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György Lukács, la categoria della particolarità e la formazione del capitalismo periferico in America Latina

di Ranieri Carli (Universidade Federal Fluminense)

 

Questo articolo tratta dell’uso che il filosofo ungherese György Lukács fa della categoria della particolarità, richiamando l’attenzione sul suo posto all’interno del metodo di Marx. Dopo lo studio della pertinenza della particolarità nel metodo, in questo articolo vengono studiate la formazione del capitalismo periferico in America Latina e la particolarità delle sue dinamiche.

L’idea è quella di utilizzare la categoria della particolarità per descrivere brevemente la peculiarità della costituzione di una società capitalista nei paesi dell’America Latina. All’inizio, useremo il metodo di Lukács per delimitare l’importanza della categoria di particolarità; e, dopo, studieremo le idee di Ernest Mandel su alcune delle particolarità più generali del capitalismo che si è sviluppato in America Latina, senza la minima intenzione di esaurire il tema.

Nella sua Estetica del 1963, Lukács afferma correttamente che le categorie di universalità, particolarità e singolarità non possono essere ridotte a semplici “punti di vista”; sono, infatti, aspetti essenziali della realtà oggettiva, la cui conoscenza è necessaria all’uomo che intende orientarsi in questa realtà, sorpassare e sottoporla ai suoi fini. In considerazione del loro carattere oggettivo, l’uomo è in “convivialità” con tali categorie ancor prima di usarle come elementi organizzativi delle riflessioni del movimento del reale[1].

Ecco un esempio del modo in cui il metodo dialettico è in grado di catturare le categorie, specialmente quando si verifica il lavoro: abbiamo, quindi, 1) il lavorare sotto forma di una categoria universale, mediatore indispensabile della società con la natura; 2) il lavorare come un particolare, del modo capitalista di produzione come mezzo per valutare il capitale; e 3) il lavoro concreto unico di metalmeccanici, agricoltori, ceramisti, ecc.

Certo, la categoria della totalità universale è quella che comprende gli altri e il punto di vista della teoria sociale deve sempre essere la prospettiva di questa totalità universale. Come ci ricorda bene Lukács in uno dei saggi di Storia e Coscienza di Classe, è la presenza della categoria della totalità universale che differenzia Marx dalle scienze borghesi[2]. Tuttavia, la categoria della particolarità promuove un vero arricchimento tanto della totalità universale quanto della singolarità unica.

Poi, secondo Lukács, le particolarità arricchiscono la relazione tra il singolare e l’universale. Non c’è individuo singolare che sia legato all’universalità del genere senza la mediazione di innumerevoli particolarità. Un individuo, che si sia Enrico o Cecilia, sono membri unici della razza umana. Tuttavia, l’appartenenza alla generalità è mediata da aspetti particolari, come la società in cui fanno parte (capitalista, feudale, ecc.), la classe sociale (borghesi, proletari, ecc.), la nazione (Brasile, Palestina, Italia, ecc.), la generazione (bambini, adulti, anziani, ecc.) e così via potremmo continuare ad aggiungere una vasta gamma di variabili che arricchiscono il rapporto tra singolare e universale.

Continuando a pensare come Lukács, la categoria del particolare è interessante per studiare le peculiarità dello sviluppo capitalista di ogni circostanza storicamente determinata, come il modo in cui è stata elaborata in America Latina. Sappiamo che, prima di tutto, nella sua universalità, le dinamiche capitaliste implicano lo sfruttamento della forza-lavoro da parte del capitale. Tuttavia, come si verifica questa situazione nelle terre dell’America Latina? In questo caso, è possibile comprendere lo sviluppo di una società borghese in America Latina tenendo conto della categoria di particolarità, come intendeva Lukács.

Per Mandel, la formazione dell’accumulazione primitiva di capitale nei paesi periferici avviene secondo tre elementi: in primo luogo, il processo ininterrotto di accumulazione di capitale nei paesi centrali (specialmente in Europa), già sotto forma di una riproduzione ampia; in secondo luogo, gli inizi dell’accumulazione primitiva di capitale in periferia; in terzo luogo, la conseguente limitazione del processo di accumulazione che inizia in periferia da parte del processo di accumulazione in grandi fasi dei paesi centrali[3].

Il principale dei tre elementi è proprio l’ultimo: le imposizioni che il capitale europeo ha posto allo sviluppo del capitale periferico. Lukács potrebbe dire che questa è una grande caratteristica particolare che differenzia il capitalismo periferico. Secondo Mandel, «in ogni paese o su scala internazionale, il capitale mette sotto pressione, dal centro – in altre parole, i suoi luoghi di origine storici – alla periferia. Cerca continuamente di estendersi a nuovi domini, convertire semplici settori riproduttivi di beni in nuove sfere di produzione capitalista di beni, soppiantare, con la produzione di beni, i settori che fino ad allora producevano solo valori di uso. Il grado in cui questo processo continua a verificarsi ancora oggi, sotto i nostri occhi, nei paesi altamente industrializzati, è esemplificato dall’espansione, negli ultimi due decenni, di industrie che producono pasti pronti al servizio, distributori di bevande e così via”[4].

In periferia, quindi, l’arrivo del capitale internazionale apre la strada alla produzione di plusvalore con la “normalità” delle ferree leggi dell’economia capitalista.

Mandel sostiene che, in generale, il ruolo di “pathfinder” spetta al “piccolo e medio capitale”[5]. Poiché le modalità tradizionali della produzione di sussistenza non rappresentano più ostacoli, la produzione capitalista viene gradualmente imposta, vivendo insieme con le relazioni sociali della produzione tradizionale. Lo sviluppo della produzione tipicamente capitalista di materie prime tende a sottomettere le altre forme rimanenti.

L’articolazione tra paesi centrali e periferici è duplice: da un lato, la periferia importa articoli a basso costo dall’elevato grado di produttività raggiunto grazie ai macchinari sviluppati nei paesi centrali, il che implica la rovina delle forme artigianali di produzione (incapaci di raggiungere tale produttività); dall’altro, c’è la specializzazione dei paesi di capitalismo incipiente in prodotti che servivano il mercato internazionale, in particolare nei prodotti agricoli[6].

