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Il mio Congresso mondiale di Filosofia: riflessioni dopo l’articolo di Marcello Veneziani

di Ivana Zuccarello

Non è stata una passeggiata partecipare al XXV Congresso mondiale di Filosofia a Roma dal 1 all’8 agosto sia in termini di organizzazione, sia di impegno fisico, di concentrazione, di forza di volontà e dedizione richiesti.

Ha ragione Veneziani, – e con lui molti altri -, a denunciare i disagi dovuti alla canicola romana, ai cantieri aperti con ricadute significative sul sistema trasporti, all’immondizia non ritirata, e perché non citare un grande classico, la presenza molesta dei gabbiani (ne ho visti almeno un paio stazionare fieri sulle aiuole della Sapienza)?

Di certo, un Congresso mondiale organizzato a Roma ad agosto non sembrava affatto un’idea felice, eppure vorrei raccontarvi perché ne è valsa la pena.

Ogni giorno alla Sapienza, dalle ore 9.00 alle ore 19.00, per una settimana, abbiamo avuto la possibilità di assistere e partecipare a lezioni, simposi, tavole rotonde sui più svariati temi del dibattito contemporaneo, accademico e non.

Fin dalla registrazione sono rimasta colpita dalla copiosa presenza di cinesi, giapponesi, americani, africani, indiani, forse più numerosi rispetto agli europei (ma potrebbe semplicemente trattarsi di un bias cognitivo) che già da sola bastava a comunicare l’idea di una filosofia senza confini, e perché no, “senza frontiere”. Tuttavia, è probabile che poi i cinesi siano rimasti a fare scuola fra loro e che raramente abbiano davvero interagito con gli altri.

L’interazione multietnica nel suo senso più profondo forse è mancata, eludendo, fatta eccezione per le lezioni plenarie al rettorato, dove la traduzione simultanea aiutava a superare le barriere linguistiche, la vocazione globale annunciata dal tema congressuale. Soprattutto nelle aule più periferiche del campus, infatti, in cui ci si ritrovava a discutere di micro temi o di prassi filosofiche e didattiche, -sicché più che al congresso mondiale di filosofia sembrava di stare, a volte, partecipando a un corso di aggiornamento scolastico, – era raro imbattersi in esponenti più o meno illustri delle periferie del mondo.

Il punto di debolezza del congresso, però, stando all’articolo pubblicato il 3 agosto su La Verità (forse dovremmo chiederci se intesa come epistème o come alétheia prima di andare avanti), vale a dire l’evidente assenza di grandi nomi della filosofia mondiale, ritengo sia stato, invece, proprio la cifra di fruibilità e quindi di riuscita dell’evento. Studenti, insegnanti, professori universitari, e soprattutto giovani ricercatori, vero carburante del sistema e del dibattito accademico, hanno potuto trovare uno spazio, presentare i loro papers e discuterne pubblicamente, laddove tutti noi sappiamo quanto certi spazi siano, al contrario, normalmente già occupati.

E se ho molto apprezzato la lezione sull’I.A. del prof. Mario De Caro, ascoltare Paolo D’Angelo interrogarsi sul rapporto tra ambiente e paesaggio, e ancora gli interventi della filosofa algerina Malika Bendouda sul potere delle donne in un mondo sostenibile, di Kristie Dotson sul femminismo afroamericano, sono stata soprattutto felice di aver partecipato alla tavola rotonda sull’insegnare filosofia oggi coordinata da Marco Ferrari,  di aver discusso di politica ed educazione civica col prof. e collega Andrea Suggi, di aver conosciuto il collettivo del CRIF e la loro philosophy for children e, infine,  di aver ritrovato persone amiche al topic sulle pratiche filosofiche.

Chi ha criticato l’evento, infatti, ha trascurato, a mio avviso, il punto di forza, vale a dire la riuscita democratica del congresso: le voci di chi conta (poco o tanto in un momento di così alta popolarità della filosofia che importa!) mescolarsi in mezzo a tutte le altre, occhi che si guardano negli occhi aldilà delle cattedre, mani che si stringono fuori dalle aule, cartellini al collo senza titoli né gradi di onorificenza.

Forse senza, oltre, o attraverso i confini, ricordo che il tema scelto era “Philosophy across boundaries”, significa anche e innanzitutto questo: abbattere le gerarchie imperialistiche del pensiero e ritornare a discutere insieme facendo precedere l’ascolto alla parola.

Infine, se anche gli appuntamenti serali promossi e aperti alla cittadinanza sapevano più di estate romana che di cenacolo ad Heidelberg che male c’è? Portare la filosofia nelle strade, trasformarla in evento artistico, non è forse offrire un’alternativa al degradante spettacolo che sempre più spesso investe i luoghi storici delle nostre città profanati da kermesse di dubbio gusto?

