Crisi sociale e pandemia: riflessioni sulla barbarie del capitale.

«So che nulla sarà come questa

mattina o dopodomani

resistendo nella bocca della notte un gusto di sole»

(Nulla sarà come prima/ Milton Nascimento e Beto Guedes)

 

di Anderson Deo
traduzione di Antonino Infranca

 

Una frase è stata ripetuta esaustivamente dalle grandi corporazioni dei media su scala mondiale: Nulla sarà come prima! Come una specie di mantra, tale espressione indica che la pandemia del nuovo coronavirus produrrà cambiamenti significativi, anche profondi, in diversi livelli della vita e, pertanto, delle relazioni sociali in tutta l’umanità. 

La prima questione che vorrei affrontare è che la storia ci insegna che nessuna formazione sociale, nessun modo di produzione è mai entrato in collasso senza che ci fossero forze sociali organizzate a spingere tali processi. Trattandosi del modo di produzione capitalistico, nel corso del XX secolo, di fronte ai vari momenti di manifestazione della sua crisi strutturale e sistemica, questa forma sociale si è ristrutturata su nuove basi e contraddizioni, per riprodurre gli elementi fondanti della sua socialità. Pertanto, per quanto ne capisca, la pandemia di per sé non dà origine a nessuna forma di rivoluzione che punti al superamento del capitalismo o a una possibile forma di transizione socialista. Al contrario, la COVID-19/SARS 2, sembra essere l’espressione radicalizzata della barbarie, alla quale è sottomessa l’umanità, e che si approfondisce, sempre più, di fronte all’autocrazia del capitale finanziario mondializzato sull’umanità. 

Così come ci indica István Mészáros nel suo Oltre il capitale, ciò che viviamo attualmente è il risultato della “crisi civilizzatrice” prodotta dal capitalismo, con la sua forma di produzione distruttiva. Questa crisi civilizzatrice, di una determinata forma di socialità, si manifesta attraverso crisi economiche mondiali (strutturali), che si riproducono in cicli sempre più corti, attraverso la crisi ecologica che pone l’umanità di fronte al dilemma dell’esistenza della propria specie, dovuta all’esaurimento delle risorse naturali del pianeta, alle forme di sfruttamento sempre più degradanti della forza-lavoro su scala mondiale, obbligando, secondo l’OMS, un contingente di, approssimativamente, i 2/3 della popolazione della Terra a vivere sotto la soglia di povertà. Si aggiunga a questo processo la scalata del Complesso Industriale Militare, sintesi massima della produzione distruttiva del capitale, che produce e perpetua conflitti in varie parti del mondo, come forma per mantenere il dominio esercitato dall’Occidente, sotto il controllo degli USA. 

Tuttavia, non possiamo smettere di riconoscere che la crisi mondiale espliciti contraddizioni fondamentali dell’attuale fase storica del capitalismo, e le risposte che la stessa umanità produrrà per superare tale momento dipenderanno dalla nostra capacità di analisi, di organizzazione e di proposta di fronte a questo importante momento di radicale esposizione del carattere disumano della forma sociale sotto il dominio del capitale.   

Nell’ottobre 2019, in una relazione di analisi periodica, il FMI ha divulgato l’informazione che stava avvenendo una “decelerazione sincronizzata” della crescita economica mondiale (Annual Report 2019). Quello che il FMI denominava “decelerazione sincronizzata” è un eufemismo della crisi economica mondiale che stava per essere generata, ancora una volta, nei centri dinamici dell’economia mondiale. Uno dei segnali più chiari che la crisi sarebbe esplosa con tutta la forza distruttiva nel 2020, fu la caduta vertiginosa del prezzo del barile di petrolio sul mercato mondiale, il cui deprezzamento aveva già raggiunto il 60% il 9/3/2020. Le dispute commerciali tra Stati Uniti e Cina, nel corso del 2018 e del 2019, o anche quelle tra Russia e Arabia Saudita, che coinvolgono specificamente la questione del petrolio, sono espressioni episodiche di questo processo di maggiore esplosione della crisi, che secondo Attilio Boron (La pandemia y el fin de la era neoliberal), sta producendo una riorganizzazione della geopolitica mondiale centrata nelle dispute tra USA-Cina-Russia. 

Con dinamiche e spiegamenti distinti, questo processo di crisi scatenò grandi e massicce manifestazioni popolari in alcuni paesi del mondo. In America latina, per esempio, le ribellioni del 2019 in Cile, Ecuador, Colombia e Haiti, così come in Argentina l’elezione di Alberto Fernandez, esprimono un tratto comune delle più diverse rivendicazioni: si tratta di reazioni politiche al predominio di più di trent’anni di neoliberalismo. Gli attacchi neoliberali in America latina non furono uniformi nel corso di questo periodo e hanno riprodotto contraddizioni particolari nei diversi Stati nazionali della regione. Il fatto comune è che le azioni delle borghesie locali, anche con caratteristiche specifiche, si sono mantenute fedeli al presupposto dell’associazione subordinata all’imperialismo mondiale, soprattutto al comando statunitense; nel momento in cui le crisi economiche mondiali si sono acuite, le proposte portate avanti da questa borghesia imposero, in forma sempre più accentuata, l’espropriazione e la spoliazione delle risorse sociali gestite dagli Stati nazionali, mediante il meccanismo finanziario dell’indebitamente pubblico. Sia mediante “regole del gioco democratico”, sia mediante colpi di Stato, gli interessi del capitale finanziario si fecero valere e furono imposti all’insieme della popolazione del subcontinente. La deposizione di Evo Morales, legittimamente rieletto l’anno passato con un golpe, è un tipico esempio di come la borghesia latinoamericana combatte le istituzioni democratiche dello Stato liberale, trasformandosi in un’autocrazia della sua classe. 

