr. Koselleck R., 1994, Critica illuminista e crisi della società borghese, Il Mulino Editore, Bologna, 17-68. [/ref] . Con la pace di Augusta (1555), si arrivò a stabilire che l’identità degli uomini, appartenenti a una data comunità, non dipendeva più dalle tradizioni, dai costumi o dalla cultura (intesa come insieme di atteggiamenti condivisi) bensì solo dall’autorità del proprio principe. Secondo quanto stabilito dagli attori della pace di Augusta, il nuovo paradigma giustificativo del potere in uno Stato si basava sull’assunto cuius regius, eius religio. In pratica la religione, il credo, la spiritualità di ogni suddito dovevano essere gli stessi del Principe che governava. Si tenga inoltre presente, in questo contesto culturale, che ci stiamo riferendo alla dimensione palese della spiritualità, ossia a quella necessità, espressa dal potere temporale della Chiesa, di visibilità comportamentale grazie alla quale le forme di controllo esercitate trovano una loro ragione di essere. Non ci stiamo riferendo al concetto di “comunità cattolico-cristiana essenziale”, ossia al concetto di ecclesia, ma a quello più generale di Chiesa.

Proprio in nome di questa differenziazione, fra ecclesia e Chiesa, un cambio al potere, un successore convertito, un principe straniero in arrivo per l’esaurimento di una linea dinastica, costringeva il popolo ad un cambio visibile e comportamentale di fede religiosa. Questa esperienza storica non rappresentava, a nostro avviso, un’improvvisa e bizzarra decisione dei potenti di quell’epoca. Per molti secoli le gerarchie religiose avevano posto il Credo nelle Scritture al servizio esclusivo del potere temporale di Principi e Signori. In questo modo la spiritualità e la fede dell’uomo comune vennero ridotte ad un accessorio rispetto all’uso politico della Verità manifesta della religione in quanto giustificazione della sovranità. Questa riduzione della religione a strumento di potere alterò la mentalità degli uomini che non trovarono più una diretta corrispondenza tra la ricerca naturale di ognuno della trascendenza attraverso la propria esperienza religiosa, condivisa culturalmente nell’ambito di una serie di pratiche confessionali.

Un altro episodio storico di fondamentale portata esplicativa fu l’ascesa al trono di Francia di Luigi XIV. Questo giovane sovrano definiva se stesso il Re Sole, stabilendo che tutta la vita del Paese doveva dipendere unicamente dallo splendore della propria persona [ref] Non è peraltro una novità, visto che sin dal 334 a.C. la Luce, il Sole erano da Costantino rappresentati nel giorno del Natale, facendo coincidere la maschera dell’essere una persona con quella dell’essere un maschio. Un modo decisamente raffinato per convincere il “popolo che guarda ed imita” a percepire la parte come valida e legittima l’associazione tra il Sole e l’Imperatore, rendendo il secondo visibile e naturale quanto il primo. [/ref] .Grazie all’accentramento politico e simbolico, il sovrano mostrò che non c’era più bisogno della mediazione delle gerarchie ecclesiastiche per stabilire un rapporto fra politica e sudditi. Con l’avvento dell’assolutismo regio, il re era l’unto del Signore che incarnando l’idea stessa di Sovranità, stabiliva un rapporto di dominio su tutta la società umana. Non poteva che essere in questo modo, altrimenti l’associazione fra il Sole e il potere regio non avrebbe avuto senso politico-governativo, ossia non avrebbe potuto creare la necessaria diffusione di quel timore grazie al quale i comportamenti umani possono essere sanzionati secondo principi umani, propinati come divini.

Il potere politico, sciolto da ogni vincolo, avviò il processo di secolarizzazione della società umana e allo stesso tempo, livellando tutti a sudditi, generò in questi una coscienza nuova circa i rapporti con lo Stato. Da un punto di vista politico, il suddito era spinto a rinchiudersi in una sfera privata in cambio di pace e tranquillità, alienandosi così dall’interessamento alla vita pubblica, che avrebbe assunto, di lì in avanti, quelle caratteristiche professionali secondo cui la dimensione statuale è un “affare per gli addetti ai lavori”. È proprio in questo modo che il potere politico assumeva dunque una razionalità e uno scopo che in passato non aveva mai avuto. Allo stesso modo, il suddito, ricacciato nel privato, assumeva un’identità che si andava plasmando intorno alle dinamiche della nascente burocratizzazione dello Stato e della divisione del lavoro. La funzione antropologico-mentale della burocratizzazione, oltre alla implicita realizzazione di rapporti clientelari basati sulla conoscenza personale di individui di cui potersi fidare, è quella di creare un rapporto con lo Stato che sia difficile da realizzare nella sua concretezza, nella sua praticità. Quanto meno i rapporti tra le persone e le istituzioni sono semplici, realizzabili e fattivi, tanto più i singoli attori sociali si sentono estranei alla vita della propria comunità politica. Si tratta, in sostanza, della creazione simbolica, all’interno delle protosocietà contemporanee Occidentali, di quella idea di alienazione e straniamento tanto utile all’esercizio della rappresentanza politica, secondo la quale la delega politica vive e prospera sulle spalle dei cittadini.

Si sviluppa così, nemmeno troppo lentamente, una politicizzazione del sacro, che era già stato contaminato con l’idea del Re Sole, ossia del Re Luce, grazie ad una burocratizzazione che confina ogni espressione religiosa e confessionale nell’ambito della propria interiorità. Nasce, in sostanza, il religioso implicito, quello nascosto e di cui in futuro ci si potrà persino vergognare.