Se qualcosa di sostanziale, invece, secondo me, è mancato e continua a mancare nel dibattito, filosofico ma non solo, quella è la dimensione puramente politica dello stesso: vale a dire un confronto autentico tra paradigmi ideologico-culturali che ridiscutano dell’idea stessa di confine e non solo delle modalità scelte per oltrepassarlo. “Per il vero filosofo, si sa, ogni terreno è patria” diceva Giordano Bruno, ma che cosa si voglia fare della “patria” sarebbe, forse, il caso di ricominciare a chiederselo e di interrogarsi sulla questione a partire dalla Scuola, vera frontiera dell’esercizio filosofico, terreno di militanza e diserzione, ricettacolo di norme e prassi non allineate, ma ancora e sempre prima bottega di formazione. Il resto, le biblioteche e gli studioli medievali andrebbero lasciati entro il limite di chi ancora crede cha la Filosofia si declini al singolare, vieppiù pensando che chi la insegna ai giovani debba limitarsi a raccontare la sua Storia.

Ivana Zuccarello

 

DISAVVENTURE SOCIALI DELLA LAICITÀ CIVILE NELLA SUA CULLA

DISAVVENTURE SOCIALI DELLA LAICITÀ CIVILE NELLA SUA CULLA

di Domenico Bilotti

Ci sono dei temi e dei principi che restano indissolubilmente legati all’ambito o all’ordinamento entro cui hanno avuto primigenio, o più interessante, sviluppo. La moderna teoria dei diritti umani è difficile da immaginare fuori dal diritto internazionale, che se ne è assunto (nonostante i limiti) le necessità di tutela, protezione e promozione. Quando si discorre di equità, si tende a riferirsi o al diritto delle Chiese cristiane – entro cui l’equità si era munita di un raffinato e sostenuto sostrato teologico – o alle giurisdizioni equitative di common law (meno legislazione scritta e generale, più dibattimento e vincolatività del precedente). Stando alle proiezioni ultime della dignità umana, anche attraverso l’elaborazione del costituente tunisino Fathi Triki che parla espressamente del “vivere insieme nella dignità”, essa non potrà che trovare nuovi percorsi e opportunità ermeneutiche nell’intercultura e nel diritto interculturale. Se invece si parla di laicità, l’attenzione si rivolge immediatamente al diritto francese, che in più stagioni, dall’illuminismo alla crisi dello Stato liberale, dallo Stato sociale fino al neocostituzionalismo, ne è stato singolare laboratorio. Proprio per questo giunge quanto mai interessante il recente lavoro di Vincenzo Pacillo, per i tipi di STEM Mucchi (Modena, 2024), “Per sempre giovane. La laicità nel dibattito culturale francese: scrittori e politica ecclesiastica da Victor Hugo a Annie Ernaux”.

Nonostante le ricche analessi e prolessi che animano in primo luogo la sezione bibliografica, il criterio espositivo seguito è essenzialmente quello cronologico. Negli ultimi capitoli, all’esposizione cronologica si aggiungono ulteriori snodi tematici che arricchiscono lo sguardo più esso si avvicina ai conflitti del presente.

Il prequel del volume, che dà conto di un titolo quanto mai appropriato, anticipa il primo capitolo nel quale la laicità appare dalla sua lenta ma costante nomogenesi nella Francia rivoluzionaria fino al separatismo al tempo della Comune di Parigi. Fa molto bene l’A. ad enfatizzare come la laicità in Francia non nasca nello specifico di una connotazione irreligiosa (molti dei costituenti repubblicani erano profondamente religiosi, dal punto di vista individuale), bensì prettamente anticlericale. I passaggi più stimolanti riguardano lo “strano” caso di Gustave Flaubert (p. 72), autore a volte in bilico tra secolarizzazione dei costumi, facezie borghesi e pubblico conservatore, nonché la menzione di George Sand, scrittrice simbolo di un femminismo moderato repubblicano, eppure messa all’Indice dei libri proibiti nel 1863. Le vicende giuridiche sono fondamentali per il dibattito intellettuale, perché movimentano l’opinione, e non è un caso che nel capitolo, più che la scomunica del cattolicesimo liberale parigino, emerga la reazione francese al Sillabo pontificio “degli errori della nostra età” (quella moderna, ça va sans dire) e al rapimento del piccolo Edgardo Mortara, di origine ebraica.

Il secondo capitolo tratta dell’Affaire Dreyfus in modo assolutamente originale. Se anche fortissime tradizioni intellettuali lo hanno narrato secondo binari particolarmente rodati (repubblica e socialismo, antisemitismo e conservatorismo, garantismo e mentalità inquisitoria), qui a venire alla luce è lo scontro tra il clericalismo e la difesa dei valori repubblicani. Esiste la possibilità di una difesa cattolica e totalmente orientata alla civile convivenza anche nei confronti della presunta spia, perlopiù nel montante sospetto antiebraico del tempo? La nota posizione di Zola e del J’accuse è rimessa al paragrafo conclusivo (p. 137). Colpisce molto, invece, lo spazio dato a Charles Péguy, a lungo recuperato soltanto in letture reazionarie per la sua natura di socialista irregolare, di pessimista morale acceso dall’amore per la carità (p. 123).