Così, ovviamente, l’articolazione tra centro e periferia avviene con la subalternità di questo nei confronti a questo. È quello che Lukács chiamerebbe sottomissione delle particolarità all’universalità. Tuttavia, il punto è che il capitalismo iniziale della periferia deve competere con il capitale internazionale, che non solo si consolida sul mercato mondiale, ma già avanza nella costituzione dei monopoli. È importante dire con Lukács che questa è una delle particolarità che segnano fortemente la vita economica nei paesi del capitalismo periferico. Il compito ingrato della borghesia nazionale periferica è quello di aumentare un tale livello di estrazione di pluslavoro che gli dia condizioni sufficienti per affrontare il capitale monopolistico che proviene dall’esterno. In effetti, l’impulso allo sviluppo dell’industria capitalista in periferia avviene con l’esportazione di capitali da parte di paesi in cui la borghesia monopolistica è diventata dominante. L’accumulo primitivo delle nazioni subalterne ha dovuto fare i conti con questa circostanza, poiché, di conseguenza, il processo di esportazione di capitali imperialisti ha soffocato lo sviluppo economico del cosiddetto “Terzo Mondo”[7].

La distinzione tra la forma classica di accumulazione primitiva (che si è verificata in Inghilterra) e quella delle nazioni del Terzo Mondo è abbastanza evidente. Il carattere decisivo di questa distinzione è che lo sviluppo capitalista del Terzo Mondo incontra la metropoli, gli interessi della borghesia dei paesi metropolitani.

Inoltre, la classica accumulazione primitiva aveva come ostacolo le forze tradizionali che resistettero allo sviluppo interno di un mercato della forza lavoro e al consumo di beni. La madrepatria inglese o francese combatté contro le stabilizzazioni delle vecchie classi in modo che, ognuno a modo suo, diventasse preponderante.

Nel caso dell’accumulo primitivo nelle nazioni periferiche, questo fenomeno non si è verificato. Ancora una volta, la categoria di particolarità è presente qui, come si rende conto Lukács. Mentre lo sviluppo capitalista veniva guidato dall’esterno, «ci fu un’alleanza sociale e politica a lungo termine tra imperialismo e oligarchie locali, che congelò le relazioni precapitalistiche della produzione sul campo»[8]. A quel tempo, non era nell’interesse della borghesia imperialista rompere con le forze locali che persistevano dominanti nelle rispettive regioni. L’esperienza storica ci dimostra che il consolidamento delle alleanze tra la borghesia straniera e l’aristocrazia regionale predominava in periodi storici come quello che raccontiamo.

Il grande servizio che la periferia forniva alla capitale metropolitana era quello di fornire materie prime. Non è casuale. La ricerca del capitale circolante (come la materia prima) si spiega con l’imperativo che il capitale contenga la caduta tendenziale del saggio di profitto.

Il problema posto al capitale imperialista era l’organizzazione precapitalistica della produzione di materie prime. Il basso grado di produttività della forma di produzione ha reso costosa la merce finale; pertanto, non c’era altra via d’uscita che organizzare la produzione di tali beni secondo le leggi dell’industria capitalista. Solo in questo modo, la produzione di materie prime sarebbe stata adeguata ai livelli di produttività del lavoro richiesti all’epoca. Quindi, Mandel osserva che «l’intervento diretto del capitale occidentale nel processo di accumulazione primitiva di capitale nei paesi sottosviluppati è stato quindi determinato, in misura considerevole, dalla pressione compulsiva su questo capitale, al fine di organizzare la produzione capitalista di materie prime su larga scala»[9].

Se, in questo modo, la capitale imperialista costringesse l’organizzazione a produrre materie prime a sua immagine e somiglianza, ciò non causava lo sviluppo di forze produttive nelle terre periferiche. Non era necessario, dato che il basso valore della forza lavoro, con i suoi piccoli costi di sostituzione, il grande esercito industriale di riserva e la relativa debolezza dell’organizzazione politica del proletariato, hanno messo a disposizione del capitale le condizioni appropriate per l’estrazione del plusvalore assoluto senza utilizzare l’aumento dei macchinari. Tuttavia, in queste circostanze, l’estrazione del plusvalore assoluto è stata la costante.

La situazione cambia a metà del XIX secolo. XX. Con il ristagno della produttività della produzione di materie prime nei paesi dipendenti e, d’altro canto, con l’aumento della produttività nello stesso settore nei paesi centrali, si è registrato un graduale inserimento della tecnologia nella produzione di materie prime in periferia. Inoltre, «il capitale monopolistico internazionale si interessò non solo alla produzione di materie prime a basso costo attraverso metodi industriali avanzati […], ma anche alla produzione, nei paesi sottosviluppati, di prodotti finiti che potevano essere venduti lì a prezzi monopolistici, invece di materie prime che erano diventate eccessivamente economiche»[10].

Va detto che l’industrializzazione della periferia non significasse il livellamento armonico del mercato mondiale, in cui ciascuno avrebbe calcolato simmetricamente la propria quota. Lo sviluppo dell’industria capitalista nei paesi periferici non ha modificato il fatto che il suo capitalismo è dipendente e subordinato alla metropoli.

Pertanto, ciò che abbiamo visto sul capitalismo periferico può essere riassunto nelle seguenti parole: Lukács ci ha dato il metodo, mentre Mandel ha riempito questo metodo di contenuto storico.

Infine, cosa si può vedere nello schizzo sopra è che la categoria della particolarità è essenziale per creare un quadro del capitalismo nei paesi periferici come quelli dell’America latina. Lukács aveva ragione quando ha richiamato l’attenzione sull’importanza metodologica della categoria. Con esso, è possibile collocare storicamente le mediazioni che hanno portato il capitalismo latinoamericano alla realtà contemporanea del modo in cui lo viviamo attualmente. Se l’universalità dell’attuale modalità di produzione è il capitalismo, all’interno di questa universalità ci sono particolarità molto precise, come quelle che riguardano la storia dell’America Latina.

 

 

 

 

[1] Cfr. Lukács György, Estetica I: la peculiaridad de lo estético, Barcelona, México, 1982, v. 3, p. 200.

[2] Cfr. LUKÁCS, György. História e consciência de classe. São Paulo: Martins Fontes, 2003, p. 105.

[3] Cfr. MANDEL, Ernest. O capitalismo tardio. Rio de Janeiro: Nova Cultural, 1982, p. 31.

[4] Cfr. MANDEL, op. cit, p. 31.

[5] Cfr. MANDEL, op. cit, p. 32.

[6] Cfr. MANDEL, op. cit, p. 35.

[7] Cfr. MANDEL, op. cit, p. 36.