La trasformazione della mentalità degli uomini riguardo il proprio rapporto con il Sacro è efficacemente espressa da queste parole di Charles Taylor il quale scrive: ”in effetti, come è stato spesso osservato, un aspetto sorprendente della marcia dell’Occidente verso la secolarizzazione è che essa si è intrecciata con questa spinta verso una religione di tipo personale” [ref] Taylor C., 2004, La modernità della religione, Meltemi Editore, Roma, pg. 17. [/ref] . Grazie a questa autorevole conferma, circa la nostra riflessione, possiamo affermare che, prima ancora dell’avvento della modernità, l’uomo era preparato psicologicamente a guardare a se stesso come individuo separato dalla propria comunità e svincolato da una spiritualità condivisa.

In pratica, la nascita dell’assolutismo è stata una risposta necessaria al disordine delle guerre di religione, ma proprio nel Paese in cui questa forma di potere ha conosciuto la massima attuazione è cresciuta la consapevolezza dei sudditi di essere un soggetto politico autonomo. Questa consapevolezza sarà la base su cui si accenderanno i fuochi della rivoluzione democratica del 1789.

Nello stesso tempo, la formazione di una sacralità esistenziale implicita, crea una sorta di nuova religione, grazie alla quale diventa sempre più importante creare quella solidarietà orizzontale che prima era invece di tipo verticale. In altre parole, la progressiva esautorazione del potere sacro sacerdotale, in nome del quale il rapporto con Dio diventava sempre più personale, privato e relegato ad una valutazione della propria coscienza, ha indotto a spostare la direzione dei propri legami affettivi. Se prima erano di tipo verticale, dall’Uomo verso Dio e da Dio verso l’Uomo, ora sono da Uomo a Uomo, da sacerdote a sacerdote, ossia di tipo orizzontale, creando comunità chiuse di individui in grado di difendersi gli uni dagli altri a colpi di autoritarismi e solipsismi. Da una parte, continuava ad esistere la casta sacerdotale che comandava oramai a se stessa, e dall’altra si stava formando la casta burocratica in grado di governare la vita quotidiana dei nascenti cittadini.

L’unico spazio lasciato libero dall’assolutismo regio è stato quello della coscienza privata. Ogni uomo nello spazio pubblico era assoggettato, ma nel proprio ambito privato cominciava a coltivare una propria morale ed una propria spiritualità. In questo ambito, si è radicato e sviluppato con pazienza il movimento culturale e intellettuale che noi conosciamo come illuminismo. La politica e i suoi riti, avendo accentrato tutta l’attenzione degli uomini sul corpo mistico del sovrano, amplificarono il senso di disincanto dei sudditi. La politica e il Sacro si separarono e si distanziarono dalla vita reale degli uomini. Il pensatore che meglio di altri ha saputo interpretare questa nuova disposizione degli uomini rispetto al proprio mondo è stato John Locke. Il filosofo inglese ha descritto tre ambiti in cui gli uomini potevano misurare il proprio agire in conformità con leggi generali e universalmente valide.

Nell’ambito del rapporto dell’uomo con il sacro, Locke collocava la regola di condotta di ogni individuo secondo la legge divina che si manifestava nella natura o nella Rivelazione. Il rapporto uomo/polis era determinato, secondo il pensatore inglese, dalle leggi civili le quali, al fine di offrire protezione contro la violenza privata, stabilivano cosa fosse un crimine o quale potesse essere considerato un comportamento civilmente accettabile. Nel terzo ambito, quello dell’uomo privato, Locke collocava la conoscenza di quelle regole sociali che stabilivano, attraverso la dicotomia vizio/virtù, il peso dell’identità di ogni soggetto attivo nella Polis. La legge dell’identità era stabilita dai rapporti reciproci degli uomini, ossia quella pariteticità orizzontale di cui si è più sopra trattato; questa legge era la più forte di ogni autorità perché costringeva gli uomini a partire dall’intimo di ogni coscienza.

Il desiderio di ogni uomo di essere accettato in società è il principio grazie al quale la legge dell’opinione pubblica riesce a costringere tutti alle regole comuni. Ed ora, che si è definitivamente scoperto che Dio è pensabile oltre le forme confessionali della liturgia, e anche grazie all’avvento delle nuove forme liturgiche introdotte dal protestantesimo, la questione religiosa è relegata sempre più a quella della propria coscienza. In sostanza, Dio si è tramutato nella coscienza civile di tutti gli uomini, perdendo però quel carattere di assolutezza per cui ogni individuo crede e vuole essere apparentemente libero di avere la propria coscienza. È proprio in questo passaggio che risiede la prototipazione del relativismo intraculturale, grazie al quale ogni persona possiede il proprio dio, la propria religione e le proprie convinzioni sui vizi e le virtù. Nasce è vero il privato, ma muore il sociale, il pubblico, inteso come partecipazione sostanziale, per fare posto ad una forma di partecipazione superficiale al mondo politico e della città.