Il modo in cui Pacillo affronta il profilo di Zola è simile ad alcune considerazioni già svolte per la Sand: due profili che nei rispettivi contesti nascono intransigenti nell’argomentazione, ma fondamentalmente moderati in contenuti e forme, finiscono poi per approssimare posizioni socialiste. È come se a un certo punto la laicità scindesse la sua anima borghese-rivoluzionaria e fosse necessario scegliere radicalmente se collocarla nei valori della conservazione (lo spirito della repubblica, le istituzioni del colonialismo prima e dell’assimilazionismo poi) o della liberazione. L’intellettualità francese militante, a costo anche di talune semplificazioni che perdurano fino ai giorni nostri, ha dimostrato di propendere per questa seconda interpretazione. È che la laicità della metà del XIX secolo aveva come suo canale di manifestazione lo scontro etico-politico tra Stati e magistero della Chiesa cattolica. Quella odierna, dopo aver lungamente difeso il più netto separatismo, ha impattato il mondo delle migrazioni e si è dovuta chiedere come veicolare l’inclusione e a che prezzo far cedere essa rispetto ai rapporti tra norme costituzionali e precetti delle culture religiose.

Il terzo capitolo è legato alla Legge di separazione del 1905. Se si ha memoria storica del diritto e della politica continentale, è il punto formale più alto dell’emancipazione statale nei confronti dell’ingerenza ecclesiastica e tuttavia anche l’ammissione di non piena scindibilità dei due orizzonti di senso (la vigenza alsaziana del concordato napoleonico, a guerre finite, lo dimostrerà sul piano delle fonti; la sostanza era già chiara).

Come si diceva, il quarto e il quinto capitolo sono due delle sezioni più cospicue del volume. Nel secondo Ottocento italiano, anche sulla scorta dell’esempio francese, c’erano stati vari filoni di insoddisfazione verso la giustizia sociale assente nella legislazione liberale e il suo intrinseco moralismo, nonostante le pretese separatistiche. Il verismo, la scapigliatura, poco oltre i crepuscolari e gli ermetici, su posizioni antiretoriche, aderirono diversamente alle medesime criticità di impianto. Il ruolo di sentinella intellettuale della laicità in Francia non si spegne nella critica agli statuti borghesi, peraltro poi trionfanti, ma arriva alle speranze del costituzionalismo post-bellico e a tutte le incognite successive alla fine del mondo imperniato sui grandi blocchi noti del capitalismo e del sovietismo. Va pur detto che ad abbeverare questa costante mobilità critica sia a lungo stata l’autorappresentazione degli intellettuali francesi (e della grandeur governativa). Il pensarsi sempre caso a parte, caso speciale, stimola la superficialità pretenziosa degli isolazionisti, ma anche la duttilità critica degli spiriti liberi. C’è così spazio per la dolente “eresia” morale di Georges Bernanos, non meno che per la vitalità intellettuale di Jacques Maritain: modello laicale del Concilio Vaticano II e contemporaneamente sensibilità religiosa nella mai davvero raggiunta codificazione effettiva della cooperazione internazionale.

Il quinto capitolo fornisce ragguagli importanti sui protagonisti del dibattito nel secondo Novecento, sia che si tratti di singoli autori che di soggetti collettivi. Si veda, a partire da p. 259, l’attenzione rivolta al Partito Comunista Francese, unico, insieme a quello italiano, ad avere in Occidente un peso così determinante per almeno tre decenni nelle opinioni pubbliche nazionali. In Francia e in Italia, in effetti, il dibattito sulla laicità, di là dall’interesse multidisciplinare per esso di ecclesiasticisti, costituzionalisti o gius-filosofi, è stato nel concreto delle società civili anche un discorso sull’inclinazione e sull’azione della sinistra politica – tanto quella riformista quanto quella rivoluzionaria.

Ai titoli di coda, c’è spazio per tutte le questioni che hanno affollato l’agenda dell’ultimo decennio, senza però sempre conseguire la adeguata risposta di sistema. L’antiterrorismo è divenuto essenzialmente antifondamentalismo, con strumenti tuttavia emergenziali sovente in tensione rispetto alle libertà fondamentali. È emerso un nuovo femminismo decisamente anti-confessionale e  anti-convenzionale, nonostante le invocazioni femminili per il mantenimento delle culture di origine; hanno conseguito la ribalta le pose a volte estetizzanti degli intellettuali di grido, come Michel Onfray, nonostante l’oggettivo interesse di alcune loro posizioni.

