Sull’attualità politica del Principe di Machiavelli

Sull’“attualità” politica del “Principe” di Machiavelli

di Mario Reale

La prima lezione del “Principe” consiste nella decisività della dimensione politica. Ma Machiavelli è anche cosciente che la politica è un’arte difficile, che incontra molti ostacoli, fra cui la durezza delle cose, la variazione dei tempi e la natura degli uomini. È per affrontare questi ostacoli, specie il terzo, che il principe deve far intervenire “estraordinaria” virtù. Il senso della complessa dialettica, svolta nel finale del “Principe”, fra virtù e fortuna.

[drop_cap style=”2″ bgcolor=”#dddddd” color=”#787882″]S[/drop_cap]i può parlare dell’“attualità” del Principe di Machiavelli, in occasione dei cinquecento anni dalla sua redazione, ma con molte cautele. Questo piccolo scritto, un “opusculo”, straordinario per i concetti e per la lingua, tra i più letti al mondo, rientra certamente nel novero dei “classici”. Ora le opere classiche, mentre hanno la straordinaria capacità di parlare a tutti, nella lunga durata, sono sempre anche figlie del loro tempo, ne recano tracce ineliminabili, e a volte la loro bellezza nasce proprio dalla commistione di tempo ed “eternità”.

Così, non c’è attualità che non si costituisca entro la consapevolezza della distanza, niente dei classici è trasferibile immediatamente nella realtà di oggi. Il filo di connessione è piuttosto costituito da quella che direi “lezione”, ossia la possibilità di ricavare liberamente dai classici temi e motivi che, in parte, vanno oltre il tempo e possono, più spesso in forma indiretta, farci da guida.

Il primo e centralissimo punto della lezione del Principe consiste nella decisività della dimensione politica. Certo, Machiavelli riteneva che la politica fosse il “tutto”, la priorità assoluta nella vita degli uomini, e tuttavia, col filtro della lezione, resta vero, in ogni caso, che la politica costituisce un essenziale punto di unitaria connessione per ogni comunità, che mai potrebbe farne a meno, per decidere le sue sorti collettive e anche individuali. Ma, al tempo stesso, Machiavelli insegna che la politica è un’arte tremendamente difficile, che incontra, sulla via della sua realizzazione, numerosi e gravi intralci. Il primo ostacolo che la politica trovi avanti a sé, è ciò che Machiavelli chiama “fortuna”. Fuori da ogni raffigurazione mitica, fortuna significa l’insieme delle condizioni, delle circostanze e delle situazioni, che, in un dato momento, costituiscono la realtà del mondo umano; sono i “tempi” della storia. Questa realtà è subito complicata da un secondo ostacolo, cui Machiavelli è particolarmente sensibile: le cose umane non sono mai “salde”, ma sempre in “moto”, i “tempi”, l’insieme delle situazioni date, sono soggetti a perenne “variazione”. Infine, gli uomini stessi costituiscono un decisivo ostacolo alla politica. L’uomo è costituito, per Machiavelli, da un fascio di potenzialità, che si attuano nella storia, non ha una natura fissa e immutabile, né segnata indelebilmente, come talvolta s’è detto, da una colpa originaria, di natura religiosa, o da una struttura metafisica che lo condanni al male; è anche un essere fragile e insicuro, bisognoso di “assicurarsi” delle forze ostili che lo minacciano, specie quando i tempi hanno una dura configurazione; dovrebbe avere la capacità di mutare se stesso, un precetto fondamentale della politica machiavelliana, e tuttavia è spesso attaccato, tenacemente, alle abitudini del suo modo di essere e di vivere, a specifici e determinati comportamenti.

La “fortuna” riassume nel suo ambito i primi due ostacoli, e specialmente il secondo, la variazione dei tempi, il quale comprende in sé anche il primo, la complessa durezza delle cose. Non è detto che la fortuna, questa dea capricciosa, sia sempre matrigna: può limitare l’azione umana e l’iniziativa politica, fino a “spegnerle”, ma può anche presentare un volto benevolo, ciò che Machiavelli chiama “occasione”. Se questi due primi ostacoli, compresi nella “fortuna”, costituiscono difficoltà a parte obiecti, riguardano l’oggettiva realtà data, spessa e mutevole, il terzo si colloca a parte subiecti; ed è, comprensibilmente, quello che preoccupa di più Machiavelli: la fortuna varia, le cose seguono il loro oggettivo corso, e solo l’azione umana può intervenire a mutarle. Alla decisività del terzo ostacolo, al pericolo estremo che esso può rappresentare per la politica, Machiavelli risponde con la “virtù”, che è l’insieme delle qualità che connotano l’azione del politico eccellente, capace di incidere sulle cose, per quanto siano resistenti e mutevoli.

Sarebbe ingenuo non riconoscere, nel quadro cui abbiamo accennato, il segno del tempo, in particolare circa la variazione, l’estrema mutevolezza della fortuna, e di quel che ciò ingenera nella vita degli uomini, La situazione storica dell’Italia, in cui il Principe nacque, era segnata da una durissima e miserevole crisi, che l’opera riflette e tenta di superare. Drammaticità delle cose, impazzimento nel girar della fortuna, fragile insicurezza degli uomini. L’Italia era divenuta, dalla fine del quattrocento, dalla discesa di Carlo VIII nel 1494, la “sedia”, dice Machiavelli, della “variazione”, e insomma costituiva il principale terreno di scontro e di conquista. E tuttavia, sarebbe anche difficile dire che gli ostacoli individuati da Machiavelli si chiudano in un cerchio remoto e interamente passato, senza entrare a far parte di una costante natura della politica, perciò anche di quella di oggi. La pesante inerzia delle condizioni date e il mutamento delle cose, non abbiano pure la gravità e l’accelerazione che Machiavelli soffre, costituiscono sempre dati elementari e oggettivi di ogni iniziativa politica. Quanto alla concezione dell’uomo di Machiavelli, cui s’è accennato, sebbene sia qui difficile parlarne distesamente, non è priva affatto d’interesse, per ogni età. Per il punto che ora interessa, la polivocità della natura umana viene espressa da Machiavelli attraverso una serie antinomica di qualità, come essere “impetuoso”, rapido di decisione e anche all’occorrenza violento, o “respettivo”, prudente e “temporeggiatore”; ma anche come essere buono o “non buono”. Il principe deve saper essere impetuoso e rispettivo, riuscendo ad alternare questi diversi comportamenti secondo la necessità; e poiché i tempi, e molti uomini, sono “tristi”, deve anche saper “intrare nel male”. La condizione è che l’atto sia necessitato, inferto senza compiacenza (“crudeltà bene intesa”), e, soprattutto, che, come la sua multiversa natura consente, il principe sappia tornare, subito dopo, alla “bontà”, riscattando, alla fine, le sue azioni “non buone” con la costruzione di uno stato che assicuri il “bene comune”. Ora, il problema è se l’uomo riuscirà a gestire queste potenzialità della sua natura, mutandole secondo quel che comandano la durezza dei tempi e i “venti della fortuna”. Varia e molteplice, la natura umana possiede altresì, come s’è detto, un fondo opaco, refrattario al mutamento di sé, ed è questo il problema che più angustia Machiavelli. In ogni caso, venendo all’oggi, anche a questo proposito ci aspettiamo sempre che un buon politico, dinanzi a una situazione nuova, sappia affrontarla vincendo la sua “natura”, i suoi consueti modi di essere.

Il problema del Principe è quello di costruire razionalmente una figura di principe che sappia sfidare l’inerzia delle cose, affrontare la variazione dei tempi, mutare la propria natura secondo le necessità, e, perciò, sappia realizzare il suo alto scopo, nonostante tutti i condizionamenti e le avversità. Ma sarà in grado il principe di vincere quest’insieme di difficoltà? Machiavelli procede, armato di una splendida lingua e di una mente acutissima, con speranza e timore, con sicurezza razionale e profondi dubbi. Il Principe consiste nella razionale costruzione di questa possibilità, nell’analisi delle condizioni e dei modi, attraverso cui l’azione politica possa affermarsi. La priorità essenziale è che il principe abbia una virtù “estraordinaria”, “eccessiva”; e i consigli di Machiavelli sono tesi a dar forma e contenuti al principio generalissimo della “virtù”, plasmando un esprit fort, un politico veramente capace, tanto nella consapevolezza dell’oggettiva realtà che nella soggettiva capacità di agire, di condurre a segno la sua “intenzione alta”. La politica non deve essere affatto pensata, per Machiavelli, come un’arte distaccata ed eterea. Bisogna sporcarsi le mani, scendere nel profondo della complessa realtà delle cose e dei suoi mutamenti, imparando a conoscere bene chi sono gli avversari della buona politica. Duro mestiere quello del politico, perché, conoscendo i suoi nemici, deve altresì passare attraverso i mezzi di cui essi si servono, i soli che conoscano; e, insomma, è costretto a “intrare nel male”, sebbene non debba mai farsene contagiare, fino a corrompere ’intera sua persona. Il male, ai tempi del Principe, era fatto di armi e violenza, tradimenti, pugnali e veleni. E Machiavelli, con la sua alta e dolorosa coscienza morale, è “necessitato” ad attraversare questa greve materia. Ma anche nei “tempi quieti”, come i nostri, la politica che volesse davvero cambiare le cose, dovrebbe egualmente esercitare giusta durezza, conoscere e cercar di neutralizzare i propri nemici, sporcarsi e trattare, entrando nella palude di complessi e purulenti poteri. La condizione di salvezza, dice Machiavelli, è solo che il politico sappia mantenere una fondamentale onestà di coscienza, e tenga ben fermo lo scopo da raggiungere.

Il principe di Machiavelli deve essere “egemone”. L’egemonia non coincide, semplicemente, con la politica “ordinaria”, perché ne costituisce una qualità aggiuntiva, una versione straordinaria e potenziata. Nell’accezione gramsciana, l’egemonia “politica” – un tema profondamente connesso, nei Quaderni, alle pagine su Machiavelli – si può riassumere (poiché la questione è alquanto complessa) nella formula di una politica che poggi, insieme, su egemonia (direzione, consenso) e dominio (forza, coercizione). Sebbene il dominio sia necessario in ogni stato, l’egemonia può esserci o no, come nel fascismo, dove la forza presumeva di essere nell’atto stesso consenso. Il principe nuovo di Machiavelli s’iscrive con precisione in questo quadro: esercita certamente dominio, ma deve in ogni caso governare con il consenso. Anche per giungere al potere, il principe deve dispiegare un’azione egemonica, nella strategia circa il modo di combattere i nemici, e, soprattutto, di stabilire alleanze. In sintesi, egemonica è una politica che sappia abbracciare più elementi e bisogni nel suo quadro, e riesca a prospettarli, con lunghezza di sguardo, nel futuro, mirando a modi di convivenza nuovi, o più avanzati, così come Machiavelli, dall’Italia, guardava a Francia e Spagna, ai primi due grandi stati moderni in via d’affermazione.

Il principe nuovo e “civile”, la figura più alta e “sicura” di principato, è fortunato nella sua genesi: non ha, propriamente, bisogno né di fortuna né di virtù, non deve compiere atti efferati, perché è chiamato al potere di uno stato da una delle due “classi” che lo compongono, dai “grandi” o dal “populo”: i due fondamentali soggetti collettivi, che sempre costituiscono, nella loro lotta o nella conflittuale collaborazione, il fondo ultimo della teoria politica di Machiavelli. Nel caso del principato “civile”, le forze sociali e politiche sono giunte a un’impasse nel loro conflitto, nessuna delle due può vincere sull’altra, e perciò devono ricorrere a un principe, a una figura “terza”. Assurto al potere, il principe deve in ogni caso mettere in atto una strategia egemonica: se ha già il favore del popolo, deve “mantenerselo amico” e assicurargli “protezione”. Ma poiché l’autorità, quale che sia la genesi del potere, deve essere in ogni caso esercitata nel segno dell’alleanza con il popolo, anche il principe che, da “privato cittadino”, sia divenuto tale con il “favore de’ grandi”, deve, “innanzi a ogni altra cosa, cercare di guadagnarsi el populo”. I grandi, cui il popolo non vuole assolutamente sottostare, devono in ogni caso essere repressi o “spenti” dal principe. Rispetto ai grandi, del resto, quando siano trattabili (“quelli che si obligano, e non sieno rapaci”), Machiavelli suggerisce anche una sottile strategia, un po’ al modo della nobiltà francese, rinserrata da Luigi XIV nella regia di Versailles. Del resto, il principe, di “grandi”, può “farne e disfarne ogni dì”.

Nel corso di un’azione egemonica, come si capisce, il principe deve innanzitutto pensare a se stesso e al suo potere, alla propria “gloria”; l’egemonia deve agire, contemporaneamente, a parte subiecti e a parte obiecti. L’appoggio al popolo non è “caritatevole”, ma risponde a una profonda logica politica. Machiavelli ha definito, in premessa, i due “umori”, la caratteristica natura e la passionalità più radicale delle due “classi”: “li grandi desiderano comandare e opprimere il populo”, il quale, a sua volta, “desidera non essere comandato né oppresso da’ grandi”. Da ciò discende la necessità per il principe di “fuggire” in ogni modo i grandi, che si riterrebbero “equali” a lui, e, non ubbidienti ai suoi comandi, si servirebbero di lui come di un fantoccio, “per potere, sotto la sua ombra, sfogare il loro appetito”; dotati di “più vedere e più astuzia”, i grandi costituirebbero insomma una minaccia interna, e anche esterna, quando, abbandonando il principe, tentassero di muovergli contro con le armi. Se dei “pochi” grandi, come nemici, il principe si può “assicurare”, il contrario avviene quando si “inimica” il popolo, che costituisce la stragrande maggioranza della popolazione, i polloi, che sono “troppi”. Poiché il popolo chiede, fondamentalmente, di non essere oppresso, è più “facile” mantenerselo amico, ove il principe “pigli la protezione sua”. E anche quando il principe provenga da un originario “favore de’ grandi”, voltosi alla protezione del popolo, ne riceve “amicizia”, perché gli uomini, “quando hanno bene da chi credevano avere male, si “obligano” al benificatore loro”, ancor più che se il principe fosse stato in origine chiamato dal popolo. Sebbene il ragionamento di Machiavelli sia retto da una ferma logica politica, in un punto dell’argomentazione compare anche un senso più largo di egemonia: non si può dare soddisfazione ai grandi “sanza iniuria d’altri”, sì invece al popolo, perché quello del popolo “è più onesto fine che quello de’ grandi, volendo questi opprimere, e quello non essere oppresso”.

Il principe nuovo, se non vuol farsi assoluto e crudele tiranno, uscendo così dalla stessa dimensione politica, può mantenere l’amicizia, il consenso del popolo, quando agisca con “grandezza e nobiltà d’animo”. Ciò vuol dire che ogni suddito deve essere sicuro di poter conservare il rispetto di sé e l’integrità della propria persona (l’”onore”); star tranquillo circa la protezione delle proprie donne, dei figli, e della sua “roba” (che è il terreno dove un principe “rapace” è più spesso tentato di opprimere); fiducioso che la giustizia sarà esercitata secondo le forme e le garanzie dovute (punire solo quando vi sia “iustificazione conveniente e causa manifesta”); certo che non sarà oppresso, vessatoriamente, dalle tasse di un principe “fiscale”, che, dilapidate le ricchezze dell’erario, venendo meno alla rigorosa distinzione machiavelliana di “publico” e privato, si volga di continuo a spremere il popolo per le guerre e le altre imprese. Scrive Gramsci, a proposito del principe di Machiavelli, che “le masse popolari dimenticano i mezzi impiegati per raggiungere un fine, se questo è storicamente progressivo e risolve i problemi essenziali dell’epoca”; il principe, difatti, “stabilisce un ordine in cui sia possibile muoversi, operare, lavorare tranquillamente”. Insomma, un popolo “sicuro”, “soddisfatto” e, come Machiavelli ripete spesso, “contento”. Si tratta, insomma, di un potere sempre accompagnato da egemonico consenso. Nei tempi che viviamo, in una situazione in cui la democrazia si riduce, non di rado, a garantire, in ultima istanza, un certo stato di diritto e i mercati, nemmeno ci si dovrebbe stupire troppo del quadro delineato da Machiavelli, di questa protezione personale, familiare, e, in senso largo, “sociale”.

Da ciò che si è detto, emerge, certo, una sostanziale passività del popolo; un qualche ruolo “attivo” si potrebbe tutt’al più scorgere solo nel fatto che il popolo, dopotutto, deve riconoscere e accettare l’offerta amicale del principe. Per la contraddizione che non lo consente, il principe non potrebbe mai “soddisfare” il popolo dal lato politico, rinunciando al suo potere monocratico, di modo che la soddisfazione sarà da ritrovare tutta sul piano dei bisogni essenziali e primari, di ciò che sta al di qua, o al di là, della politica. Si tratta, insomma, di una prima ed elementare forma di egemonia, riposante sulle necessità della vita. Ma la grandezza di Machiavelli sta nel fatto che egli conosce, insieme, una diversa e più alta forma di egemonia: quella esemplificata dalla repubblica romana, che è al centro dei Discorsi. Qui tutto il popolo, la “plebe”, è chiamato a un importantissimo, e, in un certo senso, decisivo ruolo politico: tutti i cittadini sono diventati “principi”. E si ha egemonia sia nella forma di una costituzione “mista”, di carattere “duale”, contro la monotonia degli stati “monoclasse”; sia nel determinante conflitto che oppone la plebe o popolo ai nobili o grandi, per la conquista di egemonia, sempre nel quadro delle istituzioni democratico-repubblicane, allo scopo di promuovere leggi “in favore della libertà”; sia infine negli effetti prodotti dal corpo politico così costituito, libertà interna e potenza esterna, con lo strepitoso esempio dell’”imperio” romano, che esercitò hegemonia, diceva Polibio, sull’intero mondo conosciuto, o almeno su una sua parte significativa. I Discorsi non dimenticano mai il Principe, e uno dei punti di forza di Machiavelli, è che, rifiutando ogni pensiero unico e definitivo, lavora su più “modelli”, principato e repubblica, incrociandoli tra loro, e facendo reagire l’uno sull’altro.

La politica, e specie quella d’egemonia, non è mai figlia di allegro ottimismo volontaristico, di spensierata sicurezza. Si nutre sì di ragione e passione, di fermo calcolo e di brucianti emozioni, ma li costituisce sul fondo, e con la perenne compagnia, dell’incertezza e del dubbio, dell’esperienza di passate e forse future delusioni. Il fatto è che non esiste una generale “scienza politica” capace di dare certezze, né Machiavelli ha mai cercato, contrariamente a quanto si continua pigramente a ripetere, di dar corpo a una simile scienza. Nulla è garantito, nulla è certo, in merito alla costruzione e all’effettiva riuscita di una buona politica. Ora, quasi alla fine di Principe XXV, in prossimità della sua conclusione, esplode in Machiavelli un dubbio radicale, “iperbolico e, per dir così, metafisico”, come avrebbe detto Cartesio. Non è più l’esitazione perplessa che aveva accompagnato tutta la stesura dell’opera, ma un dubbio devastante, capace di mettere in crisi, di “ruinare”, l’intera costruzione del Principe. No, forse non è vero che un principe, quand’anche fosse straordinariamente virtuoso, riesca a compiere l’impresa che ho preparato per lui. Lo smarrimento nasce nel punto più delicato: la fortuna è in perenne “variazione”, e questo è il dato della realtà, ma sarà l’uomo in grado di mutare se stesso, restando in sintonia con le cose, anche quando queste mutino rapidamente, ciò che Machiavelli dice “riscontro coi tempi”? Gli uomini, come hanno “diverso volto”, così posseggono pure diverso “ingegno et fantasia”, e, come esempio, Machiavelli riconduce questa disparità a due diversi tipi (prejunghiani), quello dell’”impetuoso” decisionista e quello del prudente “respettivo”. Gli esseri umani sono abituati a condursi in una certa maniera, secondo il loro temperamento, e magari sono stati fortunati nel comportarsi così; si capisce allora come siano riluttanti ad abbandonare il loro modo d’essere. Ma qui siamo ancora al dubbio “metodico”, non a quello “iperbolico”, che si ha quando si osserva che simili attitudini degli uomini non sono né scelte né revocabili, ma costituiscono un immutabile dato naturale. Così accade che, mentre i tempi variano impetuosamente, l’uomo non è in grado di mutare se stesso, non “potendo deviare da quello a che la natura lo inclina”. Si “felìcita” quando c’è un positivo “riscontro” con i tempi, una conformità tra il proprio carattere e quello di uno specifico momento storico, ma si “infelicita” quando il proprio “umore” è disforme dai tempi, sia esso impetuoso o rispettivo, ma nemmeno un uomo virtuoso come il principe nuovo può, uscendo dalla sua natura, secondare tutti i tempi. Può aver prosperato finché c’era un tempo congeniale alla sua natura, ma di necessità “rovina” quando, variando la fortuna, se ne sta “ostinato” nei suoi “modi”. Non c’è “uomo sì prudente” che sappia vincere questa sfida, un “savio” che sappia comandare “alle stelle et a’ fati”.

Per comprendere il punto di crisi, che rovinerebbe l’intero Principe, deprimendo ogni azione umana, è necessario guardare sommariamente la struttura del capitolo XXV, il più difficile, senza dubbio, dell’opera, che ospita quest’amara riflessione. Il titolo si chiede “quantum fortuna in rebus humanis possit”; è un tema del tutto nuovo rispetto al Principe, quale era stato fin qui svolto e presso che ultimato. Finora Machiavelli, pur fin troppo consapevole del peso della fortuna, aveva delineato l’eccezionale figura di un principe che sapesse duramente affermarsi sulla variazione dei tempi. Qui invece la riflessione assume un andamento filosofico, e, insomma, ci si interroga su quale sia “in universali” il potere della fortuna nelle cose umane. La premessa è molto significativa. Machiavelli riporta l’”opinione” di quanti sostengono che la “fortuna e Dio” abbiano così in mano il governo delle cose del mondo, che gli uomini, “con la “prudenzia loro, non possino correggerle, anzi non vi abbino remedio alcuno”. Una simile opinione è, certo, più facilmente credibile “ne’ nostri tempi”, quando si è vista e si vede una “variazione grande delle cose”, eventi “fuora di ogni umana coniettura”. Segue una confessione autobiografica: “a che pensando, io, qualche volta, mi sono in qualche parte inclinato nella opinione loro”. Ma (“nondimanco”) l’idea fatalistica è subito rigettata, “perché il nostro arbitrio non sia spento”. Il problema è quale sia, nella storia, il rispettivo peso della fortuna e delle azioni umane. Machiavelli giudica che, all’incirca (“o presso”), la “fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre”, e che l’altra metà spetti al governo umano. E’ una partizione di necessità approssimativa, quella che aveva guidato, più o meno, la costruzione del Principe. E, del resto, chi potrebbe mai rigorosamente risolvere, con astratta ricerca intellettuale, un simile problema? Importante è sapere, come accade nel Principe, che c’è un pesante condizionamento delle cose, una durezza volta a volta data, e una possibilità d’azione, sebbene ardua anch’essa. La metafora del fiume, notissima e stilisticamente stupenda, illustra questa situazione: il fiume straripa impetuoso perché, nei “tempi quieti”, non si sono fatti “argini” e “ripari”; e così, parimenti, la fortuna “dimostra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle”. Nessuno potrebbe dire che per questa via siamo giunti a una rigorosa soluzione del problema del peso della fortuna nelle cose umane. Machiavelli stesso oscilla, ora inclinando più verso la fortuna, ora più verso la virtù. Ma, come s’è detto, è il problema stesso che è insolubile, né si lascia razionalmente sciogliere.

Nel breve finale del capitolo, Machiavelli si riprende dall’estremo dubbio, e avanza una dichiarazione del tutto contraddittoria, in apparenza, con l’analisi subito prima svolta: “io iudico bene questo: che sia meglio essere impetuoso che respettivo”. Può sembrare solo una passionale battuta, di fronte all’ oscura complessità del problema affrontato. Ma sarei portato a darle più ampio valore. Dalla depressione si esce con umori euforici, e tanto più la prima è stata acuta, tanto più i secondi sono eccitati e “veloci”. Con la preferenza accordata agli impetuosi, i più “decisionisti”, Machiavelli riprende, nella maniera più intensa, il tema, costante nel Principe, della volontà che agisce, della virtù che sa imprimere il suo segno sulle cose. E, implicitamente almeno, affiora qui un altro problema. La domanda sul peso rispettivo di fortuna e virtù, indecidibile sul terreno razionale, può essere affrontato e illuminato solo nell’ambito della praxis. Non si tratta in alcun modo di ergere bandiere di prometeico volontarismo, di azioni senza oggetto, contravvenendo a ogni lezione machiavelliana, ma è pur vero che il duro peso della fortuna si può sperimentare e misurare solo nel lavoro dell’azione, nel tentativo non di annullarlo, quanto di operarvi dentro per mutarlo, e lasciare nella “materia” delle cose la propria soggettiva “forma”. E’ qui che si vede quanto possa la fortuna nelle cose umane.

Se, prima del dubbio, sta l’intero Principe, e se nel finale del capitolo XXV Machiavelli si riallaccia ai suoi temi più caratteristici su virtù e fortuna, nel capitolo seguente e ultimo dell’opera, nella celebre Exhortatio a liberare l’Italia dai “barbari”, si ha una vistosa ripresa di tono circa la possibilità dell’azione politica, un timbro da grande orchestra, in qualche punto persino troppo sonora. Il superamento della profonda crisi intellettuale è segnato con nettezza: “Dio non vuole fare ogni cosa, per non ci torre el libero arbitrio e parte di quella gloria che tocca a noi”. La virtù deve riprendere il suo alto e difficile corso. La politica di Machiavelli è imprescindibile dal nesso con la storia; non teoriche e un po’ eteree dottrine devono guidare il politico, ma l’acuta consapevolezza e il senso della storia, di quella passata e, soprattutto, di quella in cui deve agire. Il Principe è “vissuto” di storia, come si conviene all’”antiteorico” Machiavelli, e nel nostro capitolo è di nuovo al centro la situazione italiana. Nel punto del dubbio radicale, era la virtù, la capacità di agire, la questione centrale, e, anzi, il solo vero problema. Ora, tornata la fiducia nella virtù, che certo deve essere sempre grande, “estraordinaria”, la prospettiva si sposta dalla parte della fortuna, del tempo della storia e della situazione delle cose. La condizione italiana, s’è detto, era pessima, è ciò è ribadito anche nell’ultimo capitolo del Principe: l’Italia è “battuta, spogliata, lacera, corsa”. Centrale è in Machiavelli, tra fortuna e virtù, l’”occasione”, un modo di presentarsi dei tempi e delle cose, che, se non trova virtù adeguata, trascorre vanamente, così come la virtù, grande quanto si voglia, deperisce e si spegne, se non trova l’opportunità di esercitarsi. Nel nostro capitolo, l’occasione sta proprio nella disperazione delle cose, quando si è toccato il fondo dell’abisso. C’è, certo, un tratto di biblico provvidenzialismo nel prospettare come “occasione” quella situazione italiana tenuta ferma, nella sua drammaticità, per tutto il corso del Principe: “el mare si è aperto; una nube vi ha scorto el cammino; la pietra ha versato acqua; qui è piovuta la manna”. Come dirà, in una sua “degnità”, Vico: “parevano traversie ed erano opportunità”. Ma. del resto, secondo il costante convincimento di Machiavelli, “tutte le cose degli uomini” sono sempre “in moto, e non potendo stare salde, conviene che le salghino o che le scendino”; giunte al punto più basso, le cose non possono che risalire. E si ha qui un’altra lezione di Machiavelli. Per quanto miserevole e sconsolata sia la situazione data, conviene sempre tentare una via d’uscita politica. Molte volte, e in vari modi, Machiavelli si sofferma sul fatto che, in condizioni disperate, quando non si ha più nulla da perdere, è sempre meglio affrontare la lotta, tentando, con decisione “impetuosa”, di rimontare la china. Ma per far ciò. le sole armi della ragione non bastano. Occorre saper mobilitare con tutti gli strumenti possibili, accendere gli animi, pur predisposti dalla loro condizione al mutamento, formulare un “manifesto politico” che esprima “fanatismo d’azione”, come diceva Gramsci. Machiavelli ricorre, tra altri esempi e motivi, alla biblica lezione di Mosè, di cui s’è già vista la presenza. L’occasione nasceva dal fatto che gli ebrei erano disperati e “stiavi”, e s’incontrò con la “virtù di Moisè”, il grande condottiero che mobilitò il suo popolo, traendolo fuori dalla schiavitù.

occamQuesto testo, originariamente pubblicato sul Rasoio di Occam, ha fatto da base all’intervento sullo stesso tema realizzato da Mario Reale per l’Osservatorio filosofico.

 

Politica e utopia: la ‘Repubblica’ di Platone nel XX secolo

Politica e utopia: la ‘Repubblica’ di Platone nel XX secolo

di Francesco Fronterotta

La politica disegnata dalla Repubblica platonica è stata fortemente condannata nel Novecento, in specie da Popper, a causa del suo “totalitarismo” e della sua distanza dai valori del liberalismo. Un modo per “discolpare” il progetto politico platonico da queste accuse è stato quello di rivendicare il suo carattere di “utopia”. Tuttavia, più che sulla “utopia” della Repubblica bisognerebbe insistere sulla sua “normatività”.