Con Locke, per la prima volta nel pensiero occidentale, un principio generale e valido per tutti nasce dal basso e non deriva da un’autorità divina o politica, con tutte le conseguenze positive e negative che tale nuova situazione intellettuale prevede. La nascente epoca moderna si apre alla consapevolezza che i significati, di ciò che è comunemente considerato un vizio o una virtù, vengano stabiliti dalla coscienza degli uomini. Una coscienza che rimane comunque e purtroppo legata alla maggioranza, altrimenti non avremmo ancora oggi bisogno di sostenerla facendo uso di corporazioni, sindacati, partiti e lobbies. È vero, Locke inaugura una nuova prospettiva pedagogica, che risulta in linea con la trasformazione che l’umanità stava conoscendo all’alba della modernità, ma è altrettanto vero che si inaugura l’avvento di quel relativismo privato e culturale che rende l’umanità sempre più sola con la propria coscienza, sempre più lontana da un Dio cui si possa assieme fare riferimento, praticamente e sostanzialmente, nella vita di tutti i giorni [ref] Per un approfondimento su questo tema cfr. Viano C. A, 1960, John Locke, Einaudi Editore, Torino, 538-544. [/ref].

In un mondo costruito razionalmente, per la difesa degli interessi e le aspirazioni dei membri della società, non era più pensabile un’educazione volta alla semplice conoscenza del linguaggio forbito e alle forme del sapere stabilito dalle autorità e dalla tradizione. Viceversa, la nuova pedagogia doveva prevedere gli insegnamenti utili per un uomo che dovesse prendere su di sé la responsabilità di governare la natura e presto la stessa società politica. Ecco perché Locke si inserisce nel novero dei pensatori che spingono per un superamento della cultura di stampo semplicemente letterario.

I contenuti di questa educazione dell’uomo moderno non si dovevano ricercare solo nei libri delle accademie, bensì era necessario che ogni individuo fosse spinto a ricercare, nel proprio mondo e nell’esistenza reale, le fonti della nuova conoscenza. Grazie a questa svolta pedagogica, l’uomo nuovo diventa un soggetto capace di interpretare il proprio tempo e comprendere il proprio ruolo nella comunità di appartenenza, pagando però il prezzo di una solitudine sempre più evidente e costitutiva. Si forma, è vero, una maggiore consapevolezza sul proprio ruolo di Uomo che decide grazie alla propria coscienza, anche liberata da soprusi umani prima gabellati come teocratici, ma nasce anche la consapevolezza della difficoltà che esiste nell’amare i propri simili, per quello che sono e non per quello che vorremmo fossero. La formazione di questa difficoltà porta, allo stesso tempo, conseguenze positive e negative. Se guardiano al positivo, questa prospettiva educa il singolo alla comprensione delle dinamiche del mondo umano, rendendolo edotto in tutti quei settori in cui la vita associata si esplica. Questo individuo, consapevole di sé e del proprio mondo, sarà anche in grado di assumersi la responsabilità di trasformare e migliorare la comunità di cui è parte attiva. Se guardiamo al negativo, questa libertà, riferibile solo alla propria coscienza, oramai privatizzata, può essere messa in discussione in tutti i modi e, di fatto, lo è anche oggi. Quando il sacro diventa sinonimo di propria coscienza, la presenza di molteplici e diverse sacralità, che oltretutto vivono nello stesso territorio geografico, possono trovare pretesti più favorevoli per alimentare conflitti e dimostrare intolleranze. Diventare figli della propria coscienza è come rinascere un po’ bastardi, perché non esiste un Padre per tutti e i Fratelli di una volta sono ora diventati uomini soli.

In definitiva, la nuova pedagogia si presenta come un’educazione alla ragione, non intesa come un’entità metafisica da cui trarre insegnamenti universali, e alla solitudine psichica: uno strumento capace di guidare il singolo alla chiarificazione dei propri desideri entro i limiti delle proprie capacità, gli equilibri della convivenza civile, alimentando allo stesso tempo difetti comportamentali e sostanziali nelle relazioni affettive.

La nascente società borghese liberale, desiderosa di cambiare le dinamiche interne al potere politico, aveva compreso che bisognava cambiare prima la coscienza degli uomini, pur pagandone un prezzo che forse, in alcune precise circostanze, oggi appare spesso alto. La leva culturale era la via maestra per la rivoluzione mentale e morale dell’umanità. È stato l’illuminismo a porre la diffusione della cultura come programma essenziale per la crescita dell’umanità; (fu) lo stesso illuminismo che ha allontanato l’Uomo da uno stesso Cielo, per porlo sotto un cielo individuale e dunque solitario.

L’obiettivo della battaglia illuminista è stato quello di creare uomini colti, abituati ad un uso critico della propria ragione, indipendenti dai pregiudizi e capaci di costruirsi un proprio ambito di analisi del reale. E ci è riuscito, ma non ha compreso quanto fosse altrettanto necessario ricreare un rapporto verticale con il significato dello stare al mondo con un senso che fosse fuori dal mondo. Affidare tutta la responsabilità delle proprie scelte alla propria coscienza, significa, alla fine, cercare di trovare altre responsabilità, perché il peso è insopportabile dalla mente del singolo. E, in effetti, è stata trovata questa responsabilità: si chiama evoluzionismo darwiniano, un nuovo modo, del tutto sacro, di attribuire alla cecità evolutiva la responsabilità delle nostre origini, in terra invece che in Cielo.