In Brasile la deposizione di Dilma Rousseff nel 2016, deve essere intesa come un momento dell’avanzata neoliberale nel paese. Questo processo ha guadagnato forza con Fernando Henrique Cardoso negli anni Novanta, e fu minacciato, ma non eliminato dai governi Lula e Dilma Rousseff; di fronte all’approfondirsi degli effetti della crisi economica mondiale, che nel paese si acutizzò a partire dal 2013, si passò ad elaborare un’articolazione politica, coinvolgendo parte della magistratura, le grandi corporazioni mediatiche del paese, le forze armate, i partiti conservatori e reazionari, alleati assoluti degli USA, con l’intenzione di allontanare la presidentessa eletta nel 2014, attraverso un colpo di Stato giuridico-parlamentare. 

Le alternative presentate alla società brasiliana a partire dal 2016, guidate dal vice-presidente golpista Michel Temer, possono essere riassunte nell’espressione “meno Stato, più mercato”. Il risultato di questo processo, che ancora è in corso, è la distruzione totale della legislazione sociale che fu costruita nel corso del XX secolo. Una legislazione sociale che è sempre stata molto precaria e, pertanto, insufficiente. Non è possibile identificare in Brasile ciò che in Europa si è soliti denominare “Welfare State”. Il paese si è avvicinato a questo modello con la struttura giuridica della Costituzione Federale del 1988, che a partire dal 1992 è stata totalmente riformulata e oggi completamente distrutta. Il governo di Jair Bolsonaro rappresenta la continuità e l’approfondimento di questo processo, con l’aggravante della disputa ideologica che ha rinvigorito il lato peggiore della società brasiliana e dell’umanità: il discorso fascistizzante come alternativa ai problemi sociali. 

È lo stesso discorso che si riveste di oscurantismo religioso di matrice neopentecostale – e qui forse si può rilevare come esso sia ancora più regressivo del fascismo alla sua origine – che nega la gravità e le conseguenze devastatrici della pandemia. Ma ancora, in contrasto con le evidenze e le conoscenze scientifiche sulla propagazione del virus, affrontando gli orientamenti di specialisti e della stessa OMS, esso mette in questione l’efficacia dell’isolamento sociale, stimola la popolazione a uscire nelle strade, argomentando che «l’isolamento sociale uccide più gente che la pandemia, poiché l’economia del paese sarà paralizzata». Tutto questo in nome del deus ex machina chiamato mercato! Se pensiamo che, come paese della periferia del sistema capitalista, il Brasile presenta problemi sociali strutturali nelle aree di salute pubblica, abitazione e risanamento basilare, e che questa situazione si è aggravata drammaticamente con l’avanzata del neoliberismo, possiamo avere una dimensione di quanto gravi siano le posizioni del presidente brasiliano. Tanto gravi che esistono già denunce formali presentate al Tribunale Penale Internazionale de L’Aia, accusando Jair Bolsonaro di genocidio e, pertanto, di crimine contro l’umanità.   

La situazione del Brasile di fronte all’avanzata della pandemia è drammatica. Un sistema di sanità pubblica pensato come una garanzia per tutti i brasiliani, ma che ha sempre presentato mancanze strutturali e che negli ultimi anni sta affrontando un profondo processo di rottamazione e attacchi privatizzanti; un modello di occupazione territoriale che concentra più del 70% della popolazione (220 milioni) in grandi conglomerati urbani, con poca o nessuna pianificazione di occupazione di questi spazi, dando origine a grandi favelas in tutte le città brasiliane di medie e grandi dimensioni; un impoverimento crescente della popolazione, risultante dall’avanzata della crisi economica, dall’eliminazione di diritti dei lavoratori e della disoccupazione (12 milioni prima della pandemia, secondo dati ufficiali), dalla precarizzazione e dall’informalità, sempre più grandi nel paese. Uno degli effetti più perversi di questo processo è l’aumento del numero di persone che vivono nelle strade, senza un’abitazione, né condizioni minime di igiene, di alimentazione, di sanità fondamentale. Nella principale città del paese, San Paolo, secondo i dati ufficiali, 25.000 esseri umani si trovano in queste condizioni. Questa realtà, in differenti proporzioni, si ripete nella grande maggioranza delle città brasiliane. Non è necessario essere uno specialista in epidemiologia per immaginare gli effetti catastrofici che la pandemia potrà provocare in Brasile. 

