COSA ABBIAMO IMPARATO (E COSA POTRA’ ANCORA INSEGNARCI) L’EPIDEMIA DI COVID-19

La statistica medica ci offre un quadro chiaro dei numeri della pandemia. Abbiamo biosgno di chiarire i problemi per capire le soluzioni. Un articolo chiaro e conciso, un’accusa seria circa le responsabilità e alcune cose che possiamo imparare tutti da questa emergenza planetaria.

Contingenza e liquidità: il pensiero corto e gli interrogativi della pandemia

Il pensiero è divenuto illustrazione di ciò che è già, di un esistente che non ha ieri e neanche domani, l’immutabile continuità di innovazione senza novum. Perché questo è ormai il suo statuto epistemologico, lo statuto appunto degli specialismi, del pensiero corto. E perché la politica rimane così orfana di ogni intelligenza sociale e si riduce anch’essa ad amministrazione dell’esistente, – nella migliore delle ipotesi – ad abilità immunitaria, che appresta un tappo per ogni buco che si apre.
Eppure non è detto che tutto vada necessariamente così. E per tre ragioni.

LA NECESSITÀ DELLA PARTECIP-AZIONE

Si devono affrontare le sfide del proprio tempo come una novità radicale (e non mi riferisco certo al loro contenuto, assai spesso simile, bensì al problema che pongono hic et nunc) poiché altrimenti non sarà mai possibile giungere ad alcuna proposta in grado di soddisfare le necessità di volta in volta avvertite. È dunque l’atteggiamento e il pensiero vivo, euforico, volenteroso, che deve rinascere, e certo non si potrà accusare questo tentativo di esser stato vuoto. Semmai troppo “pieno”.

Fenomenologia del Coronavirus

di Francesco Sirleto
Se c’è invece un insegnamento da trarre da tutta questa tremenda tempesta, esso consiste nell’esatto contrario della scelta solitaria e/o nazionalistica: l’umanità (perché è l’intera specie umana in pericolo, non questo o quel popolo) si può salvare soltanto se riscopre ciò che ci rende uomini, vale a dire membri di un’unica comunità mondiale, possessori della medesima essenza, costituita da enormi capacità e possibilità, ma anche da fragilità, debolezze, insicurezze, bisogni di solidarietà e di aiuto reciproco.

DEMOCRAZIA IN AFFANNO- Ripartire dai fondamentali

Da anni (da molti ormai) è divenuta palese la difficoltà dei nostri moderni sistemi “liberal-democratici” di conservare la fiducia sulla quale si è costruito il largo consenso che ne ha accompagnato l’esperienza negli anni del secondo dopo-guerra.
Quel che più colpisce è il fatto che questa caduta di consenso non è stata conseguenza del contrasto ideologico che essi hanno dovuto a lungo affrontare. Prima e dopo la fine della “guerra fredda”. Né il duro confronto con il “blocco comunista”, né le insidie del terrorismo (sia di matrice “interna”, che “internazionale”) avevano messo in dubbio (nelle popolazioni dei Paesi che li adottavano) la (imperfetta, ma sicura) superiorità del modello “liberal-democratico” su ogni altra “forma” storica di governo. Anzi. La coscienza di tale sua (ritenuta al tempo) evidente preferibilità era stata una delle più forti ragioni del suo consolidamento (oltre le insidie). Fino a non troppo tempo addietro la “democrazia” sembrava in Occidente un destino irreversibile.

Moneta, consumi e risparmi ai tempi del coronavirus

di Maurizio Caserta
Quello che segue è un piccolo diario della crisi e delle sue fondamentali implicazioni economiche, via via che le questioni si sono presentate all’interesse di ciascuno di noi. Si alternano le preoccupazioni immediate con quelle di prospettiva. Poi sintetizzate nella riflessione finale. Non ci sono valutazioni politiche, ma solo questioni ‘contabili’

Etica della liberazione

di Enrique Dussel
traduzione e cura di Antonino Infranca

Il lettore italiano trova qui uno dei primissimi testi in cui Dussel parla di Etica della Liberazione. Si noti che scriva in minuscolo “etica della liberazione”, segno che questo ulteriore sviluppo della sua filosofia era ancora incipiente. Manca una più radicale ripresa di Marx, una più forte accentuazione del ruolo delle vittime del sistema dominante, una concezione della vita come il fondamento di ogni assoluto. Concezioni che saranno centrali nell’Etica della Liberazione del 1998. Si tenga conto anche dell’anno della stesura: 1982. Si nota che l’esperienza della rivoluzione sandinista è prossima, che la democrazia non è tornata in Argentina e in altri paesi dell’America latina.