[8] Cfr. MANDEL, op. cit, p. 37.

[9] Cfr. MANDEL, op. cit, p. 39.

[10] Cfr. MANDEL, op. cit, p. 43.

LUKÁCS SU HÖLDERLIN E IL TERMIDORO

di Michael Löwy (traduzione di Antonino Infranca)

Gli scritti di Georg Lukács negli anni Trenta, malgrado i loro limiti, le loro contraddizioni e i loro compromessi (con lo stalinismo) sono di grande interesse. È il caso soprattutto del suo saggio su Hölderlin del 1935, intitolato L’“Hyperion” de Hölderlin, tradotto in francese da Lucien Goldmann e incluso nel volume Goethe et son époque (1949).
Lukács è letteralmente affascinato dal poeta, che descrive come «uno dei poeti elegiaci più puri e profondi di tutti i tempi», in cui l’opera «ha un carattere profondamente rivoluzionario»[ref]G. Lukács, L’Hyperion de Hörderlin, p. 197 [“L’Iperione di Hölderlin” in Id., Goethe e il suo tempo, tr. it. A. Casalegno, in Id. Scritti sul realismo, Torino, Einaudi, 1978, p. 315[/ref] . Ma contrariamente all’opinione generale degli storici della letteratura, egli rifiuta ostinatamente di riconoscerlo come un autore romantico. Perché?
Dopo l’inizio degli anni Trenta, Lukács aveva compreso, con grande lucidità, che il romanticismo non era una semplice scuola letteraria ma una protesta culturale contro la civiltà capitalista, in nome dei valori – religiosi, etici, culturali – del passato. Era, allo stesso tempo, convinto che, per i riferimenti al passato, si trattasse di un fenomeno essenzialmente reazionario.
Il termine “anticapitalismo romantico” appare per la prima volta in un articolo di Lukács su Dostoevskij, dove lo scrittore russo è condannato come “reazionario”. Secondo questo articolo, pubblicato a Mosca, l’influenza di Dostoevskij risulta dalla sua capacità di trasformare i problemi dell’opposizione romantica al capitalismo in problemi “spirituali”; a partire da questa «opposizione intellettuale piccolo-borghese anticapitalista romantica (…) si apre una larga strada verso la destra, verso la reazione, oggi verso il fascismo e, al contrario, un sentiero stretto e difficile verso la sinistra, verso la rivoluzione»[ref]G.Lukacs, «Über den Dotsojevski Nachlass », Moskauer Rundschau, 22/3/1931[/ref] . Questo “sentiero stretto” sembra sparire, fino a quando scrive, tre anni più tardi, un saggio su “Nietzsche precursore dell’estetica fasciste”. Lukács presenta Nietzsche come un continuatore della tradizione dei critici romantici del capitalismo: come loro «egli contrappone continuamente alla mancanza di civiltà del suo tempo l’alta civiltà di periodi precapitalistici o protocapitalistici». A suo avviso, questa critica è reazionaria, e può facilmente condurre al fascismo[ref]G. Lukács, «Nietzsche als Vorläufer des faschistischen Aesthetik », pp. 41 e 53 (1934) [«Nietzsche precursore dell’estetica fascista » in Id. Contributi alla storia dell’estetica, tr. it. E. Picco, Milano, Feltrinelli, 1975, pp. 336 e 360[/ref] .
Si trova qui un sorprendente accecamento: Lukács non sembra percepire l’eterogeneità politica del romanticismo e, in particolare, l’esistenza, a fianco del romanticismo reazionario, che sogna un impossibile ritorno al passato, di un romanticismo rivoluzionario che aspira a una svolta dal passato, in direzione di un avvenire utopico. Questo rifiuto è ancor più sorprendente, perché l’opera dello stesso giovane Lukács, per esempio il suo saggio La teoria del romanzo (1916), appartiene a questo universo culturale romantico/utopico .
Questa corrente rivoluzionaria è presente nelle origini del movimento romantico. Prendiamo come esempio Le origini dell’ineguaglianza tra gli uomini di Jean-Jacques Rousseau (1755), che si può considerare come una sorta di primo manifesto del romanticismo politico: la sua feroce critica della società borghese, dell’ineguaglianza e della proprietà privata, si fa in nome di un passato più o meno immaginario, lo Stato di Natura (direttamente ispirato ai costumi liberi ed egualitari degli indigeni “Caraibi”). O contrariamente a ciò che pretendono i suoi avversari (Voltaire!), Rousseau non propone che gli uomini moderni ritornino alla foresta, ma sogna una nuova forma di eguale libertà dei “selvaggi”: la democrazia. Si trova il romanticismo utopico, sotto diverse forme, non soltanto in Francia ma anche in Inghilterra (Blake, Shelley) e anche in Germania: il giovane Schlegel non era un ardente partigiano della Rivoluzione francese? È il caso anche, ben inteso, di Hölderlin, poeta rivoluzionario, ma che, come molti dei romantici dopo Rousseau, è posseduto dalla “nostalgia dei giorni di un mondo originario” (ein Sehnen nach den Tagen der Urwelt) .
Lukács è obbligato a riconoscere, controvoglia, che si trovano «tratti romantico-anticapitalistici di Hölderlin, che quando egli scriveva non erano affatto reazionari» . Per esempio, l’autore dell’Iperione odia, anche lui, come i romantici, la divisione capitalistica del lavoro e la ristretta libertà politica borghese. «Eppure nel fondo del suo essere, Hölderlin non è romantico, benché molti tratti della sua critica del capitalismo incipiente lo siano»[ref]G. Lukács, L’Hyperion de Hörderlin, p. 313[/ref] . Si sente in queste righe che affermano una cosa e il suo contrario, l’imbarazzo di Lukács e la sua difficoltà a designare chiaramente la natura romantica rivoluzionaria del poeta. Questo perché in una prima epoca il romanticismo non aveva «tratti [… che] non erano affatto reazionari»? ciò vorrebbe dire che tutta la Frühromantik, il periodo iniziale del romanticismo, alla fine del XVIII secolo, non era reazionario? In questo caso, come si può proclamare che il romanticismo è, per sua natura, una corrente retrograda?