Anche riflettendo sulle possibili trasformazioni causate dalla pandemia, alcune misure economiche di emergenza dei governi dei paesi coinvolti ci danno già tracce di come la borghesia mondiale, organizzata all’interno degli Stati nazionali, reagisce all’accrescimento della crisi mondiale prodotta dal nuovo coronavirus. Ancora una volta, le voluminose risorse per salvare il capitalismo proverranno dalle casse pubbliche. Nel citato articolo di Boron, l’intellettuale argentino è tassativo nell’affermare che il «neoliberismo è un cadavere che bisogna seppellire» e che la crisi scatenata dall’epidemia evidenzia che il mondo avrà bisogno di «più Stato e meno mercato». Se è vero che l’attuale crisi esplicita i limiti e le contraddizioni scatenate dall’esaurimento del modello neoliberista, è necessario ricordare che nella storia del capitalismo lo Stato ha sempre posto a disposizione dell’iniziativa privata – pertanto della borghesia – gli sforzi e le risorse sociali, affinché i momenti di crisi fossero superati. Basta una rapida occhiata alla storia economica del XX secolo (crisi del 1929, della metà degli anni Settanta, o anche del 2008), per constatare che l’apparente opposizione tra interferenza statale e mercato libero, non è altro che una retorica ideologicamente orientata, in accordo con gli interessi borghesi, una volta che lo “Stato minimo” ha diminuito e anche eliminato i diritti dei lavoratori, ricomponendosi al tempo stesso come “Stato massimo” degli interessi del capitale.

Un’altra questione possiamo rintracciarla nella mondializzazione dell’epidemia. Tra gli importanti contributi di François Chesnais nel suo La mondialisation du capital troviamo la formulazione su come le trasformazioni capitalistiche negli anni Novanta tendevano a una mondializzazione delle relazioni commerciali, allo stesso tempo in cui gli Stati nazionali continuavano ad essere spazi geografici di contenimento della forza-lavoro e dei conflitti sociali. Il flusso delle merci doveva essere internazionalmente libero, ma non la forza-lavoro che lo produce. La propagazione del nuovo coronavirus obbedisce, per così dire, alla stessa logica della libera circolazione delle merci di cui parlava Chesnais, colpendo i “centri nervosi” del capitalismo mondiale per poi spargersi all’interno delle nazioni. In questo senso l’osservazione di Alain Badiou (Sulla situazione epidemica) ci sembra abbastanza importante nel suggerire che un’epidemia si riproduce sempre come un processo di doppia determinazione che in un dato momento converge: la determinazione ecologica e la determinazione sociale. Argomentando che l’attuale epidemia della COVID 19/SARS 2 non è propriamente una novità per gli scienziati del mondo (e per questo fa riferimento a una prima epidemia di sindrome respiratoria nel 2003, denominata proprio SARS 1), l’autore indica che ciò che viviamo risulta dall’incontro di una mutazione virale (la determinazione ecologica) con una serie di determinazioni sociali, risultanti dalla negligenza di una parte della comunità scientifica e delle autorità pubbliche, principalmente in Occidente, che guardano sempre alle epidemie nell’Estremo Oriente, o anche in Africa, come problemi sanitari di un mondo distante. 

La prepotenza eurocentrica, propria della visione imperialista del mondo, ha sottostimato e ha trascurato gli effetti e le conseguenze della diffusione del virus per il pianeta. Se l’origine dell’epidemia si localizza in Cina, la propagazione e il contagio a livello pandemico è responsabilità diretta dei governi occidentali, principalmente europei e statunitensi, che furono inizialmente negligenti ritardando a prendere le misure indicate da scienziati e specialisti del mondo intero, in particolare l’isolamento sociale. Qui, a mio avviso, Badiou cade in errore nell’affermare che i governi starebbero agendo al di là degli interessi di classe. 

Ad ogni modo, dato che la realtà storica deve essere compresa nelle sue possibilità e contraddizioni, l’isolamento sociale dimostra chiaramente che non c’è forma possibile di riproduzione economica, politica e sociale che possa prescindere dal lavoro e, pertanto, da quella classe che lo riproduce quotidianamente, nelle sue più diverse frazioni e determinazioni sociali. Mi riferisco qui al proletariato, che non può essere confuso o ridotto alla sua conformazione con il proletariato industriale della metà del XVIII secolo e del XIX secolo. Ma che continua a essere, con tutta la complessità delle sue trasformazioni contemporanee, il fondamento, il sostegno, l’elemento centrale della riproduzione sociale capitalista. Lo “sciopero generale” forzato dall’isolamento sociale mostra quello che cerco di affermare, constatando la disperazione dei capitalisti sparpagliati per le principali economie del mondo, che insistono nel mantenere le loro attività economiche – con la connivenza dei governi nazionali –, obbligando contingenti enormi di lavoratori e lavoratrici a lanciarsi nel “rischioso mondo del contagio” dei trasporti collettivi, delle fabbriche, delle grandi reti commerciali. 