[drop_cap style=”2″ bgcolor=”#dddddd” color=”#787882″]L[/drop_cap]a Repubblica di Platone non cessa di suscitare, fra i filosofi e i commentatori, un dibattito intenso e controverso, tanto dal punto di vista del progetto etico e politico che disegna, quanto sul piano delle implicazioni psicologiche, epistemologiche e ontologiche connesse alla definizione del sapere dei filosofi che, secondo Platone, devono essere collocati alla guida di tale progetto. Non è questo, naturalmente, il contesto opportuno per suggerire un’interpretazione d’insieme della Repubblica; quanto mi propongo è, più modestamente, di segnalare alcune delle principali linee di discussione emerse nel dibattito del XX secolo e limitatamente all’esame del progetto platonico della καλλίπολις. Una difficoltà preliminare, che va in qualche modo immediatamente affrontata, riguarda proprio l’oggetto del dialogo: se Diogene Laerzio non mostra dubbi nel catalogare la Repubblica fra i dialoghi politici di Platone (III 50-51), è abbastanza facile constatare come l’opera sia caratterizzata da un intreccio tematico che non si lascia sciogliere in una scansione disciplinare ben determinata, se non al prezzo di schematizzazioni in parte forzate.
Il dialogo, infatti, si snoda come segue: mentre il libro I introduce il tema della giustizia, della sua natura e della sua definizione, con un’andatura e uno stile che ricordano abbastanza esplicitamente le indagine socratiche condotte nei cosiddetti “dialoghi giovanili”, con la consueta contrapposizione, a tratti assai violenta, alle posizioni ascrivibili alla sofistica, a partire dal libro II, il problema della giustizia viene esteso, per analogia, all’ambito della costituzione e della struttura della città, forse meglio identificabile per il suo carattere concreto e storicamente determinato (368b-369b), con il tentativo, condotto ancora nel libro III, di effettuare una ricognizione completa della struttura socio-istituzionale della città, con l’individuazione delle classi che la compongono e con la rigorosa ripartizione dei compiti e delle funzioni che a ciascun cittadino sono assegnati. Ma è il libro IV che produce una svolta nell’analisi, perché, riproponendo l’analogia fra l’indagine sulla giustizia a livello individuale e al livello della città, giunge a stabilire la sua definizione universale come consistente nell’esercizio, per ogni individuo (e per ogni componente psico-fisica di ogni individuo) o per ogni agente istituzionale (cittadino, classe sociale, città), della sua funzione propria: la giustizia è, di conseguenza, τά έαυτου πράττϵιν (433a), in base al principio, che rappresenta un filo conduttore narrativo e a un tempo un nucleo teorico situato, implicitamente ed esplicitamente, al cuore della Repubblica, secondo cui l’esercizio, da parte di ogni elemento particolare di un insieme, della propria funzione naturale compone, garantisce e preserva l’equilibrio armonico dell’insieme, dunque, in tal senso, la sua τάξις, che coincide di fatto con la “giustizia” della sua disposizione strutturale e funzionale. A partire dal libro V, la sfida rivolta a Socrate dai suoi interlocutori consiste nel precisare le condizioni di possibilità di una simile struttura istituzionale, di cui vengono fissate dapprima le “scandalose” tappe socio-politiche, con le celebri “ondate” relative alla necessità della comunanza pianificata della proprietà, della produzione dei beni e della procreazione, fino alla più ardua esigenza del governo dei filosofi. Particolarmente quest’ultimo assunto richiede, dall’ultima parte del libro V e fino al VII, una rigorosa giustificazione, che si articola attraverso un’assai complessa dimostrazione che sancisce la differenza fra il sapere dei filosofi e le opinioni degli uomini comuni, premessa indispensabile per spiegare e difendere il ruolo dominante dei filosofi nella città, e di seguito stabilisce l’opportuno curriculum formativo dei futuri filosofi-governanti. Il libro VIII esamina poi, con il rigore diagnostico di una vera e propria analisi sociologica della natura e delle degenerazioni del potere politico nella dialettica del suo esercizio istituzionale e sociale, le diverse forme di governo storicamente corrispondenti alle forme assunte come canoniche nel pensiero politico greco e, del resto, di fatto coincidenti con i principali generi di regime concretamente prodottisi nel mondo greco, cui segue, nel libro IX, una ripresa del tema originale della giustizia, al fine di dimostrare, tornando nuovamente sul piano psicologico individuale, la superiorità e la felicità del giusto rispetto all’ingiusto, in virtù del parallelismo stabilito, sul piano della forma di governo, con la relazione fra il sistema istituzionale più giusto rispetto all’ingiusto. Il dialogo, che potrebbe a questo punto dirsi compiuto, prosegue invece nel libro X, nel quale si torna, pur se con accenti diversi, sulla giustificazione della superiorità del sapere dei filosofi, che va assunto come paradigma pedagogico e gestionale della condotta individuale e collettiva, rispetto al sapere comune rappresentato dalle forme abituali della cultura tradizionale, per esempio dell’arte imitativa e della poesia, epica o tragica. Un lungo e complesso monologo mitologico, dedicato all’esposizione del destino dell’anima individuale nel corso della sua vicenda immortale, conclude la Repubblica, trasponendo di fatto l’affermazione della superiorità e della desiderabilità della giustizia rispetto all’ingiustizia, dall’ambito psico-fisiologico e socio-politico all’ambito propriamente metafisico ed escatologico.
Di fronte a un’articolazione tematica così complessa, è inevitabile chiedersi dove si collochi esattamente il nucleo propriamente “politico” del dialogo, a meno che, naturalmente, non lo si voglia identificare nella messa in scena dei personaggi, con i loro diversi ruoli dialettici, o nella continuità della sequenza argomentativa che essi costruiscono, ma si tratterebbe, a mio avviso, di un’evidente diminutio. Del resto, come ha osservato Vegetti [ref] Vegetti 2009, pp. 19-24; cfr. inoltre Schofield 2006 e, più in generale in riferimento alla riflessione politica classica, Schofield 1999.[/ref], è possibile individuare alcune linee di riflessione abbastanza nette nella concezione platonica della politica: dalla definizione dello statuto del governo della città, con la determinazione dei requisiti per accedervi, degli obiettivi da raggiungere e degli strumenti di consenso per conservarlo, alla corrispondente struttura sociale, economica e istituzionale della città, con l’esame dei rapporti di classe cui essa dà luogo e delle diverse possibili situazioni concrete in cui la città storicamente si trova (in pace o in guerra, stabilendo oppure no relazioni di scambio con altre città e così via). Il punto di partenza abituale per questa indagine è rappresentato dalla constatazione che la città esistente è “malata” (VIII 544c) e che occorre pertanto studiare le cause e il decorso di questa malattia per poterla curare e per poter infine proporre un modello istituzionale immune da tali rischi; il sintomo principale della malattia della città è il conflitto perdurante, non solo nell’Atene di Platone, fra le sue distinte componenti sociali, la στάσις, che produce una sorta di guerra civile permanente, interna alle singole città oppure fra le diverse città del mondo greco: in questo ambito, l’imputato principale è certamente il regime democratico ateniese, che Platone considera come ineludibilmente esposto all’esito di una degenerazione demagogica, coincidente con l’asservimento dei fini di governo alle spinte irrazionali provenienti dalla massa e dunque in contraddizione radicale con il principio platonico del perseguimento del bene, individuale e collettivo, sulla base del sapere[ref] Particolare attenzione alle forme e ai contenuti della critica platonica alla democrazia greca da parte di Bertelli 2005 e Pradeau 2005, pp. 85-101.[/ref]. Si è ricordato poco sopra, nella forma sintetica e puramente riassuntiva del resoconto dell’argomento della Repubblica, quali siano gli elementi principali della “cura” che Platone suggerisce per guarire la “malattia” della città: si tratta di stabilire un’organica distribuzione di funzioni e compiti basata sulla natura e le competenze di ogni individuo e di ogni gruppo sociale che componga un equilibrio efficiente e armonico. La condizione di realizzabilità di questo sistema organico viene individuata da Platone attraverso l’attribuzione del governo a un gruppo quantitativamente ristretto di “sapienti”, i filosofi, che svolgono la propria funzione direttiva in virtù della facoltà e delle competenze razionali che prevalgono in loro; a questo gruppo dirigente Platone associa un gruppo più numeroso, composto dai “guerrieri”, che, rigorosamente subordinato al primo e in esecuzione delle direttive di quello, opera le funzioni di controllo e di salvaguardia dell’ordine pubblico, come un apparato di sicurezza che garantisce, in virtù del proprio carattere “aggressivo”, la conservazione dell’insieme; a un terzo e ultimo gruppo sociale, il più numeroso, appartengono infine compiti produttivi e commerciali, indispensabili al benessere della città e tuttavia necessariamente sottoposti al controllo e alla disciplina imposta dei gruppi superiori, per evitare che l’elemento individualistico e potenzialmente capace di sovvertire l’equilibrio dell’insieme, connesso alla produzione, all’accumulo e allo scambio di ricchezze, possa incrinare la buona disposizione della città.
Da questa rigida scansione gerarchica derivano altrettante conseguenze, teoriche e pratiche, sul piano dell’ingegneria politica e istituzionale. A garanzia dell’obiettivo generale perseguito dall’azione dei governanti, e dell’applicazione esclusiva di un criterio razionale nell’esercizio di tale azione, Platone prescrive la norma che estirpa ogni possibile fonte di interesse o inclinazione individuale nella formazione e nella vita quotidiana dei membri di questo gruppo: la collettivizzazione patrimoniale e affettiva e, subito oltre, la durissima selezione, genetica e pedagogica, dei filosofi mirano precisamente a sancire le condizioni necessarie per l’accesso al potere e per il suo esercizio. E, nonostante la complessa articolazione di questo percorso di analisi e prescrizione politica, Platone avverte, e dunque fa emergere con acutezza, l’inevitabilità della degenerazione di ogni forma istituzionale, che, per quanto vicina al modello descritto, si trova esposta alla natura instabile delle vicende umane e della storia o, in altre parole, alla caratteristica deficienza ontologica del mondo sensibile, irrimediabilmente vincolato al divenire in opposizione all’eterna stabilità del modello ideale intellegibile.
Lo sfondo del dibattito novecentesco intorno all’etica e alla filosofia politica della Repubblica è rappresentato certamente, e tuttora, dalle violente accuse che Karl Popper ha rivolto a Platone in The Open Society and its Enemies (Popper 1944). Come è noto, secondo Popper, Platone avrebbe, per un verso, preteso di identificare le “leggi della storia” e, con esse, di predeterminare lo svolgimento e la realizzazione delle vicende umane e, particolarmente, della condizione dell’uomo e della sua funzione in seno alla città e allo stato; per altro verso, e di conseguenza, avrebbe costruito nella Repubblica uno schema socio-istituzionale fondato su una serie di principi a-priori che sono finalizzati alla realizzazione della felicità collettiva, a scapito di ogni forma di individualismo e di libertà o inclinazione individuale. Quella platonica si configurerebbe perciò come un’“utopia totalitaria”, nella misura in cui il carattere utopico dipende appunto dal riferimento a un set di principi eterni e immutabili “posti in cielo”, cui ispirarsi e da riprodurre nell’azione politica e istituzionale, che sfocia a sua volta in una prospettiva totalitaria in quanto, per realizzare questo progetto, occorre piegare qualunque tendenza soggettiva dei singoli cittadini alla superiore esigenza di costituire una società perfetta, sacrificando intereressi e opzioni delle parti in nome della suprema indicazione del benessere e dell’efficienza del tutto[ref] Si vedano, per un’efficace sintesi delle accuse di Popper al progetto politico platonico, il capitolo 5 di Schofield 2006 e Vegetti 2009, pp. 109-17.[/ref]. Ora, come è noto, l’accesa requisitoria di Popper ha suscitato un’ampia serie di reazioni, per lo più dominate dall’intento, del resto in gran parte esplicito, di difendere Platone dalle accuse rivoltegli, finendo spesso, tuttavia, per optare piuttosto per uno sforzo implicito di difendere Platone da se stesso, senza invece operare un’attenta disamina, storica e filosofica, dei presupposti esegetici della ricostruzione popperiana – senza considerare, insomma, che l’estraneità di Platone alla tradizione etica e politica liberale o democratica, denunciata da Popper, potrebbe evidenziare più che un limite o una colpa da ascrivere allo stesso Platone, un presupposto interpretativo miope, che a sua volta non tiene conto dei diversi momenti della storia del pensiero, quasi assumendo il liberalismo moderno come la dottrina definitiva e definitivamente stabilita in base alla quale misurare, e giudicare, i pensatori del passato. È chiaro come, adottando simili strategie difensive, ancora oggi ben presenti e documentabili negli studi recenti, si corra il rischio di indebolire e depotenziare la riflessione politica di Platone, neutralizzandola sotto ogni profilo, pur di evitare, di fronte alla constatazione innegabile che egli non fu un liberale e un democratico, di farne un nemico della libertà e della democrazia, un pensatore totalitario diretto precursore dei regimi dittatoriali del novecento [ref] Faccio ancora riferimento, in quanto segue, alla felice sintesi proposta da Vegetti 2009, pp. 122-42 e 145-67.[/ref].
Un’analoga strategia, almeno rispetto alla tesi secondo la quale non bisogna considerare come autenticamente platoniche le affermazioni relative alla καλλίπολις e al progetto politico della Repubblica, si ricollega ai nomi di due celebri filosofi del Novecento: Hans-Georg Gadamer e Leo Strauss. Gadamer (cfr. specialmente Gadamer 1934 e 1983), come è noto, ha insistito sul carattere esclusivamente utopico della costruzione politica di Platone: ponendosi fondamentalmente come un socratico, più attento alle esigenze del metodo della ricerca della verità che non alla determinazione di una prospettiva dogmatica, Platone avrebbe rappresentato nella Repubblica (ma ancora fino alle Leggi) una città immaginaria, edificata come fantasiosa e piacevole evasione nella mente e non certo nella concretezza della realtà e della storia, il cui scopo si riduce essenzialmente al gioco puramente astratto del confronto intellettuale, così sistematicamente minimizzando i forti richiami platonici alla realtà attuativa del suo progetto politico e naturalmente tutti i riferimenti storici e biografici che testimoniano del suo specifico interesse e impegno negli eventi politici del suo tempo. Appena più avvertita nell’esigenza di un esame più accorto e verosimile dello stile narrativo di Platone si presenta la strategia esegetica straussiana, riconducibile, nelle sue linee generali, a Strauss 1964 (pp. 50-138). La ragione per cui non si deve prendere alla lettera la riflessione politica condotta nella Repubblica, secondo Strauss, non attiene ai tratti utopici del progetto che vi è disegnato, ma alla caratteristica modalità della “dissimulazione” che Platone avrebbe messo in atto, allo scopo di evitare il rischio di urtare la morale prevalente e la communis opinio dei suoi contemporanei, di incorrere in contrasti o punizioni da parte dell’autorità. Non si tratta soltanto di nascondere, tramite prudente reticenza, le proprie tesi autentiche, ma di proporre alternativamente, dissimulandone i contenuti attraverso un complesso schema dialogico che ne cela ironicamente i contenuti effettivi, un progetto ben preciso, i cui contorni risultano identificabili e accessibili ai lettori che sappiano oltrepassare l’immediatezza letterale di quanto Platone scrive, per cogliere i riferimenti esoterici che egli tratteggia attraverso gli articolati scambi dialogici fra i suoi personaggi. Incontriamo qui il nucleo originario del cosiddetto “dialogical approach”, che prende le mosse dalla constatazione banale che Platone non si esprime mai in prima persona nelle sue opere e che pertanto, anche nell’ipotesi che egli si serva di alcuni dei suoi personaggi come propri portavoce, resta l’asimmetria o la discrasia, più o meno profonde, fra autore e attore del dialogo, più ancora nel caso di Socrate, protagonista indiscusso della maggior parte dei dialoghi, il cui ruolo di portavoce di Platone deve comunque fare i conti con la ben nota attitudine all’ironia che tradizionalmente viene associata al suo nome. Questo intreccio di portavoce e di interlocutori implica la stratificazione, nei dialoghi, di punti di vista e di livelli di comunicazione distinti, ed è appunto dalla decifrazione di questo meccanismo di stratificazione di personaggi e di piani di comunicazione che dipende la possibilità di apprezzare l’autentico contenuto esoterico del pensiero platonico. Nel caso specifico della Repubblica, essa andrebbe letta, secondo Strauss, in stretto rapporto con la commedia aristofanea, ripercorrendo così con vivace ironia i tratti esclusivamente ironici, e perciò dissimulatori, del progetto platonico. Il disegno fondamentalmente comunistico della Repubblica, che recide ogni aspirazione e dimensione individuale, trascurerebbe volutamente, e perciò ironicamente, gli impulsi riconducibili al corpo, alle differenze specifiche dei singoli cittadini e di genere fra i sessi, manifestando così il suo carattere assolutamente contro natura e perciò ideale, e in tal senso utopico, e dunque di fatto consapevolmente impossibile rispetto alla sua realizzazione concreta. Gli stessi filosofi che dovrebbero governarla appaiono estranei alla καλλίπολις, dalla quale si ritirano volentieri, come mostra il libro VII, per accedere alla contemplazione delle idee. Impossibile e perfino indesiderabile, la città ideale della Repubblica avrebbe allora solo il fine di denunciare i limiti di ogni progettualità politica che, secondo la nota concezione straussiana, deve astenersi dall’invadere gli spazi propri della filosofia e della teologia.
Non pochi interpreti recenti, specie in ambito anglo-americano, hanno approfondito, più o meno criticamente, l’esegesi straussiana della Repubblica: chi riflettendo sulla relazione fra scrittura ironica o “dissimulatoria” e carattere utopico del dialogo[ref] Morrison 2007.[/ref]; chi sottolineando soprattutto gli elementi, già indicati da Strauss, dai quali si evincerebbe l’esigenza di una comprensione esoterica del dialogo, mostrando come la repressione dell’eros, esplicitamente sancita dalla legislazione, risulti incompatibile con la naturale condizione umana e, a un tempo, con l’investimento psicologico necessario alla realizzazione del progetto politico[ref] Roochnik 2003, per esempio pp. 69-77; si veda inoltre, più in generale, Ludwig 2002.[/ref]; chi, infine, valorizzando e radicalizzando, nell’approccio straussiano, la conclusione relativa all’egemonia della filosofia (ma non della teologia!) rispetto alla politica, sostenendo la superiorità di quella rispetto a questa come oggetto privilegiato della riflessione condotta nella Repubblica, con un’analoga e parallela valorizzazione, al livello dell’anima, della funzione razionale e conoscitiva rispetto alle altre e rispetto anche all’equilibrio dell’insieme [ref] Ferrari G.R.F. 2003 e, con particolare riferimento all’esame delle funzioni dell’anima, Ferrari G.R.F. 2007b.[/ref]. Una più matura e articolata presa di posizione è quella, recente, di Rosen 2005, che, distaccandosi in parte dalla sua interpretazione precedente (difesa in Rosen 1990), riconosce l’effettiva serietà teorica e progettuale della Repubblica, ma fissandone alcuni limiti insuperabili: ogni forma di riflessione politica, che abbia come scopo il mutamento sociale e l’instaurazione di un nuovo sistema, è esposta al rischio, o piuttosto alla necessità, della degenerazione; la filosofia stessa, quando si assuma il compito dell’esercizio del potere e del governo dello stato, non può che declinare verso la tirannide, quasi capovolgendo le proprie stesse premesse teoriche e ideali [ref] Rosen 2005, p. 229. Sul rapporto fra filosofia e politica, e particolarmente fra filosofo-re e tiranno, in riferimento alla Repubblica e più in generale nel pensiero greco contemporaneo, si vedano Vegetti 2000b e i saggi raccolti in Lisi-Pradeau 2009.[/ref].
Come si vede, al centro di questi complessi, e talora assai contorti, tentativi esegetici, si colloca, pur se con diverse sfumature e da diversi punti di vista, la questione della cosiddetta “utopia” platonica, come forma estrema di difesa, o via di fuga, dalle accuse popperiane di totalitarismo politico. Ma, che si evochi un’utopia “fantastica” o un’utopia “dissimulatoria”, pare impossibile non tenere conto dei numerosi richiami, contenuti nella Repubblica, all’essenziale problema della concreta realizzabilità del modello che viene via via disegnato (cfr. per esempio 450d, 458a-b, 499c etc.), anche se, appunto in virtù della differenza fra il modello ideale “nel cielo”, eterno e perfetto, e il mondo sensibile del divenire e della storia, le condizioni di possibilità di tale realizzazione sono ardue e di difficile attuazione (cfr. per esempio 499d, 502c, 504d etc.). Il tratto utopico del progetto della Repubblica risiede allora nello iato che inevitabilmente sussiste fra la perfezione del modello, che nulla, tuttavia, rende di per sé oggettivamente irrealizzabile, e le sue condizioni di possibilità, che si scontrano invece con l’altrettanto inevitabile imperfezione della sua realizzazione. Ma questo tratto utopico non dipende dal progetto platonico, la cui perfezione ideale costituisce anzi, per il suo valore paradigmatico, il principale elemento di forza e di attrattività politica, bensì dalla dimensione pratica e concreta nella quale occorre realizzarlo, secondo un gesto filosofico non dissimile da quello che caratterizza il mito cosmologico del Timeo, in cui un divino demiurgo, la cui azione si basa su una perfetta riproduzione degli altrettanto perfetti modelli ideali, produce il mondo sensibile come “il migliore possibile” – “bello”, dunque, ma “meno bello” del suo modello ideale – e ciò in ragione dei limiti e dell’imperfezione del materiale concreto di cui egli dispone per la sua opera (cfr. Tim. 29e-30b). In questa misura, ed entro questi limiti, è certo possibile individuare una tensione utopica nella riflessione politica di Platone, appunto quella tensione insopprimibile determinata dalla distanza mai definitivamente colmabile fra il modello e la sua realizzazione concreta, e a un tempo, per converso, dall’attrazione mai sopprimibile che quello esercita su questa, come molti hanno recentemente sottolineato [ref] Cfr. per esempio, con sfumature diverse, Burnyeat 1992, Schofield 2006, pp. 199 ff., Morrison 2007, p. 247, e soprattutto, in termini più realistici, Vegetti 2000a, Vegetti 2005, Vegetti 2009, pp. 161-67; per quanto riguarda gli sviluppi del disegno “utopico” nel posteriore pensiero politico di Platone, nel Politico e nelle Leggi, cfr. Rowe 1999 e Laks 2005; infine, per la questione più generale dell’utopia nel pensiero greco, cfr. Dawson 1992.[/ref]. Nello iato così determinato, fra il modello e la sua realizzazione concreta, si apre lo spazio per l’elaborazione di una vera e propria teoria normativa, con l’indicazione di una serie di requisiti necessari per la sua attuazione efficace, che, per quanto a loro volta di difficile applicazione, appaiono nuovamente non impossibili, in linea teorica, rispetto alla loro esecuzione: il governo dei filosofi, o la conversione dei governanti alla filosofia, rappresenta da tale punto di vista la prescrizione fondamentale che, abbinata a un rigido controllo sociale, può indirizzare la costituzione della “città in terra” a imitazione della “città in cielo” [ref] Zuolo 2009.[/ref].
Si noterà come, a questo punto, il quadro esegetico intorno all’interpretazione “politica” della Repubblica si collochi al di fuori della gabbia polemica costruita da Popper, ma accettata di fatto anche dai suoi critici, che intendeva imbrigliare la riflessione politica di Platone all’interno del confronto esclusivo con il pensiero liberale e democratico moderno e della sua contrapposizione, tutta novecentesca, alle contemporanee dottrine totalitarie; gli sviluppi più recenti fin qui descritti per sommi capi, con le relative acquisizioni esegetiche, ormai abbastanza diffuse, e a mio avviso assai salde specie fra gli scholars continentali, ci restituiscono un Platone estraneo, perché non assimilabile neanche in linea di principio, tanto al liberalismo quanto al totalitarismo, un Platone attraverso il quale tornare a pensare ai termini generali della progettualità della politica, dei suoi requisiti normativi, giuridici e istituzionali, e alle condizioni della sua azione concreta, nella società e nella storia degli uomini.

occamQuesto testo, originariamente pubblicato sul Rasoio di Occam, ha fatto da base all’intervento sullo stesso tema realizzato da Francesco Fronterotta per l’Osservatorio filosofico

 

Riferimenti bibliografici

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Un rinnovamento storiografico del Novecento: la scuola delle Annales

Un rinnovamento storiografico del Novecento: la scuola delle Annales

di Sonia Caporossi

Già apparso in due parti con licenza CC su criticaimpura.wordpress.com (prima parte, seconda parte), quindi in forma riveduta e corretta su www.storiaestorici.it e in ebook su “Un Anno Di Critica Impura”, di Sonia Caporossi e Antonella Pierangeli, Web-Press Edizioni Digitali, Milano, Gennaio 2013 – ISBN: 978-88-906285-97
 

Sommario:

  • La scuola della Annales
  • 1930-1968, una svolta della storiografia
  • La rinascita delle fonti e la decadenza del soggetto
  • Un sistema aperto e una storiografia eterodiretta dallo storico
  • Il tempo storico e la “lunga durata”
  • Un impianto possente e contradditorio
  • E il tempo che cosa è

 

La scuola della Annales

[drop_cap style=”2″ bgcolor=”#dddddd” color=”#787882″]Q[/drop_cap]uando la scuola storiografica delle Annales, com’è noto, sorse in Francia intorno alla rivista Annales d’histoire économique et sociale fondata nel 1929 da Marc Bloch e Lucièn Fevbre [ref]Il titolo della rivista variò poi nel 1946 in Annales. Economies. Sociétés. Civilisation e dal 1994 in Annales. Histoire et sciences sociales. Il movimento si articolò, com’è noto, in tre periodi fondamentali: 1929-1944, 1945-1968 e dal 1968 in poi, come specificato più avanti.[/ref], essa fu immediatamente caratterizzata da una considerazione fortemente innovativa della ricerca storiografica. Questo senso di ricerca ed innovazione, infatti, concedeva sostrato al significato, nella teoresi e nella prassi, dell’attenzione rivolta da Bloch e Febvre nei confronti di branche del sapere, come ad esempio l’economia e gli studi sociali, che tradizionalmente erano quasi del tutto rimaste ai margini della considerazione storiografica in senso finalmente scientifico, laddove avevano trovato un posizionamento strategico, nel lungo secolo della storiografia di ascendenza idealistico – romantica, come semplici forme dello sviluppo progressivo dello Spirito in generale, ovvero, come propugnavano più tardi i positivisti in polemica con le variopinte hegelianità, in un campo di dominio permeato della più bieca e gradassa metafisica.

La direzione intrapresa era quella dell’ampliamento delle problematiche da analizzare per affrontare i processi storici in senso strutturale, o per meglio dire strutturalista, come verrà meglio a delinearsi successivamente nel marasma culturale degli anni Sessanta  [ref]Cfr. I. Fazio, Nuova Storia Culturale, in Cultural Studies, rivista telematica dell’Università di Palermo, pp. 2-3: “Anche la scuola francese delle Annales, che già dai suoi inizi si era caratterizzata per la ricerca di insiemi sociali e di sviluppi di civiltà di lunga durata che oltrepassavano gli steccati della storia politica e religiosa, in una seconda fase, dal dopoguerra in poi, si è orientata verso temi culturali. Forme simboliche e pratiche materiali venivano documentate in modo dettagliato. L’eclettismo interdisciplinare delle Annales si inquadrava in una cornice teorico metodologica di strutturalismo storicista. Dallo strutturalismo francese, sia linguistico che antropologico, traeva la concezione della storia  come insieme di strutture – dalle  credenze alle  pratiche economiche – che funzionavano in modo organico. Esse si modificavano lentissimamente, lasciando spazio quindi a un’enfasi analitica sui fattori di permanenza e sulle interazioni reciproche tra gli elementi della struttura. È facile comprendere quindi il legame di questo modello analitico con l’antropologia strutturalista. Infine, un terzo elemento accanto al lavoro degli storici sociali e degli animatori delle Annales portava la cultura, e in particolare quella dei gruppi subalterni, in primo piano nella storia e nelle altre scienze sociali: i movimenti sociali, generazionali, controculturali e antiegemonici di fine anni Sessanta premevano nel senso dell’apertura a temi di ricerca relativi ai gruppi dominati, come i neri, le donne, i popoli del cosiddetto terzo mondo la cui vita veniva alla luce nell’ambito del processo di decolonizzazione. La ricerca sociologica soprattutto dava attenzione alla cultura popolare e alla controcultura; la ricerca femminista cominciava a legare mondi mentali e ambiti corporei; nascevano gli studi subalterni”.[/ref]; tuttavia, fin da subito i nuovi storici delle Annales operarono considerando parte integrante dell’indagine storica gli aspetti della produzione, della tecnologia, dei mezzi di lavoro, l’apertura a temi come le mentalità, la considerazione dei manufatti, la demografia, la vita quotidiana, la sessualità, l’alimentazione, le abitudini di consumo e chi più ne ha più ne metta, lanciando esche a cui abboccheranno le successive correnti psicosociostoricofilosofiche, in patria e fuori dai confini (prestabiliti). Campi di interesse nuovi divennero quindi ben presto anche le civiltà extraeuropee, in un ampliamento in senso globale e globalizzato, o forse meglio dire globalizzante, dei confini geopolitici, derivato dalla contemporanea intersezione con l’etnologia e l’antropologia culturale, ma soprattutto nel primo periodo delle Annales era viva la sollecitazione a colmare i ritardi rispetto alle scienze esatte e naturali: “ciò che premeva a Bloch […] era la rivendicazione della possibilità di una conoscenza critica, scientifica, dei singoli fatti storici”, laddove la figura con cui dialogare in tal senso, in primis e fin dal principio, era il Durkheim dell’Année sociologique. Mentre per il sociologo “la storiografia o non era scientifica, e allora rimaneva confinata, al limite, nell’aneddoto; o era scientifica, passibile cioè di comparazioni tali da condurre all’enunciazione di leggi, e allora si identificava con la sociologia”  [ref]Così scrive C. Ginzburg nella Prefazione a M. Bloch, I re taumaturghi, Torino 1973, p. XII. Del resto, come sostiene M. Mastrogregori in A. De Bernardi e S. Guarracino, Dizionario di Storiografia, Milano 1996, “la struttura della rivista riprende quella dell’Année sociologique (1879) di E. Durkheim, e si è ipotizzato che Bloch e Febvre volessero riprendere, a favore della storiografia, il disegno durkheimiano di un’egemonia della sociologia tra le scienze sociali, elaborato all’inizio del secolo proprio contro la storiografia”. Durkheim in effetti opponeva allo studio del fatto individuale, irripetibile, quello delle determinazioni sociali, cui si attribuiva un ruolo essenziale in tutto lo sviluppo della società, e questo, di fatto, è il punto di partenza del discorso storiografico delle Annales fin dalla fondazione.[/ref], per Bloch, al contrario, la scientificità del lavoro dello storico era una rivendicazione legittima senz’ombra di dubbio; ma proprio per questo, implicitamente, dava ragione allo stesso Durkheim: occorreva, per possederne un paradigma valido, uscire dal modello della storia dell’aneddoto.

Non consapevole di questa preliminare contraddizione nell’enunciato, il movimento delle Annales auspicava in questo senso il lavoro collegiale degli storici, i quali avrebbero dovuto avvalersi dei contributi interdisciplinari sulla base di una comune piattaforma interpretativa: si mirava insomma ad  ottenere una cooperazione internazionale a livello di ricerca, l’apertura all’attenzione di un vasto pubblico interessato ai problemi del presente e soprattutto il raggiungimento di “un lavoro comune con le scienze sociali, dalla geografia alla statistica, dall’economia politica alla psicologia e alla sociologia”, anche alla luce dell’importanza del fattore economico analizzato centralmente, per la prima volta, dalla storiografia marxista, caratterizzata dalla posizione di un problema, quello economico – sociale, di più vasto respiro  [ref]Fu J. Jaurès, coi suoi volumi sulla Storia socialista della rivoluzione francese (1900), che indusse gli storici francesi dei periodi successivi a prestare maggiore attenzione ai fatti socio-economici, influenzando per esempio storici del calibro di G. Lefebvre. A testimonianza dell’accresciuta importanza del fattore socio – economico nell’interpretazione storica basti pensare che nel 1927 (due anni prima della pubblicazione del primo numero delle Annales) Mathiez, il maggior storico della rivoluzione francese durante il primo trentennio del secolo, aveva pubblicato la sua migliore opera socio-economica: Il carovita e il movimento sociale sotto il Terrore.[/ref].

1930-1968, una svolta della storiografia

Gli anni Trenta segnano insomma l’inizio della fine della storiografia meramente politica o, come si sarebbe detto di lì a poco a mo’ di slogan, evenemenziale. La rivoluzione russa, la cavalcata spettrale del marxismo nei cieli d’Europa, i mutamenti sociali post-bellici, la presenza ossessiva dell’elemento economico a guidare la danza macabra durante e dopo la Prima guerra mondiale, in particolare la crisi economica nel ping pong planetario che ebbe inizio proprio nel 1929 e che finì per coinvolgere anche la Francia: tutto ciò comportò un avvicinamento fatale, un’attrazione ideocentrica degli storici francesi alle questioni economiche. Ad esempio, se pure i primi lavori di Bloch sono consacrati alla Francia capetingia con studi sui problemi della psicologia collettiva e delle mentalità  [ref]Stiamo parlando de I re taumaturghi , opera che venne pubblicata nel 1924 e all’interno della quale si fa strada un’idea di psicologia e sociologia storica incentrata sulla definizione delle “représentations collectives”. Il sostenitore più fervido della psicologia storica fu Febvre, a cominciare dal saggio del 1938 Une vue d’ensemble: historie et psychologie.[/ref], modalità di analisi e ricerca poi cadute nelle fauci impastoiate di ben più miserandi tuttologi e psicanalisti sessantottini, verso la metà degli anni Venti la sua attenzione si concentra sulla storia agraria medievale francese ed europea, tanto che nel 1931 insegna a Oslo storia agraria comparata e proprio in quel periodo pubblica l’opera che lo fa diventare il maggior storico-economista della Francia: I caratteri originali della storia rurale francese  [ref]Negli anni 1939-40 appare quello che può essere considerato il suo capolavoro: La società feudale.[/ref]. Ma le Annales conobbero anche altre linee di sviluppo, in cui le linee di demarcazione fra tendenze differenti si fanno abbastanza definite. Il secondo periodo delle Annales prende vita dopo la morte di Bloch nel 1944  [ref]Già cinquantenne, Bloch si arruolò doverosamente, col grado di capitano, contro i nazisti. Nel 1940 fu in quelle unità francesi che riuscirono a imbarcarsi a Dunkerque per l’Inghilterra, da dove poi rientrò in Francia, ma dopo la capitolazione non potette più insegnare alla Sorbona e per qualche tempo esercitò in provincia, contemporaneamente gettando su carta il manoscritto dell’Apologia della storia, che rimase incompiuta e fu pubblicata postuma da Febvre con alcuni ritocchi. L’autore aveva dovuto nascondersi, perché ebreo, sotto il regime di Vichy, e del resto era ben nota la sua avversione all’hitlerismo razzista. Divenuto nel 1943 uno dei comandanti della cintura lionese della Resistenza, fu arrestato dalla Gestapo nel 1944 e fucilato il 16 giugno. Come ricorda Le Goff nella sua Prefazione all’Apologia della storia, Bloch “Fu una delle vittime di Klaus Barbie”. Durante tutta la guerra Febvre, rimasto a Parigi, volle con tutti i mezzi possibili mantenere in vita le Annales, la cui periodicità era divenuta, per forza di cose, saltuaria. Come abbiamo già ricordato, nel 1946 i fascicoli ricominciarono ad apparire sotto un nuovo nome, Annales. Economies-Sociétés-Civilisations, redatti dal solo Febvre. Terminata la guerra, la storiografia francese riprese con nuovo vigore, tanto che la pubblicazione, nel 1949, del libro di F. Braudel, Il Mediterraneo e il mondo mediterraneo all’epoca di Filippo II, costituì allora un avvenimento eccezionale. Basti pensare che la sua elaborazione richiese circa quindici anni e che grazie a questo lavoro Braudel venne riconosciuto come uno degli storici più importanti d’Europa, a causa delle novità impellenti del suo lavoro, il quale invertiva volontariamente l’importanza dell’oggetto studiato, il Mediterraneo, a scapito della figura individuale di Filippo II, e per la scansione triadica del tempo storico, concetto problematico di cui si parlerà più avanti.[/ref] ruotando intorno alle figure di Febvre e Braudel e ad una grande istituzione di ricerca fondata nel 1947: la VI sezione dell’École pratique des hautes études, istituzione attraverso cui i due condirettori riescono ad affermare il movimento delle Annales anche in ambito accademico. Il terzo periodo invece ha inizio nel 1968 e ruota intorno alla figura di Jacques Le Goff il quale assume la direzione della rivista dando così inizio al periodo della cosiddetta antropologia storica.

Nonostante questa scansione in tre periodi caratterizzati da diversi indirizzi, giudicati solo apparentemente divergenti e in parte contraddittori, la Scuola delle Annales è stata considerata complessivamente una vera e propria svolta rispetto alla storiografia dell’Ottocento, la quale, a sua volta, declinava i propri parametri di analisi intorno a due grandi correnti contrapposte: lo storicismo romantico e idealista da una parte e il positivismo dall’altro, ambedue considerati mali profondamente radicati nel metodo d’indagine, da emendare con tutte le forze possibili. Nella storiografia ottocentesca il fenomeno storico era vissuto infatti come fare politico in senso pressoché esclusivo. Questa impostazione, probabilmente derivata dal sorgere, attraverso i moti rivoluzionari di ispirazione romantica, del concetto di nazione, permetteva ai nuovi storici di accusare la storiografia romantica di un certo descrittivismo astratto e sistematizzante: essa non faceva altro che scrivere la storia degli Stati  [ref]Chabod si occuperà del concetto di nazione in una serie di lezioni tenute all’università Statale di Milano nell’anno accademico 1943-1944 e poi raccolte e pubblicate a cura di A. Saitta e E. Sestan (L’idea di nazione, Roma – Bari 1961). Lo storico valdostano si era occupato, fin dal decennio precedente, dell’idea d’Europa dal punto di vista del divenire storico della coscienza europea e dello svolgersi dell’idea di nazione, proprio in quegli anni in cui la sua degenerazione in nazionalismo si era resa evidente in seguito al tragico accadimento delle due Guerre Mondiali.[/ref] e così si imperniava intorno a un individualismo particolaristico che non consentirebbe analisi di più vasto respiro. Dall’altra parte si ergeva tuttavia il possente muro del positivismo, contro la cui “metafisica del fatto” le Annales si opporranno sempre fermamente, nella concezione del fatto che permane inerte senza l’intervento interpretativo dello storico e nella convinzione che il lavoro dello storico consista nel porre delle domande alle testimonianze in una considerazione della storia come problema e ricerca. Il tentativo di superare il descrittivismo elencativo positivista e la semplice erudizione ottocentesca doveva, per gli annalisti, farsi forte della convinzione che “la storia […] avrà il diritto di rivendicare il suo posto fra le forme di conoscenza veramente degne di sforzo, soltanto se ci prometterà una classificazione razionale e una progressiva intelligibilità, anziché una semplice enumerazione senza nessi a quasi senza limiti”; per questo occorre considerare la storia come oggetto di un “lavoro ragionato di analisi” e non come mera “pratica erudita”; l’esigenza era quella di superare, pur riconoscendone il valore, una visione della storia come “scienza dell’evoluzione umana” sorretta da un “ideale pan – scientifico”, che però, contraddittoriamente, escludeva dai suoi orizzonti il residuo delle “numerose realtà umane che apparivano disperatamente ribelli a un sapere razionale” chiamandole sdegnosamente “l’avvenimento”: era questo, secondo Bloch,  l’orientamento della scuola sociologica di Durkheim da rigettare in pieno  [ref]M. Bloch, Apologia della storia, Torino 1970, pp. 28 – 31.[/ref].

La rinascita delle fonti e la decadenza del soggetto

Questa necessità finisce per indirizzare Bloch e Febvre verso un nuovo ruolo dello storico che si assume come compito l’analisi del dato concreto, la ricerca del quid strutturale, l’interpretazione delle fonti le quali però, senza quest’intervento attivo e quasi rabdomantico, rimarrebbero mute. Scriveva infatti Bloch nel 1929: “i documenti restano monotoni ed esangui fino al momento in cui il colpo di bacchetta dell’intuizione storica rende loro l’anima”. Al di là della considerazione di soppiatto che l’argomento dell’intuizione storica è di matrice idealistica, proprio una delle tendenze a cui Les Annales volevano di fatto contrapporsi; esso tuttavia possiede, di vitale e nuovo, questo suo innestarsi indefesso sul lavorio filologico documentario. I documenti che lo storico deve interrogare sono, in effetti, svariatissimi: scritti teologici, medici, giuridici, dissertazioni politiche, atti amministrativi, reperti del folklore, dipinti, incisioni, cronache, chansons de geste. Lo storico prende le fonti, le passa al microscopio, le esamina, rende loro una ragione organica di vasto respiro; una ragione, un ordine razionale che oserei chiamare cartesiano e che cambia semplicemente nome: interpretazione. E’ questa un’idea della storia come percorso articolato da ricostruire in tutta la sua complessità, impostazione di pensiero la cui base culturale e politica è stata senza dubbio la vittoria democratica sul nazifascismo, che ha per ciò attraversato l’intero l’arco della cultura democratica europea dell’inizio del Novecento.

Infatti, come ricorda Ludovico Gatto, “gli avvenimenti legati ai due conflitti mondiali hanno contribuito a sviluppare il cammino e l’evoluzione del pensiero storico europeo”  [ref]Ludovico Gatto (Prefazione a H. Pirenne, Storia d’Europa dalle invasioni al XVI secolo, Roma 1991, p. 8) ricorda il valore dell’impegno concreto dello storico e della sua immersione nel presente facendo un riferimento alla figura maestra del professore belga: “Pirenne […] per l’atteggiamento coraggioso e patriottico verso la sua università di cui volle difendere il patrimonio culturale e materiale, nel 1916 venne deportato in Germania. Così fu però anche per Fernand Braudel, durante il secondo conflitto mondiale, tradotto nei campi di prigionia tedeschi di Magonza e Lubecca”. Come si sa, ambedue gli studiosi, per alleviare le sofferenze della prigionia, organizzarono corsi di storia fra i detenuti e scrissero materiale, in quasi totale assenza di documenti e possibilità di ricerca, che sarebbe poi servito ai loro rispettivi capolavori Storia d’Europa dalle invasioni al XVI secolo e Civiltà e imperi nel Mediterraneo nell’età di Filippo II.[/ref]. Il mestiere di storico, insomma, comporta la dimensione dell’impegno in prima persona nell’intenzione votiva di studiare il passato essendo totalmente coinvolti nel presente, in quella circolarità ermeneutica di presente e passato che è una delle tensioni più forti di chi avverte fortemente il richiamo dell’identità storica; e lo è, aggiungiamo, fin dai tempi, appunto, del romanticismo. Paradosso? Contraddizione? Andiamo avanti. Lo storico, specie secondo Bloch, deve tenere ben presente anche il problema epistemologico della legittimità della storia  [ref]“Papà, spiegami a che serve la storia”. Così, pochi anni or sono, un ragazzo che mi è molto vicino, interrogava suo padre, uno storico. Vorrei poter dire che questo libro rappresenta la mia risposta, perché non credo ci sia lode migliore, per uno scrittore, che di saper parlare, con il medesimo tono, ai dotti e agli scolari. Ma una semplicità tanto elevata è privilegio di alcuni rari eletti. Tuttavia la domanda di quel fanciullo, di cui sul momento non riuscii gran che bene a soddisfare la sete di sapere, la conserverei volentieri qui, come epigrafe. […] Il problema ch’essa pone, con la sconcertante dirittura di quell’età inesorabile, è, né più né meno, quello della legittimità della storia. […] e tuttavia la storia, alla quale ci richiama un’attrattiva quasi universalmente sentita, non potesse dimostrare altrimenti la propria legittimità; se non fosse insomma che un piacevole passatempo, […] meriterebbe davvero la fatica che spendiamo per scriverla? […] O dovremo sconsigliare lo studio della storia agli ingegni suscettibili di un miglior impiego, oppure la storia dovrà dimostrare di avere le carte in regola come conoscenza” (M. Bloch, Apologia della storia, cit., pp. 23-27).[/ref]. Egli sorregge sulle spalle responsabilità morali e civiche nei confronti del percorso della civilizzazione (un percorso lineare? Circolare? Ricorsivo?), e la testimonianza storica stessa ha il ruolo fondamentale del mantenimento della memoria, prerogativa di ogni futura civilizzazione; per cui se è vero da una parte che “la storia non dà giudizi morali”, come afferma Bloch, dall’altra è il suo stesso ruolo nel mondo ad essere dotato di un’intrinseca eticità: la storia non è la scienza del passato, bensì, come scrive Febvre, “è una delle scienze umane” in quanto insieme agli stati, alle nazioni, alle tecniche, alle leggi, alle istituzioni “il suo oggetto è l’Uomo; o, se si preferisce, gli Uomini”  [ref]L. Febvre nel Profilo di Marc Bloch preposto all’edizione parigina dell’Apologia della storia del 1949 nell’ed. italiana a cura di G. Araldi , Torino 1970, p. 5.[/ref].

Ora: sfortunatamente, si evince come la scuola delle Annales abbia voluto porsi, onorevolmente, da una parte a sostegno della presenza dell’Uomo nel pensiero contemporaneo: d’altra parte, tuttavia, in quel suo definirlo come “oggetto”, ben lungi dal restituirgli uno statuto ontologico come motore della storia, ha gettato il cemento su cui si sarebbero impiantate, di lì a poco, le maglie castranti dell’antiumanismo posteriore e dell’archeologia del sapere foucaultiana, così disumanizzante e reificante, con quella pretesa di cogliere i rantoli agonizzanti dell’Uomo morente o gli echi umoristici di un Soggetto storico già deceduto. Di fatto, le cose sono andate così: per la Scuola delle Annales, specialmente da Braudel in poi, gli uomini, i singoli, gli individui, sono cominciati a scomparire, volatizzati, liquefatti in una sorta di dissipatio humani generis, annacquati nella salamoia della storia come “lunga durata” e “larghissimo spazio”: vedremo ora come e perché.

Un sistema aperto e una storiografia eterodiretta dallo storico

Accanto alle preoccupazioni epistemologiche e morali, disattese, di conservazione del ruolo umanistico della disciplina storica, le Annales si facevano anche portavoce della concezione della storia come scienza  [ref]Tuttavia nel 1941 Febvre preferiva una definizione più restrittiva: “qualifico la storia come studio condotto scientificamente e non come scienza” (in J. Le Goff, Storia e memoria, Torino 1982, p. 90).[/ref]: ma, beninteso, nella totale assenza di distinzione di ciò che è storia e ciò che non lo è. Lo storico pone nuove domande alle fonti partendo sempre da un’ipotesi: è la stessa istanza ipotetica a garantire la scientificità dell’indagine storica, una scientificità rinnovata perché messa in discussione dal sorgere del probabilismo scientifico e filosofico di inizio secolo  [ref]Stiamo parlando di tutta la rivoluzione di pensiero recata da Einstein, Heisenberg, Goedel, dalla  fisica quantistica, dalle geometrie non euclidee. Questa rivoluzione relativista comportò una nuova concezione di scientificità non più assiomatico – descrittivo – elencativa in senso aristotelico, bensì fondata sul metodo analitico e sulla logica dei sistemi aperti.  Queste tematiche si possono approfondire da un punto di vista logico – matematico e logico – formale in C. Cellucci, Le ragioni della logica, Roma – Bari 2000.[/ref], ma riaffermata fortemente dal richiamo al metodo analitico e alla concezione della storia come sistema aperto: la sostituzione del “certo” con l’“infinitamente probabile”, del “rigorosamente misurabile” con l’“eterna relatività della misura” porta anche lo storico a “concepire la certezza e l’universalità come un problema di gradi”  [ref]M. Bloch, op. cit. p. 33.[/ref].

L’assunto, come si vede, lungi dal superare le istanze positivistiche, ne accoglieva in pieno la metodologia, rigettandone solo la concezione lineare del progresso, per intortarla, avvitarla, aggrovigliarla in un nesso wittgensteiniano di somiglianze e differenze, dove ogni particolare si imparenta con qualsiasi altro e pertiene, in qualche modo,  all’interpretazione storica del tutto globale. Quest’intortamento, quest’avvitamento, questo critico e criteriale scriteriamento del concetto positivista di progresso lineare, in virtù della messa in dubbio e dell’epoké scientifica del principio di Heinsenberg, fa sì che tutto faccia brodo nel calderone della storia. Ma ne mette in dubbio, a ben vedere, la stessa osservabilità dei fenomeni storici, la loro non più intrinseca possibilità d’essere analizzati con fondamenti scientifici certi. E tuttavia, l’apoditticità di qualsiasi assunto definitorio preliminare, pur tuttavia come sempre necessario per rendere intellegibile il “che cos’è” delle vicende storiche e la loro stessa interpretazione dal di fuori, evidenza la sinuosità di un circolo vizioso, il modus operandi di un’epistemologia storica in cui ci si trova a giustificare l’ipotesi parziale assunta piegando il fatto stesso alla sua conferma; se ciò non può essere fatto a priori, lo si faccia almeno a posteriori.