Le morali classiche, delle epoche non critiche – se ci siano mai state – ai tempi, quando l’egemonia dello Stato crea il consenso senza dissenso, senza replica, senza opposizione, hanno fondamento, esigenze, leggi, virtù accettati da tutti, meno da quelli che non rispettano gli obblighi dell’ordine vigente, “naturale”, quelli che hanno, d’altra parte, chiara coscienza della loro mancanza (come i banditi che sanno che rubano e che, se li si prende, andranno meritatamente in carcere). Al contrario, desideriamo riferirci all’etica come l’ordine pratico delle epoche critiche, difficili, in transito verso nuovi ordini, di passaggio da un sistema morale vigente a un altro ancora non-vigente. Morale sarà così la totalità pratica stabilita, trionfante, al potere (e per questo con leggi promulgate dallo Stato); mentre l’etica significherà la struttura pratica che nasce dall’oppressione dell’ordine vigente, della morale al potere, e percorre il lungo cammino della costituzione della nuova totalità pratica più giusta, futura, di liberazione .

1. Morale vigente

1.1. L’ordine pratico vigente, come pensavano i classici, è fondato o dipende da un fine, un progetto, il bene nel suo senso pieno, l’essere. È il fondamento, l’identità, ciò che spiega che tutto ciò accade in ogni sistema dato. Con questo sono d’accordo tutti i filosofi della storia, in un modo o in un altro, da Aristotele o Tommaso, da Kant o Heidegger, includendo Marx o Lenin.
1.2. Il progetto ontologico del sistema vigente, il fine o bene, è l’universale che fonda come un imperativo le massime particolari della volontà – come direbbe Kant. Il progetto ha esigenze proprie come condizioni della sua realizzazione. L’ordine esigente o dell’obbligatorietà del fine come tale è al di sotto delle norme, che quando promulgate si denominano leggi. Le esigenze del fine sono normate dalla legge. In questo modo, le mediazioni, la prassi particolare o le possibilità che si dirigono alla realizzazione del fine sono misurate con le norme e con le leggi. Si compie così un circolo pratico:

1.3. Quello che è normato dalla legge, la prassi, è legale – se rispetta questa legge – o illegale – in caso contrario. Da parte sua, si ha il dovere di compiere una prassi particolare, quando è richiesta dal fine (e per questo normata dalla legge). Si ha diritto su qualcosa, anche quando è una mediazione necessaria per cui il soggetto realizzi il progetto che il sistema definisce come “naturale” per i suoi membri.
1.4. Alla stessa maniera, sono valori o hanno valore quelle mediazioni o prassi che di fatto costituiscono il progetto, lo realizzano. Il valore non è altro che il carattere di una possibilità o mezzo che actualiter è mediazione del fine. Vale in quanto è attualmente mediazione. Se smette di avere questa posizione effettiva riguardo al fine, smette di avere valore. Il valore, per questo, è la qualità di ogni mediazione in quanto media – dal verbo “mediare”. Per questo la virtù è un valore: e l’abitudine concreta che mi spinge a compiere le esigenze del fine. È virtuoso colui che abitualmente realizza ciò che lo obbliga per legge, come dovere.
1.5. Da parte sua, l’“utilità” della prassi rimane anche fondata sul fine. È utile quello che realizza il progetto. Tra l’utile e il buono esiste la differenza che separa il realizzato dal valido. L’utile è nell’ordine della produzione (e potrebbe dirsi che lo stesso fine si “produce”, benché questa denominazione non sarebbe del tutto adeguata). Una morale utilitarista guarda il lato della realizzazione o realizzabilità del reale, del realizzato.
1.6. Se persona è solo una “sostanza individuale di natura razionale”, starebbe indicando solo i soggetti particolari dell’ordine morale vigente. Questo significato secondario e deformato, come vedremo, può essere il punto di partenza dell’ordine morale: ogni soggetto di un ordine pratico è il più degno dentro di esso ed è sempre fine per questo ordine.
1.7. Lo stesso marxismo dogmatico – che sorge da un’ontologia rinnovata a partire dallo stalinismo e che produce nell’ordine teorico il materialismo dialettico dell’eternità della materia infinita – arriva al fine di fondare un ordine morale vigente nei paesi socialisti con organizzazione burocratica di “centralismo democratico” (almeno così denominato) in tutti questi principi enunciati da 1.1 a 1.6. Ha smesso di essere un’etica critica per trasformarsi in una morale dell’ordine stabilito.
1.8. La morale tragica dell’“autenticità” di un Heidegger, o l’enunciato di Wittgenstein: «È chiaro che l’etica non può formularsi. L’etica è trascendentale. (Etica ed estetica sono uno)» (Tractatus logico-philosophicus, 6.421 e 6.422), alla fine optano per la morale vigente, perché di fronte all’egemonia dello Stato non possono sollevare nessuna protesta, poiché «il senso del mondo deve essere fuori di esso» (Ibidem, 6.41), cioè, sulla totalità del sistema, dello Stato non c’è giudizio, né critica; resta solo la forma, il cambio parziale, il capitalismo progressista, nel nostro caso.