Nel suo tentativo, contro ogni evidenza, di dissociare Hölderlin dai romantici, Lukács menziona il fatto che il passato al quale essi si riferivano non è lo stesso: «La differenza tra la tematica di Hölderlin e quella dei romantici – Grecia contro medioevo – è dunque anche una differenza politico-ideologica» (p. 313). O, se molti romantici si riferiscono al medioevo, non è il caso di tutti: p. es. Rousseau, come si è visto, si ispira al modo di vita dei “Caraibi”, uomini liberi ed eguali. Si trovano, d’altronde, dei romantici reazionari che sognano l’Olimpo della Grecia classica. Se si tiene conto del cosiddetto “neo-romanticismo” della fine del XIX secolo – la continuazione del romanticismo sotto una nuova forma – si trovano autentici romantici rivoluzionari – il marxista libertario William Morris e l’anarchico Gustav Landauer – affascinati dal Medioevo.
Infatti, ciò che distingue il romanticismo rivoluzionario dal reazionario non è il tipo di passato al quale si riferisce, ma la dimensione utopica dell’avvenire. Lukács sembra non rendersene conto, in un altro passo del suo saggio, quando evoca la presenza, in Hölderlin, di un «sogno di una risorta età dell’oro» e dell’«utopia di una liberazione reale dell’umanità» . Egli percepisce anche, con perspicacia, la parentela tra Hölderlin e Rousseau: nei due trova «il sogno di una trasformazione della società», con la quale, quella sarà «ridiventata natura»[ref]Ivi, p.304-305[/ref] . Lukács è dunque preso dal rendere conto dell’ethos romantico rivoluzionario di Hölderlin, ma il suo pregiudizio ostinato contro il romanticismo, catalogato come “reazionario” per definizione, gli impedisce di raggiungere questa conclusione. È, secondo noi, uno dei principali limiti di questo saggio, altrimenti brillante …
L’altro limite riguarda piuttosto il giudizio storico-politico di Lukács sul giacobinismo ostinato – post-termidoriano – di Hölderlin, paragonato al “realismo” di Hegel: «Hegel si adatta ad essa [la situazione post-termidoriana], si adatta alla fine del periodo rivoluzionario borghese e costruisce la sua filosofia proprio sul riconoscimento di questa svolta nuova nella storia mondiale; Hölderlin rifiuta ogni compromesso con la realtà post-termidoriana, resta fedele all’antico ideale rivoluzionario di rinnovamento della democrazia ellenica e viene schiacciato da una realtà in cui per quell’ideale non c’era più posto, nemmeno sul piano filosofico e poetico». Mentre Hegel interpreta «la rivoluzione borghese come un processo unitario, del quale sia il Terrore che il Termidoro e Napoleone erano le fasi necessarie», «l’intransigenza di Hölderlin resta invece un tragico vicolo cieco: solitario Leonida degli ideali giacobini, egli cade sconosciuto e incompianto alle Termopili del termidorismo avanzanto»[ref]Ivi, p. 302-303[/ref] .
Riconosciamo che questo affresco storico, letterario e filosofico non manca di grandezza! Esso, però, non è meno problematico … E, soprattutto, contiene, implicitamente, un riferimento alla realtà del processo rivoluzionario sovietico, così come esisteva nel momento in cui Lukács redigeva il suo saggio.
È, in ogni caso, l’ipotesi, un po’ rischiosa, che ho tentato di difendere in un articolo apparso in inglese sotto il titolo “Lukács and Stalinism”, e incluso in un libro collettivo Western Marxism, a Critical Reader, London, New Left Books, 1977. L’ho incluso anche nel mio libro su Lukács pubblicato in francese nel 1976 e apparso, nel 1978, in Italia con il titolo Per una sociologia degli intellettuali rivoluzionari. Ecco un passo che riassume la mia ipotesi riguardo all’affresco storico schizzato da Lukács nell’articolo su Hölderlin: «Il significato di queste osservazioni in rapporto all’Urss del 1935, è chiaro; basterà ricordare che Trotsky aveva pubblicato, proprio nel febbraio 1935, un saggio in cui utilizzava per la prima volta il termine “Termidoro”, per caratterizzare l’evoluzione dell’Urss dopo il 1924 (Lo Stato operaio e la questione del Termidoro e del bonapartismo). Non vi sono dubbi che i brani citati, siano la risposta di Lukács a Trotsky, questo Leonida intransigente, tragico e solitario, che rifiuta il Termidoro ed è condannato all’impotenza … Lukács, invece, allo stesso modo di Hegel, accetta la fine del periodo rivoluzionario e costruisce la propria filosofia sulla comprensione della nuova svolta della storia universale. Notiamo, inoltre, che Lukács sembrerebbe accettare, implicitamente, la caratterizzazione trotskista del regime di Stalin, come termidoriano …»[ref]M. Löwy, Per una sociologia degli intellettuali rivoluzionari. L’evoluzione politica di Lukács 1909-1929, tr. it. R. Massari, Milano, La Salamandra, 1978, p. 236[/ref] .
Con un certo stupore, ho letto in un recente libro di Slavoj Zizek, un passo a proposito del saggio di Lukács su Hölderlin, che riprende, quasi parola per parola, la mia ipotesi, ma senza menzionare la fonte: «È evidente che l’analisi di Lukács è profondamente allegorica: essa è stata scritta qualche mese dopo che Trotsky lancia la sua tesi, secondo la quale lo stalinismo era il Termidoro della Rivoluzione d’Ottobre. Il testo di Lukács deve essere letto come una risposta a Trotsky: egli accetta la definizione del regime stalinista come “termidoriano”, ma in lui prende una svolta positiva. Piuttosto che deplorare la perdita di energia utopica, dovremmo, in una maniera eroicamente rassegnata, accettare le sue conseguenze come l’unico spazio reale del progresso sociale»[ref]S. Zizek, La révolution aux portes, Paris, Le Temps des Cerises, 2020, p.404[/ref] .