La metodologia ermeneutica delle Annales potrebbe in questo senso venire definita come una storiografia eterodiretta dallo storico in quanto tale, rabdomante e demiurgico semiologo della forma e della sostanza delle fonti, sezionate ed analizzate per rivelare verità che solo lui sa leggere. Quest’ermeneutica del fatto inerte e dello Spirito Santo che scende a ravvivarlo avvia così lo studio di tutto ciò che risulti in qualche modo passibile di essere storicizzato: dalle tecniche, dalle credenze alle mentalità affiancate fin dagli esordi da una forte istanza comparatista  [ref]Fondamentale in tal senso è l’articolo di M. Bloch pubblicato nel 1928 sulla Revue de synthèse historique dal titolo Pour une historie comparée des sociétés européennes.[/ref]. La scientificità della storiografia delle Annales è anche riaffermata dai suoi mentori nei suoi nessi stretti con alcune delle nuove scienze di inizio secolo: lo strutturalismo determina la concezione che il significato di un evento storico sia dato dai rapporti reciproci strutturali con gli eventi coevi  [ref]Se problematico è il rapporto con lo strutturalismo di Lévi – Strauss, accusato spesso di a – storicismo, tuttavia, come scrive Le Goff, Storia e memoria, cit., p. 124: “lo strutturalismo genetico e dinamico dell’epistemologo e psicologo svizzero Jean Piaget, secondo il quale le strutture sono intrinsecamente evolutive” si presta bene ad appoggiare la concezione storiografica delle Annales.[/ref]; la psicanalisi influenza la ricerca sulle mentalità collettive e sugli archetipi, nella riflessione della memoria come fondata su una comune identità, impostazione già tipica del Berr, fondatore della psicologia storica. Infine, la concezione del tempo storico viene rivoluzionata soprattutto da Fernand Braudel, il quale polemizza con la storia tradizionale di superficie, la cosiddetta storia événementielle, basata sugli avvenimenti politici più esteriori e visibili, la quale d’ora in poi viene confinata definitivamente in un ruolo subalterno a vantaggio di un modello di ricerca strutturale e funzionale fondato su uno stretto rapporto fra storia e tempo. “La storiografia tradizionale”, dirà Braudel, “interessata ai ritmi brevi del tempo, all’individuo, all’évenement, ci ha abituati da tempo al suo racconto frettoloso, drammatico, di breve respiro. La nuova storiografia economica e sociale pone invece al primo posto le oscillazioni cicliche e punta sulla validità delle loro durate”  [ref]F. Braudel, La storia e altre scienze sociali, Bari, 1973.[/ref].

Il tempo storico e la “lunga durata”

Quando Braudel, nel suo famoso articolo del 1958 sulla “lunga durata”, delinea la scomposizione della storia in tre piani digradanti, il “tempo geografico”, il “tempo sociale”, il “tempo individuale” (all’interno del quale viene relegato l’évenémentiel), diviene evidente il nesso con la filosofia di Henri Bergson. Infatti “per la meccanica, il tempo è puramente una serie di istanti che si susseguono in un ben determinato ordine lineare: passato, presente e futuro; per la realtà della coscienza, il tempo è invece qualcosa di irriducibile a una successione di istanti, è durata, è un flusso continuo i cui momenti si compenetrano a vicenda, senza poter venire separati l’uno dall’altro”  [ref]L. Geymonat, Immagini dell’uomo, Milano 1990, pp. 464 – 465.[/ref]. La concezione meccanicistica del tempo è sicuramente, per Bergson, fornita di un certo grado di verità pratica, nel permettere lo studio dei fenomeni del mondo inorganico tramite una sorta di “esteriorizzazione del tempo”. Tuttavia, è solo il tempo della coscienza, esclusivamente all’interno della quale esistono passato e futuro, a recare in sé il senso della durata o tempo vissuto, e solo al suo interno è possibile una considerazione globale e veramente razionale degli eventi. L’idea bergsoniana della durata rielaborata e ripresa da Braudel ha dei riflessi metodologici, etici ed epistemologici di importanza fondamentale. L’idea catastrofista, a quel tempo dominante, espressa nel famoso libro di O. Spengler Il declino dell’occidente, apparso all’indomani della disfatta tedesca del 1918, fu contrastata da Braudel proprio attraverso la sua concezione della “lunga durata”, dimostrando insomma che dalle crisi più acute, quelle degli imperi mediterranei analizzati in Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II,  quasi sempre sorgono nuove imponenti civiltà. L’allargamento non solo alla lunga durata ma anche al largo spazio fu lo spirito del suo secondo importante libro, Civilizzazione materiale e capitalismo, il cui primo volume apparve nel 1967, e all’interno del quale l’autore “descrive la maniera con la quale i grandi equilibri economici, i circuiti di scambi creavano e modificavano la trama della vita biologica e sociale, la maniera con la quale, per esempio, il gusto si abituava ad un prodotto alimentare nuovo”  [ref]Burguière cit. in J. Le Goff, op. cit., p. 116.[/ref]. Braudel aveva speso progressivamente quasi sessant’anni di vita studiando una mole infinita di dati sulla vita quotidiana, materiale, degli uomini, dall’alimentazione all’abitazione, dalle fonti energetiche alle vie di comunicazione, dai mezzi di trasporto alla circolazione del denaro, abbandonando giocoforza l’europocentrismo ottocentesco ed allargando il perimetro geografico dell’indagine storiografica anche a continenti tematicamente quasi inesplorati: l’Asia, l’Africa, l’America. Tuttavia, in Civilizzazione materiale e capitalismo, si rende evidente anche un limite di fondo della concezione braudeliana della “lunga durata”, la quale resta troppo vaga e indeterminata, inapplicabile come è al contesto storico se prelevata dall’assunto bergsoniano, che prendeva a sua volta le mosse da un basamento percettivo individualistico ed affettivo, rischiando così di condannare a una semi-paralisi la storia dell’uomo in rapporto al suo ambiente specifico. Per superare l’empasse, Braudel avrebbe dovuto fare, in base alla sua ottica, di peggio: volendo tenere fermo un genuino bergsonismo, avrebbe dovuto relegare la storia dell’uomo nell’angusta cella di uno psicologismo individualistico già precedentemente rinnegato e dato per morto, particolarismo che nulla avrebbe a che fare, secondo gli annalisti, con la Storia in quanto tale  [ref]Come si legge in un interessante saggio sulla storiografia francese del Novecento pubblicato sulla rivista telematica Homolaicus. Materiali di Umanesimo Laico e Socialismo Democratico a cura di Enrico Galavotti, “anzitutto Braudel separa la civilizzazione materiale dalla vita economica produttiva e dal capitalismo. La prima, a suo giudizio, è fatto di routine, è una vita elementare, vegetativa, che non si presta, se non con molta difficoltà, al mutamento, è dunque una realtà di “lunga durata”. La vita economica invece gli appare come uno stadio superiore, privilegiato, della vita quotidiana. Il capitalismo poi è uno stadio ancora più elevato, più sofisticato. In sostanza sfuggiva a Braudel il fatto che il capitalismo s’afferma proprio sulla base delle forme più elementari dei rapporti mercantili, giungendo in diretto antagonismo con altri tipi dominanti di economia”. Questa prerogativa affidata alla lunga durata porterebbe insomma Braudel ad una incomprensione dei fenomeni localizzati in spazi e tempi circoscritti, causando l’inapplicabilità degli stessi agli eventi di spessore superiore.[/ref]. Ma non lo fece.

Uno dei punti deboli della concezione storiografica del secondo periodo delle Annales, insomma, è questo suo guardare i fenomeni di lunga persistenza tramite l’analisi della ripetitività e ciclicità degli eventi ma trascurando i particolari storici, la cosiddetta microstoria, che tuttavia incalzava per avere nuova voce in capitolo. La concezione della “lunga durata” si fondò anche sul richiamo all’etnologia e all’antropologia culturale, ad una specie di metafisica umanistica strutturale e sovrastrutturale insomma, dando vita ad una storia “più analitica, dedita a rintracciare l’itinerario e i progressi della civiltà”, non deterministicamente bensì interessandosi “ai destini collettivi più che agli individui, all’evoluzione delle società più che alle istituzioni, agli usi più che agli avvenimenti” contro l’altra concezione “più narrativa, più vicina ai luoghi del potere politico”, che abbraccia i grandi cronisti medievali come anche gli eruditi del XVII secolo e “la storia événementielle e positivista che trionfa alla fine del secolo XIX”  [ref]J. Le Goff, op. cit., p. 116, cita un articolo di Burguière pubblicato all’interno del supplemento del 1980 alla Encyclopaedia Universalis.[/ref]. Prendono così piede altri campi di indagine come la storia dell’alimentazione, della sessualità e della famiglia, delle donne, la demografia storica (anche tramite l’utilizzo di fonti massicce come i registri parrocchiali), e con essa la storia dell’infanzia, la storia della morte come campo maggiormente fecondo all’interno dell’indagine già avviata da Bloch sulle mentalità: moltiplicazione dei pani e dei pesci di cui si ciberanno gli strutturalisti e i post – strutturalisti francesi del Novecento, in una frantumazione prismatica di temi e problemi che non permette alcuna visione sistematica se non nell’astraente sguardo esterno dello scienziato – interprete e che, proprio per questo, ricade in quel sostrato narrativo, unico modus unificante possibile al discorso storico, sebbene precedentemente rinnegato, il quale si instaura sul fondale scientifico della ricerca filologica.

Un impianto possente e contradditorio

A questo punto è d’obbligo tirare brevemente le somme sulle grandi avversioni, sui grandi rifiuti operati dalla Scuola delle Annales. Tale possente e contraddittorio impianto di indagine storiografica, attraverso le sue varie fasi e i suoi percorsi decennali, porta in sé il messaggio del rifiuto di una storia idealista in cui le idee si genererebbero per partenogenesi come nelle vecchie e muffite impostazioni delle varie filosofie della storia, ed anche l’avversione alla concezione della storia come semplice progresso lineare oppure, in tertiis, di una storia che interpreterebbe il passato sulla base esclusiva dei valori del presente a rischio di incomprensioni profonde del fatto storico; atteggiamento presentista, quest’ultimo, che peraltro non può essere assolutamente evitato dagli stessi annalisti, proprio ed in quanto si pongono ipotesi preliminari, le quali, inevitabilmente, pertengono sempre all’ottica e alla forma mentis di colui che, qui ed ora, si pone il problema, formulandone la domanda. Accanto a queste difficoltà  ermeneutiche ed epistemologiche di fondo, che spesso inficiano il momento stesso dell’approccio storiografico e la sua validità metodologica, l’apertura alla considerazione quantitativa delle fonti, che oggi ha fornito lo storiografo di un nuovo capitale strumento di comparazione e di indagine (il computer) ma che era già implicita nell’uso già blochiano della scienza statistica a fini storici, può essere considerata come un’altra delle eredità piuttosto valide che la Scuola delle Annales ha lasciato a chi voglia oggi occuparsi di storia e storiografia. La parte migliore della prospettiva storiografica delle Annales risiede infatti in quell’istanza critica che si sforza di comprendere, nonostante ed oltre i rigetti, l’avvenimento e il grande evento, la dimensione collettiva e la storia dell’individuo, attraverso l’utilizzo di tutti i materiali possibili (anche la massa immensa delle testimonianze non scritte, in primis quelle archeologiche). In fondo, ai fini della comprensione storica, non è stato tanto importante il rifiuto dell’individuo come base d’indagine, ed anzi, da alcuni storiografi pietosi, egli è stato poi riammesso benevolmente a corte.

Il vero inghippo del sistema analitico ed interpretativo delle Annales, invece, sta nel considerare logicamente veri, oltre che validi, due assunti di per sé perfettamente legittimi: il primo, che i documenti “non parlano se non quando si sa interrogarli”; il secondo, che “ogni ricerca storica suppone che, fin dai primi passi, l’inchiesta abbia una direzione”. Bloch ricalca qui l’istanza scientifica di Henri Poincaré, sostenitore in tempi moderni del metodo analitico, perfettamente funzionante nelle scienze matematiche e sperimentali, in base al quale ogni scoperta scientifica si produce a partire da un’ipotesi preliminare. Ma tale metodo può essere applicato ad una dimensione come quella storica, non riproducibile in laboratorio a piacimento e, dunque, non soggetta ad indici di verificabilità o falsificabilità? Ma allora, chi può dirsi investito della capacità medianica dell’interpretazione corretta ed univoca delle fonti storiche? Non si corre continuamente il pericolo, esso sì, non storiografico, bensì filosofico, di piegare le fonti stesse alla conferma eterodiretta di questa stessa interpretazione? Ciò che di fatto è accaduto, relativamente alle Annales, è stato lo strutturarsi di un metodo storiografico scandito nelle sue quattro fasi fondamentali che ricalcano la pratica professionale quotidiana: “l’osservazione storica”, “la critica”, “l’esperienza storica” e “la spiegazione in storia”  [ref]Si tratta dei titoli di quattro fondamentali capitoli dell’Apologia della storia di Bloch, carichi di una forte istanza metodologica e sottoposti di recente ai dovuti rimaneggiamenti della nuova edizione filologica curata dal figlio Etienne.[/ref]. La metodologia di ricerca delle Annales concepisce la storia non come storia del passato, bensì come scelta, ed ogni scelta presuppone un’ipotesi ed una linea di indagine nel tempo, all’interno della quale bandire l’errore metafisico della “causa unica”; empasse che tuttavia, a discapito di qualsiasi previsione, non fa che riprodursi all’infinito, individuando non più “la causa”, ma “le cause”, ipoteticamente enunciate, di un sistema problematico di eventi da verificare o falsificare. Per questo la storia è soprattutto “storia degli uomini nel tempo”. Ma gli uomini che cosa sono? Ed il tempo, soprattutto, che cosa è?

E il tempo che cosa è?

Succede, ben presto, che nella Scuola delle Annales il tempo della storia venga ricompreso fra la “lunga durata” di Braudel e quella sorta di cristallizzazione temporale che Bloch invece chiamerà “il momento” piuttosto che l’avvenimento, nella convinzione che il tempo della storia sfugga ad ogni uniformità. Scrive infatti Bloch: “il tempo umano […] sarà sempre ribelle sia all’implacabile uniformità che alla rigida ripartizione del tempo dell’orologio. Gli occorrono misure che siano adeguate alla variabilità del suo ritmo e che accettino spesso di non riconoscere come limiti, poiché la realtà vuole così, che zone marginali. Solo a prezzo di questa plasticità la storia può sperare di adattare, secondo il detto di Bergson, le proprie classificazioni alle “linee stesse del reale”: il che è, propriamente, il fine ultimo di ogni scienza”  [ref]M. Bloch, Apologia, cit., p. 137.[/ref]. Questa concezione del tempo rinnega l’ “idolo delle origini” e l’ “ossessione embriogenetica”: si tratta sia di superare la prospettiva antiquaria, totalmente chiusa al presente, sia di strutturare un’istanza critica che viva sulla base dell’avversione al filosofismo storico a tutti i costi, in senso hegeliano quanto comtiano: non per niente Bloch confesserà nell’Apologia di non avere la testa del filosofo avvertendo umilmente in questo “una lacuna nella sua formazione di base”. Tutt’al più, quanto a filosofia, la Scuola delle Annales preferisce di gran lunga la tradizione scettico – critica del discorso sul metodo alla sistematicità ordinatrice della filosofia della storia. Un discorso sul metodo su come condurre rettamente la Ragione, e ricercare la Verità nelle scienze: non per niente è nata in Francia. Sembra una discesa all’inferno, un regressus ad finitum, dal Sistema hegeliano a ritroso verso Cartesio, verso le ipostasi della ragione contemporanea, bypassando, e per questo salvando molto di buono nel proprio impianto epistemologico, il nichilismo nietzscheano, che invece ammorberà parecchi compatrioti afflitti dalla morte dell’Homme; entità edulcorata dall’idea di se stessa, forse, ma che per Bloch, almeno, aveva ancora una propria validità e verità in carne ed ossa, anche se oggettuale, anche se già corporeizzata ante – litteram. Infatti, come negarlo: i  pericoli del  nuovo nichilismo di lì a poco sarebbero comparsi all’orizzonte, ignorando che l’uomo non è ancora un cadavere sul tavolo del vivisezionatore strutturalista o del becchino decostruzionista: egli è, forse, una bestia che si presta al macello, ma ancora viva e vegeta, bella grassa e, soprattutto, in salute.

Io, non io, perché proprio io?

Io, non io, perché proprio io?

Il problema della conoscenza di sé dal razionalismo all’idealismo

di Sonia Caporossi

Articolo precedentemente apparso su criticaimpura.wordpress.com e  in ebook su “Un Anno Di Critica Impura”, di Sonia Caporossi e Antonella Pierangeli, Web-Press Edizioni Digitali, Milano, Gennaio 2013 – ISBN: 978-88-906285-97

[drop_cap style=”2″ bgcolor=”#dddddd” color=”#787882″]L[/drop_cap]a conoscenza di sé, si dà per certo, è un impulso fra i più vivi dello schietto philosophein, fin dallo gnòthi s’autòn socratico o pseudosocratico. Ex abrupto, problema non facile, corruccio umano che specialmente dal Seicento all’Ottocento ha preso le variegate forme di un raziocinare in generale sul raziocinio in particolare, o anche, kantianamente, si è definito come indagine preferenziale sulla primigenia istanza della possibilità di conoscenza in genere. La posizione criticista di Kant a questo riguardo identificava, nella sua esigenza di analisi del sapere, l’anelito all’autoconoscenza a partire dal dato fondamentale della sua “rivoluzione copernicana” applicata all’Io, per cui esso, finalmente e per la prima volta, com’è sempre stato detto con enunciati solenni e squilli di trombe, si trova al centro del complesso sistema conoscitivo, come conoscente che non deve più adattarsi all’oggetto ma, al contrario, è quest’ultimo a doversi adattare agli schemi conoscitivi del soggetto percipiente. Per il processarsi indefesso dello schematismo, che lavora per categorie e per giudizi, Kant definisce chiaramente il presupposto fondamentale dell’atto conoscitivo: nessuna esperienza potrà mai essere elaborata, attraverso le medesime categorie e giudizi, dalla nostra mente, se i dati che compongono la conoscenza sensibile non si trovano già predisposti, prima in senso logico e quindi, anche, in senso cronologico, in essa.

Per risolvere il difficile problema di che cosa sia, o in che cosa consista, questo fondamentale basamento di senso assicurato, questo principio di determinazione cosciente che conforta il crogiuolo dei nostri sensi percipienti dalla frammentazione schizofrenica della conoscenza del circostanziale circostante e, conseguentemente, dall’impietosa perdita di senso, Kant ricorre all’ “Io Penso”, ovvero alla coscienza e consapevolezza dell’atto conoscitivo; l’appercezione trascendentale è questa coscienza garantita dal marchio di fabbrica del criticismo kantiano, che rende possibile la conoscenza ed il suo ordine intrinseco. E qui cominciano i primi dubbi. A parte l’ovvia obiezione di ascendenza aristotelica, per la quale, se Kant mi dà un fondamento di “io penso” come base della coscienza, quell’“io penso” a sua volta dovrebbe poggiare, per avere validità, su un altro pavimento, cotto o crudo che sia, come dire: su un altro “io penso”, aut aliud, e così via all’infinito, in un regresso poco economico e, sinceramente, scomodo. Ma poi e per giunta, a ben vedere, sotto il sole di Königsberg non c’è neanche davvero nulla di nuovo.

Già per Renato Delle Carte, come sarebbe più opportuno traslitterare l’illustre geometra dell’intelletto francese, l’autocoscienza del cogito, ergo sum ci rendeva immediatamente certi dell’esistenza dell’io cosciente, la res cogitans, ed in Cartesio l’anima cosciente era realtà diversa dal suo contenuto, cioè dai processi che in essa hanno luogo. Inoltre, si potrebbe e dovrebbe notare l’insignificante particolare del fatto che, all’interno della formula cogito, ergo sum, la congiunzione esplicativa ha un valore ben più profondo di quello semplicemente argomentativo – retorico. Essa in realtà, per il valore semantico, per il senso del periodo insomma, potrebbe anche venire tranquillamente omessa. Nell’affermazione di una res cogitans che annuisce, che nega, che condensa percezioni in forma disvelata, che, in un verbo solo, pensa, anche l’attività del sentire è ricondotta giocoforza al pensiero stesso. In sostanza, per Des Cartes, la certezza della propria esistenza era riportata alla consapevolezza dell’atto del pensare, proprio di ciascun soggetto individuale ed indipendente. Naturalmente, era ancora netta la distinzione tra soggetto e oggetto, tra pensiero e corpo, tra abstrahens e abstractum, e questa divisione manteneva bellamente in vita tutte le difficoltà, logiche e teoretiche, su come costruire un ponte che, attraversandole da parte a parte, ne collegasse le essenze e le esistenze, altrimenti puramente e apoditticamente enunciate. Eulero dimostrò non essere possibile passeggiare sui sette ponti di Königsberg passando una ed una sola volta per ognuno di essi. Problema ozioso, quello dei ponti della irridente cittadina russa, eppure evocatore, esemplificatore e simbolo di una ben peggiore ed impedente paradossalità. Quale sorta di ponte pontificato ed astratto avrebbe mai potuto indirizzare l’intelletto a sgranchirsi le gambe andando incontro alla sua incorporea corporeità? Quale medium nevralgico occorreva per uscire dall’empasse? E poi, diciamocelo in sordina, quel regressus ad infinitum di aristotelica movenza, lo stesso che avvelenava l’“io penso” di Kant, metteva indiscutibilmente in crisi, come si vedrà poco avanti, anche l’irascibile francese.

Quindi, tanto per esser chiari, in una veloce panoramica dei primi filosofi che hanno fornito un ordine metodico all’analisi della conoscenza nel pensiero moderno, Kant si trovava a dover superare la staticità dell’immobile e crogiolatorio dubbio cartesiano, che scadeva ben presto nell’indefesso scetticismo di Hume, o in un dogmatismo che mutilava il fecondo campo del conoscere falciandone le messi con enunciati castranti come quello, a mo’ di exemplum, in base al quale “causa adeguata all’idea di Dio è solo Dio, quindi Dio esiste”. Per Hume, come la palla da biliardo non colpisce il boccino per necessità, neanche è necessario che esista un io sovrastante ed astrattamente condensato in un uno, se non in forma di amalgama di sensazioni delle quali non si può dire altro che, tolte impietosamente ad una ad una, alla fine di quell’io tanto paventato non rimane un bel nulla. Inutile dire che il nulla, in quanto tale, è pur sempre qualcosa di per sé, perché in tal caso, bisognerebbe argomentare per chi potrebbe mai rimanere pur tale. Sbucciato il carciofo dell’io, per usare una metafora gaddiana, al centro c’è solo un’ultima foglia: tolta quella, tolto l’io. E non in senso hegeliano, come auf – gehoben, bensì tolto come eliminato, et voilà, punto e basta. Del resto, anche con Berkeley, il problema non era stato di certo superato. Secondo il suo esse est percipi, noi non potremmo assolutamente dimostrare l’esistenza di una sostanza materiale indipendente dalle nostre percezioni. Egli affermava infatti l’esistenza di un intelletto autocosciente, consapevole di esistere e di percepire; ma, per garantire l’oggettività della conoscenza, Berkeley faceva risalire le idee a Dio, superiore entità extracosciente, sovratemporale ed ultraspaziale, che invierebbe queste idee di origine divina a tutti. Forse per e – mail. Forse tramite piccione viaggiatore. Chi lo sa.

A questo punto, si rende evidente una cosa: il problema principale, al succedersi dei filosofi, continuava ad essere, come anche per Spinoza, quello lasciato insoluto da Cartesio nei vari tentativi di risoluzione dell’improbabile nesso tra res cogitans e res extensa, per risolvere il quale il gallico in fuga aveva tirato in ballo la ghiandolina pineale che risiede, quieta quieta in quanto ipofisi, alla base del cervelletto. Ma, e l’obiezione è ovvia e risibile: come poteva e come può un grumo di carne, per sua natura di sostanza materiale, fungere da ponte e medium tra anima e corpo, facendo lei stessa parte del campo semantico e concreto di una delle due medesime res? Anche Spinoza confermava bel bello che noi possiamo conoscere soltanto due cose: pensiero ed estensione. E dico per l’appunto cose, in quanto esse, riguardo al loro statuto ontologico, non risiedono più neanche in noi, bensì sono attributi di Dio, ambedue modi di essere di quell’unica sostanza, che concede forma alla materia ed alla forma, alla prassi e alla teoresi, nella più perfetta, ed estraniante, identità con la sostanza divina in quanto tale. Ma siccome tutto è Dio, si deve arguire che allora stanno anche in noi. Altro che tutto è Dio, altro che Deus sive natura! Se tutto è Dio, allora niente è Dio, allora niente è Io. Non si risolve delegando al Titano l’unificazione del becco del rapace metafisico e della carnea materialità del fegato. Ma c’è di più.

Se Dio è questa totalità unificata, se Dio è l’unica sostanza razionalizzata in attributi che si modificano, lo è, appunto, in quanto c’è qualcuno dal di fuori che razionalizza questo modificarsi, che individua con la mente questo incessante divino unificarsi. Il pensiero è un attributo di Dio, ergo a pensar non sono io, ergo è Dio che pensa se stesso; allora io, che pure penso, sono Dio o vi partecipo? Se sono Dio, sto da capo a dodici, perché non mi spiego un bel nulla: cambio solo prospettiva ontologica, ma devo comunque poter essere in grado di argomentarmi come io conosca alcunché. Sono un Dio individuato, e ciò non mi esenta dal ricercare il modo del mio conoscere. E se invece partecipo semplicemente della sostanza divina, non sono, daccapo e a maggior ragione, proprio per questo mio parteciparvi, di per me, un individuo individuato, non foss’altro che da me stesso? Comunque, si dirà, sono pur sempre un Io, perché penso tutto questo. L’io sembra quasi appropriarsi dell’ontologia fenomenologica di un Dio senza dentale sonora. Ma in tutto questo carnascialesco altalenarsi di consonanti e vocali, il due, numero del perenne conflitto insoluto, marito e moglie che litigano senza pace, senza posa, senza fluire dinamico tra l’uno e l’altra, permane a impedimento, persiste a paradosso. Nessuna risoluzione, nemmeno un divorzio definitivo. Anima e corpo come Sandra e Raimondo. All’infinito.

Occorre notare, per tornare a Kant, che la sua concezione della conoscenza di sé, creata per superare l’empasse secolare del diviso e del diverso, non è, per la verità, né eccessivamente originale, in quanto appunto deriva da una rielaborazione in chiave criticistica di tutta la letteratura precedente sull’argomento, almeno da Cartesio in poi; né tantomeno risolutiva, poiché, volendo anche partire da essa come presupposto fondamentale a tutta la possibilità di conoscenza in genere, non risolve affatto, come non lo risolveva Spinoza, il problema della divisione tra soggetto e cosa in sé. Persiste in Kant, infatti, un seppur brevissimo, in senso logico, istante passivo del soggetto in cui esso subisce l’influsso dell’oggetto quando questo si fa conoscere. Perciò, si può tranquillamente porre in discussione anche l’apparentemente certa conoscenza di sé di ascendenza kantiana. Il boccoluto vince, ma non convince. E non convince, occorre ribadirlo, per il pensiero filosofico dell’idealismo tedesco successivo, da Fichte a Schelling, che tesero a superare in varie forme lo scoglio insopprimibile della cosa in sé, la quale, ad occhi attenti, riduceva ad un palese dualismo cartesiano, semplicemente mutato di segno, l’intera critica della Ragion Pura; e tentavano di ovviare all’empasse, gli idealisti, vestendo di un nuovo significato la stessa autoconsapevolezza, traendola fuori dal suo costume sterile ed irrancidito, infarcendone la grazia e la compostezza di un Io rinnovato e antistatico, che si scrollava di dosso la polvere e l’ombra di quel dualismo cartesiano, spinoziano e kantiano, imbalsamato ed irrisolto.

Per Fichte, ad esempio, la cosa in sé non è affatto al di fuori dell’Io. Nel rapporto fra Io conoscente e oggetto, l’Io si pone di fronte ad esso, percependo ogni oggetto al di fuori di sé e qualificandolo come non – io. Fichte pone così una distinzione idealistica tra io empirico, ovvero la conoscenza individuale, ed io assoluto, id est, lo spirito in generale; essi, eureka!, hanno la stessa identica natura spirituale. Nel processo conoscitivo che porta alla determinazione, da parte dell’io, della natura come non – io, in un rapporto di opposizione apparentemente ancora una volta ravvolto dal sudario intristente del dualismo, necessario e fondamentale è il primo passo: l’Io che pone se stesso ed, in quanto tale, in seconda istanza logica, pone il mondo fuori di sé. Quest’io si delinea così come attività fondante la conoscenza stessa, ed in sé unità di coscienza ed autocoscienza: atto puro, come avrebbe detto poi il fascistissimo Gentile, che in Fichte è colorato a tinte forti dalla tavolozza protoromantica della fiducia riposta nell’attività stessa, come indipendenza dell’autocoscienza di fronte al mondo del freddo oggettualismo ostentato; streben umano, affatto sovrumano!; sforzo dell’Io a trovare se stesso come Io che pone fiduciosamente il mondo, un ripostiglio cosmico non spiritualizzato, spirituale, spiritato d’attivismo quasi tantrico, senza infamia e senza lode. La condanna indirizzata dal teutonico verso qualsiasi dogmatismo è evidente: Fichte accusa questa corrente ricolma di spifferi sinistri di far risalire alla cosa l’origine stessa del pensiero il quale, in questa maniera, non sarebbe altro che una cosa esso stesso. Il pensiero, per Fichte, è invece per se stesso, e l’oggetto è, invece, per il pensiero. Successivamente l’io, attraverso un percorso metodologico antitetico, svilupperà la conoscenza, partendo sempre, pur tuttavia, dal principio basilare di identità. Anche nella concezione politica fichtiana ha peso questa concezione di identità ed autocoscienza. I popoli si riconoscono infatti come realtà spirituali; gli io empirici, cioè i singoli uomini, gli individui presi di per sé insomma, conoscendosi e riconoscendosi, decidono di collaborare e di dare forma e luogo alla struttura statale, la quale diviene per l’umanità ciò che l’Io Assoluto è per l’io empirico. Fichte dunque, avvia la contestazione del criticismo, ma per una carrellata romanticamente soggettivistica, storicistica e naturalistica, avremmo dovuto aspettare all’orizzonte la comparsa della figura di Schelling come primo attore.

Allo stesso modo in cui Fichte sostiene, novello Atlante, la teoria fenomenologica del soggettivismo come unica via da tollere sulle forti spalle, così Schelling teorizza il naturalismo come soluzione finale. Ed è tutto un gioco di punti di vista differenziati, di rimproveri e di ritorsioni, come sempre accade nell’aia in cui troppi galli beccano il miglio dallo stesso scifo. Schelling rimprovera a Fichte, com’era prevedibile, la sussistenza della divisione tra soggetto e cosa in sé nell’opposizione mantenuta tra io e non – io. Per Schelling, tale rapporto deve essere di profonda affinità, immersa in una realtà assoluta di concetti filosofici fin troppo astratti. Soggetto ed oggetto assumono così la stessa valenza; viene determinata ulteriormente l’unità di spirito e natura, ma, beninteso, diversamente da Spinoza il quale, com’è stato detto, aveva categorizzato una realtà in definitiva statica nella quale tutto è in Dio; e pure diversamente da Hegel, che darà luogo ad un unicum logico, Assoluto – Infinito – Reale – Idea, in cui la concretezza della sfera razionale e la razionalità della sfera concreta si chiuderanno in circolo virtuoso dinamico e non mai impedente, dove la riduzione a dialettica è elevazione a potenza della possibilità della conoscenza stessa dell’umanità in quanto Spirito. In Schelling, tanto per tornare a monte, al contrario l’io ha consapevolmente un grado di spiritualità differente ed in qualche modo più, come dire… Sveglio, rispetto allo spirito addormentato e silente della natura. Nella concezione della filosofia come scienza dell’Assoluto, l’autocoscienza si identifica con una conciliazione perfetta dell’aspetto realistico e di quello idealistico del pensiero. Nasce così la concezione dell’idealrealismo che dovrà ricostruire la storia ideale dell’Assoluto. L’uomo, in questa visione, risulta essere una manifestazione dell’Assoluto stesso, non morale, bensì in quanto unità di io e non – io, per cui, riconoscendo questa medesima identità, l’uomo non deve far altro che lasciarsi vivere contemplativamente: egli è l’artista, colui che è supremamente consapevole, giacché l’arte viene interpretata da Schelling come capacità d’intuizione dell’unità tra spirito e materia. Non v’è chi conosce se stesso più dell’artista, anzi, meglio ancora: è solo l’artista a conoscere veramente se stesso. E gli altri, i contadini, i manovali, i metallurgici, le casalinghe di Voghera, che fine fanno? Rinascono, dissoluti e dissolti nel soggetto, come aforismi di Minima Moralia, qualche brutto tempo dopo.

Kant, Fichte e Schelling, per continuare l’andazzo, sono ben lontani dal teorizzare un semplicistico innatismo virtuale alla maniera di Leibniz, per il quale la mente è già predisposta alla conoscenza per fatti suoi. Il problema insoluto dei tre, tuttavia, continua ad essere l’esistenza di Dio, che non viene sufficientemente giustificata da Kant e risulta così essere tirata in ballo in modo esteriore, confusionario e contraddittorio da Fichte e da Schelling. Questo problemaccio epocale, a ben vedere, c’entra con l’io, c’entra molto, talmente tanto che finisce per compromettere la validità della concezione della conoscenza di sé in tutti e tre i casi. Non solo perché si è ricorso troppo spesso all’idea di Dio come ponte fra anima e corpo, fra io e non – io, fra spirito e materia. Ma anche perché, come dovrei potere e sapere parlare di Dio, se ammetto anche solo la possibilità di questa stessa esistenza, in quanto parlarne è, in qualche modo, un conoscerne pur qualche modo od attributo, alla stessa maniera dovrei poter conoscere me stesso. Conoscere l’io e conoscere Dio sono processi intellettivi che si fondano sulla medesima struttura fondante. Ma come e perché?

Kant aveva inserito nella conoscenza di sé anche la rigida sfera morale, basata sulla ritrovata validità di una metafisica non in quanto scienza, ma in quanto regolamentazione della condotta umana nel suo dipanarsi pratico ed attivo. L’uomo deve infatti rendersi conto di essere contemporaneamente empirico, cioè condizionato dalla causalità temporale, e libero, intendendo la libertà, sui generis, come obbedienza al Grande Fratello dell’imperativo categorico. Anche al di qua della ragion pratica, però, Kant dà l’impressione di ambire ad un perfetto equilibrio di pensiero. Ad esempio, nella concezione di spazio e tempo come dimensioni fondamentali per l’esistenza e la conoscenza dei fenomeni, egli tende a rifiutare una tesi estremistica come quella di Locke. Secondo l’autore del Saggio sull’Intelletto Umano, se Dio è infinito, dove l’idea di infinito si ottiene estendendo al massimo grado le idee di spazio e di tempo, ne consegue che possiamo con i nostri soli mezzi pensare l’infinito; di conseguenza, una prova ontologica di Dio non occorre, nel senso che si esclude la considerazione stessa, il concetto dell’esistenza necessaria o, peggio, dell’idea innata di Dio. Sensazione e riflessione che cosa c’entrano con l’idea di Dio? Egli è un’idea complessa ed in quanto tale oscura, a cui non corrisponde nulla nel reale, e di cui non possiamo identificare conoscitivamente la sostanza. L’uomo non può andare a trovare il luogo di residenza dell’essenza, può affidarsi solo alla mappatura topografica delle idee chiare, può conoscere con certezza soltanto i fenomeni. Un bel colpaccio contro la metafisica, calibrato con estrema perizia balistica fra capo e collo. Maxima theoretica, di nuovo, e minima moralia. La parola d’ordine in Inghilterra è: empiria. Ma allora, come può l’uomo conoscere se stesso? Possiede forse di sé idee chiare e distinte, e basterebbero i sensi a farcele in qualche modo avere?

Del resto, Kant si rifiuta anche di scendere a patti con il leibnizianesimo selvaggio in base al quale Dio può essere dimostrato a priori o a posteriori, in quanto unico essere in cui l’essenza richiede necessariamente l’esistenza. Gaunilone, in questo senso, ancora ride in faccia ad Anselmo d’Aosta: non si passa così facilmente dal dominio logico, tout court, a quello ontologico, essendo questi due campi ben distinti, anche riguardo il campo di applicazione. Per Kant è evidentemente una sciocchezza affermare, come Leibniz sembra pago di fare, che Dio è possibile a livello logico – razionale, quindi esiste. Salvo poi intortarsi da solo, il fine criticista, rigettando al centro della pista da ballo, nella sfera morale stroboscopica da discoteca in cui ci si agita sulle note di ricorrenti oldies but goldies, quella stessa metafisica derisa nella fisica, derisa dalla fisica. La sua ricerca dell’equilibrio del pensiero crolla poco spavaldamente di fronte alle critiche successive. In Kant l’imperfezione consiste nella persistenza del noumeno. Inutile negarlo o tentarne un postmoderno recupero. Come giustificare, infatti, una perfetta e fenomenica conoscenza di sé, se a rigor di logica non si può affermare una conoscenza del mondo, certissima perché dichiarata tale, ovvero dei fenomeni stessi, giacché nulla a rigore vieta al noumeno stesso di essere, esso stesso, il mondo, o anche solo una porzione di esso? Noi cosa siamo? Anzi, io stesso cosa sono: fenomeno o noumeno? L’ombra nefanda e nefasta del gran genio di Hume oscurava di nuovo il sole opacizzato della razionalità, proprio quando Fichte e Schelling facevano la loro comparsa sulla scena del dramma filosofico moderno e, nei ripensamenti successivi, anche contemporaneo.

Per Fichte e Schelling, il problema, di ascendenza platonica, è la convivenza millenaria dell’uno e del molteplice. Ed è stato molto comodo per i due, nella fase finale della loro filosofia, affidarsi all’atto creativo di Dio per giustificare la metexis, il passaggio, il ponteggio comunicativo dell’io monadico e del reale multiforme fenomenico. Ma insomma, ovunque risieda una soluzione pur sperata, o meglio una semplice e semplicistica risoluzione di natura religiosa, non si vede dove sia la reale possibilità di una piena conoscenza di sé, laddove noi stessi, in quanto individui, risultiamo essere figli di una creazione superiore ed imposta che ci domina dall’alto. Logicissimo si rivela essere, invece, il ragionamento comune di Cartesio e di Hobbes, in questo convergenti nonostante le opposte e lontanissime concezioni filosofiche: essi vedevano nella matematica la necessaria base della loro filosofia. Opportuno appariva, ora come allora, ricercare una perfetta conoscenza, possibile ed effettiva, nonché effettuale, in ciò che è la mente stessa a creare, nella pura mathesis astratta ed astraente, la quale, in quanto fervido parto dell’intelletto umano, senza impurità di sorta dall’esterno, consiste in quell’armonia di coscienza e conoscenza, eternamente auspicata e mai raggiunta, che l’uomo tutt’oggi ricerca ancora per se stesso fuori di sé, e che non troverà mai al proprio interno, non solo se fosse vero che Dio esiste, ma anche, e proprio in quanto, di fatto, Egli sussiste, nella mente che pure unicamente lo pensa, come terza persona singolare, pensandolo essa fuori, in alio, in alteris, in Natura non sicut in Deo, sed sicut Deus ipse. L’esistenza dell’idea di Dio o, diciamo, l’invenzione di essa da parte della mente umana che le rende ragione nella coscienza, determina in definitiva il senso di angoscia kierkegaardiano e di oppressione in cui versa l’umanità da millenni; uno stato di prostrazione, psicologico in senso filosofico, filosofico in senso psicologico, proprio di chi trova ostacoli sul proprio cammino, e poi si accorge, o si ricorda, di averceli disposti accuratamente egli stesso, per darsi il suo daffare, per occupare un po’ di tempo. Dio non è né conforto né salvezza, bensì un ostacolo etico, deliberatamente creato dalla mente del singolo individuo per trascorrere i nostri settant’anni medi immersi in una qualche occupazione che fornisca un senso alle ore che passano, come accade ai bambini quando di notte, nel buio dell’insonnia, inventano un mostro preferito con cui fantasticare.

Si potrebbe obiettare che, se fosse valido il caso in cui è la mente stessa a creare Dio, Egli, in quanto idea, sarebbe perfettamente conoscibile come i principi matematici, e, di conseguenza, avremmo anche una perfetta conoscenza di noi stessi; basterebbe a tale scopo, come nel caso di Dio, porsi. Ebbene, mefistofelicamente, noi poniamo di fatto noi stessi, e perciò ci conosciamo alla perfezione; ma ci poniamo in quanto imperfetti, così come, e il caso non è fuori di realtà, noi abbiamo posto coscientemente l’idea di Dio come di un inconoscibile, ed in quanto tale, tutto ciò che se ne può sapere è, per l’appunto, il fatto stesso che Dio è inconoscibile: e questo, per l’appunto, ribadisco se non fosse chiaro, è tutto ciò che se ne può sapere; quindi, e proprio per ciò, ne sappiamo tutto! Ergo, dov’è il problema?