2. Etica della liberazione

2.1 Quando un sistema entra in crisi, crisi di tutto come totalità, come nel caso del capitalismo dipendente dell’America latina – ma anche dell’Africa o dell’Asia: del Terzo Mondo –, anche le morali riformiste entrano in crisi.
2.2. Se il fine o il progetto del sistema si mostra ingiusto, repressore, non più razionale, seguirlo, imponendolo, è adesso il fondamento di ogni malvagità. Il fine immorale fonda momenti ontici immorali. In questa maniera, le sue esigenze sono machiavelliche, mezzi per reprimere. Anche la sua legge è ingiusta; i suoi valori sono disvalori, le sue virtù sono vizi; la sua utilità è inefficacia; i soggetti del sistema, le persone, sono i responsabili dei massacri; il marxismo dogmatico comincia ad essere colpevole di “lavaggi del cervello”; la morale tragica lascia posto alla morale guerriera, poiché dicono: «In guerra non c’è morale» e «la morale non regge la politica». Il cinismo del compimento degli interessi del sistema occupa il posto del bene e ogni repressione è adesso possibile, in nome della “Ragione di Stato”. Non ci stiamo riferendo solo a von Clausewitz, ma anche a Kissinger o Haig, agli attacchi contro i palestinesi a Beirut o contro i “farabundisti” in el Salvador.
2.3. In questi momenti, il sistema positivo della morale (la Sittlichkeit, direbbe Hegel, ma in senso inverso per noi) lascia posto all’etica. Per noi l’etica è l’ordine pratico del passaggio da una morale ingiusta a una futura nuova morale più giusta. È l’ordine normativo durante il passaggio dialettico da un ordine morale a un altro, da un “ordine morale ingiusto 1” a un “nuovo ordine morale 2”
2.4 Un’etica della liberazione pensa e spiega il senso della bontà pratica al momento in cui è distrutto un ordine morale in quanto ingiusto; momento nel quale il soggetto liberatore rimane esposto alle intemperie, senza riparo, né protezione nell’ordine morale che cade a pezzi. Senza morale, al di là della morale, che ordine pratico può reggere gli eroi, i liberatori, quelli che rischiano la loro vita per fondare un ordine più giusto?
2.5. Il liberatore, i liberatori, gli eroi si sollevano contro la morale, ma non alla maniera del “superuomo” di Nietzsche, che distrugge l’antico ordine morale sacerdotale per costruire un nuovo ordine sulla vita e il valore dei guerrieri, i vittoriosi, infine gli ariani. No! Si tratta di un “uomo-che-trascende” l’ordine repressore ingiusto – quello della borghesia dipendente dei paesi del Terzo Mondo –, ma al servizio degli oppressi, dei poveri, dei popoli alienati. Questo liberatore, in ultimo termine, è il popolo stesso, i poveri, il “noi” storico che con la sua vita costruisce nuovi ordini morali.
2.6. Il fine del sistema è giudicato come ingiusto, la legge come illegale, il valore come disvalore da parte del liberatore. Ma i liberatori – i “sandinisti” – sono giudicati dal sistema come distruttori, come sovversivi, marxisti, barbari, anarchici, il caos nella storia. In effetti, l’Altro che il sistema non può essere giudicato dal sistema, ma come nulla di senso, come il Nemico per eccellenza, come la sua fine, la sua morte.
2.7. L’etica della liberazione pensa e spiega il senso di un nuovo progetto storico, la nuova bontà, l’essere futuro come utopia positiva, l’interesse degli oppressi come orizzonte di liberazione. Il nuovo momento dell’essere distrugge il precedente, ma ancora non regge Stati, né leggi al suo servizio, né ha ancora trionfato. Il progetto di liberazione è così il fondamento della nuova morale, ma fondamento differente e opposto all’antico progetto. La dialettica tra il progetto vigente, in nome del quale si reprime il povero, e il nuovo progetto di liberazione, per il quale lotta l’oppresso, è l’origine di tutta l’etica. L’etica della liberazione non manca di fondamento per opporsi al fondamento del sistema morale presente. Ciò che accade è che ha un altro fondamento, utopia futura, essere, fine, bontà, opposto a quella del sistema attuale. In nome di questo fondamento si solleva un popolo contro gli interessi delle classi dominanti del sistema attuale e lo dichiara immorale.