Questo diffuso itinerario concettuale ha il merito di essere condotto con metodo giuridico e ricorrendo in misura determinante alle fonti letterarie di cui si abbevera. È come se il filone di studi chiamato “diritto e letteratura”, o “law & literature” (a tacere degli ambiti più ristretti che sotto la sua egida sono nati), fosse giunto a rivendicare la sua quarta dimensione. Dopo la base (l’ontologia: oggetto della materia), l’altezza (l’epistemologia: il discorso sul suo sapere scientifico) e il volume (la deontologia: il dover essere delle sue opportunità di studio), sembra arrivato il momento del “tempo”: la capacità del diritto e della letteratura di convergere sugli effetti sostanziali di lunga durata. La posta in gioco non appare la reciproca coabitazione accademica di umanisti e giuristi, di letterati e filosofi, di processualisti e sostanzialisti. C’è piuttosto in ballo la costruzione materiale e la costituzione formale di una civiltà della giustizia. Per quanto tante vicende ultime ce ne suggeriscano irrimediabilmente distanti, è forse corretto affermare che in essa, certo in vesti nuove e misurando problematiche diverse, la laicità non possa che restare “giovane”, centrale.

 

Il Caso Assange: dieci anni di guerra al diritto all’informazione.

Se una decisione governativa non può essere professata pubblicamente prima di essere messa in atto è ingiusta a priori e dimostra che l’operato dei rappresentanti politici è contrario ai principi che sorreggono il diritto del Patto civile.
Il fatto che Assange, nella sua qualità di giornalista, abbia pubblicato documenti che provino l’infedeltà di alcuni politici ai principi che essi stessi dovrebbero propugnare, non può in alcun modo essere visto come un atto criminale contro la sicurezza di uno stato. Al contrario è sempre necessario che la verità sia resa pubblica al fine di rendere il dibattito politico il più possibile autentico e che non vi sia scollamento tra i fatti e le opinioni dei cittadini.
ne hanno parlato Sara Chessa, Antonio Cecere e Antonio Coratti

Progetto di “CITTADINANZA E COSTITUZIONE” nelle scuole superiori

Filosofia in movimento, insieme a Edizioni Kappabit, è lieta di presentare a tutti i docenti e gli studenti delle scuole superiori italiane il progetto “Cittadinanza e Costituzione”, che prevede ore di studio sull’omonimo manuale – a cura di Antonio Coratti e realizzato dal gruppo di ricerca interuniversitario di Fim -, ore di incontri e conferenze con i nostri autori e ore di lavoro nella produzione di contenuti video.

Progetto PCTO Cittadinanza e Costituzione

a cura della KAPPABIT S.r.l.
in collaborazione con Filosofia in movimento

Soggetto proponente:

KAPPABIT S.R.L. 
Fondata nel 2010 per offrire consulenza strategica e percorsi dinamici innovativi ad aziende e istituzioni pubbliche e private, la Kappabit S.r.l. (www.kappabit.com) si propone come interlocutore unico nell’offerta di servizi, assistenza e progettazione nei seguenti settori:

  • tecnologia dell’informazione e della comunicazione (ICT)
  • editoria testuale, audiovisiva, musicale e multimediale
  • comunicazione aziendale, politica e istituzionale
  • ricerca, monitoraggio e analisi di mercato
  • organizzazione di mostre, convegni, seminari, festival, fiere, meeting ed eventi
  • realizzazione, installazione e commercializzazione di oggetti artistici, opere d’arte, design e grafica
  • formazione e qualificazione professionale e culturale

Dal 2014 opera come Casa editrice, attraverso le Edizioni Kappabit (www.edizionikappabit.com), realizzando numerose pubblicazioni – principalmente nell’ambito dell’arte contemporanea, della Media Art, dell’intermedialità, della Realtà Virtuale, del cinema, della musica, della didattica e della saggistica in genere – e dotandole di particolari dispositivi atti a implementare un’esperienza di lettura “aumentata”, grazie all’interazione combinata e integrata di contenuti multimediali, audiovisivi e musicali.

In collaborazione con:

FILOSOFIA IN MOVIMENTO   
Filosofia in movimento (www.filosofiainmovimento.it) è un gruppo di ricerca, attivo da più di cinque anni, che si occupa di promuovere, sviluppare e diffondere la cultura filosofica nella società civile, con particolare attenzione alla formazione dei giovani. Tre anni fa l’associazione ha dato impulso al progetto Esercitare il pensiero, con l’obiettivo di entrare nei licei e coinvolgere gli studenti nei discorsi filosofici, interloquendo con università italiane ed estere, riviste culturali, istituti e fondazioni private.

Tra la Kappabit e Filosofia in movimento (FiM) esiste un rapporto di partenariato, sancito da un protocollo d’intesa ratificato sin dall’avvio dell’attività dell’Associazione e operativo ormai da anni in vari ambiti di attività.