La vita del pensiero, il percorso fuorviante ed astruso della conoscenza di sé è, probabilmente, solo questo lungo ed inenarrabile processo fatigante, che consiste nel conficcare, filosoficamente e nel concreto della prassi, una lunga fila di chiodi nel muro dell’intelletto; una parete così specialmente sottile che, passando attraverso, un chiodo da una parte scaccia l’altro dalla parte opposta, tale che, nella storia della filosofia, appendere quadri non è mai stato il reale scopo, consistendo questo stesso, bensì, nel continuare a martellare e a fare buchi, nel sudare dietro al proprio indaffararsi: nel lavorare allargando il vuoto.

Il Marx di David Harvey

 

Il Marx di David Harvey

di Giorgio Cesarale

Capitolo 6 di Giorgio Cesarale, Filosofia e capitalismo. Hegel, Marx e le teorie contemporanee, manifestolibri, Roma 2012, pp. 95-106

Urbanesimo e capitalismo

[drop_cap style=”2″ bgcolor=”#dddddd” color=”#787882″]D[/drop_cap]ella ampia e stratificata opera di David Harvey, di questa singolare figura che si colloca a metà fra urbanistica e teoria sociale, si conosce ormai molto, vista la larga circolazione ottenuta da libri come La crisi della modernità, La guerra perpetua e Breve storia del neoliberismo. Meno conosciuta, tuttavia, è la sua attenta e proficua ricerca sul Capitale marxiano; ricerca che è, peraltro, alla base delle tesi sostenute nelle opere appena menzionate. Ciò che in prima battuta ci proponiamo in questo articolo è di esporre le linee fondamentali di questa ricerca, valutandone meriti e specificità. In conclusione, cercheremo di dire in quale direzione la rilettura del Capitale compiuta da Harvey ha influenzato il corso delle sue più recenti indagini teoriche.
Della ermeneutica marxiana di Harvey si può dire che è peculiare anzitutto l’ispirazione generale: nessun autore, fra coloro i quali hanno recentemente provato a riattivare il contenuto problematico della critica marxiana dell’economia politica, è stato più fermo di lui nel rivendicare l’esigenza che sia sul terreno della analisi della crisi e delle “contraddizioni” del capitalismo che debba essere verificata la validità teorica di tale critica. Si tratta di un approccio che, pur comportando una certa riduzione della molteplicità di temi e “aperture” problematiche che Marx è venuto promuovendo nella sua matura critica dell’economia politica, non determina una incongrua dogmatizzazione del dettato testuale marxiano: il Capitale è anzi considerato come una sorta di cantiere a cielo aperto, come un testo pieno di “empty boxes”, che occorre riempire di significati e contenuti. Una operazione di questo tipo non è peraltro rara nell’ambito del pensiero marxista contemporaneo: anche il filosofo francese Jacques Bidet, per esempio in Explication et reconstruction du Capital (PUF, Paris 2007), muove dall’ obiettivo di ripensare il Capitale a muovere dai “vuoti” del Capitale stesso. Tuttavia, mentre Bidet prova a riformulare il passaggio dalla sfera della circolazione a quella della produzione, quindi opera quasi esclusivamente all’interno del I libro del Capitale, Harvey lavora soprattutto sul raccordo fra I, II e III libro della stessa opera. La questione centrale è cioè quella della ricostruzione del nesso fra l’analisi del processo di produzione, contenuta nel I libro, e quelle del processo di circolazione (II libro) e di distribuzione del plusvalore fra le diverse classi sociali (III libro). Se si vuole ricollegare Marx con il paesaggio sociale e politico novecentesco e post-novecentesco – questo il proposito di Harvey – il contenuto del I libro non è sufficiente, ed ha anzi esiti fuorvianti.
Non è, in linea generale, una posizione di poco conto all’interno della storia del pensiero marxista. Già Rosa Luxemburg si era levata contro la tendenza di larga parte del pensiero marxista, alimentata da ragioni “politiche”, a concentrarsi sui contenuti del I libro del Capitale – che sembrava contenere tutto quanto fosse necessario a fondare l’azione delle organizzazioni del movimento operaio – trascurando il resto dell’opera. Per Luxemburg questa rimozione, soprattutto del II libro, aveva recato notevole nocumento al marxismo: il fenomeno del colonialismo, e cioè la ricerca di una domanda estera supplementare, era comprensibile solo alla luce del venir meno di una clausola restrittiva assunta da Marx nel I libro, e cioè la perfetta trasformazione, all’interno del ciclo di capitale, del valore della merce in capitale-denaro. Poiché nel capitalismo “reale”, non in quello ritratto nel I libro, la trasformazione del valore delle merci in denaro non è, per varie ragioni, affatto assicurata, continuare a lavorare con l’impianto analitico del I libro avrebbe significato condannarsi all’impotenza.
Sebbene di taglio più “accademico”, la critica – inaugurata dal padre degli economisti “austriaci”, Eugen Böhm Bawerk, e poi lungamente dibattuta in tutto il corso del Novecento – alla cosiddetta trasformazione marxiana dei “valori” del I libro nei “prezzi” del III libro, ha focalizzato al fondo il medesimo problema, l’impossibilità di superare le tensioni teoriche esistenti fra i diversi libri del Capitale. Sono tensioni, come appare sempre più in virtù della nuova edizione storico-critica delle opere di Marx, la MEGA2, ineliminabili, anche perché legate all’incompiutezza del Capitale, a quella circostanza per cui la maggior parte dei manoscritti rifluiti nel II e nel III libro sono stati redatti prima ancora che Marx pubblicasse nel 1867 la prima edizione del I libro.
Ma come è arrivato Harvey alla comprensione della centralità del II e del III libro del Capitale per la più piena valorizzazione della critica marxiana della economia politica? Harvey, intanto, si avvicina al Capitale, e più in generale al marxismo sul finire degli anni ’60, grazie a una esperienza tipica del mondo anglo-americano, quella dei Capital Reading Group. La lettura del Capitale e le lezioni universitarie che su di esso Harvey inizia a tenere con regolarità lo inducono a riconsiderare la sua originaria impostazione teorica, che era piuttosto segnata dall’epistemologia popperiana: il frutto di questo cambiamento di rotta è Social Justice and City (Johns Hopkins University Press, Baltimore 1973), intelligente confronto fra il paradigma liberale e quello socialista rispetto alla natura dei problemi urbanistici, che si conclude con un tentativo di operare una sintesi dell’uno e dell’altro. Ma Social Justice and City appare quasi subito ad Harvey non pienamente soddisfacente: le urban issues affrontate nel libro sono trattate senza aver previamente studiato a un più alto grado di generalità teorica le categorie di “capitale fisso”, “capitale finanziario” (fondamentale per comprendere il mercato immobiliare) e “rendita fondiaria”; categorie che in Marx sono collocate nel II e nel III libro del Capitale.
Dunque è per comprendere i problemi dell’urbanizzazione, uno dei fenomeni più decisivi della vita moderna, che Harvey si trova costretto ad affrontare direttamente i libri del Capitale meno frequentati nella storia del marxismo. La scelta è teoricamente onerosa e ha, in qualche modo, implicato una profonda ritessitura della trama concettuale del Capitale, i cui risultati vedranno la luce molti anni più tardi, nel 1982, con la pubblicazione dell’imponente The Limits to Capital. È a questo libro, il meno letto ma anche il più importante di Harvey, che faremo di seguito riferimento per spiegare la natura della sua riappropriazione di Marx. Su Marx, in verità, Harvey è tornato successivamente molte volte, da ultimo con un accurato commentario del I libro del Capitale, pubblicato per Verso nel 2010. Ma i risultati conseguiti da Limits non sono mai revocati in dubbio, semmai solo diversamente articolati.

Il “punto di vista” della circolazione di capitale

Limits comincia con una rapida rassegna – più rapida delle ricostruzioni standard – delle categorie fondamentali del I libro del Capitale (valore d’uso, valore, plusvalore ecc.). Se, tuttavia, la ricchezza in forma di valore è prodotta nel processo di produzione, la sua distribuzione è dettata dalla regola della competizione intercapitalistica. Tale competizione porterà a un prezzo medio di produzione, che dovrà tenere conto non solo della diversa grandezza dei singoli capitali investiti, ma dei differenti tempi di rotazione del capitale. Qui vi è la prima innovazione di Limits: mentre Marx aveva nel III libro calcolato il prezzo di produzione tenendo conto solo della diversa grandezza del capitale investito, con il capitale più grande a sottrarre ricchezza in forma di valore al capitale più piccolo, in Harvey la competizione che conduce alla fissazione del prezzo medio di produzione è anche quella fra capitali con differenti tempi di rotazione. Nei settori in cui il capitale riaffluisce più lentamente nelle mani dei suoi iniziali possessori, il volume dei profitti sarà, in una data unità temporale, minore. Per questa ragione, fino a quando non si formerà un prezzo medio di produzione, i capitali tenderanno ad addensarsi nei settori in cui si verifica un tempo di rotazione più veloce.
Se tuttavia, come indicato dal II libro del Capitale, il capitale con il più alto tasso di redditività è il capitale che ha un tasso più alto di “ritorni” in una data unità temporale, allora sarà fondamentale:
1) assicurarsi la realizzazione del valore della merce, e cioè la sua vendita effettiva;
2) abbattere i costi e i tempi di circolazione (i costi e i tempi di trasporto, di transazione, di marketing ecc.).
Il punto 1) ci immette direttamente nella questione delle condizioni di realizzazione del valore della merce, e cioè dell’esistenza di una domanda effettiva. Nel I libro non solo Marx non si preoccupa di determinare le condizioni di domanda, ma dischiude uno scenario teorico, caratterizzato dall’immiserimento relativo progressivo del proletariato e dalla crescita delle disuguaglianze di classe, che impedisce propriamente che quelle condizioni siano soddisfatte: come sperare di convertire merce in denaro (la vendita), se una fonte essenziale di domanda, quella costituita dai redditi della classe lavoratrice, viene, a causa del procedere del meccanismo accumulativo, progressivamente inaridita? Sennonché, e su ciò Harvey insiste lungamente in Limits, il diagramma dello sviluppo capitalistico schizzato soprattutto alla fine del I libro è subito smentito dal II libro, e in particolare dai suoi famosi “schemi di riproduzione”: questi presuppongono, infatti, una economia capitalistica divisa in due settori (beni di consumo e mezzi di produzione), fra i quali si stabilisce, pur in mezzo a molte tensioni e scosse di assestamento, un certo grado di equilibrio. E questo equilibrio comporta anche che le condizioni di domanda siano se non proporzionate almeno non disallineate dalla forma di movimento del processo di accumulazione. Il che significa che se ci si trasferisce sul terreno della circolazione capitalistica complessiva, dell’equilibrio fra i due settori principali della vita economica, le conseguenze (immiserimento e disuguaglianze), analizzate nel I libro, della spasmodica ricerca di plusvalore effettuata da ogni singolo capitalista attraverso i metodi del plusvalore relativo e assoluto, devono essere temperate. Il consumo della classe lavoratrice, insomma, dovrà crescere anch’esso.
Per Harvey nel II libro sono, quindi, poste le condizioni della “stabilizzazione automatica” del capitalismo cui abbiamo assistito, attraverso fordismo e keynesismo, nel Novecento. Con la giornata di lavoro di 8 ore pagata 5 dollari decisa da Henry Ford nel 1914 e i deficit spending keynesiani, ciò che viene seppellito è il capitalismo manchesteriano del I libro del Capitale. D’altro canto, ed è un punto su cui Harvey si è intrattenuto soprattutto nei suoi ultimi libri, la fase economica e sociale che si è aperta negli anni ’70 sembra aver ripristinato un modello di sviluppo capitalistico esemplato sullo schema teorico del I libro: il neoliberismo si caratterizza, infatti, a giudizio di Harvey, per aver smantellato del “patto socialdemocratico” del secondo dopoguerra tanto i meccanismi di “sostegno alla domanda” quanto le regolazioni istituzionali (economiche e politiche) della competizione intercapitalistica. Sono la debolezza della domanda e l’intensificazione della concorrenza a rendere oggi la circolazione capitalistica complessiva sempre meno equilibrata e soggetta a sbalzi e rotture.
Naturalmente, Harvey sa bene che la crescita dei consumi finali della classe lavoratrice o dei consumi collettivi non basta a risolvere il problema della “realizzazione”, della conversione della merce in denaro. Devono intervenire altri fattori: il consumo dei beni di lusso, da parte dei detentori di grandi ricchezze, e, soprattutto, l’acquisto di mezzi di produzione da parte di altri capitalisti per l’allargamento della propria base produttiva. Affinché tale acquisto sia eseguito, però, il capitalista deve anticipare un capitale o farselo anticipare: per diverse ragioni (perché strumento di centralizzazione dei capitali, di lubrificazione della circolazione ecc.) nel capitalismo questa operazione è, ed è stata, mediata dal sistema del credito. Il sistema del credito crea cioè moneta, la moneta di credito, prestandola al capitalista industriale per consentirgli di acquistare quel pacchetto aggiuntivo di mezzi di produzione funzionali all’allargamento del processo produttivo. Citando Marx, Harvey ricorda che questa creazione di moneta è un atto di fede “protestante”: se si tratta di un buon prestito, coronato dal pagamento dei dovuti interessi, si vedrà solo al termine del processo produttivo, quando si verificherà sul mercato se le nuove merci prodotte si sono trasformate in denaro oppure no.
Ma al di là della funzione giocata dal sistema del credito nella riproduzione sociale capitalistica, su cui a breve si ritornerà, questo ragionamento è decisivo anche sotto il profilo della “realizzazione”: se per il conseguimento di un qualche equilibrio fra offerta aggregata di beni e domanda aggregata risulta determinante l’acquisto di un nuovo contingente di mezzi di produzione, questo significherà che, in ultima analisi, la stabilizzazione del capitalismo è ottenibile soltanto attraverso il progresso dell’accumulazione. Solo l’accumulazione può stabilizzare l’accumulazione. Da un altro versante, ci viene riconsegnata l’immagine di un capitalismo che o è pura dinamicità o non è. Tutto ciò, peraltro – e qui crediamo che sia difficile non consentire con Harvey –, è in linea con l’esperienza storica: l’epoca di più forte stabilità del capitalismo, la meno punteggiata da crisi, crack ecc., è stata quella in cui il capitalismo è cresciuto di più, la cosiddetta golden age (1945-1975).
La centralizzazione creditizia e la mediazione dello Stato sono fondamentali anche in ordine alla realizzazione di quanto indicato nel punto 2), e cioè la necessità, per accelerare il tempo di rotazione del capitale, di abbattere i costi e i tempi di circolazione. Le grandi rivoluzioni nei mezzi di trasporto e di comunicazione, che rendono ciò possibile, sono indisgiungibili – dice qui Harvey ricollegandosi alle analoghe osservazioni di Marx intorno alle ferrovie nel capitolo XXIII del I libro del Capitale – dalla capacità del sistema del credito e dei pubblici poteri di radunare a questo scopo una ingente massa di capitale.
A livello teorico, le grandi rivoluzioni nei sistemi di trasporto e comunicazione sono richieste, per Harvey, da una necessità intrinseca al capitale stesso, il quale, per dirla con il Marx dei Grundrisse, “tende per sua natura a superare ogni limite nello spazio. La creazione delle condizioni fisiche dello scambio – ossia mezzi di comunicazione e di trasporto – per esso diventa necessaria in tutt’altra misura – diventa l’annullamento dello spazio mediante il tempo”. Lo spazio, la sussistenza autonoma dei momenti dell’essere, è un ostacolo da rimuovere per qualcosa, come il capitale, la cui più intima natura è di essere processo, pura temporalità ascensiva. In quanto tale, il capitale non “circola” soltanto quando, ultimato il processo di produzione, occorre scambiare la merce con altre merci. Esso è, per essenza, circolazione, fluida unità di momenti, ciascuno dei quali non può sospendere la sua continuazione nell’altro. Che cosa vuol dire questo, scendendo sul terreno economico-sociale? Vuol dire – dice Harvey in Limits ma anche, e con particolare energia, nel suo ultimo libro, L’enigma del capitale – che il capitale non può tollerare di giacere più del dovuto in ciascuna delle sue stazioni di sviluppo. Se ciò accade, e per esempio il capitale rimane “ozioso” nelle mani dei finanzieri, oppure dà vita a un processo produttivo più lungo della media, oppure si incorpora in merci che tardano a convertirsi in denaro, allora la conseguenza è la svalorizzazione del capitale stesso: è la crisi.
Finora abbiamo detto qualcosa sul resoconto che Harvey fornisce della prima e della terza delle stazioni di sviluppo del ciclo di capitale, lasciando da parte la seconda, quella propriamente produttiva. Sebbene quello di Harvey sia, a differenza di buona parte del marxismo novecentesco, più un marxismo della “circolazione” che della “produzione”, ciò non vuol dire che la sua attenzione per l’analisi del processo produttivo sia ridotta. Il punto focale della sua impostazione riguarda, tuttavia, di nuovo il “tempo”, in questo caso del processo produttivo. L’idea è che non sia vero che l’organizzazione del processo produttivo debba tendere immancabilmente verso l’integrazione verticale, verso la costituzione di unità di impresa di carattere monopolistico. È certamente conveniente, dice Harvey, fondere diverse unità di capitale sì da utilizzare, a parità di prodotto, una quota minore di capitale costante (di macchinari ecc.) rispetto al capitale variabile, al lavoro vivo. Al contrario, più imprese vi sono e più linee di produzione, con i mezzi di produzione ad esse collegati, vi saranno, rendendo impossibile le economie di scala. Ma il fatto è che la concentrazione monopolistica allunga il tempo di rotazione del capitale, perché i processi produttivi saranno necessariamente più complessi e rigidi. Il capitale di una grande impresa ritorna, maggiorato, al punto di partenza, dopo aver attraversato la fase della produzione e della circolazione, con più fatica rispetto al capitale di una impresa più piccola, la quale, facendo “circolare” più velocemente lo stesso, otterrà, sotto questo riguardo, una percentuale di profitti sul capitale anticipato più alta.
Il mix tecnologico-organizzativo che si installa all’interno di un processo produttivo sarà quindi l’esito di un “compromesso” fra la tendenza alla integrazione verticale e quella alla scomposizione orizzontale. Con ciò, Harvey batte in breccia uno dei topoi della cultura marxista novecentesca: la inevitabilità della concentrazione monopolistica. Di più: in Limits vi è la precisa consapevolezza che il grado di integrazione verticale raggiunto dalle imprese nel secondo dopoguerra fosse divenuto un freno per la ripresa del processo accumulativo e che perciò il capitale avrebbe dovuto selezionare un mix tecnologico-organizzativo più aperto alle spinte verso la scomposizione orizzontale (crescita del subappalto, delle subforniture etc.). Il libro è del 1982, e non si può dire che manchi di un suo carattere “profetico”: la discussione sulla cosiddetta “specializzazione flessibile” divamperà di lì a poco (con il libro di Piore e Sabel, The Second Industrial Divide, che è del 1984, i lavori di Zeitlin, Porter ecc.).

Assorbimento del surplus e postmodernismo

L’attenzione verso il piano della circolazione capitalistica complessiva comanda, tuttavia, anche un ulteriore passaggio d’analisi, che ci conduce alla novità più rilevante di Limits rispetto al punto di partenza marxiano. La novità è la seguente: la competizione intercapitalistica per la distribuzione del surplus, cui abbiamo già accennato, determina un aumento del capitale costante, ma anche, e progressivamente, un aumento della massa di surplus disponibile (è la dinamica che Marx inscrive sotto la categoria di “plusvalore relativo”); ma se così è, si porrà con sempre più urgenza la necessità di trovare per questo surplus crescente sbocchi adeguati e remunerativi. Se ciò non accade, il destino sarà quello della svalorizzazione del capitale, e cioè, di nuovo, la crisi. Riecheggiando, ci pare, i Baran e Sweezy di Capitale monopolistico, Harvey definisce tale questione come quella dell’“assorbimento del surplus”. Harvey ritiene che siano stati tre, essenzialmente, i modi che il capitalismo ha adottato per rispondere a questa sfida:
1) investimenti in capitale fisso sociale (infrastrutture, porti, autostrade, ecc.);
2) sviluppo delle attività finanziarie (che comprende anche la trasformazione della rendita immobiliare in titolo finanziario);
3) sviluppo della divisione geografica del lavoro oltre che di quella tecnica e sociale.
Se, empiricamente, i modi sono essenzialmente tre, concettualmente sono due: si tratta infatti di una ridislocazione spaziale (punto 1 e 3) e temporale (punto 2) della massa di surplus crescente.
Lo spazio, che il capitale vuole, in linea di principio, annullare, torna quindi a giocare un ruolo di una certa rilevanza allorché si tratta di impiegare in modo redditizio il surplus. Capire di ciò le ragioni, dice Harvey, non è difficile: gli investimenti in capitale fisso sociale o nel ridisegno degli assetti urbanistici e geografici (dalla gentrification allo sviluppo improvviso di nuove città, da ultimo quelle cinesi come Shenzen ecc.) comportano, per definizione, la mobilitazione di un ampio quantitativo di risorse. Ma lo stesso accade alle attività finanziarie: la scommessa sul valore futuro (ecco la ridislocazione temporale) dei titoli accende una corsa ai rendimenti più alti che attrae a sé un gran volume di risorse monetarie.
Non sono queste, tuttavia, “soluzioni”, in ultima battuta, pacificatrici. Si apre, anzi, un nuovo campo di tensioni, complesso e arduo da governare. La crescita delle attività finanziarie offrirà certo un sollievo agli investitori, visti gli alti tassi di redditività che usualmente vi si connettono, ma avrà pure la conseguenza di acuire la gravità delle crisi economiche (attraverso lo scoppio delle bolle, e quindi la necessità di riallineare i valori pretesi con quelli reali delle attività economiche). E gli investimenti in capitale fisso sociale offriranno, certo, all’abbondante surplus uno spatial fix vasto e ramificato, ma avranno pure la spiacevole conseguenza di estendere i tempi di rotazione del capitale, considerata la lunghezza dei processi produttivi che ne stanno alla base. Un’analoga contraddizione investe i processi di urbanizzazione o il city management: per un verso, la valorizzazione della città, attraverso lo sfruttamento di tutti i possibili vantaggi competitivi che essa può garantire, implica il benefico impiego di quote crescenti di surplus; per altro verso, la specifica vischiosità degli investimenti urbani – la necessità di attendere molto tempo prima che i loro costi siano “ammortizzati” – impedisce di mettere in atto una politica urbana spregiudicata e più “volatile”.
L’integrazione dello “spazio”, degli aspetti geografici e urbani, nell’analisi del processo accumulativo rappresenta il merito principale del disegno di Harvey. Prima di lui, solo Henri Lefebvre e, in modo minore, Gerald Cohen avevano provato a ritagliare nel pensiero marxista una finestra dedicata ai problemi posti dallo “spazio”. Questa sensibilità – e del resto Harvey non ha mai smesso di essere anzitutto un geografo e un urbanista – gli ha permesso poi di scrivere La crisi della modernità, una delle più celebri ricostruzioni della condizione postmoderna, di quella condizione, cioè, il cui concetto nasce, come è largamente noto, proprio nel contesto del dibattito e della pratica architettonica. Sennonché ciò che qui è importante sottolineare è che la tesi portante de La crisi della modernità – e cioè che il postmodernismo rappresenti soltanto un prolungamento del modernismo e non una sua smentita, risolvendosi in una alterazione dell’equilibrio faticosamente stabilitosi nel modernismo fra valori “eterni” e “universali” e valori legati alla “contingenza”, a tutto vantaggio di quest’ultimi – non sarebbe mai venuta alla luce senza la preliminare ripresa della lettura di Marx avvenuta in Limits. Senza i nuovi attrezzi concettuali forgiati in Limits a contatto con il Marx del II e del III libro del Capitale, e senza in particolare la valorizzazione del concetto di “tempo di rotazione del capitale”, sarebbe infatti risultato più difficile ad Harvey osservare la trasformazione economica, politica e culturale realizzatasi nel corpo dei paesi occidentali a muovere dai primi anni ’70. Una trasformazione avvenuta nel segno della “compressione spazio-temporale”, della rinnovata sottomissione all’inquieto principio di determinazione del tempo delle compatte forme di mediazione sociali e culturali “moderniste”.

Le lezioni di Giovanni Arrighi

Le lezioni di Giovanni Arrighi

di Giorgio Cesarale

“Introduzione” a Giovanni Arrighi, Capitalismo e (dis)ordine mondiale, a cura di Giorgio Cesarale e Mario Pianta, manifestolibri, Roma 2010, pp. 6-27

[drop_cap style=”2″ bgcolor=”#dddddd” color=”#787882″]N[/drop_cap]el dibattito sulla attuale crisi economica globale è diventato ormai quasi senso comune la critica all’incapacità della scienza economica dominante di indicare e interpretare adeguatamente le cause di questa crisi, e in particolare di uno dei suoi fenomeni più abbaglianti, e cioè il processo di finanziarizzazione. Che legami ha questo processo con ciò che, peraltro impropriamente, si chiama “economia reale”? Che nesso vi è fra questo processo e la vorticosa espansione economica di intere regioni del pianeta (il Sud-est asiatico delle quattro “tigri”, della Cina, del Vietnam ecc.)? Quale ruolo giocano in esso gli Stati, da quelli in ascesa a quelli in più evidente difficoltà? Sono domande cruciali, che obbligano a fornire una risposta alta e convincente. D’altro canto, per rispondere a queste domande è necessario collocare l’attuale crisi e la turbolenza globale che l’accompagna entro un orizzonte storico e geografico più largo. Uno “sguardo corto” sulla crisi è precisamente ciò che può impedire di comprenderla in tutta la sua complessità. E tuttavia è proprio da questo “sguardo corto” che la maggior parte degli osservatori e degli studiosi appare caratterizzata. Le eccezioni sono rare: tra queste c’è Giovanni Arrighi (1937-2009), una delle figure più rilevanti, insieme ad Andre Gunder Frank, Immanuel Wallerstein e Terence Hopkins, dell’approccio “sistemico” allo studio della storia e della struttura del capitalismo globale, dei movimenti sociali anticapitalistici, delle disuguaglianze mondiali di reddito e dei processi di modernizzazione. Nel discorso di Arrighi l’attuale crisi e l’inarrestabile processo di finanziarizzazione che le si collega sono interpretati alla luce dell’intera traiettoria di sviluppo del capitalismo mondiale, dalle città-Stato italiane rinascimentali all’ascesa degli Stati uniti alla guida del sistema economico internazionale. In questa prospettiva, il processo di finanziarizzazione che segna la nostra epoca deve essere inteso sia come sintomo della decadenza dello Stato attualmente egemone a livello internazionale, gli Stati uniti, sia come condizione della riapertura, in un diverso contesto geografico, di un nuovo ciclo di espansione economica “materiale” (industriale e commerciale).
L’eccezionalità della figura di Arrighi, il quale, e non solo ai nostri occhi, appare come uno dei massimi studiosi dell’economia-mondo capitalistica della seconda metà del Novecento, ci fa ritenere che siano ormai giunti i tempi per avviare una riflessione a tutto tondo sulla sua opera. È un compito, questo, di cui anche altrove si è espressa l’importanza, e di cui urge preparare le condizioni di realizzazione. È anche a tale scopo che è stata concepita la presente iniziativa editoriale: essa infatti contiene materiali – dall’intervista autobiografica concessa quasi in punto di morte a David Harvey (uno dei più insigni teorici marxisti contemporanei, autore de La crisi della modernità e Breve storia del neoliberismo) ad alcuni dei più importanti, e ancora inediti in italiano, saggi di teoria sociale e di interpretazione storica scritti da Arrighi – che possono aiutare a ricostruire meglio il suo profilo intellettuale complessivo, il senso della sua operazione teorica.
Su questi scritti e sulle ragioni che ci hanno condotto a proporne la traduzione in italiano diremo qualcosa al termine dell’introduzione. In via preliminare, tuttavia, vorremmo provare a offrire al lettore il nostro punto di vista sia sull’itinerario intellettuale percorso da Arrighi sia sul significato della sua opera.

L’economia politica dell’Africa

In relazione ai “fatti” che hanno costellato la sua biografia vi è, in verità, poco o nulla da aggiungere a quanto è detto da Arrighi stesso nella intervista ad Harvey. Proveniente dai ranghi di una famiglia borghese antifascista, Arrighi compie gli studi universitari di economia alla Bocconi con l’intenzione di procurarsi le competenze necessarie a dirigere l’azienda del padre, nel frattempo deceduto. Ma, come capo d’azienda, Arrighi si accorge subito di non riuscire: decide perciò di cambiare ambiente di lavoro e di proseguire la carriera accademica, diventando assistente volontario. È un’occupazione, però, che non gli fornisce di che mantenersi: Arrighi è perciò costretto prima ad accettare un impiego come apprendista manager presso la multinazionale anglo-olandese Unilever e poi a candidarsi per un posto di docente di economia presso una sede distaccata in Rhodesia (l’odierno Zimbabwe) dell’Università di Londra. Sono gli anni in Africa della “decolonizzazione”, delle lotte di liberazione nazionale e della formazione di nuove entità statali autonome. Arrighi si fa da subito intellettualmente e anche politicamente partecipe di questa atmosfera: il suo primo e importante saggio, The Political Economy of Rhodesia (da noi tradotto poi con il titolo Struttura di classe e sovrastrutture in Rhodesia), è scritto proprio nel 1965, e cioè nell’anno in cui di solito si fa cadere la fine del processo di decolonizzazione.
Arrighi fin dal suo arrivo in Rhodesia non nutre illusioni sulla possibilità di trasformare il riscatto nazionale dei popoli africani in un riscatto economico e sociale: la struttura polarizzata del capitalismo mondiale, per la riproduzione della quale vi è la necessità da parte dei “centri” del sistema di drenare dividendi e profitti dagli investimenti compiuti nei paesi africani e di realizzarli in modo molto “selettivo” (tutti ad alta intensità di capitale e non indirizzati alla produzione di beni strumentali), è un serio ostacolo a un decollo, in particolare industriale, di questi paesi. La Rhodesia rappresenta peraltro, da questo punto di vista, una sorta di case study privilegiato: è infatti uno dei pochi paesi africani in cui sia esistita, per uno strano scherzo del destino – i sovrainvestimenti nel settore minerario, causati da un errore di valutazione, della British South Africa Company, e il tentativo, da parte di quest’ultima, di recuperarli stimolando uno sviluppo del paese e delle sue forze sociali –, una borghesia agraria nazionale in qualche modo interessata a puntare sulla crescita del paese. Non solo: è uno dei pochi paesi dell’Africa sub-sahariana ad aver ospitato un compiuto processo di proletarizzazione della propria forza-lavoro agricola, soprattutto a causa del crollo della produttività subito, tra gli anni Trenta e Sessanta, dai terreni posseduti dai produttori agricoli indipendenti. Esistendone le condizioni sociali (la presenza, da un lato, di una borghesia interessata all’allargamento della base produttiva e, dall’altro, di una riserva di forza lavoro disponibile a vendersi sul mercato), sembra offrirsi uno scenario ideale per una transizione compiuta al capitalismo; eppure tale transizione non si dà. E non si dà per ragioni che successivamente Arrighi chiamerà “sistemiche”: ciò che conta in ultima istanza è la struttura del capitalismo a livello mondiale, non la particolare configurazione produttiva e sociale all’interno di un determinato Stato-nazione. Se il sistema capitalistico mondiale poggia sulla costante riproduzione dell’asimmetria fra regioni forti e deboli del pianeta, provare a guidare un paese “arretrato” verso lo “sviluppo” è un’impresa senza possibilità di successo. A meno che, dice qui Arrighi ispirato da Samir Amin, non si lavori sulla déconnexion, sullo sganciamento, dai paesi capitalistici sviluppati, e si provveda a rompere con forza il cordone ombelicale che lega quest’ultimi ai paesi del Terzo mondo.
Si apre, con ciò, il versante più politico della riflessione di Arrighi sull’Africa tropicale; versante che trova la sua più ampia esplicitazione nei saggi scritti dopo che il governo allora in carica in Rhodesia lo espelle dal paese per attività sovversive, costringendolo a trovare riparo in Tanzania, all’università di Dar es Salaam. In questi saggi (L’offerta di lavoro in una prospettiva storica, Società multinazionali, aristocrazie del lavoro e sviluppo economico nell’Africa tropicale, Socialismo e sviluppo economico nell’Africa tropicale, Nazionalismo e rivoluzione nell’Africa sub-sahariana) e, in specie negli ultimi due, scritti con John Saul, Arrighi radicalizza la propria posizione, contestando i luoghi comuni del socialismo africano e del marxismo più volgare. Gli obiettivi critici sono, in particolare, due:
1) l’idea che occorra, per garantire lo “sviluppo”, “scendere a patti” con il grande capitale internazionale;
2) l’idea che non sia economicamente e politicamente produttivo intervenire sulla distribuzione del reddito di questi paesi, malgrado questa consegni nelle mani delle burocrazie statali e degli scaglioni medi e superiori dei lavoratori, anche formalmente proletarizzati, delle grandi imprese private una quota della ricchezza sociale nazionale assolutamente sproporzionata.
Su quest’ultimo punto, e sulla sua importanza anche negli sviluppi successivi del continente africano, Arrighi non ha peraltro mai smesso di insistere: nel suo ultimo, corposo, saggio sulle vicende africane, The African Crisis, apparso nel 2002 sulle pagine della “New Left Review”, la stessa involuzione autoritaria degli Stati africani, che li ha resi facile preda dei golpe militari, è fatta risalire alla tendenza delle burocrazie, pubbliche e private, di conservare a ogni costo i privilegi garantiti loro dalla esistente distribuzione del reddito.