2.8. Questo esige un nuovo concetto della legge naturale. Se la natura è l’uomo, e se l’uomo è per natura storico, l’essenza naturale umana è storica; cioè, come spiega bene Zubiri, l’essenza umana manifesterà tutte le sue note esattamente alla fine della storia, quando la potenzialità effettiva delle sue possibilità essenziali sia arrivata alla sua piena attualità. Non è che l’essenza si realizza nella storia, piuttosto che manifesta le sue note nel trascorrere della storia. Se questo è così, la legge naturale manifesterà i suoi “contenuti” reali, totali, anche alla fine della storia. Ciascun progetto nuovo storico è una nuova manifestazione della legge naturale (sia nel feudalesimo, nel capitalismo, nel socialismo e ciò che verrà dopo, ecc.). Il nuovo progetto, se supera momenti negativi del progetto antico è più naturale che quello superato. Il nuovo progetto storico, se è l’adeguato e giusto, compie la legge naturale nel senso di raggiungere fini maggiori, più razionali, più umani. Sarebbe antinaturale chiedere di eternizzare uno stato di cose (per esempio, il capitalismo dipendente), senza lasciare posto al suo superamento più giusto.
2.9. Nel momento dell’atto liberatore, quando la morale vigente è al potere e l’eroe nella clandestinità, il suo atto illegale si solleva, tuttavia, come la legalità suprema. È illegale di fronte alle esigenze del progetto vigente che compie gli interessi dei dominatori ingiusti, ma è legale di fronte alle esigenze del progetto futuro utopico più giusto. L’eroe soffre la illegalità, il carcere, la tortura e finanche la morte con piena coscienza etica. Sa che la sua prassi misura il carcere e i torturatori, i loro tribunali di giustizia e i loro governi (e finanche i loro sacerdoti e le loro liturgie) come perverso, malvagio, che non può curvare il suo impegno. Soffre l’ingiustizia della legalità ingiusta con il valore di colui che con estrema temperanza affronta il dolore con la bontà. La sua coscienza “etica” (fondata nel progetto di liberazione) giudica la coscienza “morale” di colui che tortura (e la coscienza “morale” è tranquilla come i disciplinati subordinati di Hitler o Haig) con sapienza: «Perdonali perché non sanno quello che fanno». La loro coscienza morale cieca gli occulta il senso etico della loro prassi oggettivamente perversa, poiché torturano il giusto, l’eroe, il liberatore.
2.10. L’etica della liberazione giustifica il liberatore e gli spiega perché la sua virtù di valore è giudicata dal sistema come vigliaccheria, sovversione, pura distruzione malvagia, comunista, cioè, il vizio supremo. Per la virtù vigente le sue azioni sono viziose, ma deve sapere che le sue azioni sono la virtù che giudica i difensori del sistema come i viziosi, i Pinochet, i Somoza. L’etica della liberazione rovescia il senso delle virtù, ma al contrario di Nietzsche – ancora una volta. Nietzsche adora le virtù conquistatrici dei guerrieri dominatori; l’etica della liberazione giustifica le virtù del servizio al povero, all’oppresso; è un’etica della misericordia, di bontà. La guerra giusta, l’impugnare l’arma, il dare la vita sono possibili se sono mezzi adeguati per difendere il povero, per organizzare un nuovo sistema. Sempre nella giustizia, non facendo all’oppressore ciò che essi fanno agli oppressi. Il comandante Borge, in Nicaragua, ha dato soltanto trent’anni di prigione a colui che lo aveva torturato personalmente e solo trent’anni diedero al torturatore che aveva violentato una comandante sandinista, per poi darle la morte con orribili torture. La equanimità del liberatore è proporzionale alla sua magnanimità. Non odia i dominatori come persone; odia le funzioni e le strutture di dominio che deve annichilare affinché si liberi l’oppresso. Deve per questo usare mezzi adeguati per distruggere le strutture di dominio e così liberare il dominatore dalla sua funzione di dominatore e il dominato dalla sua posizione di oppresso. Distruggendo l’ordine morale antico distrugge le funzioni strutturali dello stesso.
2.11. L’etica della liberazione, per questo, suppone un’antropologia e una metafisica della sensibilità. «Avevo fame e mi deste da mangiare» è un criterio assoluto riguardo al sistema che produce la fame dell’oppresso e riguardo al progetto di liberazione che lotta per dare da mangiare strutturalmente al povero. La “fame” è un momento della carnalità negata, della corporalità sofferente. L’uomo è carne, basar in ebraico, che non ha nulla a che vedere con il soma o il “corpo” greco, dualista, materiale, dualismo perverso. Perché l’uomo è essenzialmente carnalità, carnalità intelligente, è che la morale vigente del dominio nega la sensibilità in nome dei valori eterni. In nome del valore eterno dell’“ordine” si distrugge la “carne” dei sovversivi, dei dissidenti. Torturare la carne, togliere la vita, non è nulla per una morale dualista dei valori: in nome dei valori, la vita sensibile non ha nessun valore – o è solo un valore materiale, l’ultimo nella gerarchia dei sublimi valori scheleriani.