Questa battaglia non è stata una semplice schermaglia fra intellettuali. Per la prima volta si sono attivate delle iniziative reali che hanno interessato a più livelli l’intera società civile. Non solo filosofi ma anche commercianti, giornalisti e parte della nobiltà progressista si sono dedicati a diffondere la cultura in molti ambiti. L’esempio più eclatante di questo nuovo movimento di pensiero è individuabile dall’esperienza dell’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert. Quest’opera portava come sottotitolo, una dicitura che è in se stessa rivelatrice di tutta la mentalità moderna, la quale, superando la cultura umanista, dilatava il concetto di cultura a tutti gli ambiti dell’agire umano a cominciare dal lavoro [ref] Su questo argomento cfr. Cecere C., 2013, Quando il lavoro divenne un valore, in Critica Liberale, Dedalo Editore, Vol XX, n.209. [/ref]. L’Enciclopedia o dizionario ragionato delle arti e dei mestieri è un manifesto intellettuale volto alla ricomprensione dell’esperienza umana come fonte privilegiata per l’avanzamento dei singoli nella conoscenza. Lo stesso Diderot si esprime inequivocabilmente in un suo intervento sulla stessa opera affermando che: “Scopo di un’enciclopedia è infatti raccogliere le conoscenze sparse sulla faccia della terra, esporne ai nostri contemporanei il sistema generale, trasmetterle ai posteri, affinché l’opera dei secoli passati non sia stata inutile per i secoli avvenire; affinché i nostri nipoti, diventando più istruiti, diventino nello stesso tempo più virtuosi, e più felici” [ref] Diderot D., in Casini P. (a cura di) 2003, Enciclopedia, in Enciclopedia o dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri, Editori Laterza, Roma-Bari, pag. 314. [/ref]. Questa affermazione ci conferma che la diffusione della cultura fra gli uomini, una cultura che sorga dal basso della varietà delle esperienze umane, è la strada maestra per sviluppare la virtù nei singoli e di conseguenza un miglioramento di tutta la comunità. Nello stesso tempo, sembra opportuno chiedersi perché non si siano trovate soluzione realmente perseguibili perché, per esempio, la conoscenza non mantenga in vita coloro che ancora oggi muoiono di fame. È forse probabile che, oltre all’indubbio valore insito nelle considerazioni di Diderot, sia necessario ragionare ulteriormente sul ruolo non tanto della conoscenza quanto della Sapienza, al fine di produrre cambiamenti comportamentali evidenti e concreti, superando il limite dei buoni proponimenti intellettuali.

La particolarità di quest’opera risiede anche in un altro aspetto che rispecchia perfettamente il nuovo modo di avanzamento della società moderna. L’enciclopedia non è stato un lavoro ristretto ad un autore soltanto ma, al contrario, ha preso forma con il contributo di parecchi intellettuali. Questa esperienza collettiva si inseriva in un nuovo modo di intendere la trasmissione non accademica della conoscenza. Non più un rapporto tra maestro e allievo, bensì si andava sempre più profilando l’importanza del confronto e della collaborazione fra pensatori, scienziati, artisti alla ricerca di una conoscenza condivisa [ref] In effetti, persino questo scritto segue lo stesso intento, essendo il frutto della sintesi intellettuale dei suoi due autori che si pongono su piani di analisi assai diversi fra loro, eppure conciliabili. [/ref]. Nello stesso tempo, nella società civile, sorgevano i caffè, i circoli culturali e i salotti dove i borghesi condividevano le conoscenze ed imparavano, discutendo sui vari argomenti, a creare comunanza di opinioni. Attraverso questo nuovo atteggiamento si è sviluppata una società in grado di alimentare una coscienza collettiva formatasi attraverso il libero confronto delle idee. Proprio così, come aveva teorizzato John Locke, una volta che l’opinione pubblica aveva stabilito cosa fosse la virtù, questo concetto diventava il principio capace di rifondare l’identità della comunità politica.

La cultura, intesa nel senso illuministico di una condivisione delle conoscenze fra gli uomini, supporta lo sviluppo di un nuovo tipo di uomo e di cittadino. Questo nuovo individuo è colui che è in grado di comprendere gli elementi della complessità del reale e possiede gli strumenti sufficienti per far sì che la propria vita possa evolvere in autonomia e si renda utile alla costruzione dello spazio collettivo. È anche vero che tale idea fondamentale del mondo illuministico non sembra presente ancora pienamente nella prassi dell’Uomo moderno Occidentale, che pare ancora fermo alla fase individuale senza essere effettivamente passato alla collettivizzazione della coscienza. Così come Jung parlava di inconscio collettivo, sarebbe forse il caso di dedicarsi con maggiore forza politica a preparare l’avvento definitivo di una coscienza collettiva visibile dei comportamenti concreti delle persone. E questo vale per l’Occidente quanto per quell’Oriente che si sta sempre più occidentalizzando…

In definitiva questo uomo moderno, capace di uno sguardo complessivo sulle scienze e sulle tecniche utili all’umanità, in grado di apprezzare l’arte e la filosofia per la loro portata di trasmissione di conoscenze, attento alla ricerca storica come fonte di riconoscimento della propria appartenenza di specie, è un soggetto incline all’amore per la ricerca, ma ancora lontano dall’amore per l’altro se stesso. Il desiderio di sempre maggiori conoscenze porta ognuno ad aprire la propria mente verso una consapevole accoglienza del nuovo, anche se non lo ha ancora reso più disponibile a riconoscere se stesso nei propri simili.