Crisi ed egemonia nell’Italia degli anni Settanta

In Tanzania Arrighi rimane tre anni, dal 1966 al 1969, fino a quando non è richiamato in Italia a insegnare presso uno degli epicentri del movimento del ’68, la nuova Facoltà di Sociologia dell’Università di Trento. Qui il suo insegnamento riscuote un successo quasi immediato. Gli studenti del movimento, infatti, pur con qualche rilevante dissenso interno – che Arrighi nell’intervista ad Harvey rievoca in modo sapido – affluiscono copiosi alle sue lezioni, attratti dalla fama di studioso “terzomondista” e “radicale” che Arrighi si è fatto in virtù della pubblicazione, nell’estate del 1969 presso la casa editrice Einaudi, del suo primo libro, Sviluppo economico e sovrastrutture in Africa, che raccoglie tutti i suoi saggi redatti nel periodo africano.
Il periodo italiano dura dal 1969 al 1979, ed è a sua volta suddiviso in due parti: nella prima, che va dal 1969 al 1973, l’azione di Arrighi si svolge sull’asse Milano-Torino, e cioè tra la sinistra extraparlamentare e, per dirla con Raniero Panzieri, le lotte operaie nello sviluppo capitalistico; nella seconda, invece, che va dal 1973 al 1979, Arrighi, trasferitosi a insegnare a Cosenza, all’Università della Calabria, abbandona di nuovo il terreno dello “sviluppo”, per reimmergersi nello studio dei processi di proletarizzazione degli immigrati, questa volta calabresi.
Nelle ricerche condotte nella fase calabrese Arrighi porta a nuova verifica il risultato cui era già giunto negli studi sul reclutamento della forza-lavoro in Rhodesia: la proletarizzazione, la creazione di grandi riserve di forza lavoro prive dell’accesso ai mezzi di produzione, non è, contro Marx e il marxismo, la conditio sine qua non dello sviluppo capitalistico. E non lo è perché, sia per i rhodesiani migrati dalla campagna alla città sia per i calabresi spostatisi in Nord Italia, la proletarizzazione coincide con la richiesta di alti salari, i quali abbassano il saggio di profitto – e quindi la convenienza a investire dei capitalisti – e procurano al proletario quelle risorse monetarie che possono aiutarlo a ritrasformarsi in soggetto economico indipendente. Come si può agevolmente constatare, Arrighi viene qui articolando una tesi che già lo colloca nei fatti dal lato della scuola sistemica di Wallerstein, Frank e Hopkins, che, come è noto, ha largamente insistito sulla non centralità del lavoro salariato per la nascita e la promozione dello sviluppo capitalistico. In forme diverse, è una tesi che emergerà anche dai suoi più recenti lavori sulla Cina, riassunti nel capitolo 5 di questo volume.
Sennonché, per quanto importante, a noi non pare che la fase calabrese aggiunga molto di più a quanto già maturato da Arrighi in Africa. Più determinante ci pare il corpo di esperienze teorico-pratiche acquisite da Arrighi a contatto con la fase ascendente del ciclo delle lotte operaie italiane degli anni Settanta, quella che va dall’autunno caldo del 1969 alla stagione contrattuale del 1973. In questa postazione, Arrighi avverte in presa diretta i primi effetti dello scatenarsi della crisi capitalistica mondiale nel quinquennio 1968-1973, dall’apparizione delle prime vampate inflazionistiche negli Stati uniti allo shock petrolifero, passando per la fine, sancita da Nixon nel 1971, della convertibilità fra dollaro e oro. E subito avverte l’importanza di questa crisi: come interpretarla? Che cosa ne sarà dell’ordine mondiale a egemonia statunitense stabilitosi dopo la fine della Seconda guerra mondiale? Che conseguenze avrà tutto ciò per i movimenti sociali anticapitalistici?
Al di là dei molteplici e apparentemente divergenti interessi tematici che Arrighi ha coltivato lungo il resto della sua vita, a noi pare che questo sia stato il fuoco principale della sua attività teorica dopo il 1973. Non a caso, uno dei testi più rilevanti di Arrighi negli anni Settanta è il saggio Verso una teoria della crisi capitalistica. In questo saggio, Arrighi comincia ad articolare una distinzione teorica cui terrà fede fino al suo ultimo libro, Adam Smith a Pechino, e cioè quella fra una crisi capitalistica causata dalla caduta del saggio di profitto e una crisi capitalistica causata dalla sovrapproduzione, dall’assenza di domanda di merci. Entrambe sono determinate dal livello di remunerazione della forza-lavoro salariata: solo che in un caso, il primo, la crisi è determinata dall’alto livello di remunerazione (e di potere in fabbrica) del lavoro salariato, che diminuisce la quota dei profitti disponibili ai capitalisti; nell’altro, il secondo, la crisi è determinata dal basso livello di remunerazione (e di potere in fabbrica) del lavoro salariato, che, poiché sul mercato ha poco da spendere, lascia invenduto un grande quantitativo di merci. Arrighi era – e lo è in parte rimasto fino alla fine – dell’idea che la crisi mondiale scatenatasi negli anni Settanta fosse del primo tipo, in virtù dell’elevato potere contrattuale e politico conquistato nella golden age dalle organizzazioni sindacali e politiche della classe operaia. Questo provvedeva, contro il parere a riguardo di buona parte della sinistra marxista e non, a differenziare la crisi degli anni Settanta da quella degli anni Trenta, che era stata, invece, una crisi del secondo tipo, una crisi da sovrapproduzione.
Pur non priva di interesse e di un certo grado di utilità euristica, questa distinzione non ci sembra tuttavia “tenere”: tutto il peso, nella eziologia delle crisi capitalistiche, è fatto ricadere sulla forza, contrattuale e politica, della classe operaia, dimenticando il nesso, altrettanto fondamentale nella genesi delle crisi capitalistiche, fra le rivoluzioni tecnologiche e la crescita delle pressioni competitive. Insomma, senza considerazione della crescita del quoziente tecnologico della produzione e della concorrenza, un adeguato schema interpretativo della crisi non è articolabile. Arrighi di questo in qualche modo si è venuto progressivamente rendendo conto, tant’è che sia in Lungo XX secolo, il suo opus magnum, sia in Adam Smith a Pechino, è venuto rettificando il suo schema iniziale di interpretazione dell’origine della crisi degli anni Settanta, facendo adeguato spazio alla questione della intensificazione, negli anni immediatamente precedenti al suo scoppio, della concorrenza intercapitalistica.
V’è da dire, peraltro, che la fedeltà all’idea che fosse stato l’elevato tasso di conflittualità operaia a determinare lo scoppio della crisi non ha sempre reso ad Arrighi un buon servizio in termini analitici: fino ad anni ’80 inoltrati, infatti, Arrighi ha ritenuto irrevocabile la forza conquistata dalla classe operaia nei paesi del centro, con la conseguenza di sottovalutare, forse più del dovuto, gli effetti sociali della rivoluzione monetarista e neoliberale di Reagan e della Thatcher.
In ogni caso, anche se per altri motivi, lo schema elaborato con Verso una teoria della crisi capitalistica comincia ad apparirgli non pienamente soddisfacente già a metà degli anni Settanta, allorché inizia la redazione di Geometria dell’imperialismo. Ciò che in quello schema non trovava posto erano essenzialmente due punti:
1) lo sviluppo ineguale del capitalismo a livello mondiale;
2) la composizione etnica e culturale della forza-lavoro a livello mondiale.
Sono due punti caratteristicamente “leniniani”, due pilastri della teoria leniniana dell’imperialismo. Ma ad Arrighi la teoria leniniana dell’imperialismo, contrariamente a gran parte della sinistra rivoluzionaria del tempo, appariva, ed è sempre più apparsa dopo, largamente inservibile. A renderla tale era stato lo sviluppo dei rapporti economici e politici dopo la Seconda guerra mondiale: la fase della acuta conflittualità interimperialistica, quella nella quale Lenin aveva forgiato la sua teoria, era terminata e al suo posto era subentrato l’impero informale statunitense, la “pacifica” ricostruzione dell’ordine del mercato mondiale sotto l’egida delle agenzie economiche e politiche internazionali a guida statunitense (Onu, Fmi, Banca mondiale ecc.). La categoria di “imperialismo” era quindi diventata senza referente oggettivo. Per dissiparne fino in fondo l’indeterminatezza, Arrighi in Geometria dell’imperialismo allestisce una raffinata analisi, basata su una matrice teorica ricavata da Imperialism di Hobson: vi sono quattro diversi tipi di relazioni interstatali in epoca moderna (colonialismo, impero formale, impero informale, imperialismo), e l’errore di Lenin è stato di pensare che l’imperialismo segnasse, all’interno del sistema capitalistico, la fase “suprema” di sviluppo delle relazioni interstatali.
Si tratta di un punto cui Arrighi non rinuncerà più, e che anzi troverà ulteriore esplicitazione nella sua più matura teoria sistemica. Certo, una critica della categoria leniniana di “imperialismo” che fa a meno di indagare quello che a noi appare come il suo nocciolo teorico (l’imperialismo come fase contrassegnata dal dominio del capitale finanziario inteso come unità di capitale bancario e industriale) non si può dire propriamente riuscita. Se si vuole, questa è la spia di un problema che, in qualche modo, Arrighi si è, fin da allora, trascinato dietro. Il problema è il seguente: Arrighi diventerà in seguito famoso come uno dei più acuti teorici della centralità, entro l’assetto capitalistico contemporaneo, del processo di finanziarizzazione. E tuttavia, come hanno notato eminenti critici (Peter Gowan, Robert Pollin, Richard Walker), non è mai chiaro in Arrighi che cosa la categoria di “finanza” celi dentro di sé. Le operazioni finanziarie saranno sempre analizzate a un grado troppo alto di generalità teorica, non saranno mai indagate nella loro concretezza. Il sospetto che questi critici hanno avanzato è che l’incapacità di Arrighi di svolgere una analisi concreta della finanza nasconda una fondamentale indeterminatezza concettuale, analoga a quella da egli rimproverata all’imperialismo leniniano.
Comunque sia, ad Arrighi va riconosciuto il merito di aver colto fin dall’inizio, e di averlo ribadito anche in seguito, che l’aprirsi della crisi capitalistica mondiale non avrebbe coinciso con il riaccendersi di rivalità di tipo “mercantilistico” e con la ripresa di politiche protezionistiche. Come è soprattutto argomentato in un saggio di grande densità teorica, Una crisi di egemonia, a impedire la resurrezione di queste rivalità e di queste politiche erano, in particolare, due caratteristiche apparse nell’ordine economico mondiale soprattutto a muovere dalla fine della Seconda guerra mondiale:
1) il prevalere dell’investimento diretto all’estero sul “semplice” commercio internazionale;
2) una competizione oligopolistica giocata non sui prezzi ma sulla innovazione di prodotto.
Entrambe queste caratteristiche hanno a che fare con il nuovo tipo di impresa insediatosi sulla scena economica mondiale nel Novecento: la multinazionale o transnazionale, integrata verticalmente e governata tramite una robusta burocrazia manageriale. Ora, dice Arrighi riferendosi alla prima caratteristica, elevare barriere all’investimento diretto all’estero di questo tipo di impresa o potrebbe risultare inutile – estendendosi queste imprese non attraverso transazioni, ma attraverso apertura di filiali nei paesi in cui si effettua l’investimento – o potrebbe essere controproducente, perché impedirebbe, suscitando reazioni omologhe nei paesi concorrenti, alle imprese transnazionali del paese “mercantilista” o “protezionista” di compiere le medesime operazioni di espansione. La competizione, invece, giocata non sui “prezzi” ma sulle innovazioni di “prodotto” impedisce, più semplicemente, che si scatenino “guerre di prezzo”, capaci di minacciare seriamente per ciascuna impresa transnazionale il livello dato di domanda delle merci.
La vera posta in gioco della crisi degli anni Settanta – e con ciò ci siamo approssimati a uno dei punti più qualificanti del discorso di Arrighi – era costituita dalla capacità degli Stati uniti di continuare a fungere da regolatore del mercato mondiale. Questa capacità, dice Arrighi a cavallo fra anni Settanta e anni Ottanta, era stata definitivamente mandata in frantumi. Gli Stati uniti, infatti, soprattutto dopo aver sancito nel 1971 la fine della convertibilità fra dollaro e oro, avevano rinunciato a rappresentare gli interessi generali della intera classe capitalistica mondiale, per badare solo alla crescita delle attività capitalistiche localizzate entro i propri confini. Gli Stati uniti avevano smesso, cioè, di essere gramscianamente “egemonici”, abbandonando il mercato mondiale all’instabilità e all’anarchia. Oggi è diventato abbastanza comune, anche presso gli studiosi di relazioni internazionali, fare ricorso, per indagare le dinamiche di potere mondiali, alla categoria gramsciana di “egemonia”. Ma non bisognerebbe dimenticare di rendere merito a coloro, e Arrighi è fra questi, che per primi hanno reso ciò possibile, esplorando le potenzialità in termini di interpretazione delle relazioni internazionali contenute nel concetto gramsciano di “egemonia”.
In un certo senso, il saggio Una crisi di egemonia si colloca teoricamente – pur essendo stato pubblicato qualche anno più tardi della sua conclusione – al margine estremo del periodo italiano. Questo perché ci pare che qui Arrighi tenda a ragionare sulla crisi degli anni Settanta in termini più strettamente marxisti di quanto farà in seguito. L’idea che soggiace al saggio è ancora, infatti, quella tipica di molte delle interpretazioni marxiste della crisi: dopo un trentennio di matrimonio felice fra Stato e capitale, quest’ultimo, per fuoriuscire dalla crisi di redditività che lo investe a partire dagli inizi degli anni Settanta, avrebbe rotto questo matrimonio, e le regole scritte e non scritte che lo avevano suggellato. Il capitale, cioè, per dare piena soddisfazione ai suoi impulsi accumulativi avrebbe riguadagnato completa libertà d’azione, soprattutto rispetto ai vincoli imposti dai compromessi sociali e politici stipulati nella fase precedente, quella del boom.

L’incontro con la scuola sistemica

Nel 1979, con il suo trasferimento a Binghamton, alla State University di New York e al Fernand Braudel Center, si apre il periodo americano di Arrighi, che è durato fino alla morte nel 2009. Questo periodo coincide con una più piena inscrizione della sua operazione concettuale sotto le insegne della teoria sistemica di Wallerstein, Frank e Hopkins e con una riformulazione dello schema di interpretazione della crisi fino ad allora adottato. In realtà, come abbiamo già anticipato, i legami di Arrighi con i sistemici sono stati profondi fin dagli inizi: Wallerstein e Frank sono citati con molto favore per le loro tesi avverse allo “sviluppo” e alla “modernizzazione” fin da Sviluppo economico e sovrastrutture in Africa. Per ricapitolare, quattro ci paiono anzitutto gli elementi sistemici dell’Arrighi del periodo africano e italiano:
1) la superiorità di un approccio analitico che indaghi il capitalismo su scala mondiale e non su scala nazionale;
2) l’articolazione gerarchica del sistema capitalistico mondiale, la sua divisione in zone centrali e periferiche;
3) la disgiungibilità di proletariato e capitalismo;
4) l’importanza dei gruppi di status (le identità di razza, nazione e genere) nella composizione sociale e politica della forza-lavoro mondiale.
Sennonché, malgrado l’ispirazione sistemica abbia avvolto Arrighi fin dagli inizi, non si deve sottovalutare l’impatto avuto sul suo pensiero dal trasferimento negli Stati uniti e dal rafforzamento della sua collaborazione con i principali esponenti della scuola sistemica. A noi, in particolare, pare che i sistemici siano stati decisivi nello sviluppo intellettuale di Arrighi soprattutto per averlo indirizzato verso l’apprezzamento della centralità dell’insegnamento di Fernand Braudel per la comprensione del capitalismo moderno. Fino agli ultimi scritti del periodo italiano, Braudel è pressoché assente; la sua figura comincia appunto a stagliarsi con nettezza dopo l’apertura della collaborazione con i sistemici.
Braudel rappresenta per Arrighi un punto di svolta perché gli fornisce le basi per comprendere il nesso fra capitalismo e ciò che Polanyi ha chiamato haute finance. Dicevamo in precedenza che nell’indagine sulla categoria di ‘imperialismo” Arrighi aveva mancato il terreno del capitalismo finanziario. L’esclusione, o poco più avanti la sottovalutazione, nella considerazione analitica di questa categoria del ruolo giocato nella sua elaborazione da Hilferding ne erano state manifestazioni eloquenti. Eppure, fin dagli anni Settanta Arrighi non aveva trascurato di osservare la crescente propensione del capitale a effettuare, per sfuggire alla compressione dei profitti sul terreno produttivo, investimenti di tipo finanziario. La tendenza si era poi rafforzata decisamente a partire dal ’79, con il repentino e vertiginoso rialzo dei tassi di interesse deciso dalla Federal Reserve a guida Volcker, con la nuova politica economica di Reagan e la crisi messicana del debito nel 1982. Come interpretare, però, questo revival della finanziarizzazione, posto che la posizione leniniana, che fa della finanziarizzazione lo stadio “supremo” del capitalismo, era per Arrighi ormai irrimediabilmente compromessa?
È qui che sopraggiunge Braudel: questi infatti aveva osservato in Civiltà materiale, economia e capitalismo, che, da un lato, la finanziarizzazione è una caratteristica ricorrente dello sviluppo capitalistico fin dal XVI secolo , e che, dall’altro lato, quando questa finanziarizzazione si dà, essa è sintomo dell’“autunno”, della decadenza, di un certo ciclo egemonico. Di colpo, ad Arrighi venivano offerti i mezzi per interpretare il nesso fra crisi e finanziarizzazione, emerso negli anni Settanta, fuori dallo schema leniniano: tale nesso poteva ora essere interpretato su uno sfondo storico più largo e complesso, quello costituito dal capitalismo nella sua intera traiettoria di sviluppo, e, soprattutto, poteva ora essere compreso come indice dell’obsolescenza di una egemonia. L’esplosione negli anni ’80 della finanziarizzazione all’interno della cittadella capitalistica statunitense era perciò sintomo dell’avanzamento del processo di decadenza di quest’ultima, anziché, come argomentato da più parti, della sua rinascita.
Con ciò, anche i legami di Arrighi con la scuola sistemica diventano più intimi. Arrighi accetta ora dei sistemici le seguenti tesi:
1) il capitalismo è un modo di accumulazione di ricchezza e non, come in Marx, un modo di produzione;
2) come tale, il capitalismo ha una storia più lunga di quella tradizionalmente assegnatagli dai marxisti. Non nasce nel XVIII secolo, con la “rivoluzione industriale”, ma alla fine del Medioevo;
3) in questa storia, il capitalismo è stato contrassegnato dal succedersi di diversi cicli egemonici, ovvero dalla nascita, dallo sviluppo e dal tramonto di diverse egemonie.
4) queste egemonie si esercitano sull’insieme, gerarchicamente articolato, dell’economia-mondo capitalistica, e cioè su quella combinazione funzionale, tipica della modernità, fra unità del mercato mondiale, divisione internazionale del lavoro e sistema interstatale.
5) i soggetti egemonici sono nell’economia-mondo capitalistica gli Stati, i quali esercitano una leadership sia sul sistema-mondo nel suo complesso, regolandolo e ordinandolo a loro immagine e somiglianza, sia sugli altri singoli Stati.
Nella versione di Arrighi, consegnata soprattutto al Lungo XX secolo, i cicli egemonici sono quattro:
1) il ciclo genovese-iberico, dal XV secolo agli inizi del XVII;
2) il ciclo olandese, dalla fine del XVI secolo alla metà del XVIII;
3) il ciclo britannico, dalla seconda metà del XVIII secolo agli inizi del XX;
4) il ciclo statunitense, dalla fine del XIX secolo fino ad oggi.

Egemonia e ciclo sistemico di accumulazione

Ma che cosa regola il ritmo vitale delle egemonie, la loro ascensione e poi il loro tramonto? È qui che Arrighi introduce la sua idea forse più originale – che gli garantisce un posto di assoluta preminenza entro la scuola sistemica contemporanea – e cioè quella di “ciclo sistemico di accumulazione”. Wallerstein aveva detto che uno Stato era da considerarsi in posizione egemonica all’interno dell’economia-mondo capitalistica quando le imprese che in esso risiedono operano in modo più efficiente delle altre in tutte e tre le “maggiori arene economiche – produzione agro-industriale, commercio, e finanza. Il margine di efficienza di cui parliamo deve essere così grande da consentire a queste imprese di mettere fuori gioco le imprese che risiedono in altre grandi potenze, non solo nel mercato mondiale in generale, ma anche in particolar modo all’interno dei mercati interni delle stesse potenze rivali”. Arrighi fa un passo innanzi: tenta di descrivere la logica interna di ogni ciclo egemonico. E questa logica è rinvenuta nella marxiana formula generale del capitale (D-M-D’), nell’accrescimento di valore (D’) del capitale originario anticipato (D) tramite l’acquisto e poi il consumo produttivo di M, dei fattori produttivi soggettivi (il lavoro) e oggettivi (le macchine). Solo che, mentre in Marx D-M-D’ descrive lo schema generale di ogni singolo investimento capitalistico, in Arrighi descrive lo schema di sviluppo di ogni blocco egemonico: questo si afferma prima attraverso una fase di espansione materiale, di crescita delle sue operazioni industriali e commerciali – fase rappresentata dal primo segmento del ciclo, da D-M – e poi, esauritesi, a causa della crescita dei salari e della concorrenza intercapitalistica, le opportunità di investimento redditizio nella sfera materiale dell’attività economica, attraverso una fase di espansione finanziaria – rappresentata dal secondo segmento del ciclo, da M-D’. La fase di espansione finanziaria è, tuttavia, in quanto chiusura dell’intero ciclo, il momento dell’“autunno” del blocco egemonico in questione. Gli succederà un nuovo blocco egemonico, che compirà il medesimo percorso.
In Arrighi è cruciale lo sguardo sui meccanismi che regolano i rapporti fra lo Stato egemonico in declino con quello in ascesa. Anche qui è Marx a fornire la giusta chiave teorica: attraverso il sistema del debito e del credito internazionale, dice Marx nel Capitale, si trasferisce capitale da un paese, in declino, che ne ha in sovrappiù a uno, in ascesa, che ne ha bisogno per avviare la sua espansione produttiva. Nella storia dell’accumulazione originaria moderna, tutti i centri capitalistici già affermati (Venezia, Olanda, Inghilterra) si sono comportati in questo modo nei confronti dei centri capitalistici emergenti (Olanda, Inghilterra, Stati uniti). Sennonché per Arrighi l’idea di Marx diventa pienamente fruibile scientificamente solo quando la si sottragga al contesto in cui è fissata, quello costituito dal discorso sull’accumulazione originaria. Questa tipologia di trasferimento di ricchezza ha infatti interessato tutte le transizioni egemoniche, e non solo quelle collocate agli albori del capitalismo. Tutte, tranne una, l’ultima, quella che, a giudizio di Arrighi, noi staremmo vivendo: la transizione dall’egemonia americana a qualcosa d’altro, di cui ancora non è possibile individuare compiutamente il profilo. In quest’ultimo caso, infatti, è l’egemonia declinante che, anziché investire all’estero, si fa prestare capitali da tutto il mondo.
Le ragioni per cui ciò sta accadendo costituiscono in particolare il tema delle ultime fatiche teoriche di Arrighi, Caos e governo del mondo (pubblicato in collaborazione con Beverly J. Silver) e Adam Smith a Pechino, e sono ben sintetizzate nel capitolo 4 di questo volume. La risposta di Arrighi si concentra sul divorzio che, nell’ultimo ciclo egemonico, si sarebbe verificato fra capacità militari e capacità finanziarie: il possesso di un ineguagliabile arsenale militare garantirebbe agli Stati uniti la possibilità di esercitare una continua pressione sulle potenze emergenti, per sottrarre loro risorse finanziarie.
Le transizioni egemoniche non sono però processi fluidi e uniformi. In genere, sono accompagnate dall’esplosione dell’anarchia nei rapporti interstatali e dell’instabilità nei rapporti economico-sociali interni e internazionali, in breve da ciò che Arrighi chiama “caos sistemico”. Le potenze emergenti si dimostrano così davvero capaci di assumere entro di sé funzioni egemoniche solo se, oltre a essere in grado di assorbire i capitali in eccesso della potenza egemonica declinante, si mostrano anche in grado di domare il caos sistemico. Per farlo, i paesi emergenti devono essere rispetto alla potenza in declino:
1) più larghi e diversificati geograficamente;
2) più efficienti economicamente e organizzativamente;
3) più capaci di governare, tramite appropriate agenzie, mercato mondiale e sistema interstatale;
4) più inclusivi socialmente all’interno;
5) più capaci di rappresentare gli interessi sociali generali presenti nel sistema-mondo, da quelli più direttamente borghesi a quelli delle forze organizzate del lavoro subalterno.
Sono punti che pur investendo tutti i processi di transizione egemonica, vengono meglio esemplificati dall’ultima delle transizioni verificatesi, quella dalla Gran Bretagna agli Stati uniti. In questo caso, gli Stati uniti hanno offerto al processo accumulativo:
1) un territorio, uno spatial fix per dirla con Harvey, più vasto e vario, senza perdere il carattere insulare di quello inglese;
2) un modello di impresa, la multinazionale, più profittevole economicamente e più efficiente organizzativamente della manifattura inglese;
3) un quadro di agenzie di regolazione del mercato e del sistema interstatale più complesso e stratificato (dall’Fmi all’Onu) di quello inglese, basato su gold standard e concerto europeo;
4) un patto sociale, il New Deal, più aperto di quello inglese alla soddisfazione degli interessi dei lavoratori;
5) un New Deal globale, non fondato sul colonialismo e sulla conservazione degli equilibri dati fra i diversi paesi capitalistici, ma capace di elevare il livello di ricchezza di tutte le classi capitalistiche e di porzioni significative del proletariato mondiale.
Al caos sistemico che accompagna le transizioni egemoniche succede quindi una riorganizzazione sistemica, che è storicamente ogni volta diversa per ciascuna transizione egemonica. Nel caso del passaggio egemonico fra Gran Bretagna e Stati uniti vi è, per esempio, una differenza storica relativa al rapporto fra egemonia e classi subalterne. Gli Stati uniti hanno pacificato le loro relazioni sociali interne prima della loro ascesa egemonica; la Gran Bretagna dopo.
La logica sistemica che soggiace alla sequenza che va dalle città-Stato italiane agli Stati uniti non è priva di una sua necessità: alla crescita delle sfide ambientali, alla crescente difficoltà di ripristinare ogni volta le migliori condizioni possibili del processo di accumulazione, si deve rispondere, da parte delle potenze egemoniche in ascesa, mobilitando più risorse (territoriali, organizzative ecc.) e maggiori capacità di governo e di regolazione. A essere modificata da questa logica è la stessa visione del capitalismo, ormai costretto a muoversi entro un fitto reticolo di determinazioni geografiche e storiche.

I movimenti antisistemici

Il capitale in cerca di accumulazione e gli Stati alla ricerca del potere non sono tuttavia gli unici protagonisti sulla scena mondiale. Lo sviluppo del capitale crea i propri antagonisti, un movimento operaio che dalla “rivoluzione mondiale” del 1848 si è dato strutture organizzative stabili – sindacati e partiti, sia nella variante socialdemocratica sia nella variante comunista. Analogamente, la gerarchia del sistema-mondo crea i propri antagonisti nei movimenti di liberazione nazionale e nelle forme di resistenza al dominio della potenza egemonica – gli imperi coloniali europei prima, la superpotenza americana poi. Entrambe queste risposte antisistemiche, come si sostiene nel libro Antisystemic movements, si sono sviluppate soprattutto entro un orizzonte nazionale con l’obiettivo di conquistare il potere dello Stato.
Questo ha portato a una istituzionalizzazione e burocratizzazione dei movimenti antisistemici – sia nel caso delle socialdemocrazie occidentali, sia nei paesi del “socialismo reale” e di quelli del Terzo mondo dopo la decolonizzazione – che li ha allontanati dalle richieste della loro base sociale, integrandole nell’ordine internazionale definito dall’egemonia degli Stati uniti.
La protesta contro quest’ordine sociale e mondiale è venuta con la “rivoluzione mondiale” del 1968, destinata ad alimentare ondate successive di mobilitazioni sociali che hanno avuto per protagonisti soggetti diversi – le categorie più deboli dei lavoratori salariati e gruppi di status individuati sulla base di identità e condizioni sociali eterogenee, dagli studenti alle donne, dalle minoranze etniche e religiose agli immigrati ecc. Il loro obiettivo non è più la presa del potere statale o la costruzione di stabili organizzazioni politiche, ma, da un lato, la soddisfazione di immediate rivendicazioni “locali” per migliorare le condizioni di vita e di lavoro e, dall’altro lato, la costruzione di campagne su temi globali che aprono la via a legami internazionali tra i movimenti. In questo modo, la sfida che i movimenti pongono al potere del capitale e degli Stati è destinata ad influenzare l’evoluzione del sistema mondiale, indirizzandone il cambiamento.

L’ultima grande crisi e l’ascesa della Cina

Allorché abbiamo parlato del passaggio di Arrighi dal periodo italiano a quello americano, dicevamo che il suo schema di interpretazione della crisi cambia. La redazione di Lungo XX secolo a questo avrebbe dovuto servire, a rendere, vale a dire, più chiara la sua nuova lettura della crisi apertasi negli anni Settanta. La sproporzione quantitativa esistente nel libro fra le parti dedicate alla descrizione dei quattro cicli egemonici del capitalismo storico e le parti più determinatamente indirizzate ad affrontare il nuovo scenario dischiusosi con la crisi dell’egemonia statunitense non deve ingannare: l’obiettivo rimane quello di offrire una analisi della crisi più credibile di quelle disponibili nel panorama intellettuale odierno (dalle letture regolazioniste a quelle basate sulla decisività del passaggio dal “capitalismo organizzato” al “capitalismo flessibile”). In parte, è già evidente, dopo quanto abbiamo detto in precedenza, dove Arrighi è intervenuto per modificare il suo schema originario di interpretazione: l’ultima crisi, con il suo inevitabile corollario costituito dal processo di finanziarizzazione, non è che la riproduzione, per limitarci alla penultima transizione egemonica, della Grande depressione del 1873-1896 che colpì l’egemonia britannica. E tuttavia, le cose sono ancora più complesse: nel precedente schema veniva adombrata l’idea, dicevamo più marxista, di una liberazione del capitale dai vincoli che gli Stati, in virtù del “patto socialdemocratico” stipulato nell’immediato secondo dopoguerra, gli avevano imposto. Era una posizione, per alcuni versi, anche più vicina a quella che si è venuta consolidando successivamente in alcune aree del dibattito sulla cosiddetta “globalizzazione”. Ma Arrighi soprattutto a partire da Lungo XX secolo respinge fermamente questa posizione: a suo giudizio parlare di “egemonia dei mercati globali” o di “neoliberismo” senza ulteriore specificazione non ha senso alcuno. Perché questo ri-orientamento teorico?
A nostro giudizio la risposta, o almeno parte di essa, sta di nuovo in Braudel (ripreso su questo punto anche dagli altri sistemici): questi differenzia nettamente fra mercato e capitalismo sulla base della presenza o meno della concorrenza. Il mercato, poiché è attraversato dalla concorrenza, è il luogo dei bassi profitti, mentre il capitalismo, poiché è popolato dai monopoli, è il luogo degli alti profitti. I capitalisti naturalmente, visto che sono marxianamente pervasi dal demone dell’accumulazione, preferiscono installarsi sul terreno capitalistico piuttosto che su quello del mercato. Ma come vi riescono? Vi riescono stabilendo una relazione simbiotica con il potere dello Stato, facendosi promuovere da esso. Ai piani alti del capitalismo, cioè, capitale e Stato sono inestricabilmente connessi. Ma ai piani alti vi è anche, e diremmo soprattutto, la haute finance. La simbiosi è quindi soprattutto fra capitale finanziario e Stato.
Per stabilire questa connessione organica fra capitale e Stato, Arrighi ricorre anche a un altro argomento, tratto da Weber: per avviare i processi di espansione materiale e poi, ancora di più, quelli di espansione finanziaria, occorre vincere la concorrenza per attrarre a sé il capitale mobile, la liquidità che fluisce a livello mondiale. Ma questa concorrenza è di solito attuata e vinta solo dagli Stati, anzi da Stati che dispongano di una sufficiente concentrazione di potenza. Anche a questo livello, quindi, pensare il capitale senza lo Stato non è per Arrighi teoricamente possibile.
Da tutto ciò scaturiscono due conseguenze, una più particolare e l’altra più generale. La più particolare è relativa alla crisi apertasi negli anni Settanta: questa non può essere collegata all’“egemonia dei mercati globali” o al neoliberismo, perché finanziarizzazione e industrializzazione di nuovi paesi (dalle quattro “tigri” asiatiche alla Cina) sono concepibili solo sulla base di una intensa e prolungata attività statale. La più generale è relativa, invece, al “ciclo sistemico di accumulazione”: poiché l’espansione, materiale e finanziaria, del capitalismo è inscindibilmente legata allo Stato, a ricoprire il ruolo di soggetto del ciclo è un blocco organico e articolato di agenzie governative e imprenditoriali. Su questo punto, sul necessario impasto di capitale e Stato che governa i cicli di accumulazione, la distanza da Marx e dal marxismo – anche da un marxismo, per altri versi, molto vicino alle sue posizioni, come quello di Harvey – ci sembra molto ampia.

Tutto ciò il lettore può trovarlo più ampiamente svolto in quello che ci sembra il libro migliore di Arrighi, il già menzionato Lungo XX secolo (“lungo”, come il XVI secolo in Braudel e Wallerstein, proprio perché cominciato con la Grande depressione del 1873-1896 e, in fondo, non ancora terminato) e anche nel capitolo 4 di questo volume. Rimane da fare, all’interno del nostro viaggio interpretativo, un’ultima fermata, quella relativa ad Adam Smith a Pechino. Qui, dentro uno scenario teorico in cui rifluiscono molti dei temi già trattati nei libri precedenti (l’interpretazione, in un dibattito serrato e appassionante con Robert Brenner, della crisi apertasi negli anni Settanta, il ciclo sistemico di accumulazione, il rapporto fra logica territoriale e statuale e logica capitalistica), appare un nuovo asse problematico: l’interpretazione di ciò che Kenneth Pomeranz ha chiamato la “grande divergenza”, la divaricazione, dopo la fine del XVIII secolo, dei sentieri di sviluppo fra Occidente e Cina. È una divaricazione, allo stesso tempo, fra Marx e Smith, fra uno sviluppo capitalistico trainato dai massicci investimenti labour-saving e dalle trasformazioni tecnologiche e uno sviluppo di mercato trainato da una rivoluzione industriosa ad alta intensità di lavoro, fra un percorso “innaturale” di crescita economica, che comincia dal commercio, passa per l’industria e finisce con l’agricoltura, e un percorso “naturale”, che comincia dall’agricoltura, passa per l’industria e termina con il commercio. Questa divaricazione ha permesso all’Occidente, prima, di recuperare il gap di ricchezza e benessere che ancora lo divideva dalla Cina nel secolo XVIII secolo, e, poi, di superarla, anche grazie alla superiorità militare garantita dallo sviluppo tecnologico accelerato. Ma l’epoca della “grande divergenza” è ormai finita: il Partito comunista cinese, quasi ispirandosi alle raccomandazioni di Adam Smith (donde il titolo del libro), ha sapientemente puntato su un efficace mix di “buona” concorrenza intercapitalistica, promozione della divisione sociale e non tecnica del lavoro, investimento nelle tecnologie capital-saving, valorizzazione di nuovi modelli di impresa (le cosiddette “imprese di municipalità e di villaggio”), governo “centralizzato” degli strumenti creditizi e monetari, che ormai quasi consente alla Cina di attestarsi sui livelli di ricchezza occidentali. Chiusa la “grande divergenza” che cosa ne seguirà? Un caos sistemico generalizzato, una nuova transizione egemonica, con la Cina a prendere il posto degli Stati uniti, o la realizzazione dell’“utopia” smithiana, un riequilibrio, cementato dal mercato, di potere e ricchezza fra tutte le aree in cui il mondo è diviso? La risposta è per Arrighi aperta, e affidata al libero corso degli avvenimenti.

Uno dei meriti più duraturi di Arrighi, e della scuola sistemica nel suo complesso, è quello di aver scompaginato le frontiere disciplinari che si sono fissate nelle scienze storico-sociali: la divisione fra scienze nomotetiche (sociologia, economia) e idiografiche (storia) non ha alcun fondamento. Peraltro, Arrighi questo lo ha affermato fin da Sviluppo economico e sovrastrutture in Africa, dove si protesta energicamente contro la tendenza dell’economia neoclassica a separare rigidamente il “fatto” economico dalla storia e dalla società. Il capitalismo è un oggetto complesso, per comprendere il quale occorre guadagnare profondità storica, affinare lo sguardo sociologico e saper utilizzare il metro geografico. È anche da qui che derivano gli altri meriti della ricerca di Arrighi: l’aver indagato le dinamiche globali prima della globalizzazione, l’aver capito la centralità del processo di finanziarizzazione, l’aver intuito l’importanza del nesso fra capitale e potere statale dentro i cicli mondiali di accumulazione. E tuttavia non sono pochi neanche i punti in cui Arrighi pare non riuscire pienamente convincente: la sottovalutazione, che tocca il suo picco proprio in Adam Smith a Pechino, della “rivoluzione industriale”, l’indeterminatezza in cui è avvolto il nesso fra produzione della ricchezza e finanza, l’indebita “spazializzazione”, nel ciclo sistemico di accumulazione, del rapporto fra primo e secondo segmento del ciclo (fra D-M, produzione e commercio, e M-D’, la finanza), un nesso fra capitale e forma-Stato che lascia scoperto il piano delle forme di governo o auto-governo della società (che nesso vi è, cioè, fra cicli sistemici di accumulazione e politica democratica e non?), la scarsa attenzione per una sfida globale come quella ecologica (appena riscattata dalle pagine finali di Adam Smith a Pechino), un legame fra necessità delle riorganizzazioni sistemiche e contingenza della storia che è contingente anch’esso (è un elemento, questo, su cui non a caso anche Harvey insiste nell’intervista ad Arrighi). È anche su questi punti che la discussione deve proseguire.

I saggi del volume

Qualche parola, infine, sui saggi qui proposti. Ciascuno di essi integra tematicamente, da una diversa prospettiva, il materiale testuale di Arrighi già disponibile sul mercato editoriale. Dell’intervista ad Harvey si è detto, e non vi ritorneremo sopra. Il secondo saggio, Secolo marxista, secolo americano. La formazione del movimento operaio nel mondo, si occupa, invece, di una questione di cui Arrighi si era ripromesso di parlare in Lungo XX secolo e che invece non riuscì, da ultimo, a introdurre nel libro: la storia del movimento operaio novecentesco letta alla luce della teoria sistemica. Il saggio è, infatti, incardinato attorno alla polarità fra riformismo socialdemocratico bernsteiniano (il modello vincente di movimento operaio nei paesi del centro) e leninismo (il modello vincente di movimento operaio nei paesi della periferia). In chiusura, ci si diffonde sulle possibilità del movimento operaio nel futuro: queste sono del tutto affidate alla costruzione di quei “movimenti antisistemici” su cui ci siamo trattenuti poco sopra.
Nel terzo saggio, Le disuguaglianze mondiali, invece Arrighi riflette, sempre in modo sistemico, sulla questione delle disuguaglianze mondiali. Il risultato teorico principale del saggio è duplice: all’affermazione della chiusura, nel secondo dopoguerra, del differenziale di reddito fra i paesi europei e quelli del Nord America – quindi fra i paesi del centro – si contrappone la constatazione del mantenimento del differenziale pregresso di reddito fra i paesi del centro e quelli della periferia (ex blocco sovietico e paesi del Sud del mondo). In chiusura, la riflessione si concentra sulle potenzialità del socialismo in un tale contesto. Va detto che le conclusioni analitiche del testo, come registrato anche da Harvey nell’intervista, andrebbero aggiornate, vista la crescita del reddito nei paesi del Sud-est asiatico. Ma Arrighi è rimasto fino all’ultimo convinto della loro bontà: grazie, in particolare, alla Cina si sono ridotte le sperequazioni internazionali di reddito, ma grazie alla Cina è anche aumentato il tasso di disuguaglianza all’interno degli Stati.
Il quarto saggio, Capitalismo e (dis)ordine mondiale, è una limpida e riuscita sistematizzazione delle tesi sostenute da Arrighi in Lungo XX secolo e dallo stesso insieme a Beverly Silver in Caos e governo del mondo. Importa qui soprattutto sottolineare come in questo saggio Arrighi e Silver insistano sul carattere effimero della New Economy e della politica estera “unilateralista” inaugurata dagli Stati uniti all’alba degli anni Duemila. Nel poscritto, allegato a questo testo, Arrighi e Silver confermano, a cinque anni di distanza, la validità delle proposizioni analitiche del loro saggio.
Nel quinto e ultimo saggio, Dopo il neoliberismo. Il nuovo ruolo del Sud del mondo, qui pubblicato in contemporanea con la versione inglese, si avvalorano le possibilità, con l’inasprirsi della crisi delle politiche neoliberiste dettate dal centro e l’assestamento della crescita cinese, che sorga una nuova Bandung, un nuovo patto fra i paesi che una volta venivano chiamati “in via di sviluppo”. Una Bandung tuttavia diversa dalla prima, quella nata negli anni Cinquanta e subito dopo fallita, perché fondata non su una solidarietà di tipo puramente politico, ma sulla più solida roccia della progressiva convergenza, fra i paesi del Sud del mondo, dei rispettivi interessi economici.

Le donne curiose

ALL’ILLUSTRISSIMO SIGNOR ABATE ANTONINO UGUCCIONI PATRIZIO FIORENTINO

[drop_cap style=”2″ bgcolor=”#dddddd” color=”#787882″]C[/drop_cap]oloro i quali del mio bene hanno invidia, e non potendola tenere in petto, la spargono dalle labbra e dagli occhi, ed empiono di veleno i fogli, nuovo avranno motivo di macerarsi e di fremere, allora quando sapranno avermi io in Firenze un altro Protettore acquistato, dotto, illustre e gentile, pieno per me di benignità e d’amore. Non vorrebbono i maligni, che io pubblicassi al mondo gli onori che dalle persone di rango mi vengon fatti, e il render grazie ch’io fo a chi mi benefica e mi protegge, viene interpretato dagli invidiosi vanità e ostentazione. Dican essi checché dir vogliono, retta io non do loro; vuò render palese al mondo il fregio, che novellamente acquistato mi sono, del patrocinio di V. S. Illustrissima, e se in ciò fare usassi della vanità, della ostentazione, sarei anche dagli Uomini di buon senno lodato, non che compatito, poiché delle cose che preziosissime sono, è lecito indiscretamente vantarsi. Chi ha la fortuna di conoscere e di trattare l’amabilissima di Lei persona, ha motivo certamente di rallegrarsi, trovando in Lei tante belle Virtù, e quelle precisamente che formano l’uomo gentile, il colto ed ottimo Cavaliere. Io non istarò qui a descrivere ad una ad una quelle belle Virtù, che al di Lei eccelso animo fan corona, poiché lunghissima e per me malagevole saria l’impresa; ma di alcune soltanto farò menzione, di quelle cioè che fanno risuonare il grido del di Lei nome. L’onestà de’ costumi, la massima sincerità di cuore, la generosità dell’animo, la dolcezza del tratto, l’affabilità, la moderazione, la cortesia, qualità sono in V. S. Illustrissima, che la rendono a tutti gli ordini delle persone oggetto di venerazione e di maraviglia; ma sopra tutto quella vivacità, quella prontezza di spirito, che brilla mirabilmente ne’ detti suoi e ne’ suoi pensamenti, dà a conoscere chiaramente, che i doni della natura corrispondono alla nobiltà originaria antichissima del di Lei sangue, e rende perfettamente a’ Maggiori suoi quell’onore che ha largamente ricevuto da essi. Ella ha l’ottimo gusto nelle migliori cose del mondo, le intende, le distingue, le ama. Ama i studi più seri e più interessanti dell’uomo, ed ama eziandio dell’uomo i più onesti, i più nobili, i più discreti trattenimenti. Fra questi Ella non dà al teatro l’ultimo luogo; lo crede oggetto degno non solo del suo piacere, ma anche delle sue applicazioni. Ella ha preso a proteggere una Compagnia di valorosi Comici suoi nazionali, de’ quali ho fatto altra fiata menzione, e sono, a dir vero, ornamento del Teatro Italiano. Indi alla di Lei protezione venne raccomandato il teatro medesimo in Via del Cocomero situato, governato da una onoratissima Società d’Accademici Fiorentini, il quale, sotto la savissima di Lei condotta, ve facendo progressi ammirabili, ed è ormai reso esemplare degli altri, per l’onestà, per il modo, per la condotta, alla quale corrisponde la città tutta con l’applauso e il concorso. Se dirò che le Commedie mie in cotesto Teatro si rappresentano quasi continuamente, mi verrà apposto dagli emoli, che io lo dica per vanità; ma quando anche ciò fosse vero, sarei compatibile, se di un sì grande onore invanissi, e se mi stimolasse la forza dell’amor proprio a rendere palese al Mondo, che delle Opere mie una sì colta Città si compiace, ed un Cavaliere dottissimo, e di sì fino gusto fornito, ne è il benignissimo promotore. A Lei, Illustrissimo Signor mio, cui tanto preme la riputazione delle opere mie e del mio nome, di che tante generose prove mi ha dato, a Lei raccomando questa Commedia, in particolar modo sotto la protezione Sua validissima pubblicata. La curiosità di alcune Donne somministratomi ha l’argomento, non già quelle virtuose e magnanime, che degne sono dell’amabilissima di Lei conversazione, e che costì e dapertutto ebbi anch’io la fortuna di conoscere e di ammirare; ma quelle alle quali un tal difetto è comune, per debolezza di animo particolare, non per natura del gentil sesso. Nell’atto però di raccomandarle quest’imperfetta Opera mia, intendo di raccomandarle assai più l’umilissima mia Persona, supplicandola concedermi benignamente lo specioso titolo, con cui ho l’onore di protestarmi Di V. S. Illustriss. Umiliss. Divotiss. ed Obbligatiss. Serv. CARLO GOLDONI


L’AUTORE A CHI LEGGE La curiosità delle donne è un argomento che viene dagli uomini considerato sì vasto, che a molte e molte Commedie potrebbe somministrare l’intreccio. Quindi è, che di questa mia alcuni contentati poco si sono, perché ad un oggetto solo ho diretto la curiosità di quattro femmine insieme. Questi però, che un così avido desiderio nutriscono di vedere in scena moltiplicati delle donne i difetti, mostrano di essere più curiosi di esse; ma si consolino, poiché non mancherà forse chi prevalendosi anche di questo mio argomento, darà loro continuazione, e accozzando insieme una moltitudine di fatterelli, farà una composizione, a cui darà il titolo di Commedia. Io che, per quanto posso, amo di conservare l’unità dell’azione, ho voluto ristringermi ad un solo motivo, e mi sembra bastantemente critico, per quell’idea che mi sono prefissa in mente.