2.12. «Dare da mangiare all’affamato» suppone distruggere un ordine antico vigente e costruirne un altro al suo servizio. Per questo diceva Berdjaev: «La mia fame è materiale; la fame dell’altro è spirituale». In effetti, lo spirito è l’autonomia e la libertà della carne cosciente che è capace di rischiare per l’altro oppresso fino al limite di dare la vita per lui. «Dare da mangiare all’affamato» storicamente e strutturalmente, mediante lo Stato e le leggi, cioè, compiere esattamente i suoi interessi, è opera dello spirito, è un atto spirituale, è l’atto per eccellenza dell’etica di liberazione. È servire l’Assoluto (rendergli culto) offrendo all’affamato il pane della giustizia.
2.13. L’etica della liberazione così intesa è una distruzione parte per parte, sistematica e integrale, della morale vigente e la giustificazione e la spiegazione della bontà e della giustizia della prassi di liberazione degli oppressi, dei poveri, del popolo, nei tempi limite del passaggio da un sistema storico e un altro nuovo, ancora futuro. Non è un’etica relativista. Al contrario, la morale vigente del sistema al potere tende a eternizzare i principi vigenti come i principi umani, senz’altro. Produce una morale “naturale” come universalizzazione della sua propria morale: è relativismo assoluto, poiché la morale relativa al suo tempo si pretende elevarla a morale senz’altro. Al contrario, l’etica della liberazione è umile, concreta, realista. Vale per il passaggio presente da questo sistema vigente a quel sistema concreto utopico. Si esaurisce in questo passaggio. Dovranno sorgere nuove morali e nuove etiche. Ma hic et nunc è l’“unica” possibile che giustifichi e spieghi i principi assoluti di ogni morale o etica future.
2.14. Il principio etico assoluto – e sempre concreto – di ogni ordine pratico nella giustizia è, negativamente, «Liberiamoci, noi, gli oppressi!»; cioè, in uno stadio di oppressione, soffrire l’ingiustizia, il principio sempre vigente sarà l’enunciato – negativamente. Positivamente si enuncia: «L’Altro è degno per eccellenza!». L’Altro è il volto del libero al di là dell’orizzonte del mio mondo. L’Altro è la persona nel suo senso originario: “volto” (pnim in ebraico) di altro libero. La persona, come abbiamo detto, non è sostanza individuale razionale, perché in questa maniera potrebbe essere il soggetto indegno per eccellenza. Persona è l’altro, il volto dell’altro, l’altro che appare nel mio mondo, ma come altro, come trascendenza, come ciò che non posso collocare come mediazione del mio progetto. L’altro ha i suoi interessi che io devo servire. Se è oppresso, se è povero, significa che è stato destituito della sua dignità di persona-altro, per comportarsi come cosa, strumento, mediazione: è stato alienato (reso altro da sé). L’alienazione dell’altro si presenta come momento negativo riguardo alla sua dignità intrinseca.
2.15. Rispetta l’altro, come altro, libera l’altro oppresso – come esigenza di una coscienza; rispettiamoci come altri di ogni sistema, liberiamoci, noi, gli oppressi, sono i principi pratici storici, concreti e tuttavia assoluti dell’etica della liberazione.
2.16. l’etica della liberazione è così l’etica assoluta, tuttavia sempre concreta; la morale di dominio è una morale universale – soltanto per il sistema vigente –, ma astratta – poiché esclude nella sua astrazione i dominati che produce dentro il sistema che normativizza.
2.17. L’etica della liberazione è dialettica, poiché ha sempre presente due momenti in tensione: l’ordine morale antico ingiusto e l’utopia futura di liberazione. La morale vigente è riformista, poiché considera – come Popper ne La società aperta e i suoi nemici – l’utopia come irrealizzabile e, per questo, come il peggiore male per tutto il sistema; ciò che resta da fare è migliorare il migliorabile (perché la crisi non è visualizzata, o è tragica, quando si è sufficientemente intelligenti per prevedere la fine del sistema). Ma ottimista o tragica, la morale vigente è dominatrice e demoralizzatrice di chi ha bisogno di liberarsi perché è povero e oppresso. Se l’etico cade nell’ambito del «su ciò di cui non si può parlare, è meglio tacere» (Wittgenstein, op. cit., 7), è necessario che il contadino salvadoregno taccia del napalm che gli lanciano per impedire la sua liberazione. È possibile che l’aristocrazia viennese – alla quale apparteneva il grande logico – possa essere scettica e parlare di poche cose. Ma questo scetticismo diventa eticamente cinico, quando è necessario gridare – non solo parlare – al sistema della sua orribile perversione e formulare positivamente il necessario per la liberazione.