Un’altra frase è stata costantemente ripetuta dai mezzi di comunicazione, come forma di stimolo alla resilienza delle persone: Passerà! A coloro che pensano che questa crisi è passeggera, forse possiamo indicare due elementi; primo: la pandemia deve essere superata, così da poter riprendere le nostre attività quotidiane e ristabilire la dinamica delle nostre vite; secondo: la crisi economica tende ad essere duratura, con effetti drastici sull’insieme dei lavoratori ed è fondamentale che saremo tutti in perfette condizioni di salute, per tornare in strada e organizzarci, gridando a pieni polmoni che è necessario costruire un altro mondo, il cui fondamento non sia l’accumulazione privata della ricchezza, ma la piena emancipazione umana! 

 

LA CONNESSIONE ASSENTE. Digitalizzazione degli spazi e contrazione dei diritti

Francesco Iacopino e Domenico Bilotti
La sospensione prolungata di tutte le attività di contatto relazionale ha determinato l’ampio ricorso agli strumenti informatici per concretizzare nell’emergenza i livelli essenziali di divisione sociale del lavoro. Gli strumenti cognitivi che il web offre al mondo del diritto vanno certo intestati a fondamento di risorse euristiche ed ermeneutiche prima sconosciute; tuttavia, la sensazione sempre più percepita è che l’utilizzazione delle piattaforme telematiche in luogo della ineliminabile ordinarietà della relazione sociale si stia rivelando un escamotage, neanche troppo raffinato, per comprimere ulteriormente, sotto l’alveo rassicurante di un paternalistico stato d’eccezione, situazioni giuridiche soggettive costituzionalmente protette.

Coronavirus, porci(,) capitalisti e l’inizio del XXI secolo. Si inaugura un’altra epoca?

La significativa politica sanitaria, di fronte a un evento che coinvolge il popolo nel suo insieme (Pandemia), deve tentare un esercizio integrale che assorba (nella contingenza) le altre dimensioni della politica pubblica, il resto dei programmi sociali, di ridistribuzione e di salario politico. Nell’immediato lo sguardo va alla questione di come preservare vite umane, di attenuare il numero delle vittime, diventa prioritario, da un lato, come dare assistenza ai membri della società che passano alla condizione di “malati gravi”, che lancia una sfida a una miserabile infrastruttura ospedaliera di terzo livello.

COSA ABBIAMO IMPARATO (E COSA POTRA’ ANCORA INSEGNARCI) L’EPIDEMIA DI COVID-19

La statistica medica ci offre un quadro chiaro dei numeri della pandemia. Abbiamo biosgno di chiarire i problemi per capire le soluzioni. Un articolo chiaro e conciso, un’accusa seria circa le responsabilità e alcune cose che possiamo imparare tutti da questa emergenza planetaria.

Contingenza e liquidità: il pensiero corto e gli interrogativi della pandemia

Il pensiero è divenuto illustrazione di ciò che è già, di un esistente che non ha ieri e neanche domani, l’immutabile continuità di innovazione senza novum. Perché questo è ormai il suo statuto epistemologico, lo statuto appunto degli specialismi, del pensiero corto. E perché la politica rimane così orfana di ogni intelligenza sociale e si riduce anch’essa ad amministrazione dell’esistente, – nella migliore delle ipotesi – ad abilità immunitaria, che appresta un tappo per ogni buco che si apre.
Eppure non è detto che tutto vada necessariamente così. E per tre ragioni.

LA NECESSITÀ DELLA PARTECIP-AZIONE

Si devono affrontare le sfide del proprio tempo come una novità radicale (e non mi riferisco certo al loro contenuto, assai spesso simile, bensì al problema che pongono hic et nunc) poiché altrimenti non sarà mai possibile giungere ad alcuna proposta in grado di soddisfare le necessità di volta in volta avvertite. È dunque l’atteggiamento e il pensiero vivo, euforico, volenteroso, che deve rinascere, e certo non si potrà accusare questo tentativo di esser stato vuoto. Semmai troppo “pieno”.

Fenomenologia del Coronavirus

di Francesco Sirleto
Se c’è invece un insegnamento da trarre da tutta questa tremenda tempesta, esso consiste nell’esatto contrario della scelta solitaria e/o nazionalistica: l’umanità (perché è l’intera specie umana in pericolo, non questo o quel popolo) si può salvare soltanto se riscopre ciò che ci rende uomini, vale a dire membri di un’unica comunità mondiale, possessori della medesima essenza, costituita da enormi capacità e possibilità, ma anche da fragilità, debolezze, insicurezze, bisogni di solidarietà e di aiuto reciproco.

DEMOCRAZIA IN AFFANNO- Ripartire dai fondamentali

Da anni (da molti ormai) è divenuta palese la difficoltà dei nostri moderni sistemi “liberal-democratici” di conservare la fiducia sulla quale si è costruito il largo consenso che ne ha accompagnato l’esperienza negli anni del secondo dopo-guerra.
Quel che più colpisce è il fatto che questa caduta di consenso non è stata conseguenza del contrasto ideologico che essi hanno dovuto a lungo affrontare. Prima e dopo la fine della “guerra fredda”. Né il duro confronto con il “blocco comunista”, né le insidie del terrorismo (sia di matrice “interna”, che “internazionale”) avevano messo in dubbio (nelle popolazioni dei Paesi che li adottavano) la (imperfetta, ma sicura) superiorità del modello “liberal-democratico” su ogni altra “forma” storica di governo. Anzi. La coscienza di tale sua (ritenuta al tempo) evidente preferibilità era stata una delle più forti ragioni del suo consolidamento (oltre le insidie). Fino a non troppo tempo addietro la “democrazia” sembrava in Occidente un destino irreversibile.