Le promesse della Costituzione

di Luigi Pannarale

Le costituzioni sono la soluzione del grande paradosso che caratterizza il diritto dell’età moderna, che consiste nel rendere possibile l’esercizio della libertà come delimitazione che continuamente riapre possibilità di azione. Attraverso la costruzione dell’asimmetria tra legge costituzionale e legge ordinaria il diritto può fondarsi su se stesso e trovare una giustificazione plausibile al fatto che il diritto non può violare i diritti. La nostra Costituzione sembra, tuttavia, afflitta da uno strano destino: per molto tempo è stata considerata troppo proiettata verso il futuro e di difficile attuazione, per essere poi troppo presto considerata invecchiata a differenza di altre costituzioni che, invece, sembrano sopportare con disinvoltura il trascorrere dei secoli.

1. Ambivalenza delle costituzioni

Il concetto di costituzione contiene in sé un’ambivalenza, in quanto appartiene contemporaneamente al linguaggio della politica ed a quello del diritto.

La nascita delle moderne costituzioni è strettamente connesso con il processo di positivizzazione e di secolarizzazione del diritto e, in tale processo, trova la sua principale giustificazione. Il diritto deve, infatti, cercare nuovi fondamenti alla propria legittimazione, che d’ora innanzi si caratterizzerà come auto- legittimazione.

Attraverso il concetto di costituzione sistema politico e sistema giuridico cercano risposte adeguate a problemi equivalenti. Per la politica l’affermazione che lo Stato è il creatore del diritto e che il diritto trova il suo fondamento nello Stato, implica inevitabilmente la necessità di spiegare perché le decisioni dello Stato abbiano il carattere della vincolatività, in che cosa consista questa vincolatività, quali siano i suoi destinatari e se, fra essi, sia ricompreso lo Stato medesimo. Per il diritto, che segue una via opposta ma simmetrica, il problema è quello di spiegare perché lo Stato abbia la potestà di comandare ed i sudditi abbiano il dovere di obbedire, ovvero perché e come possa esistere una norma che attribuisce allo Stato una simile potestà e fa gravare sui sudditi un siffatto dovere [ref] Luhmann N., Il diritto della società, Giappichelli, Torino 2012. [/ref]

La costituzione non è, dunque, un meccanismo che esaurisce nella sfera politica il proprio ambito d’azione. Attraverso la costituzione diviene pensabile un controllo giuridico della politica: il giudizio di costituzionalità sulle leggi trasferisce dalla sfera politica alla sfera giuridica il potere di controllo del sistema politico e risolve il problema di un tale controllo attraverso il diritto. Il riferimento alla costituzione consente di comunicare giuridicamente sull’attività politica, distinguendo tra lecito e illecito, tra diritto e non-diritto.Non basta più assicurarsi un più o meno largo consenso nei confronti delle decisioni, perché vi sono dei limiti esterni alla potestà politica di decidere ed essa può essere illegittima, ancorché suffragata da un ampio consenso popolare. Vero è che anche la costituzione può essere cambiata, ma soprattutto le costituzioni rigide prevedono delle procedure di revisione tali da non consentire che i cambiamenti avvengano in modo troppo disinvolto e sulla base di emozioni momentanee; inoltre tra gli stessi costituzionalisti si discute molto circa l’individuabilità di un nucleo ristretto di norme, che si sottraggano ad ogni procedura di revisione, perché il loro cambiamento modificherebbe così radicalmente la natura stessa dello Stato, da dover essere considerato un atto rivoluzionario più che di semplice modifica della costituzione.

Considerazioni analoghe valgono anche in riferimento alla funzione che la costituzione ha per lo stesso sistema giuridico.

La positivizzazione consente di mettere in dubbio il potere vincolante del diritto o, quanto meno, di porsi il problema del fondamento di legittimazione di quel potere e dell’uso della forza che lo sostiene. Nella tradizione liberale lo Stato di diritto ha il compito di filtrare le azioni precarie della politica (relative agli interessi) attraverso il diritto. Lo Stato di diritto costituisce la formula attraverso la quale il sistema giuridico osserva il sistema politico e cerca di controllare le modalità secondo cui quest’ultimo costruisce una relazione con il suo ambiente sociale. Da tale prospettiva il carattere distintivo dell’ordinamento statuale, rispetto ad ogni altra forma di ordinamento, consisterebbe nella sua positività.

Il punto di osservazione del sistema giuridico non è, tuttavia, l’unico dal quale sia possibile osservare il processo di positivizzazione del diritto. Se si assume la prospettiva del sistema politico, la giuridificazione costituisce allo stesso tempo una restrizione ed un potenziamento delle decisioni politiche: il diritto si presta ad essere strumentalizzato dalla politica, ma allo stesso tempo restringe l’ambito delle possibilità e degli strumenti che la politica può utilizzare di volta in volta per il raggiungimento dei propri scopi. Inoltre, come è stato teorizzato dalle teorie dell’implementazione, il sistema giuridico si assume il rischio di scegliere strumenti giuridici non idonei al raggiungimento dei propri scopi. Non è un caso, quindi, che la semantica della decisione abbia avuto bisogno di una giustificazione per legittimare un atto di volontà troppo semplificato rispetto alla complessità del codice politico (soggetti, interessi, obbedienza-resistenza- comando).

La costituzione può, dunque, essere considerata la forma più diffusa e abituale di reazione del sistema giuridico alla propria autonomia, attraverso la quale esso cerca di rimpiazzare quei sostegni esterni che erano stati postulati dal giusnaturalismo. La costituzione è in grado di stabilire una gerarchia delle norme giuridiche, di sancire le condizioni della sua mutabilità e persino della sua immutabilità, ma soprattutto consente un’applicazione riflessiva della differenza tra legittimo e illegittimo al diritto stesso, poiché anche le norme giuridiche possono essere (costituzionalmente) legittime o illegittime.