Linguaggio e realtà

“lockdown”: Parola che viene utilizzata dai giornalisti, e dai media in generale, poiché in una sola parola si veicola un messaggio semplice: “stare a casa”; e ciò avviene con una leggerezza che sembra essere inconsapevole del suo autentico significato e della realtà cui si riferisce nella lingua originaria.
C’è un semplice modo di tradurre in italiano: “confinamento”.

Anno zero dell’era “dopo-Virus”?

di Lamberto Pignotti 

 

Peccato non aver potuto registrare una telefonata che ci siamo fatti, Bruno Montanari e io, dai rispettivi coatti domicili, a proposito di coronavirus, oggi e domani, se tutto dopo rimarrà come prima, insomma del futuro che ci aspetta. 

Sul finire del secolo scorso c’era una rivista,”Futuribili”, che ci dava con sicurezza le proiezioni e previsioni del tempo che avrebbe fatto. Tutte o quasi sballate. “Il corriere della sera” in quei tempi dava titoli a caratteri di scatola, tipo “Il 2000 sarà della petrolchimica”, cosa smentita di lì a poco dai fatti, alla stregua di Verne che si immaginava di arrivare sulla Luna sparando un proiettile da un gigantesco cannone. 

Io non credo che tutto sarà come prima, ma non credo neanche che tutto non sarà come prima. Gli ecologi auspicano peraltro che dopo, per acquisita consapevolezza, ci sarà meno inquinamento; io per ora mi limito a godere dell’aria buona che nel centro di Roma respiro come quella che respiravo un tempo a Vallombrosa. 

Gli anti-consumisti auspicano quel tanto di decrescita intelligente che la quarantena imposta dal virus ha suggerito: sfoltire guardaroba caotici, ridurre viaggi intasati e crociere affollate, rarefare prenotazioni di pasti dieteticamente pantagruelici… E quindi: quattro salti in padella casalinghi, e casalinghi quattro salti in casa anziché in palestra, e casalinghe acconciature anziché griffati coiffeurs… Beh, staremo – si spera – a vedere.

Da vedere ci sarà assai presumibilmente il passaggio, in qualche settore, dal planetario al locale, dal globalismo al glocalismo, insomma. La grande editoria internazionale che ci comunica ogni giorno la stessa notizia ben confezionata – Mc Luhan lo aveva detto per i giornali, Propp per le favole più o meno romanzate – verrà non soppiantata ma più verosimilmente affiancata dalla gazzetta di quartiere che sappia dire ai lettori cosa succede all’angolo di casa, e dall’opera di autori che sappiano interagire con i lettori, tramite linguaggi non omogeneizzati ma innovativi e sollecitanti. 

Ancora oggi, e da troppo tempo ormai, le fabbriche editoriali e la grande stampa –  i media pensionabili trainati da una decrepita politica – non fanno altro che affastellare storytelling e best-sellers e top-ten che sono venuti a noia financo a coloro che sono obbligati a commentarli per malcelato vassallaggio o per feriale compenso della pagnotta. La noia, l’insofferenza, l’Indigestione del già sentito dire e del già visto, darà modo di sentirne e di vederne delle belle… Occorre un linguaggio diverso, una grammatica da ri-creare, e intanto si sta affacciando un “Lessico resistente” come delinea con efficacia fin dal titolo, Antonio Cecere in  un libro (Edizioni Kappabit, 2019) in cui mi ha generosamente coinvolto.