Non credo che Zizek abbia letto il mio libro su Lukács, ma egli probabilmente è venuto a conoscenza della mia analisi nell’articolo pubblicato nella raccolta, a grande circolazione, Western Marxism. Dato che Zizek scrive molto e molto velocemente, è comprensibile che non abbia sempre il tempo di citare le sue fonti …
Slavoj Zizek fa molte critiche a Lukács, nelle quali, paradossalmente, Lukács «diviene dopo gli anni Trenta il filosofo stalinista ideale che, per questa ragione precisa e a differenza di Brecht, passa dalla parte della vera grandezza dello stalinismo…»[ref]Ivi, p. 257[/ref] . Questo commento si trova in un capitolo del suo libro curiosamente intitolato “La grande interiorità dello stalinismo” – un titolo ispirato dall’argomento di Heidegger sulla “grandezza interiore del nazismo”, in cui Zizek si distanzia, negando, a giusto titolo, ogni “grandezza interiore” del nazismo.
Perché Lukács non ha colto questa “grandezza” dello stalinismo? Zizek non lo spiega, ma lascia capire che l’identificazione dello stalinismo con il Termidoro – proposta da Trotsky e implicitamente accettata da Lukács – era un errore. Per esempio, a suo avviso, «il 1928 fu una svolta travolgente, una vera seconda rivoluzione – non un tipo di “Termidoro”, piuttosto la radicalizzazione conseguente della Rivoluzione d’Ottobre». Morale della storia: si deve «cessare il ridicolo gioco consistente nell’opporre il terrore stalinista e l’“autentica” eredità leninista» – un vecchio argomento di Trotsky ripreso «dagli ultimi trotskysti, questi veri Hölderlin del marxismo attuale»[ref]Ivi, p. 250-252[/ref] .
Slavoj Zizek sarebbe, dunque, l’ultimo stalinista? È difficile rispondere, dato che la sua pensiero-mania, con un considerevole talento, usa i paradossi e le ambiguità. Cosa pensare delle sue grandiose proclamazioni sulla “grandezza interiore” dello stalinismo e del suo “potenziale utopico-emancipatore”? Mi sembra che sarebbe più giusto parlare della “mediocrità interiore” e del “potenziale distopico” del sistema stalinista … La riflessione di Lukács sul Termidoro mi sembra più pertinente, anche se esso stesso è discutibile.
Il mio commento, nell’articolo “Lukács e lo stalinismo” (e nel mio libro) concernente l’ambizioso affresco storico di Lukács, a proposito di Hölderlin, tenta di porre in questione la tesi della continuità tra Rivoluzione e Termidoro: «Questo testo di Lukács rappresenta indubbiamente uno dei tentativi più intelligenti e più sottili di giustificare lo stalinismo come una “fase necessaria”, “prosaica” ma “dichiaratamente progressista” dell’evoluzione rivoluzionaria del proletariato, vista come un processo unitario. Questa tesi – che costituiva probabilmente il ragionamento segreto di molti intellettuali o militanti più o meno seguaci dello stalinismo – conteneva un certo “nucleo razionale”, ma gli avvenimenti degli anni seguenti (i processi di Mosca, il patto russo-tedesco, ecc.), avrebbero dimostrato, anche a Lukács, che questo processo non era così “unitario”». Aggiungo in una nota a piè di pagina che il vecchio Lukács, in un’intervista del 1969 a New Left Review, ha una visione più lucida sull’Unione Sovietica: il suo potere d’attrazione straordinaria è durato dal “1917 alle grandi purghe” .
Ritornando a Zizek: le questioni che pone nel suo libro non sono unicamente storiche: esse riguardano la stessa possibilità di un progetto comunista emancipatore a partire dalle idee di Marx (e/o di Lenin). In effetti, secondo l’argomento che egli propone in uno dei passi più bizzarri del suo libro, lo stalinismo, con tutti i suoi orrori (che non nega) è stato, in ultima analisi, un male minore, in rapporto al progetto marxiano originale! In una nota a piè di pagina, Zizek spiega che la questione dello stalinismo è spesso mal posta: «Il problema non è che la visione marxista originale sia stata sovvertita dalle sue conseguenze inattese. Il problema è la questione stessa. Se il progetto comunista di Lenin – e dello stesso Marx – fosse stato pienamente realizzato secondo il suo vero nucleo, le cose sarebbero state ben peggiori che lo stalinismo – avremmo una visione di ciò che Adorno e Horkheimer chiamarono verwaltete Welt (la società amministrata), una società totalmente trasparente a se stessa, regolamentata dal general intellect reificato, dalla quale sarebbe stato bandita ogni velleità di autonomia e di libertà»[ref]Ivi, p. 419[/ref] .
Mi sembra che Slavoj Zizek sia troppo modesto. Perché nascondere in una nota a piè di pagina una tale scoperta storico-filosofica, la cui importanza politica è evidente? In effetti, gli avversari liberali, anticomunisti e reazionari del marxismo si limitano a renderlo colpevole dei crimini dello stalinismo. Zizek è, che io sappia, il primo a pretendere che se il progetto marxista originale si fosse realizzato pienamente, il risultato sarebbe stato peggiore che lo stalinismo …
Si deve prendere sul serio questa tesi, o piuttosto è meglio metterla sul conto del gusto smoderato di Slavoj Zizek per la provocazione? Non potrei rispondere a questa questione, ma penso alla seconda ipotesi. In ogni caso, ho qualche difficoltà a considerare come seria questa affermazione alquanto assurda – uno scetticismo senza dubbio condiviso da coloro – soprattutto giovani – che continuano ad interessarsi, ancora oggi, al progetto marxista originario.