Contenuti e obiettivi generali del progetto PCTO

Al fine di sensibilizzare gli studenti al valore dei principi fondamentali della Costituzione italiana, Kappabit ha recentemente pubblicato il volume “Cittadinanza e Costituzione. Ripensare la comunità” (ISBN 9788894361834). Il libro, a cura di Antonio Coratti e con contributi di autorevoli filosofi e giuristi, si presenta come un manuale multimediale che ai contenuti testuali affianca video di approfondimento e si divide in due parti: la prima illustra la storia del concetto di cittadino dall’antica Roma all’Unione Europea, la seconda raccoglie i commenti di Gianfranco Macrì ai primi dodici articoli della Costituzione.

Il progetto mira a sollecitare lo spirito critico degli studenti, in particolare attraverso l’elaborazione di percorsi e la realizzazione di lavori che evidenzino il legame tra l’evoluzione storica del concetto di cittadinanza e il l’attualità che la definizione di tale concetto trova nella nostra Carta costituzionale. 

Quadro normativo

A partire dalla Legge del 30 ottobre 2008, n. 169, il Miur ha disposto percorsi di «sperimentazione nazionale» e «attività di formazione e sensibilizzazione del personale» finalizzati a sviluppare e a rafforzare i processi educativi nel campo delle competenze di «cittadinanza attiva». Come specificato anche dalla Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio dell’Unione Europea del 18 dicembre del 2006, le «competenze civiche» – che rientrano a pieno titolo nelle «competenze chiave per l’apprendimento permanente» – si fondano «sulla conoscenza dei concetti di democrazia, giustizia, uguaglianza, cittadinanza e diritti civili» e sono finalizzate a valorizzare i principi di responsabilità, legalità, partecipazione e solidarietà.

Fasi del progetto

Il progetto si articola in tre momenti fondamentali che prevedono l’attivazione di differenti modalità di partecipazione e d’interazione per studenti e docenti:

  1.  Studio dei percorsi sulla storia della cittadinanza in Europa e sui principi fondamentali della Costituzione italiana pubblicati in Cittadinanza e Costituzione. Ripensare la comunità (Edizioni Kappabit, 2019), manuale in cui i saggi prodotti dagli autori del gruppo di ricerca di Filosofia in movimento sono stati rielaborati espressamente per un proficuo uso didattico. I contenuti multimediali, che costituiscono parte integrante del testo, possono essere fruiti attraverso l’utilizzo della tecnologia QR-code, consentendo agli studenti di accedere direttamente dal proprio smartphone ai saggi integrali da cui sono stati tratti i percorsi di lettura e alle video-lezioni di approfondimento.
  2. Produzione di elaborati (relazioni, recensioni, presentazioni) che mettano in evidenza il l’evoluzione del concetto di cittadinanza fino a giungere all’attuale formulazione degli articoli fondamentali della nostra Costituzione. A tal fine, i docenti potranno essere supportati dalla redazione di Filosofia in movimento per quanto attiene a idee e suggerimenti, nonché per organizzare degli incontri di approfondimento con gli autori del libro presso l’istituto scolastico.
  3. Produzione di brevi documenti audiovisivi nei quali gli studenti intervisteranno i docenti della propria scuola sui dodici articoli fondamentali della Costituzione italiana. Kappabit supporterà gli studenti nella realizzazione di tali contenuti. I migliori video saranno pubblicati sul sito dell’associazione Filosofia in movimento (www.filosofiainmovimento.it).

Credere da laici: sacro e laicità nell’opera di Simone Weil

di Giulia Ceci

Finché la laicità rimane subordinata alla sovranità dello Stato è ancora incompiuta, troppo debole nel rivolgersi a cattolici, protestanti, ebrei, musulmani, «come se si trattasse di piccole frazioni territoriali del paese, come se si dicesse: «Marsigliesi, lionesi, parigini, siamo tutti francesi»

A dispetto dell’antica origine etimologica, la laicità è un concetto decisamente giovane dal punto di vista storico-filosofico, nonché ancora problematico nella sua espressione attuale. Si potrebbe dire, anzi, che quanto più il mondo contemporaneo si secolarizza e perde i suoi confini nel corrente mutamento della globalizzazione, tanto più il concetto di laicità diventa concreto.

Come mostrato da Paolo Quintili in Politica e diritti tra Europa e Maghreb. Alle origini della nozione di “laicità”[1], la laicità nasce in seno all’illuminismo, attraverso un processo di portata epocale che riesce a ricostruire le fondamenta dell’istituzione sociale sui diritti dell’uomo, passando dalla verticalità dell’autorità di ispirazione divina all’orizzontalità del vivere insieme. Tale processo culmina in quella versione della laicità che oggi si conosce come la sua primaria accezione, ossia la separazione dello Stato dalla Chiesa. Così sancisce il Décret sur la libertè des cultes, il 21 febbraio 1795[2].