Intanto il contesto è quello tratteggiato in questa sede da Bruno Montanari nel suo scritto a proposito di “Virus: una riflessione sconsolata”.

Sconsolato è il quadro che ne viene fuori, un “panorama preoccupante” che è divulgato dai media e da una classe politica all’interno di un pensiero costruito attraverso una sorta di riduttivo gioco delle parti “per la gente” in cui l’informazione e la comunicazione risultano confezionate come dozzinali prodotti da supermercato.

Anche il coronavirus va fatto entrare in questo collaudato gioco. Gradatamente, per successivi maieutici spostamenti contestuali: c’era la crisi petrolifera? Noi si doveva parcheggiare l’auto la domenica. C’è l’inquinamento? Noi si deve andare a piedi per un giorno. C’è il coronavirus? E noi si sta a casa! “Insomma”, scrive Montanari, “ancora abitudine mentale alla superficialità e semplice immediatezza delle soluzioni. 

Siamo alla Replica Differente. Autoreferenziale, omologante e intenzionato a perpetuarsi gattopardescamente è il modello di sviluppo tratteggiato nel “panorama preoccupante” da Montanari. 

Che dunque tutto appaia nuovo, ma che di fatto tutto resti come prima? “Nihil sub sole novum”, titola qui il suo intervento Paolo Quintili. Il coronavirus entra prepotentemente in scena a turbare lo squilibrato stato in luogo di quel “modello di sviluppo capitalista iperliberista dell’ultimo trentennio” che ha prodotto proprio quello squilibrio nel rapporto fra le articolazioni che muovono cause naturali e strutture sociali.

Preso atto dell’emergenza virale, Quintili invita a “riattivare un’azione – non una semplice riflessione – critica nei riguardi del modello non più rinviabile. 

Tale invito prende slancio dal saggio di Alain Badiou incentrato “Sulla situazione epidemica”. Dove lo scarto di partenza appare subito fatto col piede sbagliato”. Ho sempre ritenuto che l’attuale situazione, segnata da un’epidemia virale, non aveva certo nulla di eccezionale”, esordisce l’autore; e più avanti, quando il soggetto evocato dal saggio è indubbiamente il “coronavirus”, conosciuto anche come COVID 19, o più esplicitamente denominato SARS 2: “Il vero nome dell’epidemia in corso dovrebbe indicare che esso dipende, in un certo senso, dal ‘niente di nuovo sotto il sole’ contemporaneo. Questo vero nome è SARS 2, ossia ‘Severe Acute Respiratory  Syndrom 2’, nome assegnato appunto all’attuale epidemia perché succeduta a quella del 2003, allora etichettata come 

SARS 1”. Tranquilli, insomma, anzi siccome proverbialmente sappiamo che non c’è due senza tre, chissà che sbadigli di noia faremo all’apparire del prossimo incomodo…

Nihil sub sole novum!, ma sì, per riprendere con piglio emblematico l’avvertito titolo dell’articolo di Quintili: vogliamo dimenticarci delle letterarie pesti di Boccaccio e Manzoni, non vogliamo dare uno sguardo retrodatato alla “spagnola”,  alla “asiatica”, al morbillo, alla tubercolosi, alla poliomielite, all’HIV, alla SARS 1?

Ma qualcosa di nuovo invece sta succedendo, quando si passa dalla astrazione numerica alla situazione individuale. Gli elenchi e i bollettini sorvolano, danno i numeri, anzi mentono, come per antifrasi mentiva il titolo del romanzo di Erich Maria Remarque  “Niente di nuovo sul fronte occidentale”. Elenchi e bollettini bellici o sanitari che siano sorvolano a proposito del caduto sul campo di battaglia o del defunto in corsia di ospedale.

Non lo dico per sentito dire, ma perché lo sento proprio io, hic et nunc, che le pestilenze di cui sopra si andava evocando ed enumerando –  da quelle mitiche e storiche e letterarie alla SARS 1 – o erano lontane nel tempo o erano distanti nello spazio. Però si dà proprio il caso che la SARS 2, o coronavirus, o Covid 19, lo sento io, qui e ora. Altro che pandemia abbastanza confortevole per il mondo occidentale,”fatto in se stesso privo di significato innovativo”. Qui, come altri, sto vivendo un’avventura da diluvio universale, da day after, mai vissuta prima dall’umanità.