Politica- una introduzione filosofica

L’obiettivo che questo volume si prefigge è quello di presentare in modo sintetico le questioni principali della filosofia politica, con particolare attenzione alle teorie e ai problemi del tempo presente. La trattazione è articolata in tre parti.
Nella prima parte («La politica tra realismo e valori») si presentano le grandi questioni di fondo che stanno alla base della riflessione teorica sulla politica: per un verso la politica non può fare a meno di un riferimento etico e valoriale, per altro verso rimane comunque una dimensione caratterizzata dal conflitto e dalla lotta per il potere. Si tratta dunque di pensare insieme queste due dimensioni, cosa che molto spesso le filosofie politiche non sono riuscite a fare. I temi affrontati nella prima parte sono dunque: la definizione della politica, il «realismo politico», i rapporti della politica con il potere e la violenza, da un lato, con l’etica e la giu- stizia dall’altro.
Nella seconda parte («I principî della giustizia politica») vengono delineate le coordinate essenziali del patto politico moderno e sviluppati i concetti fondamentali della politica nella modernità (liberalismo, democrazia e socialismo) e la loro articolazione concreta nelle contemporanee democrazie costituzionali.
Anche in questa parte si ragiona su un duplice registro. In primo luogo si presentano i punti principali della democrazia costituzionale: diritti fondamentali, rappresentanza politica, divisione dei poteri, giustizia sociale. In secondo luogo si mostra come la promessa democratica del potere condiviso sia ampiamente ridimensionata dalle cristallizzazioni di potere non democratico che permangono ben salde anche nelle democrazie avanzate (poteri economici, mediatici, tecnocratici). Si perviene quindi a una visione dinamico- conflittuale della democrazia e della giustizia sociale, come posta in gioco delle tensioni e degli antagonismi che attraversano la società.
Nella terza parte («Cosmopolitica: la politica oltre lo Stato») si mostra come gli approdi conseguiti a livello di politica statale vengano rimessi in discussione dalla centralità che acquistano, nell’età globale, le questioni che riguardano la politica oltre lo Stato. Il pensiero moderno ha visto gli Stati come entità che sono tra loro in un rapporto simile a quello dello «stato di natura» e si è posto innanzitutto il problema di superare questa condizione e di porre le basi per la pace tra i popoli. Ma oggi sono venuti in primo piano molti altri problemi sui quali non disponiamo ancora di visioni consolidate. Come possiamo pensare, realisticamente, la costruzione di un ordinamento cosmopolitico, nel contesto del quale gli Stati e i popoli cooperino in modo responsabile per farsi carico dei problemi comuni, dalle guerre locali al terrorismo, dal cambiamento climatico ai rischi sanitari globali? Gli Stati e i popoli sono legati da obblighi di assistenza reciproca, o è giusto che ognuno pensi per sé? Condividono responsabilità comuni di fronte a fenomeni come la fame, la povertà estrema, la negazione dei diritti umani da parte di regimi tirannici? E fino a che punto è legittimo che ogni Paese si chiuda dentro i propri confini? Sono queste, a parere di chi scrive, le nuove frontiere con le quali la filosofia politica si dovrà misurare oggi e domani.

Si ringraziano l’editore e l’autore per aver concesso la pubblicazione della premessa al testo.

Crisi sociale e pandemia: riflessioni sulla barbarie del capitale.

«So che nulla sarà come questa

mattina o dopodomani

resistendo nella bocca della notte un gusto di sole»

(Nulla sarà come prima/ Milton Nascimento e Beto Guedes)

 

di Anderson Deo
traduzione di Antonino Infranca

 

Una frase è stata ripetuta esaustivamente dalle grandi corporazioni dei media su scala mondiale: Nulla sarà come prima! Come una specie di mantra, tale espressione indica che la pandemia del nuovo coronavirus produrrà cambiamenti significativi, anche profondi, in diversi livelli della vita e, pertanto, delle relazioni sociali in tutta l’umanità. 

La prima questione che vorrei affrontare è che la storia ci insegna che nessuna formazione sociale, nessun modo di produzione è mai entrato in collasso senza che ci fossero forze sociali organizzate a spingere tali processi. Trattandosi del modo di produzione capitalistico, nel corso del XX secolo, di fronte ai vari momenti di manifestazione della sua crisi strutturale e sistemica, questa forma sociale si è ristrutturata su nuove basi e contraddizioni, per riprodurre gli elementi fondanti della sua socialità. Pertanto, per quanto ne capisca, la pandemia di per sé non dà origine a nessuna forma di rivoluzione che punti al superamento del capitalismo o a una possibile forma di transizione socialista. Al contrario, la COVID-19/SARS 2, sembra essere l’espressione radicalizzata della barbarie, alla quale è sottomessa l’umanità, e che si approfondisce, sempre più, di fronte all’autocrazia del capitale finanziario mondializzato sull’umanità. 

Così come ci indica István Mészáros nel suo Oltre il capitale, ciò che viviamo attualmente è il risultato della “crisi civilizzatrice” prodotta dal capitalismo, con la sua forma di produzione distruttiva. Questa crisi civilizzatrice, di una determinata forma di socialità, si manifesta attraverso crisi economiche mondiali (strutturali), che si riproducono in cicli sempre più corti, attraverso la crisi ecologica che pone l’umanità di fronte al dilemma dell’esistenza della propria specie, dovuta all’esaurimento delle risorse naturali del pianeta, alle forme di sfruttamento sempre più degradanti della forza-lavoro su scala mondiale, obbligando, secondo l’OMS, un contingente di, approssimativamente, i 2/3 della popolazione della Terra a vivere sotto la soglia di povertà. Si aggiunga a questo processo la scalata del Complesso Industriale Militare, sintesi massima della produzione distruttiva del capitale, che produce e perpetua conflitti in varie parti del mondo, come forma per mantenere il dominio esercitato dall’Occidente, sotto il controllo degli USA. 

Tuttavia, non possiamo smettere di riconoscere che la crisi mondiale espliciti contraddizioni fondamentali dell’attuale fase storica del capitalismo, e le risposte che la stessa umanità produrrà per superare tale momento dipenderanno dalla nostra capacità di analisi, di organizzazione e di proposta di fronte a questo importante momento di radicale esposizione del carattere disumano della forma sociale sotto il dominio del capitale.   

Nell’ottobre 2019, in una relazione di analisi periodica, il FMI ha divulgato l’informazione che stava avvenendo una “decelerazione sincronizzata” della crescita economica mondiale (Annual Report 2019). Quello che il FMI denominava “decelerazione sincronizzata” è un eufemismo della crisi economica mondiale che stava per essere generata, ancora una volta, nei centri dinamici dell’economia mondiale. Uno dei segnali più chiari che la crisi sarebbe esplosa con tutta la forza distruttiva nel 2020, fu la caduta vertiginosa del prezzo del barile di petrolio sul mercato mondiale, il cui deprezzamento aveva già raggiunto il 60% il 9/3/2020. Le dispute commerciali tra Stati Uniti e Cina, nel corso del 2018 e del 2019, o anche quelle tra Russia e Arabia Saudita, che coinvolgono specificamente la questione del petrolio, sono espressioni episodiche di questo processo di maggiore esplosione della crisi, che secondo Attilio Boron (La pandemia y el fin de la era neoliberal), sta producendo una riorganizzazione della geopolitica mondiale centrata nelle dispute tra USA-Cina-Russia. 