Tuttavia, sebbene la laicizzazione dello Stato sia parte integrante della laicità, evidentemente quest’ultima non si esaurisce nell’estromissione della religione dalle leggi dell’apparato statale. Oggi più che mai, il concetto di laicità rilancia una domanda essenziale: citando ancora Quintili, «(…) quale spazio lasciare al senso del sacro ‒ come coscienza e sensibilità privata e individuale del divino ‒ fuori di ogni discorso o di posizione ecclesiastica istituzionale?[3]

Proprio sul senso del sacro come esperienza inalienabile dell’esistenza umana e irriducibile a qualsiasi posizione istituzionale, verte la riflessione di Simone Weil in merito allo spirito laico introdotto dai Lumi. La scarsa considerazione dell’opera illuminista da parte dell’autrice francese ha indotto più di qualcuno alla facile accusa di anti-laicismo. In realtà, come per molti altri temi, anche in questo caso il pensiero weiliano risulta piuttosto controverso. Occorre chiarire subito che il punto in discussione non è la laicità in sé, ma il suo successivo adattamento, coincidente con una svalutazione di quel sentimento religioso che pure precede la religione, cioè il bisogno pre-religioso di credere, una sensibilità al mistero del sacro che trascende la fede quanto a fedeltà a una determinata dottrina. Infatti: «La religione è stata proclamata cosa privata. Secondo le attuali abitudini mentali ciò non vuol dire che risiede nel segreto dell’anima, in quel luogo profondamente nascosto dove non penetra nemmeno la coscienza di ognuno di noi. Vuol dire che è oggetto di scelta, di opinione, di gusto, quasi di fantasia, qualcosa come la scelta di un partito politico o persino come quella di una cravatta»[4].  Ciò di cui Simone Weil non si accontenta ‒ e che, anzi, prevede ‒ è una svendita della laicità a quel relativismo un po’naïf delle collettività odierne. In altre parole, seguendo Quintili che adotta il linguaggio del semiologo e filosofo Tzvetan Todorov[5],  la terza sfera della libertà di coscienza, privata e personale, deve sfuggire al dogmatismo religioso senza cadere, per questo, in una traduzione superficiale e relativistica della laicità.

In tal senso, l’alternativa della visione weiliana si riferisce a una “civiltà mistica”, dove il termine mistico non deve trarre in inganno; esso designa una forma di spiritualità impossibile da affiliare, radicalmente estranea alla realtà naturale in tutte le sue declinazioni politiche e religiose. D’altra parte, solo in quest’ottica l’autrice francese riesce a concepire a pieno una civiltà europea. Non basta una somma di Stati sovrani: è necessario un dialogo interreligioso. La grande svolta dei Lumi, dunque, non ha centrato l’obbiettivo, laddove il suo scopo principale sarebbe stato esclusivamente quello di assicurare l’unità dello Stato nazionale. Secondo Simone Weil, essa rappresenta un’altra tappa di quel folle “rovesciamento dei mezzi nei fini” in cui può essere inquadrata la storia occidentale, ossia un relativo ‒ lo  Stato-Nazione ‒ viene fatto assurgere ad assoluto cui si deve la stessa osservanza che si dovrebbe a un obbligo incondizionale. Finché la laicità rimane subordinata alla sovranità dello Stato è ancora incompiuta, troppo debole nel rivolgersi a cattolici, protestanti, ebrei, musulmani, «come se si trattasse di piccole frazioni territoriali del paese, come se si dicesse: «Marsigliesi, lionesi, parigini, siamo tutti francesi»»[6].


[1] Nel volume Lumi sul Mediterraneo, a cura di Antonio Coratti e Antonio Cecere, pp. 97-117, Editoriale Jouvence, Milano 2019.

[2] Ivi, p. 110.

[3] Ivi, pag. 115.

[4] S. Weil, La prima radice, pag. 118, trad. it. di F. Fortini, SE Edizioni, Milano 1990.

[5] T. Todorov, Lo spirito dell’illuminismo, trad. it. di G. Lana, Garzanti, Milano 2007.

[6] S. Weil, op.cit., pag. 119.

Note a “Self Islam” di A. Bidar, éditions du Seuil, Paris, 2006

di A. Coratti

Il ruolo fondamentale sarà giocato dalla differenza, intesa come «aspirazione» e «diritto» e non più come segno di appartenenza ad altro o al medesimo

Da Eschilo a Platone, passando per Dante e Montesquieu, il rapporto tra “Oriente” e “Occidente” ha segnato la storia della letteratura europea. In epoca moderna, come evidenziato dall’intellettuale americano di origine palestinese Edward Said, avviene un fenomeno nuovo: per giustificare le proprie «imprese colonizzatrici», l’ “Occidente” inventa il «fantasma di culture arretrate»[1]. Di colpo la Storia (quella con la s maiuscola) è annientata. La culla della civiltà, la sorgente da cui i Greci e Platone stesso traevano ispirazione per fondare la base di quella che sarebbe poi diventata la “cultura occidentale” è improvvisamente accusata di essere sede di una cultura “inferiore”. Oggi è diffusa l’idea che sia in corso uno “scontro di civiltà” tra Oriente e Occidente, tra l’integralismo religioso e fondamentalista e la modernità laica e razionale.