Non mi era successo finora di fare un “Viaggio intorno alla mia camera” come De Mestre, né guardare sotto casa una piazza metafisica di De Chirico, né di scrutare dala finestra il “Deserto dei tartari” di Buzzati. Dove i tartari sono sì invisibili, ma anche tangibili, e tutto il mio corpo è indifeso e penetrabile a loro piacimento.

L’eccezionalità della situazione virale mi da modo, forse per antitesi, di trovare nelle espressioni di Badiou, quella carica spigolosamente sollecitante che spinge a raffigurarmi nella scena di uno che si appresta a correre un rischio con quella rete di protezione che è la fatalità.

Mi succedeva quando davo un esame: “male male sarò bocciato”, pensavo; mi succede quando prendo un aereo: “male male muoio” … Tutti modi per esorcizzare un’evenienza negativa. Badiou è lì a dirci che la fine del mondo, l’aborrita pandemia, tutto sommato è cosa di ordinaria follia comportamentale. 

Magari ci sarà da fare qualche adattamento, un ritocco: ci sarà da passare dal corporeo al virtuale e dal tangibile al digitale, ci sarà da ripensare, magari per diradarli, a quei vecchi sudaticci prosastici baci e abbracci, per  ripristinare, olograficamente, per streaming, in double life, via skype…, le più antiche poetiche evocazioni stilnoviste. Noli me tangere e vade retro… Del resto le amatissime Beatrice, Laura e Fiammetta non risulta che siano state sfiorate dai rispettivi spasimanti. Quando nel 2016 ho pubblicato da “Empiria”  la mia “New vita nova”, non ho fatto che evidenziare a dismisura la virtualità della “Vita nova” di Dante.

Il progressivo passaggio dal corporeo al virtuale, dal tangibile al digitale, dal globale al locale, non potrà non incrinare, per le contraddizioni che presenta, quel modello di sviluppo capitalista di cui parlano Montanari e Quintili. E qui entra in gioco con violenza il coronavirus e tornano anche particolarmente incisive le rilevazioni di Badiou a proposito degli “Stati nazionali che tentano di far fronte alla situazione epidemica, rispettando, per quanto è possibile, i meccanismi del capitale, benché la natura del rischio li obblighi a modificare lo stile e gli atti del potere”. Quegli Stati dovranno  “imporre, non soltanto, certo alle masse popolari, ma ai borghesi stessi, delle costrizioni considerevoli, e questo per salvare il capitalismo locale”.

Questa appare implicitamente come una sorta di chiamata alle armi di intellettuali e artisti con la quale Badiou incita a non rispondere ai vari SOS lanciati dal modello capitalista, globale o locale che sia. Una incitazione parallela si proietta anche  nel finale dello scritto di Montanari: “Occorre tornare a ‘ragionare’ emancipandosi dalla abitudine a seguire in modo acritico quel mondo dei rumori verbali che il mondo dei media, nel loro insieme, diffonde ad un ritmo frenetico e incontrollato”.

Ne risultano nel complesso parole non più genericamente astratte, ma  fattualmente partecipi di una modalità critica in corso, di una articolazione agevole di pensiero, di una filosofia movimentata e protesa a  porre una rinnovata scorrevole segnaletica nel labirinto di quella “Comunicazione nella società ipercomplessa” (questo è il titolo del bel libro di Piero Dominici, pubblicato da Franco Angeli nel 2011, al quale  rimando) in cui dall’era “avanti-Virus” siamo condizionati, intrappolati e oppressi.

I lavori in corso avvisano che sono chiusi al traffico l’antico vicolo del Dernier Cri, la sconquassata scorciatoia del Revival e la dissestata bretella del Neo-post-modernismo. Evitando la rotatoria dell’ennesima Replica Differente, se riusciamo a scavalcare il prossimo dosso, aguzzando lo sguardo forse si potrà cominciare a scorgere in questo anno Zero, la nuova era, quella del “dopo-Virus”.

All’ombra del Coronavirus

di Francesco Correggia
Siamo in una specie di regime tecno burocratico della comunicazione dove si continua a far finta di niente sulla povertà, la disperazione, l’accentramento della ricchezza, il mondo dominato dall’ingiustizia. Con il Coronavirus i vecchi mali non sono spariti anzi sono resi ancora più tragici e irrisolvibili da una specie di controllo delle nostre esistenze imposto dalla situazione attuale, dalla confusione istituzionale, dalla mancanza di una solidarietà europea. Il pericolo della sparizione di diritti individuali e costituzionali si fa consistente.