Attraverso la costruzione dell’asimmetria tra legge costituzionale e legge ordinaria è possibile interrompere la regressio ad infinitum per la ricerca di un fondamento esterno, il diritto può fondarsi su se stesso e trovare una giustificazione plausibile al fatto che il diritto non può violare i diritti. Tuttavia tale asimmetria può reggersi a condizione che ne sia occultato il carattere autologico: “il codice diritto – non diritto genera la costituzione, perché la costituzione generi il codice diritto – non diritto” [ref] Ivi, p. 474. [/ref]. La soluzione del problema ha un carattere meramente operativo e le sue giustificazioni teoriche non possono che costituire il tentativo di descrivere come necessario (o naturale), ciò che è contingente (o artificiale).

2. Il futuro passato della Costituzione italiana

Rispetto a questo quadro generale, la nostra Costituzione presenta alcune specificità, sia perché essa è una costituzione scritta alla metà del XX secolo, sia e soprattutto perché essa pone fine alla tragica esperienza del fascismo e sancisce il ripristino della democrazia.

Subito dopo la sua promulgazione si pose, infatti, il problema di quali conseguenze essa avrebbe dovuto avere sulla normativa previgente, soprattutto su quella del periodo fascista. A tale riguardo un ruolo determinante fu svolto dalla Corte di cassazione, che da un lato ribadì l’antico principio secondo cui il giudice non ha la potestà di disapplicare la legge sotto pretesto della sua incostituzionalità, dall’altro operò la nota distinzione tra norme “precettizie” (a loro volta complete o incomplete) e norme “programmatiche”, attraverso la quale poteva rinviare sine die l’effettività di una buona parte delle norme costituzionali [ref] Una critica di questa distinzione si trova in S. Rodotà, Ideologie e tecniche della riforma del diritto civile, in “Rivista del diritto commerciale”, LXV (1967), pp. 83-125. [/ref] .

Questa scelta interpretativa, però, non fu soltanto il frutto di un’ideologia di stampo conservatore, ma anche la conseguenza della novità costituita dall’introduzione dei “diritti sociali” accanto ai più tradizionali diritti di libertà. La Costituzione, infatti, non si è limitata a restaurare i diritti liberali, ma si è spinta a realizzare un’idea di cittadinanza, in cui il cittadino è visto in rapporto ai suoi legami sociali, in cui si fa strada il dovere di solidarietà: i diritti sono stati liberati dal sospetto del privilegio. La Costituzione non rappresenta più la garanzia di un ordine dato, ma il punto di partenza di un processo continuo, di un programma da realizzare, che è immerso esso stesso nelle contraddizioni della società e corre continuamente il rischio del fallimento.

Tanto più che tra i classici diritti di libertà e i diritti sociali vi è pure una differenza non trascurabile sotto il profilo economico: mentre la soddisfazione dei primi normalmente non costa nulla allo Stato, la soddisfazione dei secondi non è soltanto una questione politica, ma anche una questione finanziaria. Lo stesso Calamandrei evidenziò questa differenza, già alla vigilia della Costituente: “quando avremo consacrato in lapidari articoli, come programma minimo di civile convivenza democratica, quei ‘diritti sociali’ senza i quali tutti siamo convinti che non può esistere per il cittadino vera ed effettiva libertà politica, avremo il dovere di domandarci sinceramente quale potrà essere il significato pratico di quella proclamazione; quali mezzi avrà la nuova democrazia per tradurla in realtà; quali speranze non illusorie potrà il povero fondare su quelle solenni promesse di redenzione sociale […]. Quando ci accingeremo a risolvere il problema della giustizia sociale, forse dovremo mestamente accorgerci che ci sarà consentito soltanto di porgere alcune premesse: formulare in articoli promesse consolatrici, segnare mete che servano di faro al cammino dei figli e dei nipoti; e intanto limitarci ai primi passi, a chiedere a chi soffre di continuare, chissà per quanto, a soffrire” [ref] P. Calamandrei, Costruire la democrazia. Premesse alla Costituente, Vallecchi, Firenze 1995, pp. 108-111. [/ref].

Incominciare a prendere sul serio i principi costituzionali fu, perciò, lo strumento attraverso il quale, a partire dalla seconda metà degli anni ’60, parte della magistratura e del ceto dei giuristi incominciarono a porsi il problema di un uso alternativo del diritto, che mettesse in discussione il vecchio formalismo e individuasse nuovi modelli interpretativi più attenti all’evoluzione della realtà sociale ed ai conflitti in atto nella stessa.

La riformulazione del principio di legalità attraverso l’individuazione di una norma gerarchicamente sovraordinata introduce, però, anche la possibilità di operazioni di tipo riflessivo: la distinzione tra diritto e non diritto può essere applicata al diritto stesso. Si pensi, ad esempio, al caso in cui la clausola che regola gli emendamenti costituzionali venga usata per emendare se stessa, ovvero al dibattito sulle possibili modifiche alla Costituzione e al tentativo di immunizzare almeno una parte delle norme costituzionali dalla possibilità di venire modificate, introducendo un ulteriore gerarchizzazione tra norme costituzionali pure e semplici e principi fondamentali o “diritti supercostituzionali”, i quali come tali devono essere rispettati dallo stesso potere costituente e salvaguardati anche contro gli attentati provenienti da esso.