Con dinamiche e spiegamenti distinti, questo processo di crisi scatenò grandi e massicce manifestazioni popolari in alcuni paesi del mondo. In America latina, per esempio, le ribellioni del 2019 in Cile, Ecuador, Colombia e Haiti, così come in Argentina l’elezione di Alberto Fernandez, esprimono un tratto comune delle più diverse rivendicazioni: si tratta di reazioni politiche al predominio di più di trent’anni di neoliberalismo. Gli attacchi neoliberali in America latina non furono uniformi nel corso di questo periodo e hanno riprodotto contraddizioni particolari nei diversi Stati nazionali della regione. Il fatto comune è che le azioni delle borghesie locali, anche con caratteristiche specifiche, si sono mantenute fedeli al presupposto dell’associazione subordinata all’imperialismo mondiale, soprattutto al comando statunitense; nel momento in cui le crisi economiche mondiali si sono acuite, le proposte portate avanti da questa borghesia imposero, in forma sempre più accentuata, l’espropriazione e la spoliazione delle risorse sociali gestite dagli Stati nazionali, mediante il meccanismo finanziario dell’indebitamente pubblico. Sia mediante “regole del gioco democratico”, sia mediante colpi di Stato, gli interessi del capitale finanziario si fecero valere e furono imposti all’insieme della popolazione del subcontinente. La deposizione di Evo Morales, legittimamente rieletto l’anno passato con un golpe, è un tipico esempio di come la borghesia latinoamericana combatte le istituzioni democratiche dello Stato liberale, trasformandosi in un’autocrazia della sua classe. 

In Brasile la deposizione di Dilma Rousseff nel 2016, deve essere intesa come un momento dell’avanzata neoliberale nel paese. Questo processo ha guadagnato forza con Fernando Henrique Cardoso negli anni Novanta, e fu minacciato, ma non eliminato dai governi Lula e Dilma Rousseff; di fronte all’approfondirsi degli effetti della crisi economica mondiale, che nel paese si acutizzò a partire dal 2013, si passò ad elaborare un’articolazione politica, coinvolgendo parte della magistratura, le grandi corporazioni mediatiche del paese, le forze armate, i partiti conservatori e reazionari, alleati assoluti degli USA, con l’intenzione di allontanare la presidentessa eletta nel 2014, attraverso un colpo di Stato giuridico-parlamentare. 

Le alternative presentate alla società brasiliana a partire dal 2016, guidate dal vice-presidente golpista Michel Temer, possono essere riassunte nell’espressione “meno Stato, più mercato”. Il risultato di questo processo, che ancora è in corso, è la distruzione totale della legislazione sociale che fu costruita nel corso del XX secolo. Una legislazione sociale che è sempre stata molto precaria e, pertanto, insufficiente. Non è possibile identificare in Brasile ciò che in Europa si è soliti denominare “Welfare State”. Il paese si è avvicinato a questo modello con la struttura giuridica della Costituzione Federale del 1988, che a partire dal 1992 è stata totalmente riformulata e oggi completamente distrutta. Il governo di Jair Bolsonaro rappresenta la continuità e l’approfondimento di questo processo, con l’aggravante della disputa ideologica che ha rinvigorito il lato peggiore della società brasiliana e dell’umanità: il discorso fascistizzante come alternativa ai problemi sociali. 

È lo stesso discorso che si riveste di oscurantismo religioso di matrice neopentecostale – e qui forse si può rilevare come esso sia ancora più regressivo del fascismo alla sua origine – che nega la gravità e le conseguenze devastatrici della pandemia. Ma ancora, in contrasto con le evidenze e le conoscenze scientifiche sulla propagazione del virus, affrontando gli orientamenti di specialisti e della stessa OMS, esso mette in questione l’efficacia dell’isolamento sociale, stimola la popolazione a uscire nelle strade, argomentando che «l’isolamento sociale uccide più gente che la pandemia, poiché l’economia del paese sarà paralizzata». Tutto questo in nome del deus ex machina chiamato mercato! Se pensiamo che, come paese della periferia del sistema capitalista, il Brasile presenta problemi sociali strutturali nelle aree di salute pubblica, abitazione e risanamento basilare, e che questa situazione si è aggravata drammaticamente con l’avanzata del neoliberismo, possiamo avere una dimensione di quanto gravi siano le posizioni del presidente brasiliano. Tanto gravi che esistono già denunce formali presentate al Tribunale Penale Internazionale de L’Aia, accusando Jair Bolsonaro di genocidio e, pertanto, di crimine contro l’umanità.   

La situazione del Brasile di fronte all’avanzata della pandemia è drammatica. Un sistema di sanità pubblica pensato come una garanzia per tutti i brasiliani, ma che ha sempre presentato mancanze strutturali e che negli ultimi anni sta affrontando un profondo processo di rottamazione e attacchi privatizzanti; un modello di occupazione territoriale che concentra più del 70% della popolazione (220 milioni) in grandi conglomerati urbani, con poca o nessuna pianificazione di occupazione di questi spazi, dando origine a grandi favelas in tutte le città brasiliane di medie e grandi dimensioni; un impoverimento crescente della popolazione, risultante dall’avanzata della crisi economica, dall’eliminazione di diritti dei lavoratori e della disoccupazione (12 milioni prima della pandemia, secondo dati ufficiali), dalla precarizzazione e dall’informalità, sempre più grandi nel paese. Uno degli effetti più perversi di questo processo è l’aumento del numero di persone che vivono nelle strade, senza un’abitazione, né condizioni minime di igiene, di alimentazione, di sanità fondamentale. Nella principale città del paese, San Paolo, secondo i dati ufficiali, 25.000 esseri umani si trovano in queste condizioni. Questa realtà, in differenti proporzioni, si ripete nella grande maggioranza delle città brasiliane. Non è necessario essere uno specialista in epidemiologia per immaginare gli effetti catastrofici che la pandemia potrà provocare in Brasile. 

Anche riflettendo sulle possibili trasformazioni causate dalla pandemia, alcune misure economiche di emergenza dei governi dei paesi coinvolti ci danno già tracce di come la borghesia mondiale, organizzata all’interno degli Stati nazionali, reagisce all’accrescimento della crisi mondiale prodotta dal nuovo coronavirus. Ancora una volta, le voluminose risorse per salvare il capitalismo proverranno dalle casse pubbliche. Nel citato articolo di Boron, l’intellettuale argentino è tassativo nell’affermare che il «neoliberismo è un cadavere che bisogna seppellire» e che la crisi scatenata dall’epidemia evidenzia che il mondo avrà bisogno di «più Stato e meno mercato». Se è vero che l’attuale crisi esplicita i limiti e le contraddizioni scatenate dall’esaurimento del modello neoliberista, è necessario ricordare che nella storia del capitalismo lo Stato ha sempre posto a disposizione dell’iniziativa privata – pertanto della borghesia – gli sforzi e le risorse sociali, affinché i momenti di crisi fossero superati. Basta una rapida occhiata alla storia economica del XX secolo (crisi del 1929, della metà degli anni Settanta, o anche del 2008), per constatare che l’apparente opposizione tra interferenza statale e mercato libero, non è altro che una retorica ideologicamente orientata, in accordo con gli interessi borghesi, una volta che lo “Stato minimo” ha diminuito e anche eliminato i diritti dei lavoratori, ricomponendosi al tempo stesso come “Stato massimo” degli interessi del capitale.