PERSONAGGI OTTAVIO cittadino bolognese. BEATRICE sua moglie. ROSAURA loro figliuola. FLORINDO promesso sposo a Rosaura. LELIO bolognese. ELEONORA sua moglie. LEANDRO amico de’ suddetti. FLAMMINIO amico di Leandro. PANTALONE de’ BISOGNOSI mercante veneziano. CORALLINA cameriera di Beatrice e di Rosaura. BRIGHELLA servitore di Pantalone. ARLECCHINO servitore di Ottavio. Un altro SERVITORE di Ottavio, che parla. Servitori di Pantalone, che non parlano. La Scena si rappresenta in Bologna.


ATTO PRIMO SCENA PRIMA Camera con porte chiuse. OTTAVIO leggendo un libro, FLORINDO e LEANDRO giuocando a dama. LELIO a sedere. LEL. Amici, come va la partita? FLOR. In questo punto sono arrivato a dama. LEAN. Ed io non tarderò ad arrivarvi. LEL. La vostra è una partita di picca. FLOR. Sì; noi giochiamo veramente di picca. Si disputa l’onore, non l’interesse. LEL. Eh, già si sa. Qui non si giuoca per interesse. FLOR. E in questa maniera sussiste la nostra compagnia; altrimenti, o questa si saria disfatta, o si sarebbe alcun di noi rovinato. Dama. (giocando) LEL. Un’altra cosa bellissima contribuisce alla nostra sussistenza. FLOR. Sì, quella di non voler ammetter le donne. LEL. Ed esse hanno di ciò il maggior veleno del mondo. FLOR. Quello che più loro dà pena… LEAN. Soffio la dama. FLOR. Perché? LEAN. Perché non avete mangiato questa. FLOR. È vero. Avete ragione. Solamente per aver nominate le donne, ho perso il giuoco. LEL. Se venissero qui, ci farebbero perder la testa. FLOR. Spero ancora di rimettere la partita. (giocando) LEAN. Fatelo discorrere, che mi date piacere. Altrimenti non posso vincere. FLOR. Parlate, parlate, non mi confondo. (a Lelio) LEL. Che cosa dicevate voi che patiscono più di tutto le nostre donne? FLOR. Quel che più le tormenta, è la curiosità che hanno di sapere quello che noi facciamo in queste nostre camere. LEL. Sì, è vero. Eleonora mia moglie tutto dì mi tormenta su questo punto, e per quanto le dica non si fa niente, non lo vuol credere. FLOR. Lo stesso accade a me colla signora Rosaura, che deve esser mia sposa: non mi lascia aver bene. La soffro perché l’amo, ma vi assicuro che mi tormenta. LEL. Io, che sono poco paziente, ho dato più volte nelle furie con mia moglie, e ho paura, se seguita, di far peggio. LEAN. Dama. Una gran cosa con queste donne! Vogliono saper tutto. FLOR. È vero, fanno perdere la pazienza. Bisogna essere innamorato, come sono io, per soffrirle. OTT. Amici, sento un proposito che mi tocca, e non posso far a meno d’entrarvi. (alzandosi dal suo posto) LEL. Siete anche voi tormentato dalla signora Beatrice? OTT. Domandatelo all’amico Florindo. Mia moglie non tace mai. FLOR. Sì, madre e figlia ci tormentano a campane doppie. OTT. Rosaura mia figlia lo fa anche con qualche moderazione; ma Beatrice mia moglie è un diavolo. LEL. Darete anche voi nelle impazienze, nelle quali sono forzato a dar io. OTT. No, amico. Non do in impazienze. Non mi altero; non mi scaldo il sangue. Non voglio che le pazzie della moglie pregiudichino la mia salute. LEL. Bisogna poterlo fare. OTT. Si fa tutto quel che si vuole. FLOR. Non lo sapete? Il signor Ottavio è filosofo. LEL. Non basta esser filosofo per soffrire una moglie cattiva, bisogna essere stoico. OTT. Quando dite stoico, che cosa vi credete di dire? LEL. Che so io? Insensato. OTT. Poveri filosofi! Come vengono strapazzati! Gli stoici, che ponevano la vera felicità nell’esercizio della virtù, sono chiamati stolidi! LEL. Io non so di filosofia. Stimo più questo poco di quiete di tutte le massime di Platone. FLOR. (Alzandosi) Ciascheduno in questa nostra amichevole società soddisfa il proprio genio, e passa il tempo tranquillamente in tutto ciò che onestamente gli dà piacere. Io ho la mia passione per le operazioni ingegnose. Giuoco volentieri a quei giuochi dove non ha parte alcuna la sorte. Mi diverte assaissimo la matematica, la geometria, il disegno, e qui mi ristoro, se è la mia bella sdegnata. Mi consolo assai più, se ella mi ha fatto partir contento. Perdonate, signor Ottavio, se così parla uno che deve essere lo sposo di vostra figlia. Già lo sapete, tutte le donne hanno de’ momenti buoni e de’ momenti cattivi. OTT. Sì, e bisogna esser filosofi, come sono io, per burlarsi di loro. LEL. Cari amici, se volete parlar di filosofia, anderò a sedere in un’altra camera. Io vengo qui a sollevarmi un poco, dopo gli imbarazzi delle mie cariche e della mia famiglia. E quel poco che io ci sto, ho piacere di divertirmi. FLOR. Che cosa vi vorrebbe per divertirvi? LEL. Un buon pranzo, una buona cena. FLOR. Volete che questa sera ceniamo in compagnia? LEL. Per me ci sono. Che dice il signor filosofo? OTT. La filosofia non è nemica dell’onesto divertimento. FLOR. Ecco il signor Pantalone. Pregheremo lui, che ci faccia preparare. LEL. Gran galantuomo è questo signor Pantalone! Egli ha eretto questo nostro divertimento; egli regola assai bene la nostra compagnia; ci dà ben da mangiare, e credo vi rimetta del suo. FLOR. Gode assaissimo di questa compagnia da lui medesimo procurata. LEL. E non vuol donne, e fa benissimo! OTT. Così possiamo godere la nostra pienissima libertà.


SCENA SECONDA PANTALONE e detti. PANT. Patroni cari, amici cari. Amicizia. OTT. Amicizia. (si abbracciano e si baciano) PANT. Amicizia. FLOR. Amicizia. (fanno lo stesso) PANT. Amicizia. LEL. Amicizia. (fanno lo stesso) PANT. Amicizia. LEAN. Amicizia. (tutti dicono amicizia, e si abbracciano) PANT. Sali, patroni, che xe sonà mezzo zorno? FLOR. È ora che ce ne andiamo. OTT. Florindo, volete venire a pranzo con me? FLOR. Riceverò le vostre grazie. PANT. Patroni, quando se fa ste nozze? (a Florindo ed Ottavio) FLOR. Io dipendo dal signor Ottavio. OTT. Si faranno presto. LEL. Questa sera vorressimo cenare in compagnia; ci favorirete voi al solito? (a Pantalone) PANT. Volentiera. Quanti saremio? LEL. Qui siamo in cinque. PANT. Benissimo; provvederò mi, parecchierò mi. Se goderemo, staremo allegri. OTT. Oh, andiamo. Signor Pantalone, amicizia. PANT. Amicizia. (si abbracciano e si baciano) OTT. Amicizia. LEL. Amicizia. (come sopra) LEAN. Amicizia. FLOR. Amicizia. (come sopra) PANT. Amicizia. FLOR. Amicizia. LEL. Amicizia. LEAN. Amicizia. (Lelio, Ottavio, Florindo e Leandro partono)


SCENA TERZA PANTALONE, poi BRIGHELLA PANT. Mi, co son coi mi amici, vegno tanto fatto! Brighella, dove xestu? BRIGH. Son qua, sior padron. PANT. Stassera bisogna parecchiar da cena. BRIGH. Per quanti, signor? PANT. Per cinque, per sie, per otto. BRIGH. La sarà servida. PANT. Caro Brighella, fa pulito, me preme de farme onor coi mi cari amici; me preme de farli star ben, de farghe spender ben i so bezzi, e perché le cosse vaga pulito, me contento de remetterghe un zecchin del mio, e anca do, se bisogna. BRIGH. In fatti qua la gh’ha el so unico divertimento. PANT. Mi sì, vedè. No godo altro a sto mondo che i boni amici. Ghe n’ho scielto diversi, che me par a mi che i sia della bona lega, e con questi passemo el tempo propriamente, onestamente, lontani dai strepiti, e fora della suggizion. BRIGH. E pur, sior padron, se la savesse quanti lunari se fa per sta conversazion limitada, per sto logo dove no pol intrar chi no xe della compagnia! Chi ghe ne dis una, chi ghe ne dis un’altra, e specialmente le donne le se sente a morir de voia de vegnirghe, de véder, de saver. PANT. No le vegnirà assolutamente. Cussì xe i patti della compagnia. Chi no xe della lega, no pol vegnir, e donne mai. BRIGH. Me par impussibile. PANT. Vardè ben, vedè. No ve vegnisse voggia de far vegnir donne qua drento. Ve mando via subito immediatamente. BRIGH. Caro signor, la perdoni. L’è nemigo delle donne? La varda ben che ghe n’ho visto dei altri che no podeva véder le donne, e po i è cascadi drento fina ai occhi. PANT. No son nemigo delle donne; le vedo volentiera, e anca mi ai mi tempi gh’ho volesto ben; e se me trovasse in te l’occasion, no so cossa fasse anca al dì d’ancuo. Me par per altro, che l’amor dell’amicizia sia un amor più nobile, e manco pericoloso, e per coltivarlo no bisogna missiarlo con altri amori. Dove che ghe xe donne, no pol de manco che qualchedun no se scalda; al caldo dell’amor succede el freddo della gelosia, e in poco tempo el casin del divertimento el deventa el seminario della discordia. Tolè suso, v’ho dito anca el perché; siben che no savè più che tanto, intendème per descrizion. BRIGH. Qualcossa ho inteso. PANT. Me basta che intendè ste do parole: qua drento no voggio donne. (parte) BRIGH. Co nol vol che ghe ne vegna, no ghe ne vegnirà. Me preme conservarme un padron che me dà un bon salario, e me preme che vada avanti sta compagnia perché ghe la cavo, m’inzegno, e qualche volta la mia zornada no la darave per un zecchin. (parte)


SCENA QUARTA Camera di Beatrice in casa di Ottavio. BEATRICE e ROSAURA BEAT. Ecco qui al solito. È un’ora che è sonato mezzogiorno, e il mio signor consorte non torna a casa. ROS. Avrà qualche interesse da fare. BEAT. Sarà a quel maladetto ridotto. ROS. Può essere che vi sia col signor Florindo. Sogliono andarvi insieme. BEAT. Ma che diavolo fanno mattina e sera là dentro? ROS. Bisogna che vi abbiano un gran piacere, perché non lo lasciano mai. BEAT. Giocheranno a rotta di collo. ROS. Io ho paura, signora madre… BEAT. Di che? ROS. Che vi sia qualche donna. BEAT. Se donne là dentro non ne vogliono! ROS. Dicono che non ne vogliono, ma noi non vi vediamo. BEAT. Via, via, questo è un vostro pensier geloso che non ha fondamento. Per me dico che giocheranno. ROS. Ed io dico che faranno all’amore. BEAT. Basta, mi chiarirò. ROS. Come, signora madre? BEAT. Voglio andare a sorprenderli all’improvviso. ROS. Oh, quanto pagherei a venirci ancor io! BEAT. Alle fanciulle non è permesso. Vi andrò io, e vi saprò dir tutto. ROS. Voi non mi direte la verità. BEAT. Sì, vi dirò tutto. Vedrò chi giuoca e chi non giuoca. ROS. Vi saranno delle donne, e voi non me lo direte. BEAT. Eh, che i giuocatori non si curano di donne. ROS. Ma se non vanno per il giuoco, ma per le donne. BEAT. Voi non sapete cosa dite. ROS. Così non dicessi la verità. Quando il cuore mi suggerisce una cosa, non falla mai.


SCENA QUINTA ELEONORA e dette. ELEON. Chi è qui? Si può venire? BEAT. Venite, signora Eleonora, venite. A quest’ora? Siete venuta a pranzo con noi? ELEON. Son venuta a dirvi in confidenza, che ho saputo finalmente che cosa si fa dai nostri mariti in quel luogo segreto. BEAT. Io me l’immagino. Giocheranno da traditori. ELEON. Oibò. ROS. Sarà poi come dico io: vi saranno delle signorine. ELEON. No, v’ingannate. Io ho saputo ogni cosa. Sentite, ma in segretezza. Fanno il lapis philosophorum. BEAT. Sapete che si può dare? Mio marito sa di filosofia: sarà egli il capomastro. ROS. Come lo avete saputo, signora Eleonora? ELEON. Vi dirò tutto, ma… non parlate per amor del cielo. BEAT. Non dubitate. ROS. Per me non vi è pericolo. ELEON. Sono stata questa mattina a ritrovare la sarta, per vedere se mi aveva finito quel mio vestito verde… M’intendete quale ch’io voglio dire. BEAT. Sì, Sì, quello che avete fatto di nascosto di vostro marito. ELEON. Signora sì; la Caterina me lo aveva guastato, e così mia comare dice: Signora comare, dice, che peccato che vi abbiano rovinato quel bel vestito! Fatevelo accomodare. Insegnatemi una buona sarta, dico. Signora sì, dice, andate dalla tale, e così m’ho fatto insegnare dove sta di casa. BEAT. E siete andata stamattina, e avete saputo del lapis philosophorum. ELEON. Aspettate. Non mi confondete. Ho mandato a chiamare questa brava sarta. È venuta. Le ho fatto vedere il vestito, me l’ha provato, e si è posta le mani nei capelli quando l’ha veduto rovinato in quella maniera. Sì davvero! BEAT. Ma quando veniamo alla conclusione? ELEON. Subito. Lasci fare a me, dice, signora Eleonora, che glielo farò che le anderà dipinto. Ha preso il vestito, e l’ha portato via. Indovinate? Sono quindici giorni ora, e non me lo ha ancora portato. Queste sarte sono fatte così: promettono, promettono, e non mantengono mai. Mi fanno una rabbia terribile! BEAT. Ma via, veniamo al fine. Levatemi questa curiosità. ELEON. Quando mi ricordo della sarta, mi vengono i sudori. ROS. Non discorrete più della sarta, venite alla sostanza del fatto. ELEON. Sì; ora vi dirò come ho saputo del lapis. Questa sarta sta di casa… vicino… Conoscete quella donna che vende il latte? Quella che suo marito faceva il caciaiuolo? BEAT. Via, sì, sì, andiamo avanti. ELEON. Oh bene. La sarta sta tre porte più in là, verso la strada, prima d’arrivare al fornaio. ROS. In verità, signora Eleonora, voi mi fate venir male. ELEON. Ma le cose bisogna dirle per ordine. Sappiate dunque… COR. Uh signora padrona! (a Beatrice) BEAT. Che c’è? COR. Ho saputo ogni cosa. BEAT. Di che? COR. Della casa sì fatta… so tutto.


SCENA SESTA CORALLINA e dette. ELEON. Eh, lo sappiamo prima di voi. Fanno il lapis philosophorum. COR. Eh! per l’appunto! BEAT. E che sì che giuocano? COR. Signora no. ROS. Avranno delle donne. COR. Nemmeno. Ho saputo tutto. Ma… zitto. BEAT. Zitto. (alle altre) COR. Vogliono… ma per amor del cielo… ROS. Via, che occorre! COR. Vogliono cavar un tesoro. BEAT. Eh via! COR. E fanno un mondo di stregherie. ROS. Davvero? COR. È così certamente. Lo so di sicuro. ELEON. Ho sentito dire ancor io, che fanno l’oro disputabile[ref]Vuol dire potabile e dice uno sproposito.[/ref]. Vorrà dire cavar tesori. BEAT. Sì, sì, sarà vero. ROS. Oimè! Mi vien freddo. ELEON. Come lo avete saputo? (a Corallina) COR. Vi dirò; ma… zitto. È stato poco fa quel poveretto che viene tutti li venerdì… ELEON. Non andate per le lunghe. COR. Oh io non son di quelle. Sapete che questi poveri si cacciano per tutto. E così, dico, zoppo, dove sei stato, che sono tanti giorni che non ti vedo? Sono stato, dice, ad aiutare a cavare una certa fossa, vicino a una certa casa… Io subito sono andata al punto.


SCENA SETTIMA ARLECCHINO e dette. ARL. Presto. Andemo a tavola, che l’è qua el padron. BEAT. Dove è stato sinora? ARL. Oh bella! Al logo solito. BEAT. Ma che cosa fanno in quel maladetto ridotto? ARL. Domandeghelo a lu, che lo saverì. BEAT. Vieni qui, senti. (ad Arlecchino) ARL. Son qua. BEAT. (Giuocano?) (piano ad Arlecchino) ARL. Siora sì. BEAT. (L’ho detto io). (da sé) ROS. (Dimmi, si divertono con le donne?) (piano ad Arlecchino) ARL. Siora sì. ROS. (Ah, il cuore me l’ha detto). (da sé) ELEON. Galantuomo. (ad Arlecchino) ARL. Siora. ELEON. (È vero che fanno il lapis philosophorum?) (piano) ARL. Siora sì. ELEON. (Eh, io lo so). (da sé) COR. Dimmi, Arlecchino. ARL. Cossa volì? COR. (Lo cavano poi questo tesoro?) (piano ad Arlecchino) ARL. Siora sì. COR. (Dunque ho detto la verità). (da sé) ARL. (A dir sempre de sì, se dà gusto a tutti). (da sé) ELEON. Dite, Arlecchino. Mio marito l’avete veduto? ARL. Siora sì. ELEON. E ora è andato a casa? ARL. Siora sì. (Sempre de sì, finché vivo). (da sé, e parte) ELEON. Vado subito anch’io. Amiche, se saprò qualche altra cosa, verrò subito a confidarvela. BEAT. Ma quella del lapis non è poi vera. ELEON. Non è vera? Anzi verissima: dalla sarta vi era il fratello del garzone del muratore, e ha detto che il padrone di suo fratello è andato nel casino a fare dei fornelli, e poi hanno fatto una provvisione di tanti vetri; e ha detto il compare della sarta, che coi fornelli e coi vetri si fa il lapis philosophorum. E la sarta è una donna che se ne intende; e io, quando dico una cosa, non fallo mai. (parte) COR. Credetemi, non sa quello che si dica. Coi fornelli si cucina anche da mangiare, e coi vetri si dà da bere. Lo zoppo mi ha detto che cavano una fossa, e ho sentito dire da tanti, che vicino a quella casa vi sia un tesoro, e senz’altro lo cavano; e io, quando parlo, parlo con fondamento, e dico sempre la verità. (parte) BEAT. Io credo che non sappiano niente affatto. ROS. Vogliono che sia tutto quello che si figurano. BEAT. Mi par di vederli con le carte in mano. ROS. Ed io son tanto certa che fanno all’amore, quanto son certa d’aver da morire. (parte)


SCENA OTTAVA BEATRICE, poi OTTAVIO BEAT. Anch’ella è ostinata. Ma vedranno che io sola l’ho indovinata. Ecco il giocatore vizioso. OTT. Signora, fintanto ch’io faccio un certo conto, date gli ordini per la tavola. (siede al tavolino) BEAT. Volete fare il conto di quanto avete perduto? OTT. Vi è Florindo a pranzo con noi; fate qualche cosa di più. BEAT. Sì, sì, fate degli inviti? Avrete vinto. OTT. Quattro e sedici, dieci e quindici. (scrivendo) BEAT. So, so, che cosa si fa in quelle stanze segrete. OTT. Sì? L’ho caro. (scrivendo) BEAT. Voi rovinate la vostra casa. OTT. Eh, signora no. (scrivendo) BEAT. Il giuoco è il precipizio delle famiglie. OTT. Non si giuoca. (scrivendo) BEAT. Non si giuoca? OTT. No, da galantuomo; cinque e due sette. (scrivendo) BEAT. Dunque che cosa si fa? OTT. Niente di male. (scrivendo) BEAT. Se non vi fosse niente di male, vi potrebbe venire anche vostra moglie. OTT. Allora vi sarebbe del male. (scrivendo) BEAT. Sì, eh? Uomo indiscreto! OTT. Quattro via quattro sedici… (scrivendo) BEAT. Sia maladetto quando vi ho preso. OTT. È tardi. (scrivendo) BEAT. Come tardi? OTT. Dico che andiamo a pranzo, che è tardi. BEAT. Sono anche a tempo d’andarmene da voi, e lasciarvi solo. OTT. Oh, mi fareste la gran carità. (scrivendo) BEAT. La mia dote. OTT. Nulla via nulla, nulla. (scrivendo) BEAT. Che nulla? OTT. Io faccio i miei conti. Non vi abbado. (scrivendo) BEAT. Voglio sapere in quella casa che cosa si fa. OTT. Si sta bene, per servirla. BEAT. Siete una compagnia di gente cattiva. OTT. Le donne non ci vengono. BEAT. Le donne sono cattive? OTT. Oibò; dico che da noi non ci vengono. BEAT. Se ci venissero, ogni sospetto saria finito. OTT. Le donne sospettano sempre. BEAT. Ma ci vuol tanto a dire si fa questo e questo? OTT. Non ci vuol niente. BEAT. Dunque via cosa si fa? OTT. Sedici e sei ventidue, e otto… BEAT. Otto diavoli che vi portino. (gli dà nel braccio) OTT. Oh, me l’avete rotto… il numero. BEAT. Che siate maladetto! OTT. Anche voi. (scrivendo) BEAT. Bestia! OTT. Come lei. (come sopra) BEAT. Pensate di volerla durar così? OTT. Il conto è fatto. (s’alza) BEAT. Che conto avete fatto? OTT. Sì, l’ho finito. BEAT. Così mi trattate? OTT. A pranzo, signora. BEAT. Uomo indegno! OTT. A riverirla a pranzo. (parte) BEAT. Indegnissimo! Non si scalda, non risponde e mi fa rodere dalla rabbia… Ah, quel maladetto ridotto, quel maladetto luogo rinchiuso! Voglio andarvi, voglio vedere, voglio sapere, se credessi di dover crepare. (parte)


SCENA NONA ROSAURA e FLORINDO ROS. No, lasciatemi stare. (fuggendo da Florindo) FLOR. Fermatevi, non mi fuggite. ROS. Voi non mi volete niente di bene. FLOR. Ma perché dite questo? ROS. Se mi voleste bene, mi direste quel che si fa in quella casa. FLOR. Ma ve l’ho detto. ridetto e riconfermato. Non si fa niente. ROS. Se non si facesse niente, non vi anderebbe nessuno. FLOR. Voglio dire, non si fa niente che meriti la vostra curiosità. ROS. Sì, sì, vi ho capito. Vi è il segreto: avrete impegno di non parlare. FLOR. No, da galantuomo. Non vi è segreto veruno. ROS. Se così fosse, mi direste la verità. FLOR. La verità ve la dico. Si discorre delle novità del mondo, si leggono dei buoni libri, si giuoca a qualche giuoco d’ingegno, senza l’interesse d’un soldo. Qualche volta si pranza, qualche volta si cena, si passano due o tre ore in buona società, da buoni amici, e si gode il miglior tempo di questo mondo. ROS. Fra questi divertimenti avete lasciato fuori il migliore. FLOR. Che vuol dire? ROS. Quello di passar il tempo colle signore. FLOR. Oh, qui v’ingannate. Donne non ve n’entrano assolutamente. ROS. Io non vi credo. FLOR. Ve lo giuro sull’onor mio. ROS. Compatitemi, non vi credo. FLOR. Rosaura, voi mi fate un torto che io non merito. ROS. Volete ch’io creda tutto quello che dite? FLOR. Così vi converrebbe di fare. ROS. Introducetemi a vedere una volta sola, e vi prometto che allora vi crederò. FLOR. Sì, la vostra fede avrebbe allora un gran merito. ROS. Io non so altro; se non vedo, non credo. FLOR. Per me vi soddisfarei volentieri. ROS. Che obbietto avete per non farlo? FLOR. Il divieto de’ miei compagni. ROS. Questo divieto è un cattivo segno. FLOR. Perché? ROS. Se non vogliono che si veda, vi sarà qualche cosa di brutto. FLOR. Che vorreste mai che ci fosse? ROS. Donne a tutte l’ore. FLOR. Se ci entrassero donne, il mondo lo vederebbe. ROS. Le farete entrare vestite da uomo. FLOR. Voi ci credete affatto discoli e scostumati. ROS. Se foste gente dabbene, non vi nascondereste così. FLOR. Ma che non si possa fare una unione di buoni amici, senza ch’ella venga perseguitata? ROS. Questa gran segretezza eccita con ragione il sospetto. FLOR. Qual è questa segretezza? Io dico la verità, non vi è niente. ROS. Maladetto sia questo niente! FLOR. Via, cara, credetemi. Non vi alterate. ROS. Lasciatemi stare. FLOR. Non trattate così il vostro sposo. ROS. Voi mio sposo? FLOR. Come? Non lo sono? ROS. No; andate, che non vi voglio. FLOR. Ma perché mai? ROS. Perché non mi volete dire la verità. FLOR. Questa è una cosa da farmi diventar matto. Quel che vi ho detto, è vero; ve lo giuro per tutti i numi del cielo. ROS. Giuramenti da uomini! Non vi credo. FLOR. Dunque? ROS. Dunque non vi voglio più. FLOR. Ah Rosaura, per pietà. ROS. Non vi è pietà, non vi è misericordia, andate. FLOR. Oh cielo! Dov’è andato quel tenero amore che avevate per me? ROS. Non lo sapete il proverbio? Crudeltà consuma amore. FLOR. Io crudele? Io che vi amo più di me stesso? ROS. Vi pare poca crudeltà, tormentare una donna come fate voi? FLOR. Tormentarvi? In qual modo? ROS. Colla più fiera, colla più terribile curiosità che si possa dare nel mondo. FLOR. Vi soddisfarei, se potessi. ROS. Sta in vostra mano il farlo. FLOR. Cara Rosaura… ROS. Via, son qui: volete dirmi la verità? FLOR. Non vi direi la bugia per tutto l’oro del mondo. ROS. Che cosa si fa là dentro? FLOR. Niente. ROS. Maladetto voi ed il vostro niente! (parte)


SCENA DECIMA FLORINDO, poi CORALLINA FLOR. Io amo teneramente Rosaura; ma non per questo voglio disgustare gli amici miei. Là dentro non la introdurrò mai; piuttosto, per non perdere l’amor suo, tralascerò di frequentare la compagnia: dopo la cena di questa sera, per non disgustare Rosaura, non vi anderò. COR. Favorisca, in grazia, che cosa ha la padroncina, che la vedo turbata? FLOR. Ella tormenta me, tormenta se medesima senza ragione. COR. Povera fanciulla! Vi vuol tanto a contentarla? FLOR. Ma come? COR. Dirle la verità; dirle quello che fate fra voialtri uomini in quella casa sì fatta. FLOR. Lo dico, e non lo crede. COR. Se le diceste la verità, la crederebbe. FLOR. Orsù, anche voi non mi fate venire la rabbia. Non fomentate la sua curiosità. COR. Per me non ci penso; già so tutto. FLOR. Quando sapete tutto, saprete che non si fa niente di male. COR. Anzi si fa del bene. FLOR. Ma ditelo a Rosaura; ditele che non istia a sospettare. COR. Per contentarla, bisognerebbe fare una cosa. FLOR. Che cosa? COR. Condurla a vedere. FLOR. I miei amici non vogliono donne; e poi, pare a voi che a una fanciulla onesta e civile convenisse andare dove non vi sono che uomini? COR. È verissimo, ma anche a ciò vi è il suo rimedio. Potrei venire io in vece sua, veder tutto, e saperle dire la verità. FLOR. Ma se non entran donne. COR. Potrei venire travestita da uomo. FLOR. Io credo che siate più curiosa della vostra padrona. COR. Oh, pensate! se so tutto io; non ho curiosità. Faccio solo per metter in quiete la signora Rosaura. Quando le dirò: signora, ho veduto, la cosa è così; mi crederà, starà in pace e non tormenterà più nemmeno voi. FLOR. Questa cosa non si può fare. COR. E se non si può fare questa, non si potrà fare nemmeno quell’altra. FLOR. Che vuol dire? COR. Le vostre nozze colla signora Rosaura. FLOR. Ma perché? COR. Perché ella è impuntata così. Vi crede poco, e se io non l’assicuro della verità, non ne vuol più sapere. FLOR. E dovrei pormi a rischio di disgustar tanti galantuomini, per dar a lei una sì ridicola soddisfazione? COR. Eh signore, si vede che non le volete bene. FLOR. L’amo più di me stesso. COR. Quelli che amano veramente, farebbero altro per la loro bella! FLOR. Quando penso che per darle soddisfazione dovrei mancar alla mia parola, son un uomo d’onore, non ho cuore certamente di farlo. COR. Non so che dire, siete un giovine delicato, e vi compatisco; ma pure vorrei vedere di servire a lei, e servire a voi nello stesso tempo. FLOR. Via, pensate voi al modo… COR. Facciamo così: diamo ad intendere alla signora Rosaura che io sono stata, che io ho veduto, che io so tutto; e in questa maniera, confermandole tutto quello che dite voi, crederà, si acquieterà, sarete entrambi contenti. FLOR. Bravissima! Voi siete una giovine di giudizio. COR. Guardate se mi preme di farvi piacere! mi sottometto a dire delle bugie: cosa che non farei per mille scudi. FLOR. Non so che dire; quando le bugie tendono ad onesto fine, e non recano danno a nessuno, si possono anche tollerare. COR. Basta, mi sforzerò. FLOR. E per la fatica che voi farete, non sarete di me scontenta. COR. Sopra di ciò parleremo. FLOR. Corallina, addio. COR. Sentite. Non vorrei che la signora Rosaura mi potesse convincere di falsità. Vorrei poter sostenere, che veramente ci sono stata. FLOR. Si va fuori di casa, e le si dice di essere stata. COR. Per esempio, a che ora? FLOR. Che so io? Verso mezzogiorno. La sera ancora. COR. Questa sera vi è riduzione? FLOR. Sì, questa sera vi è. Questa sera si cena. COR. A che ora? FLOR. Si anderà alle due. Si starà sino alle cinque almeno. COR. Buono! Questa sera anderò da un’amica, e potrò dirle di essere stata lì. FLOR. Bravissima, ci rivedremo. (vuol partire) COR. Favorite: se mi domandasse, per esempio, la casa come è fatta? Vorrei saperle dir qualche cosa. FLOR. Che cosa le vorreste dire? COR. Per esempio. Alla porta si batte, si suona? Come si entra in casa? FLOR. Ciascheduno di noi ha la chiave. COR. Dunque anche il padrone avrà la sua chiave. FLOR. Sicuramente, il signor Ottavio l’ha come gli altri. COR. (Ho piacer di saperlo). (da sé) È maschia o femmina questa chiave? FLOR. È femmina, ma con gran quantità di ordigni, che non è possibile trovarne un’altra. Il signor Pantalone fa venir queste chiavi da Milano; qui non vi è nessuno che sappia farle. COR. Fa bene, per maggior sicurezza. Ma vorrei pur dirle qualche cosa di più. Per esempio, la scala è subito dentro della porta? FLOR. Non vi è scala. È un appartamento terreno, la di cui porta trovasi nell’entrata a mano dritta. COR. Anche la porta dell’appartamento sarà chiusa con gelosia. FLOR. Certamente, e anche di quella abbiamo le chiavi, le quali ordinariamente si portano unite a quelle dell’uscio di strada. COR. Quante camere vi sono? FLOR. Tre camere e la cucina. COR. Vi sarà qualche dispensa, qualche camerino. FLOR. No; non vi è altro. Ma voi volete saper troppo. COR. Niente. Domando così, per poter fingere di esservi stata. Per esempio. Camini ve ne sono? FLOR. Sì, ogni camera ha il suo camino. COR. Letti ve ne sono? FLOR. Letti? Non ci si dorme. COR. Ma dove pongono i loro ferraiuoli? i loro cappelli? FLOR. Oh, abbiamo i nostri armadi, dove si ripone ogni cosa. COR. Armadi grandi, di quelli dove si attaccano li vestiti? FLOR. Sì, di quelli; ma voi siete troppo curiosa. COR. Io curiosa? Non ci penso nemmeno. Fo per poter dire sono stata. Dove cenano? Nell’ultima camera? FLOR. Sì, nell’ultima. Addio. Non voglio che il signor Ottavio mi aspetti. (parte)


SCENA UNDICESIMA CORALLINA sola. COR. Vada pure, che per ora mi basta. Se posso buscar le chiavi al padrone, se posso introdurmi, nascondermi e non essere veduta, vedrò se cavano il tesoro, o se fanno qualche altra faccenda. Non vogliono donne! Bisogna che vi sia del male. Noi altre donne siamo il condimento delle conversazioni; e dove non possono entrar le donne, ho paura… ho paura… Basta, la cosa è strana, sono curiosa, e a costo di tutto, voglio cavarmi di dosso questa terribile curiosità. (parte)



ATTO SECONDO SCENA PRIMA Camera in casa di Lelio, con tavolino su cui evvi il di lui vestito. ELEONORA sola. ELEON. Oh che bestia è quel mio marito! Con lui non si può parlare. Subito alza la voce. Ma gridi, strepiti, faccia quanto sa e quanto vuole, mi ha da dire quel che si fa in quella casa, o me ne vado a star con mia madre. Mi dispiace che sul più bello è venuto il fattore! Non ho potuto dirgli l’animo mio; ma anderà via il fattore, e mi sfogherò. Frattanto, giacché qui è il vestito che Lelio aveva attorno questa mattina, voglio un poco vedere, se nelle tasche vi è qualche cosa, da fare qualche scoperta. Queste cose non le fo mai. Per natura io non sono curiosa, ma questa volta sono proprio impuntata. (visita le tasche del vestito) Questo è il suo fazzoletto… Vi è un nodo! Perché mai lo avrà fatto? Sarei ben curiosa di sapere che cosa voglia dir questo nodo. Chi sa? Può anche darsi che io lo sappia. E queste che chiavi sono? Non le ho più vedute. In casa certamente non servono. Oh, adesso sì che mi metto maggiormente in sospetto. Se Lelio non mi dice che chiavi sono, attacchiamo una lite. Questo è un viglietto. Leggiamolo un poco: vediamo a chi va, e chi lo manda. Al Signor Padron colendissimo il Signor Lelio Scarcavalli. Sue riverite mani. Vediamo chi scrive. Vostro vero amico Pantalone de’ Bisognosi. Sì, uno di quelli della conversazione segreta. Vi mando le due chiavi nuove, avendo per maggior sicurezza fatte cambiar le serrature, dopo che il mio servitore ha perse le chiavi vecchie. Dimattina all’ora solita v’aspettiamo. Addio. Oh bella! Queste sono le chiavi del luogo topico. Che bella cosa sarebbe rubargliele! e poi all’improvviso andarli a trovar sul fatto! Ma saranno le nuove, o le vecchie? Quando è scritto il viglietto? Ai 20. Oh, sono le nuove senz’altro. Eccolo, eccolo. Queste non gliele do più. (mette il viglietto in tasca di Lelio, e ripone le chiavi nelle sue) SCENA SECONDA LELIO e detta. LEL. Il servitore non è ancora tornato? ELEON. Se fosse tornato, lo vedreste. LEL. Che graziosa risposta! ELEON. A proposito della vostra domanda. Vedete che il servitore non c’è, e a me domandate se è ritornato. LEL. Domando a voi, per sapere se ve ne siete servita, se l’avete mandato in qualche luogo. Mi pare impossibile che non sia ritornato. ELEON. In quanto a quell’asino, quando si manda in un servizio, non torna mai. LEL. Ho d’andar subito fuori di casa. Ho bisogno d’esser vestito. ELEON. L’abito è qui, vi potete vestire. LEL. Aiutatemi. (si cava la veste da camera) ELEON. Potreste dirlo con un poco più di maniera. LEL. Favorisca d’aiutarmi. (con ironia) ELEON. Dove si va così presto? (gli mette l’abito) LEL. Vado dove mi occorre, signora. ELEON. Sì, sì, anderete a soffiare. LEL. A soffiare! Sono io qualche spione? ELEON. Bravo. Fingete di non intendere. Anderete a soffiare nelli fornelli. LEL. Che fornelli? non vi capisco. ELEON. Mi è stato detto che in quel vostro luogo segreto fate il lapis philosophorum. LEL. Che lapis! Siete una pazza voi e chi ve lo dice. ELEON. Ma dunque che cosa fate là dentro? LEL. Niente. ELEON. Assolutamente voglio saperlo. LEL. Assolutamente non ne saprete di più. ELEON. Farò tanto che lo saprò. LEL. Eleonora, abbiate giudizio. ELEON. Voglio saperlo, e lo saprò. LEL. Non fate che mi venga il mio male. ELEON. Oh se lo saprò! LEL. Signora Eleonora… ELEON. Padrone mio… LEL. Vuol favorire di mutar discorso? ELEON. Lo saprò. LEL. Se lo dite un’altra volta, ve ne fo pentire da galantuomo. ELEON. Voi non vorreste ch’io lo sapessi. LEL. E voi… ELEON. Ed io… lo saprò. LEL. (Vuol darle uno schiaffio, ella si ritira) ELEON. Sì, a vostro dispetto lo saprò. (allontanandosi) LEL. E che sì, che vi rompo le braccia. ELEON. Ma lo saprò. (come sopra) LEL. Giuro al cielo… (le corre dietro) ELEON. Lo saprò lo saprò, lo saprò. (si chiude in una camera) LEL. È meglio che me ne vada, sento che la bile m’affoga. (vuol partire) ELEON. (Apre la porta e mette fuori la testa) Sì, maladetto, lo saprò. LEL. (Prende una sedia per dargliela nella testa) ELEON. Lo saprò. (chiude) LEL. Bestia! Mi sento che non posso più. No, no, non lo saprai. No. (alla porta) No, diavolo, non lo saprai. No, bestia, non lo saprai, no. ELEON. (Da un’altra porta) Sì, sì, lo saprò. (e chiudendo parte) LEL. Non posso più. (parte)


SCENA TERZA Camera in casa di Ottavio. BEATRICE e CORALLINA COR. Presto, signora padrona, che se non parlo, mi viene tanto di gozzo. BEAT. Via, parla. COR. Ho trovato la maniera di saper tutto. BEAT. Di che? COR. Della compagnia, delle camere, del casino. BEAT. Davvero! Come? COR. Tutti hanno le chiavi in tasca; bisognerebbe procurare di buscarle a qualcuno. BEAT. E poi? COR. E poi, so io quel che dico; sono informata di tutto: e son capace all’oscuro, ad occhi chiusi, introdurmi, nascondermi e saper tutto. BEAT. Mio marito le avrà? COR. Le avrà sicuramente, e le avrà nelle tasche, perché se ne servono tutto dì. Bisogna studiar il modo di fargliele sparire. BEAT. Se le ha ne’ calzoni, sarà difficile. COR. Non può averle ne’ calzoni, perché le chiavi delle porte saranno grosse. BEAT. Questa mattina è venuto tardi, e non si è nemmeno spogliato, come qualche giorno suol fare; bisognerà aspettar questa sera, quando va a letto. COR. No! il bello sarebbe scoprirli questa sera. Ho rilevato che questa sera fanno una cena. BEAT. Oh, quanto pagherei di vederli! COR. Bisogna studiare il modo. BEAT. Eccoli che vengono qui. COR. Studiate voi, che studierò ancor io.