Moneta, consumi e risparmi ai tempi del coronavirus

di Maurizio Caserta
Quello che segue è un piccolo diario della crisi e delle sue fondamentali implicazioni economiche, via via che le questioni si sono presentate all’interesse di ciascuno di noi. Si alternano le preoccupazioni immediate con quelle di prospettiva. Poi sintetizzate nella riflessione finale. Non ci sono valutazioni politiche, ma solo questioni ‘contabili’

Etica della liberazione

di Enrique Dussel
traduzione e cura di Antonino Infranca

Il lettore italiano trova qui uno dei primissimi testi in cui Dussel parla di Etica della Liberazione. Si noti che scriva in minuscolo “etica della liberazione”, segno che questo ulteriore sviluppo della sua filosofia era ancora incipiente. Manca una più radicale ripresa di Marx, una più forte accentuazione del ruolo delle vittime del sistema dominante, una concezione della vita come il fondamento di ogni assoluto. Concezioni che saranno centrali nell’Etica della Liberazione del 1998. Si tenga conto anche dell’anno della stesura: 1982. Si nota che l’esperienza della rivoluzione sandinista è prossima, che la democrazia non è tornata in Argentina e in altri paesi dell’America latina.

Le morali classiche, delle epoche non critiche – se ci siano mai state – ai tempi, quando l’egemonia dello Stato crea il consenso senza dissenso, senza replica, senza opposizione, hanno fondamento, esigenze, leggi, virtù accettati da tutti, meno da quelli che non rispettano gli obblighi dell’ordine vigente, “naturale”, quelli che hanno, d’altra parte, chiara coscienza della loro mancanza (come i banditi che sanno che rubano e che, se li si prende, andranno meritatamente in carcere). Al contrario, desideriamo riferirci all’etica come l’ordine pratico delle epoche critiche, difficili, in transito verso nuovi ordini, di passaggio da un sistema morale vigente a un altro ancora non-vigente. Morale sarà così la totalità pratica stabilita, trionfante, al potere (e per questo con leggi promulgate dallo Stato); mentre l’etica significherà la struttura pratica che nasce dall’oppressione dell’ordine vigente, della morale al potere, e percorre il lungo cammino della costituzione della nuova totalità pratica più giusta, futura, di liberazione .

1. Morale vigente

1.1. L’ordine pratico vigente, come pensavano i classici, è fondato o dipende da un fine, un progetto, il bene nel suo senso pieno, l’essere. È il fondamento, l’identità, ciò che spiega che tutto ciò accade in ogni sistema dato. Con questo sono d’accordo tutti i filosofi della storia, in un modo o in un altro, da Aristotele o Tommaso, da Kant o Heidegger, includendo Marx o Lenin.
1.2. Il progetto ontologico del sistema vigente, il fine o bene, è l’universale che fonda come un imperativo le massime particolari della volontà – come direbbe Kant. Il progetto ha esigenze proprie come condizioni della sua realizzazione. L’ordine esigente o dell’obbligatorietà del fine come tale è al di sotto delle norme, che quando promulgate si denominano leggi. Le esigenze del fine sono normate dalla legge. In questo modo, le mediazioni, la prassi particolare o le possibilità che si dirigono alla realizzazione del fine sono misurate con le norme e con le leggi. Si compie così un circolo pratico:

1.3. Quello che è normato dalla legge, la prassi, è legale – se rispetta questa legge – o illegale – in caso contrario. Da parte sua, si ha il dovere di compiere una prassi particolare, quando è richiesta dal fine (e per questo normata dalla legge). Si ha diritto su qualcosa, anche quando è una mediazione necessaria per cui il soggetto realizzi il progetto che il sistema definisce come “naturale” per i suoi membri.
1.4. Alla stessa maniera, sono valori o hanno valore quelle mediazioni o prassi che di fatto costituiscono il progetto, lo realizzano. Il valore non è altro che il carattere di una possibilità o mezzo che actualiter è mediazione del fine. Vale in quanto è attualmente mediazione. Se smette di avere questa posizione effettiva riguardo al fine, smette di avere valore. Il valore, per questo, è la qualità di ogni mediazione in quanto media – dal verbo “mediare”. Per questo la virtù è un valore: e l’abitudine concreta che mi spinge a compiere le esigenze del fine. È virtuoso colui che abitualmente realizza ciò che lo obbliga per legge, come dovere.
1.5. Da parte sua, l’“utilità” della prassi rimane anche fondata sul fine. È utile quello che realizza il progetto. Tra l’utile e il buono esiste la differenza che separa il realizzato dal valido. L’utile è nell’ordine della produzione (e potrebbe dirsi che lo stesso fine si “produce”, benché questa denominazione non sarebbe del tutto adeguata). Una morale utilitarista guarda il lato della realizzazione o realizzabilità del reale, del realizzato.
1.6. Se persona è solo una “sostanza individuale di natura razionale”, starebbe indicando solo i soggetti particolari dell’ordine morale vigente. Questo significato secondario e deformato, come vedremo, può essere il punto di partenza dell’ordine morale: ogni soggetto di un ordine pratico è il più degno dentro di esso ed è sempre fine per questo ordine.
1.7. Lo stesso marxismo dogmatico – che sorge da un’ontologia rinnovata a partire dallo stalinismo e che produce nell’ordine teorico il materialismo dialettico dell’eternità della materia infinita – arriva al fine di fondare un ordine morale vigente nei paesi socialisti con organizzazione burocratica di “centralismo democratico” (almeno così denominato) in tutti questi principi enunciati da 1.1 a 1.6. Ha smesso di essere un’etica critica per trasformarsi in una morale dell’ordine stabilito.
1.8. La morale tragica dell’“autenticità” di un Heidegger, o l’enunciato di Wittgenstein: «È chiaro che l’etica non può formularsi. L’etica è trascendentale. (Etica ed estetica sono uno)» (Tractatus logico-philosophicus, 6.421 e 6.422), alla fine optano per la morale vigente, perché di fronte all’egemonia dello Stato non possono sollevare nessuna protesta, poiché «il senso del mondo deve essere fuori di esso» (Ibidem, 6.41), cioè, sulla totalità del sistema, dello Stato non c’è giudizio, né critica; resta solo la forma, il cambio parziale, il capitalismo progressista, nel nostro caso.