La crisi dello Stato di diritto di stampo ottocentesco e il passaggio allo Stato costituzionale segna contemporaneamente il passaggio dal principio di legalità al principio di legalità costituzionale, che pone al di sopra della legge, appunto, la Costituzione, destinata ad essere rigida, alla quale viene attribuito il compito di sottrarre alla decisione politica e all’onnipotenza dei soggetti rappresentativi aspetti quali la configurazione del potere pubblico, la sua organizzazione interna, la struttura dei suoi organi e ogni tipo di rapporto tra governanti e governati. Sulla base di questa distinzione di compiti le leggi ordinarie sono quelle che servono a regolare i rapporti tra i cittadini nella loro quotidianità: quelle che servono a governare secondo legalità la concreta vita sociale. Ma queste leggi ordinarie presuppongono l’esistenza e il funzionamento di organi di governo, che non solo le applichino, ma via via le modifichino e le rinnovino secondo il continuo rinnovarsi delle esigenze pubbliche; a loro volta questi organi di governo presuppongono l’esistenza di leggi, che abbiano fissato in anticipo la loro struttura e il loro modo di funzionare e abbiano distribuito tra essi l’esercizio della sovranità: queste ultime leggi si dicono appunto “costituzionali”.

3. La Costituzione tra stabilità e mutamento

Solo che anche questo modello si è presto mostrato insufficiente, poiché l’agognata unità del sistema è continuamente rimessa in discussione dal carattere positivo delle stesse norme costituzionali. Se la Costituzione deve servire a garantire l’unità del sistema [ref] G. Zagrebelski, Il diritto mite, Einaudi, Torino 1992, pp. 2 sgg. [/ref], essa non può ignorare e, anzi, deve presupporre le sue divisioni e le sue incoerenze. Proprio per questo le costituzioni moderne non si presentano più semplicemente come l’insieme delle regole sui poteri o la definizione dei diritti fondamentali, ma sono utilizzate e comunicate come simboli: la Costituzione italiana, ad esempio, è il simbolo del patto antifascista, però – come tutti i simboli – rischia continuamente di diventare fragile ed invisibile.

L’improbabile unità dei sistemi giuridici, nonostante il ricorso alla differenziazione tra norme ordinarie e norme costituzionali, trova una plausibile spiegazione nel fatto che, nelle società pluralistiche, non è dato riscontrare la preventiva coagulazione di un ampio consenso sui cosiddetti “valori fondamentali”. Le moderne costituzioni non sono più il frutto di un processo deliberativo aperto, pienamente dispiegato, che coinvolga i principali gruppi, corpi costituiti e rappresentanti e che implichi la disponibilità di ognuno a modificare la propria opinione iniziale alla luce degli argomenti addotti dagli altri partecipanti e delle nuove informazioni raccolte; il caso più frequente è, invece, quello della semplice accettazione del dissenso, senza alcun tentativo di mediare le opinioni contrapposte [ref] A. O. Hirschman, Retoriche dell’intransigenza. Perversità, futilità, messa a repentaglio, Il Mulino, Bologna 1991, p. 171. [/ref]; non importa, infatti, che esse siano tra loro incompatibili, l’importante che siano almeno ragionevoli [ref] J. Rawls, Liberalismo politico, Comunità, Milano 1994. [/ref]. Stanti l’incapacità di ciascun partecipante di imporre il proprio punto di vista come egemonico e l’indisponibilità ad accettare come tale quello degli altri, appaiono più probabili incontri di tipo tattico, che non strategico. È noto il giudizio di Calamandrei sull’assetto di valori consacrato nella nostra Carta costituzionale: “per compensare le forze di sinistra di una rivoluzione mancata, le forze di destra non si opposero ad accogliere nella Costituzione una rivoluzione promessa” [ref] P. Calamandrei, Questa nostra Costituzione, Bompiani, Milano 1995, p. 8. [/ref].

Il risultato compromissorio, che se ne deduce, evidenzia che l’ambiguità è un carattere essenziale della democrazia del nostro tempo; esso accresce, anziché limitare gli spazi di creatività della legge ordinaria, dal momento che sono sempre possibili combinazioni diverse dei principi costituzionali e l’accordo sulla priorità di un determinato valore, raggiunto secondo il principio di maggioranza per l’approvazione di una determinata legge, non è detto che valga anche per le leggi successive [ref] G. Zagrebelski, Diritto costituzionale. I. Il sistema costituzionale delle fonti del diritto, Utet, Torino 1997, p. 61. [/ref]. La Costituzione, nonostante sia stata impostata come costituzione rigida, è allo stesso tempo una costituzione dinamica, nella quale vi sono norme che, pur carenti di precettività, hanno “un’efficacia educativa e quasi si direbbe pedagogica”, “un carattere puramente tendenziale”; si tratta di una “costituzione che, se il popolo saprà civilmente volere, potrà accompagnarlo, senza rinunciare a libertà, verso la giustizia sociale” [ref] P. Calamandrei, Costruire la democrazia, cit., p. 7 sgg. [/ref].