La testimonianza del filosofo francese Abdennour Bidar risulta a questo proposito densa di significati per sfatare pregiudizi e vere e proprie allucinazioni di massa. In Self Islam, egli, nato in Francia da madre francese convertita all’Islam, ripercorre le tappe fondamentali della sua esistenza, in cui la fede in Allah convive, non senza sentimenti contrastanti e, a volte, vere e proprie contraddizioni, con la volontà di proseguire gli studi in filosofia presso la prestigiosa e laicissima École Normale di Parigi. Contraddizioni imposte dall’esterno, dagli sguardi degli altri, dalle richieste delle istituzioni, non certo all’interno di Bidar che, fin dall’infanzia, ha sentito crescere la propria fede religiosa insieme e parallelamente allo «spirito critico moderno», tipicamente e propriamente europeo[2]. Parlare di Self Islam, di una fede del tutto interiore, aderente totalmente alla propria personale storia, presuppone, infatti, l’azione purificatrice dello spirito critico europeo che si è sbarazzato «di tutto ciò che le religioni avevano accumulato di oscurantismo, superstizione e formalismo», non distruggendo, tuttavia, la «dimensione spirituale dell’esistenza»[3]. La differenza che Bidar evidenzia tra «età della religione» ed «era spirituale» ci pare fondamentale, ancor di più considerando il fatto che l’autore accusi tanto parte del mondo islamico, quanto il governo francese di confondere i due piani, non riuscendo entrambi a cogliere la complessità e le nuove opportunità aperte dal mondo globalizzato. Da una parte, il sufismo, che rappresenta l’ala mistica e ascetica dell’Islam, cui Bidar si era legato in un periodo di forte contrasto con il mondo occidentale, è accusato di non aver riconosciuto il valore spirituale della critica moderna alle religioni, restando ancorato alle sue tradizioni medievali e, soprattutto, di celare, dietro la facciata di «pacifica spiritualità», una realtà fatta di «intransigenza», «chiusura» e «sottomissione»[4].

Dall’altra parte, anche il governo francese resta imbrigliato nell’età della religione, contraddicendo gli stessi valori fondanti la propria storia rivoluzionaria: «oggi è la stessa Francia che classifica gli individui secondo il proprio gruppo etnico, religioso, culturale, come se sia necessario prima di ogni cosa considerare ognuno attraverso questa appartenenza. Come se bisogna rispettare il musulmano, l’ebreo, il Nero, l’omosessuale, prima di tutto per questa differenza. Come se si fosse musulmano, etc, prima di essere umano»[5]. Questo atteggiamento classificatorio appare anch’esso anacronistico, legato a un’epoca in cui si cercava a tutti i costi di «fabbricare unità» fondandole su principi astratti che diventavano però socialmente e politicamente rilevanti. È il caso del destino dell’Islam dopo l’11 settembre: di colpo diventato il «Grande Nemico» dell’Occidente, andando ad occupare il posto lasciato vacante dall’ex URSS dopo la caduta del muro di Berlino. Il terrorismo e l’integralismo islamico, sebbene fenomeno limitato all’interno dell’Islam, è immediatamente assunto a «minaccia suprema per l’ordine mondiale» e il suo spauracchio genera odio e sospetto, influenzando anche scelte politiche in tutte le nazioni europee come quelle relative all’annosa questione dell’integrazione di immigrati arabi, turchi, pakistani[6].