2. Etica della liberazione

2.1 Quando un sistema entra in crisi, crisi di tutto come totalità, come nel caso del capitalismo dipendente dell’America latina – ma anche dell’Africa o dell’Asia: del Terzo Mondo –, anche le morali riformiste entrano in crisi.
2.2. Se il fine o il progetto del sistema si mostra ingiusto, repressore, non più razionale, seguirlo, imponendolo, è adesso il fondamento di ogni malvagità. Il fine immorale fonda momenti ontici immorali. In questa maniera, le sue esigenze sono machiavelliche, mezzi per reprimere. Anche la sua legge è ingiusta; i suoi valori sono disvalori, le sue virtù sono vizi; la sua utilità è inefficacia; i soggetti del sistema, le persone, sono i responsabili dei massacri; il marxismo dogmatico comincia ad essere colpevole di “lavaggi del cervello”; la morale tragica lascia posto alla morale guerriera, poiché dicono: «In guerra non c’è morale» e «la morale non regge la politica». Il cinismo del compimento degli interessi del sistema occupa il posto del bene e ogni repressione è adesso possibile, in nome della “Ragione di Stato”. Non ci stiamo riferendo solo a von Clausewitz, ma anche a Kissinger o Haig, agli attacchi contro i palestinesi a Beirut o contro i “farabundisti” in el Salvador.
2.3. In questi momenti, il sistema positivo della morale (la Sittlichkeit, direbbe Hegel, ma in senso inverso per noi) lascia posto all’etica. Per noi l’etica è l’ordine pratico del passaggio da una morale ingiusta a una futura nuova morale più giusta. È l’ordine normativo durante il passaggio dialettico da un ordine morale a un altro, da un “ordine morale ingiusto 1” a un “nuovo ordine morale 2”
2.4 Un’etica della liberazione pensa e spiega il senso della bontà pratica al momento in cui è distrutto un ordine morale in quanto ingiusto; momento nel quale il soggetto liberatore rimane esposto alle intemperie, senza riparo, né protezione nell’ordine morale che cade a pezzi. Senza morale, al di là della morale, che ordine pratico può reggere gli eroi, i liberatori, quelli che rischiano la loro vita per fondare un ordine più giusto?
2.5. Il liberatore, i liberatori, gli eroi si sollevano contro la morale, ma non alla maniera del “superuomo” di Nietzsche, che distrugge l’antico ordine morale sacerdotale per costruire un nuovo ordine sulla vita e il valore dei guerrieri, i vittoriosi, infine gli ariani. No! Si tratta di un “uomo-che-trascende” l’ordine repressore ingiusto – quello della borghesia dipendente dei paesi del Terzo Mondo –, ma al servizio degli oppressi, dei poveri, dei popoli alienati. Questo liberatore, in ultimo termine, è il popolo stesso, i poveri, il “noi” storico che con la sua vita costruisce nuovi ordini morali.
2.6. Il fine del sistema è giudicato come ingiusto, la legge come illegale, il valore come disvalore da parte del liberatore. Ma i liberatori – i “sandinisti” – sono giudicati dal sistema come distruttori, come sovversivi, marxisti, barbari, anarchici, il caos nella storia. In effetti, l’Altro che il sistema non può essere giudicato dal sistema, ma come nulla di senso, come il Nemico per eccellenza, come la sua fine, la sua morte.
2.7. L’etica della liberazione pensa e spiega il senso di un nuovo progetto storico, la nuova bontà, l’essere futuro come utopia positiva, l’interesse degli oppressi come orizzonte di liberazione. Il nuovo momento dell’essere distrugge il precedente, ma ancora non regge Stati, né leggi al suo servizio, né ha ancora trionfato. Il progetto di liberazione è così il fondamento della nuova morale, ma fondamento differente e opposto all’antico progetto. La dialettica tra il progetto vigente, in nome del quale si reprime il povero, e il nuovo progetto di liberazione, per il quale lotta l’oppresso, è l’origine di tutta l’etica. L’etica della liberazione non manca di fondamento per opporsi al fondamento del sistema morale presente. Ciò che accade è che ha un altro fondamento, utopia futura, essere, fine, bontà, opposto a quella del sistema attuale. In nome di questo fondamento si solleva un popolo contro gli interessi delle classi dominanti del sistema attuale e lo dichiara immorale.