Forse anche per questo accanto alla distinzione tra legge e costituzione, la dottrina costituzionalistica ne individua operativamente un’altra, almeno in parte sovrapponibile, tra regole e principi [ref] V. Crisafulli, La Costituzione e le sue disposizioni di principio, Giuffrè, Milano 1952. [/ref]. Mediante il riferimento ad una pluralità di principi, privi di una gerarchia formalmente determinata, si cerca, allo stesso tempo, di concepire un diritto che sia più idoneo a garantire la sopravvivenza di una società pluralista, la cui condizione è il continuo riequilibrio attraverso transazioni di valore. Solo la virtù etica, infatti, è assoluta; tra i valori, invece, che sono semplicemente ciò che è desiderabile, si può venire a patti. Il diritto per principi di valore consente una relativizzazione dell’etica; e relativizzare un’etica non significa rinunziare ad avere una propria visione del mondo, significa piuttosto avere la consapevolezza che la sopravvivenza del mondo è la prima indispensabile condizione per realizzare qualsiasi progetto etico [ref] G. Zagrebelski, Il diritto mite, cit., p. 171. [/ref].

Parafrasando Elster, si può dire che, se i delegati della Convenzione federale di Filadelfia avevano avuto come principale preoccupazione quella dell’avidità e dell’egoismo dei legislatori futuri e i delegati dell’Assemblea costituente di Parigi si erano preoccupati soprattutto della loro vanità e superbia, la Costituente italiana individuò nel dogmatismo arrogante e nello scetticismo opportunista il motivo prevalente delle proprie scelte [ref] J. Elster, Argomentare e negoziare, Anabasi, Milano 1993, p. 8 e 66 sgg. [/ref].

La soluzione di questo problema si è configurata come una continua oscillazione tra sostanzialismo e proceduralizzazione (sia pure nella sua forma più moderna della legalità costituzionale), già visibile nella concezione giuridico-politica della democrazia di Kelsen. È vero che, al contrario dello Stato etico, lo Stato di diritto non impone alcun consenso ed anzi legittima il dissenso; ma anch’esso non può non prevedere almeno un’eccezione, costituita dai diritti fondamentali, i quali sono sottratti alla legalità procedurale e alla decisione del politico. Il problema è che anche lo Stato di diritto è così costretto a presupporre condizioni forse possibili, ma altamente improbabili: prime fra tutte la revocabilità e la prevedibilità di ogni decisione.

Sembra, perciò, tornare di attualità l’insegnamento di Constant e quella che è stata definita la “teoria delusa” della costituzione: una carta costituzionale non è un patto progettuale per il futuro in una società che ha deciso di emendarsi dalle oscurità del proprio passato, ma è una secolarizzazione in termini giuridici dei meccanismi sociali dell’obbligazione politica; una secolarizzazione giuridicamente pregnante ma politicamente debole, che contraddice clamorosamente la pretesa dell’ordinamento giuridico alla stabilità, alla continuità o, comunque, ad un mutamento entro limiti e secondo procedure prestabiliti. A partire da questa consapevolezza, i principi di diritto costituzionale non possono più essere considerati principi di giustizia eterni ed immutabili, che si affermano in forza della loro intrinseca eccellenza. “Un popolo ha sempre il diritto di rivedere, riformare e cambiare la propria costituzione. Una generazione non può assoggettare alle sue leggi le generazioni future” (art. 28 della Dichiarazione dei diritti del 1793).

Unico principio, al quale è possibile riconoscere una priorità in virtù del suo carattere più universalistico, è il principio democratico: è questo principio, per i moderni Stati costituzionali, il valore dei valori; l’unico valore assoluto che essi riconoscono e che rende, quindi, tutti gli altri valori sempre contingenti e potenzialmente disponibili da parte della comunità democratica.

“La certezza ricade nella speranza; la legge che aveva la pretesa di decidere ‘il caso’ si scopre ‘caso’, a sua volta di un’altra legge”[ref] E. Resta, La certezza e la speranza, Laterza, Roma-Bari 1992, pp. 92-93. [/ref]

Solo che una tale consapevolezza, a mio avviso, è tutt’altro che “deludente”, perché ci conferma che la lotta per i diritti non termina con la proclamazione di una costituzione, ma ha bisogno di un impegno costante e quotidiano, perché quei diritti, una volta conquistati, siano anche difesi dai continui attacchi di quanti vorrebbero imporre altre regole ed altre logiche alla nostra convivenza. La presenza della Costituzione, per quanto rigida essa sia, non può rassicurarci una volta per tutte, ma è piuttosto un punto costante di riferimento per un impegno sociale e politico che deve rinnovarsi e arricchirsi di nuovi contenuti e di nuove motivazioni e che ci sprona ad essere parte attiva nella attuazione di quei diritti, piuttosto che semplici eredi di quel patrimonio. Si tratta di una sfida difficile, ma anche molto esaltante.

Luigi Pannarale è avvocato e professore ordinario di Sociologia del diritto nel Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Bari “A. Moro”. È componente del Consiglio Scientifico della Società Italiana di Filosofia del Diritto, vicepresidente della Associazione di Studi “Diritto e Società”, componente del direttivo dell’Italian Society for Law and Literature, direttore scientifico del Centro Studi dell’Apulia Film Commission. Fa parte della Direzione scientifica della Rivista “Sociologia del diritto” e del comitato scientifico di riviste nazionali e internazionali. Autore di saggi e monografie, tra cui Il diritto che guarda (Franco Angeli 2012), Lezioni sui diritti (Multipensa, 2010), Giustiziabilità dei diritti (Franco Angeli 2007). Ha tradotto e curato l’edizione italiana di N. Luhmann, Diritti fondamentali come istituzione (Dedalo, 2002).