SCENA QUARTA OTTAVIO,ROSAURA,FLORINDOedette. ROS. Badate a’ fatti vostri. (a Florindo) FLOR. Signor Ottavio, vedete come vostra figliuola mi tratta? OTT. Caro amico, mia figlia è donna come le altre. Avrà de’ momenti buoni, avrà de’ momenti cattivi. Fate come si fa del tempo. Godete il sereno, fuggite dal tuono; e quando tempesta, ritiratevi, ed aspettate che torni il sole. ROS. Il signor padre sa dar dei buoni consigli. BEAT. Mio marito è fatto a posta per far venire la rabbia. OTT. Signora Corallina, signora cameriera di garbo, quest’oggi non ci favorisce il caffè? COR. Il caffè è pronto, signore, lo vuole qui? OTT. Giacché non ce lo avete portato a tavola, lo beveremo qui. COR. Subito. (Signora, portatevi bene. Se abbiamo le chiavi, siamo a cavallo). OTT. Rosaura, che cosa vi ha fatto il vostro sposo? ROS. Niente, signore. OTT. Non v’ha fatto nulla, e lo guardate sì bruscamente? ROS. Ho dei momenti cattivi. OTT. Amico, il cielo è torbido. Aspettate il sole. (a Florindo) ROS. Questo sole non tornerà così presto. OTT. Sì, ritornerà, quando sarà tramontata la luna. BEAT. Oggi perché non vi spogliate? Perché non vi mettete in libertà come il solito? Il signor Florindo è di casa, non è persona di soggezione. (ad Ottavio) OTT. Ho da uscir presto. Non voglio far due fatiche. BEAT. Avete da uscir presto, eh? Dove avete d’andare? OTT. Vuol anche sapere dove ho d’andare? BEAT. Mi pare che alla moglie si potrebbe dire. OTT. Sì, una moglie così compita merita bene che io glielo dica! Devo andare a render la visita a quel cavaliere che è stato ieri da me. BEAT. Pare a voi che quell’abito sia a proposito per una visita di soggezione? Dovreste metterne un altro migliore. OTT. Eh io non bado a queste piccole cose. BEAT. Sapete che questi signori mezzi gentiluomini ci stanno su questi cerimoniali. Dirà che vi prendete con lui troppa confidenza. OTT. Dica ciò che vuole: io non ci penso. BEAT. (Già; basta che io dica una cosa, perché non la voglia fare). (da sé) OTT. Florindo mio, voglio che presto si concludano queste nozze. BEAT. (Non faremo niente). (da sé) FLOR. Per me son pronto, ma la signora Rosaura non mi vuol bene. ROS. Vi vorrei bene, se foste un uomo sincero. BEAT. Vi mutate quell’abito? (ad Ottavio) OTT. Signora no. (a Beatrice) Le avete detta qualche bugia? (a Florindo) BEAT. (Ecco come mi abbada). (da sé) FLOR. Io le ho sempre detta la verità; ed ella non mi vuol credere. OTT. Eh, non è niente. Un poco di curiosità, mescolata con un poco di ostinazione, è il sorbetto che sogliono dare le mogli. Passerà, non è niente. ROS. (Mio padre mi fa crescer la rabbia). (da sé) BEAT. Almeno, se non volete mettervi un altro vestito lasciate che vi spazzi questo. È tutto polvere. OTT. Sì, brava la mia cara moglie amorosa. Spazzatelo, che vi sarò obbligato. BEAT. Date qui. Cavatevelo, se volete che ve lo spazzi. OTT. No, no, dategli una spazzatina in dosso, non voglio fare questa fatica. BEAT. Così non si fa bene. Cavatevelo. OTT. No, cara, non v’incomodate, che non m’importa. BEAT. Ecco qui. Mai vuol fare a modo mio. OTT. Cara figliuola, non siate così puntigliosa. (a Rosaura) BEAT. (Or ora perdo la pazienza). (da sé) ROS. Signor padre, vi prego a lasciarmi stare. FLOR. È irritata meco senza mia colpa. OTT. Niente, niente, dopo un poco di sdegno, par più buona la pace. BEAT. Non ve lo volete cavare? (ad Ottavio) OTT. Signora no. BEAT. Siete una bestia. OTT. Ah? che dite? Ho io una moglie che mi vuol bene? Queste sono tutte parole amorose. Quanto paghereste che la vostra sposa vi facesse una di queste finezze? (a Florindo) FLOR. Io non amerei ch’ella mi strapazzasse. OTT. Io penso diversamente. Piuttosto che veder le donne ingrugnate, ho piacer, poverine, che si sfoghino. BEAT. È una cosa, con questa sua flemma, da venir etiche.


SCENA QUINTA CORALLINA che porta il caffè, e detti; poi un SERVITORE COR. Ecco il caffè. OTT. Via, beviamolo in pace, se si può. COR. (Avete fatto niente?) (piano a Beatrice) BEAT. (No, non mi basta l’animo di fargli cavar il vestito. (piano a Corallina) OTT. Sediamo. Il caffè si beve sedendo. Chi è di là? SERV. Comandi. OTT. Dammi da sedere. COR. (Col caffè si accosta ad Ottavio, dopo averlo dato al altri) SERV. (Porta le sedie, e nel metterne una presso ad Ottavio, Corallina finge le abbia dato nel braccio, e versa il caffè sul vestito di Ottavio) COR. Uh! meschina me! Perdoni. Mi ha urtato il braccio, non l’ho fatto a posta. OTT. Pazienza! Non è niente. COR. Subito. Vi vuole dell’acqua fresca. OTT. Sì, fate voi. COR. Presto, presto, dia qui. (gli leva il vestito) (Il colpo è fatto). (parte col vestito) OTT. Datemi qualche cosa, che non mi raffreddi. BEAT. Portategli il vestito. (al Servitore, il quale va per esso) OTT. Via sì, sarete contenta. BEAT. (Ha fatto Corallina quello che non ho saputo far io). (da sé) OTT. Mi dispiace aver perduto il caffè. Che me ne facciano un altro. BEAT. Vedete che vuol dire non fare a modo delle donne? OTT. Se faceva a vostro modo, era peggio: mi macchiavo l’altro vestito, che è di colore. BEAT. Se facevate a modo mio, questo non succedeva. OTT. Sentite, Florindo? Le nostre donne son profetesse. Felici noi, che possediamo un tanto tesoro!


SCENA SESTA Il SERVITORE, poi CORALLINA e detti. SERV. (Coll’altro vestito; lo mette ad Ottavio) OTT. Signora Beatrice, siete contenta? BEAT. Non ancora. (Ho paura che domandi le chiavi). (da sé) COR. Ecco, signore, il fazzoletto, la tabacchiera e le chiavi. (ad Ottavio) OTT. Bravissima! (ripone il tutto in tasca) BEAT. (Anche le chiavi?) (a Corallina, piano) COR. (Non son quelle, le ho cambiate). (piano a Beatrice) BEAT. (Il gran diavolo che è costei!) (da sé) OTT. Cara Corallina, io non ho bevuto il caffè. Ve ne sarebbe un altro? COR. In verità, signor padrone, di abbruciato non ve n’è. OTT. Pazienza! Lo anderò a bevere fuori di casa. BEAT. Lo andrete a bevere al vostro caro ridotto. OTT. Florindo, volete venire con me? FLOR. Farò quello che comandate. (osserva Rosaura) ROS. Mi guardate? Andate pure; io non vi trattengo. OTT. Amico, è meglio che andiamo. Lasciate che il temporale si sfoghi. Domani sarà buon tempo. ROS. Né domani, né mai. OTT. Mai buon tempo? Mai? Sempre nuvolo? Sempre tempesta? Ragazza mia, e che sì, che s’io suono una certa campana, faccio subito venir bel tempo? ROS. Come, signore? OTT. Sentite. Vi caccerò in un ritiro. Ah! che dite? ROS. Io in ritiro? BEAT. Mia figlia in ritiro? OTT. Andiamo, andiamo. Campana all’armi. Fuoco in camino. (parte)


SCENA SETTIMA BEATRICE, ROSAURA, FLORINDO e CORALLINA ROS. Sentite? Per causa vostra. (a Florindo) FLOR. Signora, io non ne ho colpa. BEAT. Mia figlia in ritiro? Se non avrà voi, non le mancheranno mariti. FLOR. Lo credo. Ma io non merito né i suoi, né i vostri rimproveri. BEAT. Andate, andate, che mio marito vi aspetta. FLOR. Partirò per obbedirvi. (in atto di partire) ROS. Bella cosa! Lasciarmi così. FLOR. Ma signora… (torna indietro) COR. (Lasciatelo andare, che vi ho da dire una bellisima cosa). (a Rosaura, piano) ROS. (Che cosa?) (a Corallina, piano) COR. (Mandatelo via. Ho le chiavi). (come sopra) ROS. (Sono in curiosità). (da sé) Basta, se volete andare, non vi trattengo. (a Florindo) FLOR. Resterò, se lo comandate. BEAT. No, no, servitevi pure. Mio marito vi aspetta. FLOR. Che dite, signora Rosaura? ROS. Se mio padre vi aspetta, andate. FLOR. Non mi aspetta per alcuna premura, posso ancor trattenermi. COR. (Mandatelo via). (a Rosaura, piano) ROS. (Non vorrei disgustarlo). (da sé) Andate, e poi tornate. (a Florindo) BEAT. Oh, che non s’incomodi. COR. Tornerà domani. FLOR. Tornerò per obbedirvi. Ma vi prego, abbiate pietà di me. (parte)


SCENA OTTAVA BEATRICE, ROSAURA e CORALLINA ROS. Non vorrei che si disgustasse. COR. Eh non dubitate, che tornerà. ROS. Che cosa avete da dirmi? BEAT. Dove sono le chiavi? COR. Eccole. ROS. Che chiavi? COR. Zitto. Le chiavi della casa segreta. Una della porta di strada, l’altra dell’appartamento. BEAT. Andiamo, andiamo. (a Corallina) ROS. Voglio venire ancor io. BEAT. A voi non è lecito. State in casa, e vi diremo tutto. ROS. Cara signora madre… BEAT. No, vi dico. Andiamo, Corallina. (parte)


SCENA NONA ROSAURA e CORALLINA ROS. Cara Corallina… COR. Non dubitate. Andrò io, vi saprò dir tutto. ROS. Quelle chiavi, come le avete avute? COR. Le ho buscate a vostro signor padre. ROS. Quando? COR. Non avete veduto il lazzo del caffè? Allora… ROS. Voglio venire ancor io. COR. La signora madre non vuole. ROS. Corallina, se tu mi vuoi bene… COR. Via, non siate così curiosa. Abbiate pazienza. Questa sera saprete ogni cosa. ROS. Sappimi dir se vi sono donne. COR. Eh, altro che donne. Il tesoro, il tesoro. (parte)


SCENA DECIMA ROSAURA sola. ROS. Mai in vita mia ho avuto maggior pena nel desiderare una cosa. Pazienza! Esse anderanno, e io no. Ma perché io no? Perché sono una fanciulla? E per questo perderei la riputazione? Finalmente, se andassi a spiare che fa il mio sposo, nessuno mi potrebbe rimproverare. Se sapessi come fare! Mia madre è difficilissima da lasciarsi svolgere. Quando fissa una cosa, non vi è rimedio.


SCENA UNDICESIMA FLORINDO e detta. FLOR. Deh perdonate… ROS. Voi qui? FLOR. Sì signora. Il vostro signor padre è stato fermato in casa del forestiere, che doveva egli medesimo visitare. Discorrono d’interessi, ed io mi sono preso l’ardire d’incomodarvi di nuovo. ROS. Meritereste ch’io vi voltassi le spalle. FLOR. Perché, signora? Che cosa vi ho fatto? ROS. Non mi volete dire la verità. FLOR. E siam qui sempre! Pagherei assaissimo, che poteste cogli occhi vostri assicurarvi della mia sincerità. ROS. Potete farlo quando volete. FLOR. Come? ROS. Introducendomi di nascosto. FLOR. Voi ardirete di venir sola? ROS. No, verrò colla serva. FLOR. Per un simile luogo, la serva non è compagnia che basti. ROS. Verrà mia madre. Se voi la pregherete, verrà. FLOR. Rosaura, compatitemi. Ve l’ho detto altre volte. I miei amici non vogliono donne; ed io non deggio… ROS. E voi non dovete disgustarli per me. Vedo che di essi più che di me vi preme, ed ecco il fondamento di credervi un menzognero, un infido. FLOR. Orsù, Rosaura, per darvi una prova dell’amor mio, tralascierò d’andarvi. Così sarete contenta. ROS. Mi darete ad intendere di non andarvi, ma vi anderete. FLOR. No, vi prometto, non vi anderò. ROS. Non mi basta. FLOR. Vi confermerò la promessa col giuramento. ROS. Non voglio giuramenti, voglio una sicurezza maggiore. FLOR. Chiedetela. ROS. Mi promettete di darmela? FLOR. Sì, quando ella da me dipenda. ROS. Ditemi… Ma badate bene di non mentire. FLOR. Non son capace. ROS. Avete voi le chiavi, come hanno gli altri? FLOR. Le chiavi di che? ROS. Delle porte di quella casa, dove non possono entrar le donne? FLOR. Sì, le ho, non posso negarlo. ROS. Questa è la sicurezza che pretendo da voi. Datemi quelle chiavi. FLOR. Ma… queste chiavi… nelle vostre mani… ROS. Ecco la bella sincerità! Ecco il fondamento delle vostre promesse, dei giuramenti vostri! FLOR. Non vedete, che s’io volessi ingannarvi, potrei darvi le chiavi, ed unirmi poscia con un amico per essere non ostante introdotto? ROS. Non credo che vogliate mendicar i mezzi per essere mentitore. Mancandovi le chiavi, vi manca, secondo me, l’eccitamento maggiore. Florindo, se mi amate, fatemi la finezza di depositarle nelle mie mani. FLOR. Ah Rosaura, voi mi volete indurre ad una cosa, che per molti titoli non mi conviene. ROS. Avete voi intenzione di andar in quel luogo, sì o no? FLOR. Certamente, vi prometto di no. ROS. Che difficoltà dunque avete a lasciarmi le chiavi? FLOR. Vi dirò… queste chiavi… se passassero in altre mani, potrebbero produrre degli sconcerti. ROS. Vi prometto sull’onor mio, che non esciranno dalle mie mani. Siete ora contento? Mi fareste l’ingiuria di dubitare di me? Vorrei vedere anche questa. FLOR. Cara Rosaura, dispensatemi. ROS. No certamente. Ecco l’ultima intimazione ch’io faccio al vostro cuore. O fidatemi quelle chiavi, o non pensate più all’amor mio. Se mi pento, se vi perdono, prego il cielo che mi fulmini, che m’incenerisca. FLOR. Basta, basta, non più. Tenete: eccole, non mi atterrite di più. ROS. Nelle mie mani saran sicure. FLOR. Vi prego, non mi rendete ridicolo co’ miei amici. ROS. Non dubitate, son contenta così. FLOR. Guardate, se veramente vi amo! ROS. Sì, lo credo; compatitemi se ho dubitato. FLOR. Quando posso sperare di farvi mia? ROS. Quando volete voi; quando vuole mio padre. FLOR. Volo a dirglielo, se vi contentate. ROS. Sì, ditegli che la tempesta è finita, che torna il sole. FLOR. Cara, mi consolate. ROS. Io sono più consolata di voi. Queste chiavi mi danno il maggior piacere del mondo. FLOR. Per qual motivo, mia cara? ROS. Perché con queste mi assicuro del vostro amore. (E con esse mi assicurerò forse di quel segreto, che mi fa vivere in una perpetua curiosità). (da sé, parte) FLOR. Gran cosa è l’amore! Tutto si fa, quando si vuol bene. Quelle chiavi le ho date a Rosaura colla maggior pena del mondo. Ma se le ho dato l’arbitrio della mia vita, posso anche fidarle le chiavi di una semplice conversazione. (parte)


SCENA DODICESIMA Strada con porta, che introduce nel casino della conversazione. PANTALONE esce dalla porta, e chiude. PANT. Xe squasi notte, e Brighella no vien. Bisognerà che vaga mi a proveder le candele de cera, e che le fazza portar.


SCENA TREDICESIMA LEANDRO e detto. LEAN. Servo, signor Pantalone. PANT. Amicizia. LEAN. Amicizia. (si abbracciano) PANT. Questo xe el nostro saludo. No se fa altre cerimonie. LEAN. Va benissimo. Tutti i complimenti sono caricature. PANT. Sì ben; se usa dir per civiltà delle parole, senza pensar al significato, senza intender, co le se dise, quel che le voggia dir. Per esempio, servitor umilissimo vuol dir me dichiaro de esser so servitor; ma se ghe domandè un servizio che no ghe comoda, el ve dise de no; e po el sior umilissimo ve tratta e ve parla con un boccon de superbia, che fa atterrir. Patron reverito xe l’istesso. I dà del patron a uno che no i se degna de praticar. LEAN. Signor Pantalone, un mio amico vorrebbe essere della nostra conversazione. PANT. Xelo galantomo? LEAN. Certamente. PANT. A pian co sto certamente. Dei galantomeni de nome ghe ne xe assae, de fatti ghe ne xe manco. Che prove gh’aveu che el sia un galantomo? LEAN. Io l’ho sempre veduto trattare con persone civili. PANT. No basta. In tutte le conversazion civili, tutti no xe galantomeni, e col tempo i se descoverze. LEAN. È nato bene. PANT. No xe la nascita che fazza el galantomo, ma le bone azion. LEAN. È uomo che spende generosamente. PANT. Anca questa la xe una rason equivoca: bisogna véder se quel che el spende xe tutto soo. LEAN. Io poi non so i di lui interessi. PANT. Donca no ve podè impegnar che el sia galantomo. LEAN. In questa maniera, signor Pantalone, avremo tutti in sospetto, e non praticheremo nessuno. PANT. No, caro amigo, intendème ben. No digo che abbiemo da sospettar de tutti senza rason, e che no abbiemo da praticar se no quelli che conossemo galantomeni con rason; anzi avemo debito de onestà de creder tutti da ben, se no gh’avessimo prove in contrario. Quelli però che più che tanto no se cognosse, i se pratica con qualche riserva; no se ghe crede tutto, i se prova, i se esamina con delicatezza, e se col tempo e coll’esperienza se trova un galantomo da senno, se pol dir con costanza de aver trovà un bel tesoro. LEAN. Io questo che vi propongo lo credo onoratissimo, ma non posso essere mallevadore per lui. PANT. N’importa, lo proveremo: se el sarà oro el luserà.


SCENA QUATTORDICESIMA BRIGHELLA e detti. BRIGH. Èla ella, sior padron? PANT. Sì, son mi. Tanto ti sta? BRIGH. Son pien de roba, che no me posso mover. PANT. Astu tolto candele de cera? BRIGH. Sior no, non ho avù tempo. PANT. Adesso anderò mi a ordinarle dal nostro spizier. E vu, co podè, andè a torle. (a Brighella) BRIGH. Sior sì; metto zo sta roba, e vado subito. Son pien per tutto, no so come far a avrir. PANT. Caro sior Leandro, la ghe averza la porta. LEAN. Volentieri. (apre) BRIGH. Ho speranza stassera de farme onor. PANT. Distu da senno? BRIGH. La vederà che boccon de cena. PANT. Bravo, gh’ho a caro. BRIGH. Ma i se n’incorzerà in ti conti. (entra) PANT. N’importa. Co xe ben fatto, spendo volentiera. LEAN. Signor Pantalone, posso dunque dire all’amico che venga? PANT. Chi xelo? Cossa gh’alo nome? LEAN. È un certo Flamminio Malduri. PANT. Benissimo, lo proponeremo. Sentiremo cossa che dise i altri. LEAN. Vorrei condurlo alla cena. PANT. La lo mena; sul fatto se rissolverà. LEAN. Vado a ritrovarlo. Spero che resterete contento. Amicizia. (parte) PANT. Amicizia. Mi no gh’ho altra premura, che de véder in te la nostra compagnia zente onesta, de buon cuor, amorosa, che in t’una occasion sappia soccorrer un amigo. Tutti a sto mondo gh’avemo bisogno un dell’altro, e i xe tanto pochi quelli che fazza ben per bon cuor, che a trovarghene xe più difficile d’un terno al lotto. (parte)


SCENA QUINDICESIMA ELEONORA col zendale alla bolognese. ELEON. L’ora è avanzata. Voglio vedere se mi riesce il colpo. Quella è la porta, e queste sono le chiavi. Se posso entrare, nascondermi, e vedere senz’esser veduta mi chiarirò d’ogni cosa. E se sarò scoperta, che cosa mi potranno fare? Dove va mio marito, vi posso andare, ancor io; anzi tutti mi loderanno. Se vado, non vado per altro fine che per questo. Voglio bene al marito, e voglio sapere dove va e che cosa fa: sì, lo voglio sapere. Tante volte gli ho detto: lo saprò. Voglio poter dire una volta: l’ho saputo. Non sento nessuno, adesso mi provo. (mette la chiave nella serratura)


SCENA SEDICESIMA BRIGHELLA di casa, e detta. BRIGH. Chi è là? (apre l’uscio, ed Eleonora spaventata si ritira) ELEON. Povera me! Ho perduto le chiavi. (parte lasciando le chiavi) BRIGH. Una donna? Colle chiave? Corro dal me padron. (chiude la porta, leva le chiavi, e parte)


SCENA DICIASSETTESIMA CORALLINA vestita da uomo e BEATRICE col zendale alla bolognese. BEAT. Altro che dire non entran donne! Hai veduto? Quella che è uscita, è una donna. (avendo osservato Eleonora) COR. Assolutamente vi è qualche porcheria. BEAT. Presto, entriamo anche noi, e vediamo se ve ne sono altre. COR. Andiamo; ecco la chiave. Ma zitto… sento gente. BEAT. Non vorrei che fossimo scoperte prima d’entrare. Entrate che siamo, non m’importa. Quando abbiamo saputo ogni cosa, che ci scoprano pure, ma se ci vedono qui… COR. Ritiratevi. BEAT. E tu non vieni? COR. Io son vestita da uomo. È sera; non mi conosceranno. BEAT. Bada bene non m’ingannare. COR. Fidatevi di me. BEAT. Ti aspetto in questo vicolo. (si ritira) COR. (Ho del coraggio, ma tremo un poco). (da sé)


SCENA DICIOTTESIMA PANTALONE e dette. PANT. (Una donna colle chiave? la voleva andar drento? Coss’è sta cossa? Chi èlo el poco de bon, che colle donne vol ruvinar la nostra povera compagnia! Vedo uno là: che el sia dei nostri?) (osservando Corallina) COR. (Mi pare quello che chiamano Pantalone). (da sé) PANT. Amicizia. (forte verso Corallina) COR. (Che dice d’amicizia?) (da sé, non rilevando il gergo) PANT. (O che nol ghe sente, o che nol xe della compagnia). (da sé) Amicizia. (s’accosta a Corallina, ripetendo il termine) COR. Sì signore. (alterando la voce) PANT. (Nol xe della conversazion. Ma cossa falo in sti contorni?) (da sé) COR. (Non vorrei essere scoperta). (da sé) PANT. Cossa fala qua, patron? Aspettela qualchedun? (a Corallina) COR. Aspetto un amico. PANT. L’aspetta un amico? (fa il falsetto, imitando la voce di Corallina) (O che l’è un musico, o che l’è una donna). (da sé) COR. (È meglio ch’io me ne vada). (da sé) PANT. (Vôi véder cossa xe sto negozio). (da sé) La diga patron, chi aspettela? COR. Niente, signore, la riverisco. (vuol partire) PANT. Xela fursi anca ella uno de quei della compagnia de sti galantomeni? COR. Sì signore. PANT. Mo perché donca, co ghe digo amicizia, no me rispondela amicizia? COR. Ah sì, non vi avevo inteso. Amicizia. PANT. (Eh, la xe una donna; cossa diavolo xe sto negozio!) Perché no vala drento? (a Corallina) COR. Aspettava il signor Ottavio. PANT. Tutti gh’ha le so chiave. No la le gh’ha ella? COR. Oh sì signore, le ho ancor io. PANT. La lassa véder mo. COR. Che serve? le ho. PANT. Co no la le mostra, xe brutto segno. COR. Eccole. (fa vedere le chiavi) PANT. Via donca, la resta servida: la vaga in casa. COR. Andate voi, che or ora verrò ancor io. PANT. Mi gh’ho un pochetto da far. Vago in t’un servizio e po torno. La vaga ella. COR. Farò come comandate. PANT. (Vôi ben véder dove va a finir sto negozio). (da sé) COR. Va ella? o vado io? PANT. La vaga pur ella. Amicizia. COR. Amicizia. PANT. (Nell’accostarsele, afferra le chiavi in mano a Corallina) COR. Come, signore? (si difende) PANT. Chi v’ha dà ste chiave? Chi seu? Cossa voleu? COR. Amicizia. PANT. Colle donne no vôi amicizia. COR. Sono scoperta. Aiutami, gambetta. (parte correndo) PANT. A rotta de collo! Ti gh’ha rason, che no gh’ho voggia de correr. Come xelo sto negozio? Do mue de chiave fora de man? Ste chiave in man de do donne? Donne introdotte in te la nostra conversazion? A monte tutto; fogo a tutto; no ghe ne vôi più saver. (entra in casa, e chiude)


SCENA DICIANNOVESIMA OTTAVIO e LELIO LEL. Ho piacere d’avervi trovato. Ho perso le chiavi, e non so dove e non so dir come; appunto stavo in attenzione di qualche amico che aprisse. OTT. Vi servirò io. Ma, caro amico, tenetene conto di quelle chiavi. Il povero signor Pantalone di quando in quando, se si perdono, le fa mutare. LEL. Eh! ho un sospetto in testa. OTT. Di che? LEL. Ho paura che me le abbia prese mia moglie; se ciò è vero, da galantuomo, le do un ricordo per tutto il tempo di vita sua. OTT. Oibò, non v’inquietate. Soffritela, se potete, e se non potete, mandatela al suo paese. LEL. Se sapeste quanto mi ha fatto arrabbiare con un maladetto lo saprò. OTT. Oh via, andiamo.


SCENA VENTESIMA FLORINDO e detti. OTT. Oh, ecco un altro camerata. Amicizia. LEL. Amicizia. FLOR. Amicizia. Appunto veniva in traccia di voi. OTT. Sì, andiamo insieme. FLOR. No, cercavo appunto di voi per far le mie scuse, e pregarvi di farle col signor Pantalone. Questa sera non vengo. OTT. No? Per qual causa? LEL. Tant’e tanto, se non venite, pagherete la vostra parte. FLOR. Sì, pagherò: è giusto. OTT. Diteci almeno il perché non venite. FLOR. Ho un affar di premura. Questa sera non posso. OTT. Oh via, ho capito. Non viene, perché ha paura. LEL. Ve lo ha proibito la sposa? FLOR. Non me lo ha proibito: ma posso far meno per soddisfarla? OTT. Bravo, genero. Io vi lodo, che siate compiacente con mia figliuola, ma voglio darvi un avvertimento: non vi lasciate prender la mano sì di buon’ora, perché poi ve ne pentirete. Le donne dicono volentieri quella bella parola voglio; e quando si fa loro buona una volta, non la tralasciano più. FLOR. Non so che dire. Questa volta ho dovuto fare così; un’altra volta poi… OTT. Oh via, regolatevi con prudenza. Amico Lelio, andiamo, e lasciamo in pace questo povero innamorato. (cerca la chiave) LEL. Eh amico, quando sarete ammogliato, vedrete il bel divertimento! Se vi tocca una moglie come la mia, volete star fresco. OTT. Che chiavi sono queste? LEL. Non sono le vostre chiavi? OTT. Oibò. Ora me ne accorgo; Corallina, nel darmi le chiavi, ha errato. Questa è quella della cantina, e questa è quella della dispensa. Come diavolo le aveva io in tasca di quell’altro vestito? Non la so capire. LEL. Come faremo a entrare? Bisognerà battere. OTT. Ci favorirà il signor Florindo. Ci darà egli le sue. FLOR. Mi dispiace… ch’io non le ho. OTT. Oh bellissima! LEL. Che cosa ne avete fatto? FLOR. Sapendo che io non veniva questa sera, le ho serrate nel mio burrò. OTT. Vedete, egli è un giovine di garbo; custodisce le chiavi, non le perde come fate voi. (a Lelio) LEL. E voi le lasciate in balìa delle donne. OTT. Questo è un bel caso: tutti tre senza chiavi. LEL. Bisogna battere. OTT. Sì, battiamo. (battono)


SCENA VENTUNESIMA PANTALONE esce di casa, e detti. PANT. Coss’è, siori, no le gh’ha chiave? LEL. Io l’ho perduta. OTT. Ed io l’ho lasciata in casa. PANT. Le varda mo, ghe saravele qua le soe? LEL. Corpo di bacco! Ecco le mie. OTT. Oh bella! Ecco le mie. PANT. Le impara a custodirle. Le impara meggio a mantegnir la parola; e le se vergogna de prostituir el decoro alle lusinghe, alle curiosità delle donne. (entra) LEL. Come! Che dite? Cospetto! Cospettonaccio! Mia moglie l’ammazzerò. (entra) OTT. (Fa varie ammirazioni colle chiavi ed entra)


SCENA VENTIDUESIMA FLORINDO solo. FLOR. Che imbrogli sono mai questi? Fra quelle chiavi vi sarebbero mai le due che ho dato a Rosaura? No, perché essi due le hanno per le loro riconosciute; e poi Rosaura capace non sarà di tradirmi. Certamente queste donne ardono di volontà di sapere… Vedo gente… Colui colla lanterna è Arlecchino. Vi è una donna in zendale con lui; che sia forse la signora Beatrice, in traccia di suo marito? Vuò rimpiattarmi ed osservare. (si ritira)


SCENA VENTITREESIMA ROSAURA in zendale alla bolognese, ARLECCHINO con lanterna da mano, FLORINDO ritirato. ROS. Vieni con me, non aver paura. ARL. Ma mi, siora, in sta sorte de contrabbandi me trema le budelle in corpo. ROS. Insegnami solamente dov’è la porta di quella casa che già ti ho detto. ARL. La porta l’è quella lì. ROS. Tu ci sarai stato dentro più volte. ARL. Sigura. Ghe vago squasi ogni dì. ROS. Vorrei entrare ancor io. ARL. Oh, siora no; donne femene no ghe ne va. ROS. È notte; non si sente nessuno. Possiamo entrare con libertà; e poi sappi che vi è mia madre, e vi posso andare ancor io. ARL. Se batto, i vien a avrir, i me vede con una donna, e i me regala de bastonade. ROS. Senti. Ho le chiavi. ARL. Avì le chiave? Chi ve l’ha dade? ROS. Me le ha date mio padre: eccole. Apriremo da noi, senza che nessuno se ne accorga. Vi è niente colà da nascondersi? ARL. Gh’è un camerin… ma… no l’è mo a proposito. ROS. Presto, presto, andiamo. ARL. Corpo del diavolo… no vorria… ROS. Tieni le chiavi, apri. ARL. Basta. Avro, e me la sbigno[ref]È una parola in gergo, che vuol dire fuggo via[/ref]. (mette le chiavi nell’uscio) FLOR. Lascia a me queste chiavi. (le prende) ARL. La se comoda, che l’è padron. ROS. Come! Così mantenete la vostra parola? Mi promettete di non venire, e poi venite al casino? FLOR. Ah ingrata! Così voi mi serbate la fede? Mi carpite le chiavi, mi giurate di custodirle, e le impiegate in tal uso? ROS. Vi ho promesso che escite non sarebbero dalle mie mani. FLOR. Promesse accorte, con animo d’ingannare. Ma chi non sa che sia fede, non merita che a lui si serbi. Giacché voi mi avete insegnato ad operare a capriccio, mi valerò de’ vostri barbari documenti; ed ora sugli occhi vostri anderò in quel luogo medesimo, dove non volevate ch’io andassi. ROS. Ah no, caro Florindo… FLOR. Tacete; se non mi amate, non meritate di essere compatita; e se mi amate, vi serva di regola e di castigo la pena che giustamente provate. (apre ed entra)


SCENA VENTIQUATTRESIMA ROSAURA ed ARLECCHINO ROS. Oimè! Arlecchino. ARL. Signora. ROS. Mi vien male. ARL. Forti. Mi no gh’ho alter che un poco de moccolo de lanterna. ROS. Mi sento morire. ARL. Aiuto, gh’è nissun?


SCENA VENTICINQUESIMA BEA TRICE, ELEONORA, CORALLINA, da varie parti; e detti. ELEON. Che c’è? COR. Che cosa è stato? BEAT. Figliuola mia. ROS. Signora madre, veniva in traccia di voi. BEAT. Ed io veniva in traccia di te. ARL. E mi andava a scarpioni[ref]Dice che andava a caccia di scorpioni, per dire una facezia.[/ref].


SCENA VENTISEIESIMA BRIGHELLA colle candele di cera, e detti. BRIGH. Coss’è sto negozio? A st’ora? Coss’è sto mercà de donne? COR. Brighella, eccoci qui: una, due, tre e quattro. Siamo quattro femmine disperate. ARL. E mi che fa cinque. BRIGH. Ma desperade per cossa? Fursi per curiosità de saver quel che se fa là drento? COR. Non è curiosità, ma volontà rabbiosissima di sapere. BEAT. Mi preme di mio marito. ELEON. Voglio sapere di mio marito. ROS. Vo’ sapere che fa il mio sposo. COR. Ed io non ho né parenti, né amici, ma ho certo naturale, che vorrei sapere tutti li fatti di questo mondo. ARL. Da resto po, no se pol dir che le sia curiose. BRIGH. Signore, le se ferma un tantin. (Ste donne vol far nasser dei despiaseri; adesso ghe remedierò mi). (da sé) Vorle vegnir là drento? COR. Oh, il ciel volesse! BEAT. Pagherei cento scudi. BRIGH. Zitto. Le lassa far a mi, che da galantomo le voggio sodisfar. BEAT. Ma come? BRIGH. Se fidele de mi? COR. Sì Brighella è uomo d’onore. Fo io la sicurtà per lui. BRIGH. Arlecchin, ti ti sa dov’è la porta che referisse in cantina. ARL. Cussì no la savessio! Ho portà tante volte la legna. BRIGH. Tiò sta chiave. Averzi quella porta che va nella stradella; condusile drento con quella lanterna, e po serra, e vien per de qua, che te aspetto. BEAT. Ah Brighella, non ci tradire. BRIGH. Me maraveggio: le se fida de mi. COR. Finalmente siamo quattro donne; non abbiamo paura né di venti, né di trenta uomini. ARL. Le favorissa, le vegna con mi, che averò l’onor de far la figura de condottier. (parte) BEAT. Rosaura, andiamo. Già che ci siete, non so che dire. (parte) ROS. Non ci sarei, s’ella non mi avesse dato l’esempio. (parte) ELEON. O in un modo, o nell’altro, purché veda, sarò contenta. (parte) COR. Caro Brighella, fateci veder tutto: non già per curiosità, ma così per divertimento. (parte)


SCENA VENTISETTESIMA BRIGHELLA solo. BRIGH. Sta volta me togo un arbitrio, che no so come el me passerà, ma fazzo per far ben, e spero de far ben. Ste donne le son indiavolade; ognuna l’è capace de precipitar la casa, el marido, e tutti quei de sto logo. Se me riesce quel che m’è vegnù in tel pensier, spero che i mi padroni sarà contenti, le donne disingannade; e mi averò la gloria d’aver contribuido alla pase comun, al comun contento de tutti, e alla sussistenza de un logo, dove anca mi ghe cavo el mio profitto, e vivo da galantomo. Perché al dì d’oggi, co se g’ha un tocco de pan, bisogna sfadigarse, suar e strologar per mantegnirselo fin che se pol. (parte)



ATTO TERZO SCENA PRIMA Camera nel casino della conversazione, con varie porte. ROSAURA, BEA TRICE, ELEONORA, CORALLINA e BRIGHELLA BRIGH. Le vegna con mi, e no le se indubita gnente. Le metterò in t’un logo, dove senza esser viste le vederà. BEAT. Che luogo è quello dove ci volete mettere? BRIGH. Una camera scura dove no ghe va nissun. COR. Che sia la camera del tesoro? BRIGH. Siora sì, gh’è el tesoro da ingrassar i campi. ELEON. Vi sono i fornelli? BRIGH. No, la veda: i fornelli xe in cusina. BEAT. Qual è la camera del giuoco? BRIGH. Qualche volta i zoga qua colla dama. ROS. Colla dama, eh? Sì, sì, vi ho capito. Si divertono colle donne. BRIGH. Le vederà con che donne che i se diverte. Le so donne le son le bottiglie. COR. Le bottiglie, o le pentoline? BRIGH. Pentoline? Pignatelle? Da cossa far? COR. Per far le stregherie, per cavar il tesoro. BRIGH. Sì, sì, brava, la dise ben. Presto, presto, le se retira, che sento zente, e le varda ben, le staga zitte, no le fazza sussurro. ROS. (Se vedo donne, non mi tengono le catene). (da sé, entra) BEAT. (Se mio marito giuoca, vado a strappargli le carte di mano). (entra) ELEON. (Voglio rompere tutti i loro lambicchi). (entra) COR. (Se cavano il tesoro, ne voglio anch’io la mia parte). (entra) BRIGH. Per sincerar ste donne curiose, no gh’è altro remedio che farle véder coi propri occhi… Vien i patroni, vado a finir de parecchiar la cena. Se la invenzion va ben, son el primo omo del mondo. Se la va mal, pazienza. Co l’intenzion l’è bona, se compatisse chi falla. (parte)


SCENA SECONDA PANTALONE, OTTAVIO, LELIO e FLORINDO LEL. Ella è così senz’altro. Mia moglie mi ha levate di tasca furtivamente le chiavi. PANT. Chi sa che no la fusse quella che in abito da omo zirava qua intorno? LEL. Mia moglie da uomo? Non crederei. Abiti che le vadan bene, in casa non ve ne sono. PANT. La sarà stada donca quella in zendà, che ha trovà Brighella colle chiave, in atto de avrir. LEL. Se ciò è vero, se colei me l’ha fatta, giuro al cielo, la fo morire sotto un bastone. OTT. No, amico, non tanta furia. LEL. Siete qui voi colla vostra flemma. OTT. Lasciatemi dir due parole. Voi siete stato burlato da vostra moglie, io dalla mia, ed il signor Florindo da quella che sarà sua. Consideriamo un poco il motivo di questo loro trasporto. O provien dall’amore che hanno per noi, e non ce ne possiamo dolere; o proviene da un difetto di natura, chiamato curiosità, e dobbiamo compatire il loro temperamento. Chi nasce con dei difetti, merita compassione. L’uomo saggio deve procurar di correggerli senza scandalizzarsi. Ma sappiate, amico, che non è l’ira quella che produca le correzioni, ma la ragione. Battete la moglie dieci anni, vent’anni, diverrà sempre peggio. Onde una delle due, o correggerla con amore, o non curarla con indifferenza. PANT. Sior Ottavio dise benissimo, el parla da omo de garbo e da filosofo vero; ma mi gh’ho un’altra regola, che me par più segura, e che ho imparà a mie spese. Dalle donne ghe stago lontan, e in fatti ho procurà de far sta union de omeni senza donne, e donne qua no ghe n’ha da vegnir. E ve prego, cari amici, custodì le chiave; che se le donne ve tol le chiave, avè persa affatto la libertà. FLOR. Io sono stato il più debole, il più pazzo di tutti. Confesso la mia insensatezza. Ho date io medesimo le chiavi in deposito alla signora Rosaura, né mi sarei mai creduto ch’ella mi potesse tradire… OTT. Via, non andate in collera. Amore accieca. Ha acciecato voi nel dargliele, ha acciecato lei nel servirsene. Col tempo ci vedrete meglio. Verrà pur troppo quel tempo, che voi non le renderete conto dei vostri passi, ed ella non curerà saper dove andiate.