Un’altra questione possiamo rintracciarla nella mondializzazione dell’epidemia. Tra gli importanti contributi di François Chesnais nel suo La mondialisation du capital troviamo la formulazione su come le trasformazioni capitalistiche negli anni Novanta tendevano a una mondializzazione delle relazioni commerciali, allo stesso tempo in cui gli Stati nazionali continuavano ad essere spazi geografici di contenimento della forza-lavoro e dei conflitti sociali. Il flusso delle merci doveva essere internazionalmente libero, ma non la forza-lavoro che lo produce. La propagazione del nuovo coronavirus obbedisce, per così dire, alla stessa logica della libera circolazione delle merci di cui parlava Chesnais, colpendo i “centri nervosi” del capitalismo mondiale per poi spargersi all’interno delle nazioni. In questo senso l’osservazione di Alain Badiou (Sulla situazione epidemica) ci sembra abbastanza importante nel suggerire che un’epidemia si riproduce sempre come un processo di doppia determinazione che in un dato momento converge: la determinazione ecologica e la determinazione sociale. Argomentando che l’attuale epidemia della COVID 19/SARS 2 non è propriamente una novità per gli scienziati del mondo (e per questo fa riferimento a una prima epidemia di sindrome respiratoria nel 2003, denominata proprio SARS 1), l’autore indica che ciò che viviamo risulta dall’incontro di una mutazione virale (la determinazione ecologica) con una serie di determinazioni sociali, risultanti dalla negligenza di una parte della comunità scientifica e delle autorità pubbliche, principalmente in Occidente, che guardano sempre alle epidemie nell’Estremo Oriente, o anche in Africa, come problemi sanitari di un mondo distante. 

La prepotenza eurocentrica, propria della visione imperialista del mondo, ha sottostimato e ha trascurato gli effetti e le conseguenze della diffusione del virus per il pianeta. Se l’origine dell’epidemia si localizza in Cina, la propagazione e il contagio a livello pandemico è responsabilità diretta dei governi occidentali, principalmente europei e statunitensi, che furono inizialmente negligenti ritardando a prendere le misure indicate da scienziati e specialisti del mondo intero, in particolare l’isolamento sociale. Qui, a mio avviso, Badiou cade in errore nell’affermare che i governi starebbero agendo al di là degli interessi di classe. 

Ad ogni modo, dato che la realtà storica deve essere compresa nelle sue possibilità e contraddizioni, l’isolamento sociale dimostra chiaramente che non c’è forma possibile di riproduzione economica, politica e sociale che possa prescindere dal lavoro e, pertanto, da quella classe che lo riproduce quotidianamente, nelle sue più diverse frazioni e determinazioni sociali. Mi riferisco qui al proletariato, che non può essere confuso o ridotto alla sua conformazione con il proletariato industriale della metà del XVIII secolo e del XIX secolo. Ma che continua a essere, con tutta la complessità delle sue trasformazioni contemporanee, il fondamento, il sostegno, l’elemento centrale della riproduzione sociale capitalista. Lo “sciopero generale” forzato dall’isolamento sociale mostra quello che cerco di affermare, constatando la disperazione dei capitalisti sparpagliati per le principali economie del mondo, che insistono nel mantenere le loro attività economiche – con la connivenza dei governi nazionali –, obbligando contingenti enormi di lavoratori e lavoratrici a lanciarsi nel “rischioso mondo del contagio” dei trasporti collettivi, delle fabbriche, delle grandi reti commerciali. 

Un’altra frase è stata costantemente ripetuta dai mezzi di comunicazione, come forma di stimolo alla resilienza delle persone: Passerà! A coloro che pensano che questa crisi è passeggera, forse possiamo indicare due elementi; primo: la pandemia deve essere superata, così da poter riprendere le nostre attività quotidiane e ristabilire la dinamica delle nostre vite; secondo: la crisi economica tende ad essere duratura, con effetti drastici sull’insieme dei lavoratori ed è fondamentale che saremo tutti in perfette condizioni di salute, per tornare in strada e organizzarci, gridando a pieni polmoni che è necessario costruire un altro mondo, il cui fondamento non sia l’accumulazione privata della ricchezza, ma la piena emancipazione umana! 

 

Lettere di G. Lukàcs a due filosofi brasiliani

Il carteggio apparve nel marzo 1992 su “Marx Centouno” a cura di Tania Tonezzer, ma la traduzione era mia. Qui presento soltanto le lettere di Lukács, tralasciando parti che sono di carattere personale e non interessanti. Le ripubblico perché quel fascicolo è oggi di difficile reperibilità e per i motivi che elenco qui di seguito.
Nelle sue lettere Lukács ribadisce il suo auto-giudizio negativo su Storia e coscienza di classe, avvertendo per ben due volte entrambi gli interlocutori della sua, allora, errata concezione dell’alienazione e del carattere sostanzialmente idealistico dell’opera, quindi considera superata l’opera che lo rese universalmente famoso.
Lukács esprime giudizi parzialmente favorevoli su Sartre e Goldmann, anche se accusa quest’ultimo di essere un “marxisteggiante”, piuttosto che un vero e proprio marxista. Considera, invece, l’esistenzialismo di Sartre ancora troppo legato al pensiero di Heidegger. Esprime giudizi positivi su scrittori allora di moda, come Caudwell e Semprun, o ancora oggi di moda, come Elsa Morante.
L’importanza di questo carteggio è, però, rappresentata dalla sua autocritica nei confronti di Kafka. Lukács aveva liquidato lo scrittore ceco nel suo Il significato attuale del realismo critico, scritto in condizioni molto critiche, quali la detenzione in Romania, a seguito della sua partecipazione alla Rivoluzione ungherese del 1956. In una lettera a Coutinho ritiene errato il suo giudizio di allora e considera Kafka uno scrittore di enorme interesse. Non tornerà mai più a scrivere di Kafka e, per questa ragione, queste poche righe cambiano totalmente il quadro della sua critica sullo scrittore ceco.