2.8. Questo esige un nuovo concetto della legge naturale. Se la natura è l’uomo, e se l’uomo è per natura storico, l’essenza naturale umana è storica; cioè, come spiega bene Zubiri, l’essenza umana manifesterà tutte le sue note esattamente alla fine della storia, quando la potenzialità effettiva delle sue possibilità essenziali sia arrivata alla sua piena attualità. Non è che l’essenza si realizza nella storia, piuttosto che manifesta le sue note nel trascorrere della storia. Se questo è così, la legge naturale manifesterà i suoi “contenuti” reali, totali, anche alla fine della storia. Ciascun progetto nuovo storico è una nuova manifestazione della legge naturale (sia nel feudalesimo, nel capitalismo, nel socialismo e ciò che verrà dopo, ecc.). Il nuovo progetto, se supera momenti negativi del progetto antico è più naturale che quello superato. Il nuovo progetto storico, se è l’adeguato e giusto, compie la legge naturale nel senso di raggiungere fini maggiori, più razionali, più umani. Sarebbe antinaturale chiedere di eternizzare uno stato di cose (per esempio, il capitalismo dipendente), senza lasciare posto al suo superamento più giusto.
2.9. Nel momento dell’atto liberatore, quando la morale vigente è al potere e l’eroe nella clandestinità, il suo atto illegale si solleva, tuttavia, come la legalità suprema. È illegale di fronte alle esigenze del progetto vigente che compie gli interessi dei dominatori ingiusti, ma è legale di fronte alle esigenze del progetto futuro utopico più giusto. L’eroe soffre la illegalità, il carcere, la tortura e finanche la morte con piena coscienza etica. Sa che la sua prassi misura il carcere e i torturatori, i loro tribunali di giustizia e i loro governi (e finanche i loro sacerdoti e le loro liturgie) come perverso, malvagio, che non può curvare il suo impegno. Soffre l’ingiustizia della legalità ingiusta con il valore di colui che con estrema temperanza affronta il dolore con la bontà. La sua coscienza “etica” (fondata nel progetto di liberazione) giudica la coscienza “morale” di colui che tortura (e la coscienza “morale” è tranquilla come i disciplinati subordinati di Hitler o Haig) con sapienza: «Perdonali perché non sanno quello che fanno». La loro coscienza morale cieca gli occulta il senso etico della loro prassi oggettivamente perversa, poiché torturano il giusto, l’eroe, il liberatore.
2.10. L’etica della liberazione giustifica il liberatore e gli spiega perché la sua virtù di valore è giudicata dal sistema come vigliaccheria, sovversione, pura distruzione malvagia, comunista, cioè, il vizio supremo. Per la virtù vigente le sue azioni sono viziose, ma deve sapere che le sue azioni sono la virtù che giudica i difensori del sistema come i viziosi, i Pinochet, i Somoza. L’etica della liberazione rovescia il senso delle virtù, ma al contrario di Nietzsche – ancora una volta. Nietzsche adora le virtù conquistatrici dei guerrieri dominatori; l’etica della liberazione giustifica le virtù del servizio al povero, all’oppresso; è un’etica della misericordia, di bontà. La guerra giusta, l’impugnare l’arma, il dare la vita sono possibili se sono mezzi adeguati per difendere il povero, per organizzare un nuovo sistema. Sempre nella giustizia, non facendo all’oppressore ciò che essi fanno agli oppressi. Il comandante Borge, in Nicaragua, ha dato soltanto trent’anni di prigione a colui che lo aveva torturato personalmente e solo trent’anni diedero al torturatore che aveva violentato una comandante sandinista, per poi darle la morte con orribili torture. La equanimità del liberatore è proporzionale alla sua magnanimità. Non odia i dominatori come persone; odia le funzioni e le strutture di dominio che deve annichilare affinché si liberi l’oppresso. Deve per questo usare mezzi adeguati per distruggere le strutture di dominio e così liberare il dominatore dalla sua funzione di dominatore e il dominato dalla sua posizione di oppresso. Distruggendo l’ordine morale antico distrugge le funzioni strutturali dello stesso.
2.11. L’etica della liberazione, per questo, suppone un’antropologia e una metafisica della sensibilità. «Avevo fame e mi deste da mangiare» è un criterio assoluto riguardo al sistema che produce la fame dell’oppresso e riguardo al progetto di liberazione che lotta per dare da mangiare strutturalmente al povero. La “fame” è un momento della carnalità negata, della corporalità sofferente. L’uomo è carne, basar in ebraico, che non ha nulla a che vedere con il soma o il “corpo” greco, dualista, materiale, dualismo perverso. Perché l’uomo è essenzialmente carnalità, carnalità intelligente, è che la morale vigente del dominio nega la sensibilità in nome dei valori eterni. In nome del valore eterno dell’“ordine” si distrugge la “carne” dei sovversivi, dei dissidenti. Torturare la carne, togliere la vita, non è nulla per una morale dualista dei valori: in nome dei valori, la vita sensibile non ha nessun valore – o è solo un valore materiale, l’ultimo nella gerarchia dei sublimi valori scheleriani.