L’Occidente comincia ad interrogarsi sulla compatibilità dell’Islam con la democrazia tout court. D’altro canto, Bidar denuncia l’irrigidimento della posizione dei “musulmani europei” che, guidati dalla voce autorevole di Tariq Ramadan, rivendicano – proprio in nome del principio democratico di “libertà religiosa” – l’intangibilità dei dogmi e delle leggi del Corano. Bidar critica aspramente la contraddittorietà di questo atteggiamento che pretenderebbe di far appello a principi democratici per costringere di fatto la democrazia stessa a «tollerare l’intollerabile per essa: lo sviluppo di una religione nella sua forma più rigida e arcaica»[7]. Ciò comporterebbe inevitabilmente, secondo Bidar, la chiusura della comunità musulmana in se stessa e il tradimento della tradizione politico-filosofica della Repubblica francese secondo cui «tutti i cittadini della nazione condividono gli stessi valori»[8]. In realtà, lo «spirito del tempo» non permetterà una rinascita dell’Islam «in quanto religione», ovvero come culto di una verità eterna, unica e immutabile. È piuttosto da recuperare la dimensione spirituale dell’Islam, proclamata espressamente da alcuni passi del Corano stesso, in cui si legge, ad esempio, che «per ognuno c’è una direzione»[9]. I segni del passaggio dalla dimensione religiosa a quella spirituale sono del resto presenti – nonostante la vulgata di un Islam quasi completamente dominato da forze integraliste e dal fanatismo – all’interno degli stessi paesi islamici, anche i più retrogradi: «ovunque, più o meno velocemente, il vecchio islam autoritario, intollerante, religioso cede spazio a una cultura musulmana molto più aperta, che ha sete di libertà e uguaglianza»[10]. A questo proposito, l’autore cita, tra gli altri, l’esempio dell’India, dove «le donne reclamano la traduzione del Corano per poterlo leggere direttamente e personalmente, contro la verità imposta dai loro mariti»[11]. La questione della traduzione dei testi sacri è fondamentale per comprendere la storia dell’Islam, comparandola, ad esempio, alla storia del Cristianesimo. Come evidenziato da molti studiosi, la Riforma protestante ha segnato la nascita dello spirito critico moderno europeo[12] e una grave crisi dell’auctoritas della Chiesa di Roma, motivate entrambe anche e, soprattutto, dalla traduzione della Bibbia in tedesco. Per l’Islam, la situazione è diversa. Da sempre – afferma Bidar – le differenze notevoli nelle tradizioni culturali e negli stili di vita all’interno del mondo musulmano (che, come noto, si estende dal Marocco all’India e alla Cina), sono relegate in secondo piano rispetto all’immagine del «“vero musulmano”, del “buon musulmano”, pio credente che vive sul modello del Profeta»; gli individui non sono ancora riusciti a rivendicare il «diritto a sentirsi musulmani a partire da altri aspetti che non siano quelli strettamente religiosi»[13]. In realtà, «sotto il pretesto che il Corano sia stato rivelato in lingua araba, gli Arabi hanno esercitato un rigido imperialismo religioso sull’islam […] considerando le traduzioni del Corano come delle copie inferiori rispetto all’originale»[14]. La richiesta delle donne musulmane indiane e pakistane di far tradurre il Corano nella loro lingua per poterne leggere direttamente il contenuto ha, dunque, un significato rivoluzionario, andando a colpire direttamente al cuore tutte quelle interpretazioni del testo sacro che, nascondendosi dietro l’incomprensibilità della lingua, non hanno fatto altro che alimentare il potere e il controllo da parte del mondo arabo e, per lo più, maschile.

La proposta del Self islam passa per l’opera di traduzione dei testi sacri che consentirà la riscoperta per ognuno del proprio, personale rapporto con Allah e in questo modo la spiritualità (e non la religiosità) potrà riconciliarsi con il nostro proprio tempo, con questo «mondo divenuto così diverso, così molteplice», in cui ognuno manifesta un così forte «desiderio […] di voler esprimere la propria singolarità»[15]. Il ruolo fondamentale sarà giocato dalla differenza, intesa come «aspirazione» e «diritto» e non più come segno di appartenenza ad altro o al medesimo.


[1] E. Said, L’Orientalisme, Seuil, Paris, 1980

[2] A. Bidar, Self Islam, Seuil, Paris, 2006, p. 121

[3] Ibidem

[4] Ivi, p. 123

[5] Ivi, p. 84

[6] Ivi, p. 156

[7] Ivi, p. 157

[8] Ivi, p. 159

[9] Ivi, pp. 161-162

[10] Ivi, p. 164

[11] Ibidem

[12] Cfr. in particolare, M. Foucault, Qu’est-ce que la critique? Critique et Aufklarung, in Bulletin de la société française de philosophie, n. 2, 1990

[13] A. Bidar, op. cit., p. 35

[14] Ivi, p. 36

[15] Ivi, p. 87

L’educazione alla complessità per una cittadinanza inclusiva (Prima parte)

La tecnologia è entrata a far parte della sintesi di nuovi valori e di nuovi criteri di giudizio, rendendo ancor più evidente la centralità e la funzione strategica di un’evoluzione che è culturale e che va ad affiancare quella biologica, condizionandola profondamente e  determinando dinamiche e processi di retroazione (si pensi ai progressi tecnologici legati a intelligenza artificiale, robotica, informatica, nanotecnologie, genomica etc.).

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Carl Schmitt dirà che “Stato è un determinato status di un popolo, e precisamente lo status dell’unità politica” (Dottrina della costituzione, tr. it. cit., p. 271). Ma, se vale quel che ci ha insegnato Hobbes, non esiste un popolo come dato pre-politico, “naturale”, che da un certo momento in poi consegue lo status dell’unità e cioè diventa il popolo “di” uno Stato.

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“Popolo” e “nazione” sono entrambe parole provenienti dal latino. Per quanto riguarda Populus, anche se l’etimologia è tuttora incerta, le diverse strade portano più o meno tutte all’immagine di una popolazione in armi che si diffonde in un territorio, lo occupa e lo difende da altri invasori.