SCENA TERZA LEANDRO e detti. LEAN. Amicizia. (tutti fanno con lui il solito complimento) Signor Pantalone, avete detto nulla a questi signori di quel compagno che vi ho proposto? PANT. Cossa diseli, patroni, xeli contenti che recevemo sto nostro camerada? OTT. Chi è? Come si chiama? LEAN. Egli è il signor Flamminio Malduri. Lo conoscete? OTT. Io no. LEL. Lo conosco io. È galantuomo. Merita esser ammesso nella vostra conversazione. PANT. Bon. Co do lo cognosse, el se pol recever. Cossa diseli? OTT. Io son contentissimo. FLOR. Ed io pure. LEAN. Posso dunque farlo passare. PANT. Mo l’aspetta un pochetto. L’avemio da far vegnir cussì colle man a scorlando? Sto liogo ne costa dei bezzi assae; nu avemo speso, e avemo fatto quel che avemo fatto, xe ben giusto che chi entra novello, abbia da pagar qualcossa. Cossa ghe par? LEAN. Questi è un uomo generoso, soccomberà volentieri ad ogni convenienza. PANT. Femo cussì, che el paga la cena de sta sera. Ah? dighio mal? LEL. Dite benissimo. Può pagar meno per entrare in una simile compagnia? FLOR. Per me darò la mia parte. PANT. Gnente, sior Florindo, no femo miga per sparagnar la parte. Semo tutti omeni che un felippo non ne descomoda. Se fa per un poco de chiasso, per un poco de allegria. Cossa diseu, sior Leandro? LEAN. Va benissimo, ed ora con questo patto lo introduco senz’altro. (parte) PANT. Più che semo, più stemo allegri. Oh, m’ho desmentegà de domandarghe una cossa. LEL. Che cosa? PANT. Se sto sior el xe maridà. Da qua avanti no solo no voggio donne, ma gnanca omeni maridai. FLOR. Perché, signore? PANT. E gnanca sposi. FLOR. Ma perché? PANT. Perché no i sa custodir le chiave.


SCENA QUARTA LEANDRO, FLAMMINIO e detti. LEAN. Amicizia. PANT. Amicizia. Gh’aveu insegnà el complimento? (a Leandro) FLAMM. Servo di lor signori. PANT. Che servo? Amicizia. (abbracciandolo) FLAMM. Amicizia. (tutti fanno lo stesso) Mi ha detto l’amico Leandro, che lor signori si degnano favorirmi… PANT. Che degnar? Che favorir? Sti termini da nu i xe bandii. Bona amicizia, e gnente altro. FLAMM. Son qui disposto a soccombere a quanto sarà necessario. PANT. Gnente. Co l’ha pagà una cena, l’ha fenio tutto, e quel che stassera la fa ella, un’altra volta farà un altro novizzo, e cussì se se diverte, e se gode. FLAMM. Se mi credete abile a supplire a qualche incombenza, mi troverete disposto a tutto. PANT. Qua no ghe xe maneggi, no ghe xe affari, tutto el daffar consiste in provéder ben da magnar, ben da bever, e devertirse. FLAMM. Eppure si dice che qui fra di voi altri abbiate diverse inspezioni, diverse incombenze, alle quali si arriva col tempo. PANT. Oibò, freddure. Chiaccole della zente, alzadure d’inzegno de quelli che no volemo in te la nostra conversazion, i quali mettendone in vista per qualcossa de grando, i ne vorave precipitar. LEAN. Queste cose gliele ho dette ancor io, e non me le ha egli volute credere. OTT. Sì, tutto il mondo è persuaso che la nostra unione abbia qualche mistero. Questo è un effetto della superbia degli uomini, li quali vergognandosi di non sapere, danno altrui ad intendere tutto quello che lor suggerisce la fantasia stravolta, sconsigliata e maligna. LEL. A tavola questa sera vedrete tutte le nostre maggiori incombenze. Chi trincia, chi canta, chi dice delle barzellette, e chi applica seriosamente a mangiar di tutto, la qual carica, indegnamente, è la mia. FLOR. Saprete che qui non è permesso alle donne l’intervenirvi. FLAMM. È vero, ed esse appunto sono quelle che fanno assai mormorare di voi e dicono che vi è dell’arcano. PANT. Coss’è sto arcano? Qua no se fa scondagne, no se dise mal de nissun, né se offende nissun. Ecco qua i capitoli della nostra conversazion. Sentì se i pol esser più onesti, sentì se ghe xe bisogno de segretezza. 1. «Che non si riceva in compagnia persona che non sia onesta, civile e di buoni costumi». 2. «Che ciascheduno possa divertirsi a suo piacere in cose lecite e oneste, virtuose e di buon esempio». 3. «Che si facciano pranzi e cene in compagnia, però con sobrietà e moderatezza; e quello che eccedesse nel bevere, e si ubbriacasse, per la prima volta sia condannato a pagar il pranzo o la cena che si sarà fatta, e la seconda volta sia scacciato dalla compagnia». 4. «Che ognuno debba pagare uno scudo per il mantenimento delle cose necessarie, cioè mobili, lumi, servitù, libri e carta ecc.». 5. «Che sia proibita per sempre la introduzion delle donne, acciò non nascano scandali, dissensioni, gelosie e cose simili». 6. «Che l’avanzo del denaro che non si spendesse, vada in una cassa in deposito, per soccorrere qualche povero vergognoso». 7. «Che se qualcheduno della compagnia caderà in qualche disgrazia, senza intacco della sua riputazione, sia assistito dagli altri, e difeso con amore fraterno». 8. «Chi commetterà qualche delitto o qualche azione indegna, sarà scacciato dalla compagnia». 9. (E questo el xe el più grazioso, el più comodo de tutti). «Che sieno bandite le cerimonie, i complimenti, le affettazioni: chi vuol andar, vada, chi vuol restar, resti, e non vi sia altro saluto, altro complimento che questo: amicizia, amicizia». Cossa ghe par? Èla una compagnia adorabile? FLAMM. Sempre più mi consolo di esservi stato ammesso.


SCENA QUINTA BRIGHELLA e detti. BRIGH. Signori, co le comanda, è in tavola. (parte) PANT. Andemo. FLAMM. Favorite. (fa cenno che vada prima) PANT. Vedeu? Queste le xe freddure contra el capitolo ultimo. Chi xe più vicini alla porta va fora prima dei altri. Senza complimenti. Amicizia. (parte) FLAMM. Oh bella cosa! Oh bellissima cosa! (parte) LEL. Andiamo, amici. La rabbia che ho avuto con mia moglie, mi ha fatto venire un appetito terribile. (parte) OTT. Io mangio sempre bene ugualmente, perché rido di tutto, e non m’inquieto mai. (parte) FLOR. Io non posso dire così. Amo Rosaura, e peno rammentandomi d’averla disgustata. Ella lo ha meritato, ma il mio cuor mi rimprovera di averla troppo villanamente trattata. (parte)


SCENA SESTA BEATRICE, ROSAURA, ELEONORA e CORALLINA ELEON. Avete veduto? BEAT. Avete sentito? COR. In fatti, chi mi ha detto del tesoro, non ha fallato. ROS. Come non ha fallato? Il tesoro dov’è? COR. Ecco lì. (accenna la porta dove sono entrati gli uomini) Una buona tavola, allegra e di buon cuore, è il più bel tesoro del mondo. ELEON. Povero mio marito! Si diverte, non fa alcun male. BEAT. Mi pareva impossibile che Ottavio giocasse. ROS. Florindo è un giovane savio e dabbene, ma mi ha rimproverata con troppa crudeltà. COR. Vostro danno, signora, dovevate fidarvi di lui, e non mostrare tanta curiosità. ROS. Me ne ha fatto venir volontà la signora madre. BEAT. Io non l’ho fatto per curiosità, l’ho fatto per impegno. ELEON. Anch’io per un puntiglio. BEAT. E che sia la verità, andiamo a casa, che non vuò veder altro. ELEON. Sì, andiamo, signora Beatrice, che non paia che vogliamo vedere i fatti degli altri. ROS. Oh Dio! Chi sa se Florindo mi vorrà più bene! Vorrei vedere se mangia, o se sta malinconico. BEAT. Via, via, basta così. (s’avvia per partire) COR. Aspettate un momento, vedrò io se il signor Florindo mangia o non mangia. (va a spiare alla porta) ELEON. Eh via, che non istà bene spiare alle porte. BEAT. Andiamo, andiamo. COR. Oh che bella tavola! Oh che bella cosa! BEAT. In quanti sono? (torna indietro) COR. (Guarda) In sei. ELEON. Mangiano? (s’accosta) COR. Diluviano. ROS. Florindo mangia? (fa lo stesso) COR. Discorre. BEAT. Egli fa così. Mangia adagio, e parla sempre. ELEON. E mio marito? COR. Oh se vedeste! ELEON. Che cosa? COR. Che bel pasticcio! ELEON. Come? (corre al buco della chiave) BEAT. Pasticcio di che? (corre anch’essa per vedere) ELEON. Via, signora, ci sono prima io. (guarda dal bucolino) BEAT. Spicciatevi, voglio veder ancor io. (ad Eleonora) ROS. (E poi diranno ch’io son curiosa!) (da sé) ELEON. Oh bello! BEAT. Lasciatemi vedere. (fa andar via Eleonora, e guarda) COR. Questa fessura non la do a nessuno. BEAT. Oh bella cosa! (guardando) ROS. Ed io niente. BEAT. Bevono. ELEON. Chi? Voglio vedere. ROS. Voglio veder ancor io. BEAT. Venite qui. (a Rosaura, dandole luogo) ROS. Florindo beve. ELEON. E Lelio? ROS. Taglia un pollo. ELEON. Voglio vederlo. (tira via Rosaura con forza) COR. Presto, presto, ritiriamoci. (si scosta) ELEON. Perché? COR. Arlecchino viene verso la porta. BEAT. Che cosa fa Arlecchino? COR. Serve in tavola. BEAT. Voglio vederlo… (s’accosta all’uscio)


SCENA SETTIMA ARLECCHINO dalla porta, con un tondo in mano con delle paste sfogliate; e dette. ARL. (Entrando s’incontra in Beatrice, e resta sospeso) BEAT. Zitto. (ad Arlecchino) ARL. Cossa feu qua? ELEON. Zitto. ARL. Se i ve vede, poverette vu. COR. Bada bene, non dir nulla. ARL. Per mi no parlo. Vag a metter via ste bagattelle, e po torno. COR. Che cosa sono? ARL. Quattro sfoiade: i mi incerti. COR. Lascia un po’ vedere. (ne prende una) ARL. Bon! Comodève. COR. Oh com’è buona! BEAT. Lascia sentire. (ne prende un’altra) ARL. Padrona. ELEON. Con licenza. (ne prende anch’essa una) ARL. Senza cerimonie. ROS. Ed io niente? ARL. Se la comanda, la toga questa. ROS. Per sentirla. (prende la pasta sfogliata) ARL. Cussì ho destrigà el piatto presto. Torno a oselar[ref]A uccellare, a buscar qualche cosa.[/ref]. COR. Portami qualche cosa di buono. ARL. Andè via, siora, che se i ve vede… BEAT. Non dir niente. ARL. Non parlo. (entra e chiude la porta) BEAT. Andiamo via, prima d’essere scoperte. ELEON. Sì, sarà meglio. ROS. Andiamo, che il signor Florindo non abbia motivo un’altra volta di rimproverarmi. COR. Un’occhiatina, e vengo. (corre alla porta) BEAT. Via, curiosa! COR. Oh bello! (guardando) BEAT. Che cosa c’è di bello? (torna verso la porta) COR. Il deser. ELEON. Il deser? (verso la porta) ROS. Con i lumi? COR. Bello, di cristallo, coi fiori. Pare un giardino. BEAT. Voglio vedere. ELEON. Voglio vedere. ROS. Ancor io. (tutte s’accostano e sforzano per vedere, onde si spalanca la porta ed escono)


SCENA OTTAVA PANTALONE, OTTAVIO, LELIO, FLORINDO, LEANDRO, FLAMMINIO, alcuni con salviette, alcuni con lumi; e dette. PANT. Coss’è sto negozio? LEL. Eh, giuro a Bacco… (contro Eleonora) OTT. Fermatevi: prudenza, moderazione. (a Lelio) PANT. Come xele qua ste patrone? Chi le ha menade? Chi le ha introdotte?


SCENA ULTIMA BRIGHELLA e detti. BRIGH. Sior padron, son qua mi. Siori, son causa mi; le abbia la bontà de ascoltarme; se merito castigo, le me castiga, se merito premio, le fazza quel che le vol. OTT. V’ho capito. Brighella le ha introdotte per disingannarle, perché non sospettino male di noi: è egli vero? BRIGH. Signor sì, le ho introdotte per questo. Una diseva che qua se zoga, e se rovina le case; l’altra che vien donne cattive, e se maltratta la reputazion; una voleva che se fasse el lapis philosophorum; l’altra, che se cavasse un tesoro. Ste cosse in bocca delle donne le impeniva in poco tempo el paese, e per levarghele dalla testa, el dir no bastava, el criar giera gnente e no remediava. Bisognava sincerarle, bisognava che co i so occhi, colle so orecchie le vedesse, le sentisse, e le se cavasse dal cuor sta maledetta curiosità. Le ha visto, le ha sentìo, no le sospetterà più, no le sarà più curiose. Mi l’ho introdotte, mi l’ho fatto per ben, e spero che da sta mia invenzion ghe ne deriva del ben. PANT. No so cossa dir. Ti t’ha tolto una libertà granda; ti ha disobbedio el mio comando; ti meriteressi che te cazzasse subito via de qua. Ma se xe vero che sincerade ste donne le abbia da lassar in pase i so omeni, e lassar in quiete sto nostro liogo, te perdono, te lodo, e te prometto un regalo. BRIGH. Cosa disele, patrone, èle sincerade? BEAT. Io non aveva bisogno di vedere, per assicurarmi della prudenza di mio marito. OTT. Perché dunque siete venuta? BEAT. Per contentare mia figlia. FLOR. La signora Rosaura non mi crede? ROS. Le male lingue mi facevano dubitare, ma io era certissima della vostra fede. LEL. E voi, signora consorte carissima, l’avete voluto sostenere quel vostro indegnissimo lo saprò. ELEON. Via, marito, non vi è più pericolo ch’io dica lo saprò. LEL. Perché avete saputo. COR. Cari signori, compatiteci: alfin siamo donne. Quel sentir a dire: là dentro non possono andar le donne, è lo stesso che metterci in desiderio d’andarvi. E per me, se dicessero: in fondo d’un pozzo vi è una cosa che non si ha da sapere che cosa sia, mi farei calar giù sin alla gola, per cavarmi una tale curiosità. PANT. La curiosità ve l’avè cavada. Seu contente? ELEON. Per me son contentissima. Caro marito, non vi tormenterò più. LEL. Se avrete giudizio, sarà meglio per voi. BEAT. Siete in collera, signor Ottavio? OTT. Niente, consorte mia, niente. Conosco il sesso, lo compatisco. Niente. ROS. E voi, signor Florindo? FLOR. Scordatevi de’ miei trasporti, ch’io mi scorderò di ogni vostro vano sospetto. OTT. Le mie chiavi come diavolo le avete avute? COR. Niente, signore, con una chicchera di caffè. OTT. Ah galeotta! Ora me ne ricordo. E voi che volevate ch’io mi levassi il vestito? (a Beatrice) BEAT. Compatitemi. PANT. Via, a monte tutto. Sarale più curiose? BEAT. Non v’è pericolo. ELEON. Io no, sicuro. ROS. Né men io certamente. COR. Oh, mai più curiosità, mai più. PANT. Donca le se quieta, le se consola, e le vaga tutte a bon viazo. Qua no volemo donne. Le ha sentìo el perché. Le ne fazza sta grazia, le vaga via. BEAT. Andiamo? ELEON. Che dite, signora Rosaura? ROS. Bisognerà andare. PANT. Mo via, cossa fale che no le va? COR. Io vi dirò, signore, muoiono di volontà di veder quel bel deser. ELEON. Sì, e tutte quelle belle camere. BEAT. Via, giacché ci siamo. ROS. Questa volta, e non più. PANT. Da resto po no le sarà più curiose. Andemo, sodisfemole, femoghe véder tutto. E po? no le sarà più curiose. Questo xe un mal, che dalla testa no gh’el podemo levar. Basta ben che de nu le sia sincerade, che el nostro modo de viver el sia giustificà, e che le ne lassa gòder in pase tra de nu, senza pettegolezzi, la nostra onoratissima conversazion. Amicizia. TUTTI Amicizia, amicizia. Fine della Commedia

Le Ragioni della Politica

Le Ragioni della Politica

di Mario Reale

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Prefazione alla presente edizione

 Questo libro, uscito nel 1983, era ormai da tanti anni fuori commercio. Colleghi che l’hanno adottato, e l’adottano, per corsi universitari, studenti e studiosi, sono stati costretti al duro lavoro delle fotocopie. Sono perciò lieto che il libro venga ristampato come e-book gratuito. Sarebbe difficile aggiornare un libro come questo. Da un lato, le note sono già fin troppo fitte, per seguire la valanga degli studi su Rousseau, che si fa, di mese in mese, più impetuosa; dall’altro, il libro, la cui sostanziale natura è quella di commento al Discorso sull’ineguaglianza e al Contratto sociale, è anche relativamente immune dalle novità. La ragione principale è, però, che ritengo ancora valido l’impianto del libro. In questi anni, sono tornato qualche volta su Rousseau, riguardo ad argomenti particolari, e solo in un’occasione m’è capitato di riprendere i temi centrali del libro, scrivendo alcune voci, a cominciare da “Politique“, per il Dictionnaire de Jean-Jacques Rousseau (sotto la direzione di R. Trousson e F.S. Eigeldinger, Champion, Paris 1996). Anche qui, tuttavia, la sostanza del libro è rimasta, e spunti nuovi dovrebbero esser svolti in altra sede.
Ringrazio l’amico Antonio Cecere, che ha studiato e si è laureato con me su Rousseau, e ha continuato a coltivarlo con intelligenza e passione: sua è stata l’idea di questa ristampa, e sua la fatica di approntarla.

Roma, gennaio 2013


Prefazione alla edizione del 1981

 Con evidente allusione all’illuministica ‘politica della ragione’ il titolo di questo libro vuole richiamare l’impegno e la radicalità della riflessione politica di Rousseau: quasi che la politica prima di essere ricavata dalla raison dovesse mostrare i suoi titoli di legittimità e di pensabilità – le sue ragioni. Il lavoro si presenta così incentrato sulla riflessione filosofico-politica di Rousseau, su quei presupposti antropologici che nell’opera del ginevrino appaiono indisgiungibili dai «risultati» politici, anche quando quest’ultimi assumano veste specifica e tecnica. La durezza del problema politico russoiano (diremo sempre così italianizzando al tutto il nome) e l’impegno messo a risolverlo lasciano già intravedere un carattere – e si capisce un risultato critico – che è bene subito anticipare e che si potrebbe dire dell’«antiutopismo», Rousseau che non vuol vedere relegato il suo Contratto «dans le pays des chimeres», ci è parso che meritasse di essere preso in parola (proprio allo stesso modo per cui a nessuno verrebbe in mente di porre Hobbes con «l’Utopie e les Sévarambes», sebbene siano prevalenti oggi le letture che si muovono proprio in direzione opposta a questa. L’ambito di ricerca del libro è circoscritto dal sottotitolo, o a dir meglio dalla specificazione del titolo. Discorso sull’ineguaglianza e Contratto sociale non devono tuttavia esser presi in modo statico, come il termine a quo e quello ad quem di un’indagine. Ciò che si è voluto studiare è proprio la connessione intrinseca tra queste due opere: la frattura (e la continuità) che le segna e perciò lo sviluppo di pensiero in cui si iscrivono. E poiché in queste due opere, che costituiscono i maggiori scritti filosofico-politici del ginevrino, ci è parso che si riassumesse per intero il significato forte della riflessione politica di Rousseau, la stessa delimitazione finisce per essere soprattutto materiale, avendo il libro in realtà per oggetto – da una prospettiva critica di cui si darà conto – la politica di Rousseau. L’esclusione da un’analisi diretta (a volte parziale a volte più radicale) di altre opere, politiche o anche politiche, di Rousseau – dall’Essai sur l’origine des langues a Economia politica per citare gli scritti più prossimi a questa ricerca – è frutto, com’è ovvio, di una previa inclusione. Preoccupazione di non appesantire ulteriormente la mole già considerevole del libro e soprattutto consapevolezza che un esame diretto di tali scritti avrebbe bensì complicato e arricchito non mutato la sostanza delle questioni indagate, hanno consigliato di lasciarne cadere l’analisi o di affidarla ad altra sede. Un’eccezione si è fatta per il Discorso sulle scienze e sulle arti, in quanto cominciamento e della carriera letteraria di Rousseau e della sua riflessione sulla politica; cenni al quadro concettuale in cui s’iscrivono scritti come quelli sulla Corsica o sulla Polonia si trovano nell’ultimo capitolo del libro.

Diverso è il caso delle grandi opere dove la politica entra di scorcio (l’Emile, la Nouvelle Hèloïse, le stesse Confessioni) o non entra quasi affatto (i dialoghi di Rousseau juge de Jean Jaques o Les Rêveries). Qui l’esclusione è stata in qualche modo preventiva: si è costituita cioè all’origine della ricerca e si è persino consolidata nel corso del suo svolgimento. L’alternativa meno radicale poteva essere rappresentata da un ricorso più largo a citazioni di altri scritti, utilizzate nella simultaneità. Ma una sorta di ostinata fedeltà al taglio analitico del lavoro e una preoccupazione di storicizzazione hanno fatto sì che ciò non avvenisse, o avvenisse con estrema parsimonia. È evidente del resto che la parzialità, quando sia consapevole, si costituisce sempre su una presunzione di totalità. Anche in questo caso un problema almeno – tra tanti che si son dovuti solo escludere – è stato tenuto presente e riceve ci pare dall’analisi complessivamente svolta qualche luce: quello del perché  si assiste nel Rousseau della maturità (e già in sostanza coevo al Contratto, a cominciare dall’Emile) e nell’ultimo Rousseau a una sorta di rarefazione del tema della politica, a una ricerca che affronta per altre vie e su altri toni quegli stessi problemi che si era cercato di stringere nel fuoco unitario della politica. Un discorso in parte analogo a questo dovrebbe farsi per la più larga storia civile e culturale in cui l’opera di Rousseau si iscrive, per la complessa personalità di Rousseau, per i rapporti con Ginevra, e così via. Qualcosa in questa direzione si è fatto, moltissimo è rimasto fuori, nulla di esplicito si è tentato di dire intorno alla personalità del ginevrino: il libro, per dirla in una battuta, è su Rousseau, non su Jean-Jacques. Che questa separazione sia più riduttiva in Rousseau di quanto non sia in altri autori, non c’è bisogno di dirlo. Il problema si è presentato qui nella forma della difficoltà a storicizzare una complessiva esperienza intellettuale (se non anche esistenziale), prima che i pensieri che a questa esperienza danno alla fine significato – secondo un nostro radicato e «tradizionale» convincimento – ci fossero sufficientemente chiari e da parte loro apparissero già «storicizzati».

E avendo finora detto, a illustrazione del titolo e dell’ambito di ricerca, soprattutto ciò che in questo libro non è da cercare, veniamo adesso, com’è costume, a ciò che vi si trova. Troppe cose sarebbero qui da dire, né è il caso di cavarsela con il consueto e ormai un po’ retorico rinvio alla prefazione hegeliana della Fenomenologia, che ha oltretutto l’estensione e la rilevanza che tutti conoscono. Tenendosi all’essenziale o alla «tesi» che in questo libro viene svolta (e anche frequentemente riesposta e verificata, come si vedrà) si può dire che essa nasce dalla consapevolezza di una diversità di impianto concettuale – e a rigore di un’opposizione – tra il Discorso sull’ineguaglianza e il Contratto. Leggibile nelle premesse – che nel primo caso riguardano l’antropologia dell’essere «entier absolu», nel secondo l’uomo «relativo» e parte di un tutto – una simile diversità è costatabile parimenti nei «risultati», i quali configurano la politica nel Discorso come alienazione e nel «Contratto» come luogo eminente di realizzazione dell’uomo. La tesi di una non congruenza tra le due opere era stata qualche volta avanzata – molto male in genere e in un contesto interpretativo non sostenibile – dalla vecchia letteratura russoiana della fine del secolo scorso e dei primi decenni del nostro; è stata nel complesso sacrificata dalla nuova, e tanto più attendibile critica, alle ragioni non di rado immediate (e certo, immediatamente russoiane) del «système». Si è cercato qui di argomentarla senza nulla concedere ci pare alla vecchia storiografia delle «contraddizioni» e anzi proprio al fine di rinvenire, passando per la frattura, una configurazione unitaria più radicale del problema politico perseguito da Rousseau.

Muovendo da una simile impostazione, non si poteva non dedicare grande spazio al punto di costituzione della specifica tessitura del Discorso sull’ineguaglianza, e cioè allo stato di natura, alla sua formazione concettuale, al suo metodo e soprattutto alla sua caratteristica, definita e intrascendibile struttura. Ma era al tempo stesso necessario soffermarsi con grande cura su quella misteriosa uscita dal puro stato di natura che fonda la storia irreparabile di corruzione; e quindi su quelle figure o quei momenti della storia che sembrano contrastare la radicalità di un simile esito e perciò la politica come «alienazione». All’analisi e alla valutazione di questi temi è dedicata la prima parte del libro. Proprio quando tuttavia l’analisi sembrava confermare, con immagine russoiana, la chiusura del circolo e il ritorno al «punto di partenza», più viva si faceva l’esigenza di fare qualche luce sul rapporto tra questa struttura senza appigli e la diversa configurazione del Contratto. A questo proposito si è fatto un posto considerevole al capitolo sulla «società generale del genere umano» della prima redazione del Contratto, letto come il documento più significativo del passaggio (critico e autocritico), dall’una all’altra opera. La prima redazione del Contratto del resto, nota come il Manoscritto di Ginevra, è stata sempre tenuta presente nella ricerca e considerata parte integrante del «petit traité» pubblicato nel 1762.

Del Contratto – la cui analisi occupa la seconda parte del libro, in una forma che ancor più è vicina al «commento» – si prende in esame anzitutto la diversa configurazione della politica rispetto al Discorso; e, venendo allo svolgimento dell’opera, si cerca di fermare la non univoca concezione di natura che comanda il contratto, e perciò il duplice atteggiarsi della formula contrattuale. Hobbes e Locke ci sono sembrati su questo terreno decisivi, e nel tentativo di una loro utilizzazione simultanea si è indicata la novità dell’«unione reale» o della democrazia perseguita da Rousseau, come quella che fosse espressione a un tempo del massimo di unità o di coesione sociale e di realizzazione dei diritti della persona. Ma proprio nel vivo di questa ardua ricerca e dentro le sue difficoltà ci è parso che si facesse strada, con il capitolo sull’ètat civil e con la delineazione della sovranità o volontà generale, una concezione diversa dell’uomo e della politica che, abbandonando il presupposto della natura (come che fosse configurato) e perciò la stessa tematica contrattuale, piuttosto si affidava al ricominciamento unitario della libera volontà che pone la legge. La difficoltà tuttavia di articolare da questo punto alto l’intera realtà sociale, gli ostacoli che la legge incontra nel suo cammino e alla fine la permanenza della natura entro l’état civil, hanno obbligato a un non semplice sforzo di analisi per cercare di porre nei termini costitutivi e originari il rapporto post-contrattuale di sovranità-legge e natura. Nel capitolo, lungo e anche un po’ faticoso, dedicato al tema di volontà generale e volontà particolare, questo rapporto (e perciò in definitiva la risposta di Rousseau al problema politico) viene risolto, ma si dovrebbe dire dissolto, in una Radicale e strutturale opposizione tra le due volontà, che è rivelativa del carattere proprio della volonté générale e dove si può leggere, con la presenza ingombrante di Hobbes, un punto di connessione con il Discorso sull’ineguaglianza. Dal tema di volontà generale e volontà particolare, dobbiamo confessarlo, ci aspettavamo di più all’inizio della ricerca e perciò le conclusioni cui si perviene sono anche un po’ sofferte. Nei capitoli finali vi è la conferma di questa scissione: sia sul piano strutturale, attraverso il governo che ne ripete i termini al suo interno, sia attraverso la figura del legislatore che, esprimendone la consapevolezza, ripropone dal nuovo l’intera questione e apre di fatto la via a una soluzione politica diversa da quella esplorata con lo Stato legittimo.

Il problema che ha mosso questa ricerca e vi ha agito, sebbene rimanendo configurato più spesso sullo sfondo, è quello del posto che a Rousseau spetta nella storia del pensiero politico e nella più larga storia civile e culturale dell’età moderna. La vecchia disputa su Rousseau assolutista-collettivista o liberale-individualista, ripresa, complicata di molti temi e giunta alle soglie del dibattito politico in anni vicini-remoti da noi ci pare che sia stata lasciata cadere in parte per l’intrinseca debolezza con cui molte questioni venivano affrontate, in parte, e forse soprattutto, per quei mutamenti che nel tempo si producono. Anche per l’insieme di questi motivi – e in un momento in cui la letteratura russoiana sembra complessivamente piuttosto imboccare vie diverse dalla centralità del problema politico – ci è parso utile un ripensamento che mentre da un lato cercasse, con aderenza ai testi, di tenere insieme la difficile implicazione russoiana dei temi «assolutistici» e «liberali», nel tentativo di dar risposta alla forma economica di affermazione borghese (lasciando senz’altro cadere quindi quelle suggestioni socialistiche, presocialistiche o post-socialistiche che ci sono risultate di scarso rilievo per un pensatore che appare alla fine piuttosto saldamente attestato entro un orizzonte borghese), dall’altro non fosse insensibile ai mutamenti e alla «lezione» del tempo. La domanda ha così riguardato il contributo di Rousseau alla democrazia moderna, e poiché l’espressione rischia di dire troppo e insieme quasi nulla, convien dire alla democrazia che sperimentiamo giorno per giorno nella sua forza e nella sua debolezza, nella sua difficoltà a mantenersi se non si ripensa e non si sviluppa, o se non trova forme più convincenti di connessione tra le «volontà particolari» e la «volontà generale»: Per questo si è appena accennato a quei contributi, anche russoiani, che sono stati per così dire incorporati nella democrazia moderna in un senso più largo – e diciamo per tutti, la radicale estensione e la difesa della sovranità popolare o la distinzione di sovranità e governo – sui quali tanti interpreti si sono giustamente soffermati, volgendoci invece a quel più interno tema del rapporto tra le due volontà che è sembrato da un lato essenziale per la tenuta della costruzione russoiana, dall’altro meglio disposto a incontrarsi con le domande del presente. Una certa delusione – se n’è fatto un breve cenno – proprio su questo punto, al termine della ricerca, significa che il problema (oltre che, si capisce, enormemente più complesso e nuovo di quanto non si presentasse a Rousseau, per l’avvento sulla scena politica di grandi masse e delle loro forme di organizzazione) è anche nella sua costituzione più difficile di come ci si configurasse alla prima considerazione. E il tempo sembra offrire un riscontro di ciò, proprio mentre d’altra parte ci pare più urgente una chiarificazione e un avanzamento su questo terreno. Il compito in effetti (mantenendo come ci pare giusto l’intuizione russoiana di una democrazia come luogo della coesione e dei diritti) di superare l’irrigidimento corporativo di ciò che Rousseau chiamava le «sociétés particulières», di utilizzare  gli strumenti esistenti e di approntarne di nuovi per far meglio coincidere la democrazia con la sua base reale appare tanto urgente quanto delicato, bisognoso di tenacia e a un tempo, per le cose stesse, di rapida maturazione. Ma soprattutto quelle forze che fondano la novità dell’attuale democrazia dispongono crediamo di riserve per impegnarsi in questo compito; né è detto, d’altra parte, che i «fallimenti», se così vogliamo chiamarli, abbiano meno cose da dire delle conferme.

Qualche parola si deve ora spendere intorno al metodo di questo lavoro, che consiste alla fine nel vecchio metodo della lettura, spesso riga per riga; e, si capisce, di testi che, molto più che editi, sono presenti alla memoria culturale di ognuno. Il taglio analitico, l’opera a volte puntigliosa di «esplication du teste», sono risultati alla fine predominanti più di quanto avremmo voluto e forse anche più di quanto sia lecito alla buona storiografia che sa far dimenticare le cucine, tenendosi alle portate. Questo è dipeso certamente dalla personale disposizione e dalla debolezza dell’interprete. Ma anche la difficoltà di un autore all’apparenza così facile come Rousseau vi ha avuto la sua parte. La «trasparenza» di Rousseau, per dirla con Starobinski, ci si è venuta rivelando piena di «obstacles». Che queste difficoltà appartengano poi tutte al testo o siano anche dell’interprete che ve le ha proiettate, è questione, com’è ovvio, da rimettere interamente ai lettori. Sta di fatto che, eccetto nelle linee proprio generali (e anche queste spesso sottoposte a verifica), il lavoro si è venuto come costituendo nel vivo dell’analisi, seguendo le oscillazioni e a volte le sfumature del testo, al punto da richiederlo qualche volta sottomano per una migliore intelligenza del «commento». I raccordi «strutturali» che di tanto in tanto fanno capo nell’analisi sono stati volutamente mantenuti, nonostante comportino di necesità delle ripetizioni, perché costituiscono un modo, intrinseco al lavoro, di rifare i conti o di interrogarsi di nuovo sulla connessione della parte al tutto e sulla configurazione della totalità. L’utilità di questi lavori – lo si dice ovviamente senza alcun riguardo al merito – dipende da un lato dalla convinzione che il testo abbia ancora qualcosa da dire e non sia stato «esaurito» nelle sue possibilità, dall’altro dal fatto che l’interprete riesca a percorrere vie non battute né già acquisite. L’impegno analitico è comunque d’obbligo. Dire alla fine dell’analisi che tutte le questioni del testo ci risultano chiare, sarebbe temerario né corrispondente al vero; tutte però sono state discusse, cercando di rinvenirne sia la consistenza specifica, sia la connessione volta a volta con la struttura dell’opera e con il criterio più generale d’indagine.

Si tratta com’è noto di passi su cui pesano più di due secoli di interpretazioni illustri e no, in tutti i casi numerosissime. Anche il rapporto con la «bibliografia» è risultato alla fine meno ricco di quanto si sarebbe voluto e potuto. Man mano che la ricerca si assestava nella sua configurazione specifica, il rapporto con la letteratura critica si è venuto un po’ rarefacendo o è stato piuttosto affidato all’esemplificazione, per timore di appesantire di troppe valutazioni e discussioni le note e per una certa riluttanza ad assommare semplici titoli. È capitato così che anche autori e testi che hanno avuto un peso nella genesi remota o prossima di questo lavoro non siano stati citati. Si è cercato comunque di tener presente sullo sfondo delle analisi e delle questioni più controverse le interpretazioni «classiche», specie del secondo dopoguerra, e di ciò dovrà essere giudice l’orecchio del lettore avvertito; mentre maggiore spazio si è fatto, dato il carattere del lavoro, ai commenti: soprattutto a quello di Starobinski per il Discorso, a quelli di Halbwachs e di Derathé per il Contratto. Con Derathé ci è capitato di dissentire forse un po’ troppo spesso; per questo ci piace qui ricordare il debito che la nostra ricerca mantiene verso questo valente studioso. Anche il commento di Halbwachs, uno studioso vittima della barbarie nazista, ci è stato in alcuni punti molto utile. Le fini analisi di Starobinski hanno avuto un peso, come si capisce, nell’interpretazione dello stato di natura. Come un commento e di alto livello è da considerare il libro di V. Goldscmidt, al quale avremmo voluto fare ancora maggior posto. Una vecchia «infatuazione» per l’intelligenza di Vaughan non ha retto benissimo alla prova. Abbiamo detto fin qui delle interpretazioni che conosciamo; moltissime com’è naturale ci sono ignote. La letteratura russoiana è stata qualche anno fa paragonata a un «raz de marée», ma dopo il recente centenario bisognerebbe evocare cataclismi naturali ancor più minacciosi. Solo a dar conto critico delle pubblicazioni uscite in occasione del bicentenario, appena ricordato, dalla morte di Voltaire e di Rousseau (un confronto che è stato diremmo fin troppo svantaggioso per Voltaire) bisognerebbe scrivere un volume di dimensioni non trascurabili. Di questa letteratura abbiamo cercato, come ci è stato possibile, di sentire il polso e di individuare almeno le direzioni prevalenti di indagine. Per questi stessi motivi si è rinunciato all’arduo compito di cimentarsi con una bibliografia finale.

Il lettore consentirà ora, al termine di un lavoro che ci ha occupati per molti anni, qualche parola di personale ringraziamento. E uno particolare questo libro deve a Gennaro Sasso che l’ha seguito passo passo nella sua faticosa genesi, incoraggiandolo e in più modi sollecitandolo. Della capacità metodica di Sasso di sottoporre a domande un testo ripensandone i pensieri, che a me pare «estraordinaria» e perciò non certo facile da «aggiungere» (avendola sperimentata, oltre che negli scritti, durante molti anni di amicizia e di collaborazione al suo insegnamento) mi auguro che questo libro mantenga qualche traccia e, per dirlo ancora nella lingua di Machiavelli, «ne renda qualche odore». Con Sasso e con gli amici Marcella D’Abbiero e Francesco Trincia partecipai molti anni fa a un corso di Storia della filosofia dedicato al Discorso sull’ineguaglianza che costituì un’occasione prossima per intensificare i miei interessi russoiani. Dei molti debiti che questo libro ha accumulato negli anni verso mia moglie Paola vorrei almeno ricordare le discussioni sulle questioni riguardanti Hobbes e Locke. Un aiuto prezioso per l’allestimento in volume del lavoro m’è venuto da Mariella Guercio. Nelle sale, splendide e oltremodo ospitali, dell’Ecole Française di Roma questo lavoro è stato in gran parte elaborato e scritto; delle molte cortesie ricevute ringrazio la direttrice e gli amici bibliotecari. Un ricordo mi pare doveroso alla memoria di Augusto Guerra, con il quale già da studente e da laureando discussi di problemi che sono intrecciati a questa ricerca e che sempre era interessato alle cose che altri facevano.

Collettivamente e come direbbe Rousseau «en corps» – sia perché sono molti, sia perché lavorano entro un orizzonte politico unitario – vorrei ricordare i redattori e i collaboratori dei «Quaderni della Rivista Trimestrale», ma tra questi ultimi un’eccezione mi par giusta per Franco Rodano, cui mi uniscono oltre tutto particolari legami d’affetto e di stima. Essi sono stati per me di valido aiuto in questi anni, e hanno rappresentato un costante punto di riferimento e di stimolo, anche quando la ricerca si è mossa su sentieri più rarefatti e specialistici rispetto a quei vivi problemi della democrazia, nel suo rapporto col capitalismo e il socialismo, che sono indagati, da diverse prospettive, nella rivista.

Sui «Quaderni» ho pubblicato, tra il 1974 e il 1979, numerosi articoli di argomento russoiano, molti dei quali sono entrati a far parte di questo libro. La sistemazione in volume ha comportato da un lato l’esclusione di contributi che apparivano troppo generali o troppo particolari rispetto al tema; dall’altro l’aggiunta di capitoli (del tutto inediti sono il terzo, l’ottavo e il nono) o di sezioni e di parti che servissero a completare l’analisi. Interamente rivisti nella forma, i capitoli già comparsi come articoli hanno subito anche modificazioni, spostamenti e soppressioni, sono stati arricchiti di aggiunte, soprattutto nelle note. Dei contributi russoiani non inclusi in questo volume si dà conto nelle note.

Roma, gennaio 1981