2.12. «Dare da mangiare all’affamato» suppone distruggere un ordine antico vigente e costruirne un altro al suo servizio. Per questo diceva Berdjaev: «La mia fame è materiale; la fame dell’altro è spirituale». In effetti, lo spirito è l’autonomia e la libertà della carne cosciente che è capace di rischiare per l’altro oppresso fino al limite di dare la vita per lui. «Dare da mangiare all’affamato» storicamente e strutturalmente, mediante lo Stato e le leggi, cioè, compiere esattamente i suoi interessi, è opera dello spirito, è un atto spirituale, è l’atto per eccellenza dell’etica di liberazione. È servire l’Assoluto (rendergli culto) offrendo all’affamato il pane della giustizia.
2.13. L’etica della liberazione così intesa è una distruzione parte per parte, sistematica e integrale, della morale vigente e la giustificazione e la spiegazione della bontà e della giustizia della prassi di liberazione degli oppressi, dei poveri, del popolo, nei tempi limite del passaggio da un sistema storico e un altro nuovo, ancora futuro. Non è un’etica relativista. Al contrario, la morale vigente del sistema al potere tende a eternizzare i principi vigenti come i principi umani, senz’altro. Produce una morale “naturale” come universalizzazione della sua propria morale: è relativismo assoluto, poiché la morale relativa al suo tempo si pretende elevarla a morale senz’altro. Al contrario, l’etica della liberazione è umile, concreta, realista. Vale per il passaggio presente da questo sistema vigente a quel sistema concreto utopico. Si esaurisce in questo passaggio. Dovranno sorgere nuove morali e nuove etiche. Ma hic et nunc è l’“unica” possibile che giustifichi e spieghi i principi assoluti di ogni morale o etica future.
2.14. Il principio etico assoluto – e sempre concreto – di ogni ordine pratico nella giustizia è, negativamente, «Liberiamoci, noi, gli oppressi!»; cioè, in uno stadio di oppressione, soffrire l’ingiustizia, il principio sempre vigente sarà l’enunciato – negativamente. Positivamente si enuncia: «L’Altro è degno per eccellenza!». L’Altro è il volto del libero al di là dell’orizzonte del mio mondo. L’Altro è la persona nel suo senso originario: “volto” (pnim in ebraico) di altro libero. La persona, come abbiamo detto, non è sostanza individuale razionale, perché in questa maniera potrebbe essere il soggetto indegno per eccellenza. Persona è l’altro, il volto dell’altro, l’altro che appare nel mio mondo, ma come altro, come trascendenza, come ciò che non posso collocare come mediazione del mio progetto. L’altro ha i suoi interessi che io devo servire. Se è oppresso, se è povero, significa che è stato destituito della sua dignità di persona-altro, per comportarsi come cosa, strumento, mediazione: è stato alienato (reso altro da sé). L’alienazione dell’altro si presenta come momento negativo riguardo alla sua dignità intrinseca.
2.15. Rispetta l’altro, come altro, libera l’altro oppresso – come esigenza di una coscienza; rispettiamoci come altri di ogni sistema, liberiamoci, noi, gli oppressi, sono i principi pratici storici, concreti e tuttavia assoluti dell’etica della liberazione.
2.16. l’etica della liberazione è così l’etica assoluta, tuttavia sempre concreta; la morale di dominio è una morale universale – soltanto per il sistema vigente –, ma astratta – poiché esclude nella sua astrazione i dominati che produce dentro il sistema che normativizza.
2.17. L’etica della liberazione è dialettica, poiché ha sempre presente due momenti in tensione: l’ordine morale antico ingiusto e l’utopia futura di liberazione. La morale vigente è riformista, poiché considera – come Popper ne La società aperta e i suoi nemici – l’utopia come irrealizzabile e, per questo, come il peggiore male per tutto il sistema; ciò che resta da fare è migliorare il migliorabile (perché la crisi non è visualizzata, o è tragica, quando si è sufficientemente intelligenti per prevedere la fine del sistema). Ma ottimista o tragica, la morale vigente è dominatrice e demoralizzatrice di chi ha bisogno di liberarsi perché è povero e oppresso. Se l’etico cade nell’ambito del «su ciò di cui non si può parlare, è meglio tacere» (Wittgenstein, op. cit., 7), è necessario che il contadino salvadoregno taccia del napalm che gli lanciano per impedire la sua liberazione. È possibile che l’aristocrazia viennese – alla quale apparteneva il grande logico – possa essere scettica e parlare di poche cose. Ma questo scetticismo diventa eticamente cinico, quando è necessario gridare – non solo parlare – al sistema della sua orribile perversione e formulare positivamente il necessario per la liberazione.