L’aborto in Argentina è legale

di Mario Sebastiani

L’Argentina è il primo grande paese latinoamericano a legalizzare l’aborto, dopo anni di lotte da parte delle donne argentine, e il secondo in generale, dopo l’Uruguay. Pubblichiamo con piacere l’articolo di Mario Sebastiani che per anni ha seguito con interesse questa lotta di emancipazione. Il suo articolo fornisce spunti di riflessioni, oltre che alcune notizie del successo delle donne argentine.

Dal 24 gennaio, l’aborto in Argentina è legale fino alla quattordicesima gravidanza. In un paese con 37 anni di democrazia, dove l’aborto era un delitto, mi domando cosa sia cambiato.
Da una parte bisogna riconoscere il lavoro tenace del gruppo “Campaña por el derecho al aborto legal, seguro y gratuito”. Ci vuole una lobby sostenuta nel tempo per poter cambiare l’atteggiamento conservatore di deputati, senatori e di tutta una società. Dall’altra parte bisogna rendere omaggio alla “marea verde” di milioni di giovani che, come le Madri di Plaza de Mayo, hanno dipinto di verde con i loro panuelos ogni zaino, ogni borsetta, ogni bicicletta, ogni bus e così hanno occupato le strade, le fabbriche, le scuole, le università, manifestando ogni volta in maniera più numerosa.
La società era divisa, fino a gennaio, tra i sostenitori dell’aborto e un gruppo opposto che diceva decisamente di proteggere la vita dell’embrione o del feto e della donna gravida, ma le cifre degli aborti e nelle conseguenze di un aborto clandestino non gli davano sostegno. In Argentina ci sono da tre a cinque volte più aborti che in paesi simili al nostro. Con le gravidanze delle adolescenti triplichiamo le cifre. Ci sono circa 90 mila nascite da donne con meno di 19 anni e 4 mila da ragazze con meno di 15 anni (bisogna accettare il carattere di stupro della maggioranza di queste gravidanze, di solito compiute da qualche membro della famiglia). Questo stesso gruppo ha radici nella chiesa cattolica e porta avanti un discorso dogmatico-religioso e soprattutto contraddittorio, dichiarandosi contrari alla contraccezione ed all’educazione sessuale nelle scuole. Ancora si sentono voci legate alla Chiesa che affermano che le pillole anticoncezionali sono abortive o bombe di ormoni. È fondamentale accettare che queste sono le uniche strategie per poter diminuire la quantità di aborti. Questo gruppo si appoggia all’idea che 46 cromosomi di una nuova cellula siano un essere umano perfettamente formato e la stessa legge lo assimila giuridicamente ad una persona. La loro posizione è contraria a discorsi diversi, provenienti dalla scienza, dalla bioetica, dalla filosofia. Il danno fatto è irreparabile nel tempo. Ancora oggi si appellano alla magistratura, cercando di proibire la legge per motivi costituzionali. Infatti, la nostra costituzione protegge la vita dal momento del concepimento.
Un altro gruppo, invece, pur capendo la situazione socio-sanitaria delle donne, in quanto l’aborto già esiste, chiedeva venisse proibito con le conseguenze catastrofiche sulla salute delle donne e specialmente delle meno agiate socio-economicamente. Bisogna ricordare che in questi anni di democrazia più di tre mila donne hanno perso la vita e altre decine di migliaia sono state ricoverate negli ospedali per le complicazioni di infezioni o di emorragie. Ciò accade più spesso in ospedali soprattutto del nord dell’Argentina, dove si trovano le province più radicalizzate e più religiose riguardo alla protezione della vita. Questa posizione era rinforzata dal fatto che le donne, anche capendo la situazione, si lasciavano trascinare dalle argomentazioni emozionali di protezione dell’embrione e accettavano, a mezza voce, la concezione che la donna doveva accettare il suo ruolo riproduttivo. Abbiamo sentito, in altre occasioni, che l’uomo doveva partecipare nella decisione riguardo all’interruzione o alla continuità di una gravidanza.
Al terzo gruppo, invece, appartengono coloro che sono d’accordo con la legalizzazione dell’aborto per motivi di salute pubblica e, negli ultimi anni, è cresciuto il numero di persone, grazie alle nuove generazioni consapevoli, che credono che la situazione di rischio ed indegnità delle donne era impossibile da sostenere. Il ruolo del femminismo in questo campo è stato ed è ancora, fondamentale. Le differenze in questo gruppo possono essere limitate al periodo entro il quale è permesso l’aborto.
Torno a dare il mio omaggio alla “marea verde” ed al panuelo verde, simbolo di lotta collettiva, bandiera di lotta sociale, eguaglianza, empatia, riconoscimento e sovranità del proprio corpo. L’importanza di questa marea è ancora più evidente se paragonata alla anomia manifesta delle società scientifiche o dei sindacati, tutti in mano a uomini con simpatie manifeste verso la Chiesa ed il Papa. Ognuno è libero di pensare come vuole. Ma, probabilmente non è del tutto lecito che i rappresentanti del popolo o i governanti vadano nell’aula parlamentare con i loro pregiudizi, essendo poco elastici a capire anzitutto che il nostro paese è laico, secondo che la politica non può essere giudicata con valori, che non tutti condividono come appunto i valori religiosi.

Aborto sicuro

Oggi l’intervento abortivo grazie ai farmaci è diventata una procedura molto sicura. La stessa Organizzazione Mondiale della Salute fa appello a permettere l’utilizzazione di una prostaglandina e di un agente anti-progesterone per produrre l’aborto. Noi ancora non abbiamo il RU 487 (anti-progesterone) ma da anni usiamo il misoprostolo (prostaglandina), che le donne potevano comprare sul mercato nero, oppure negli ultimi anni lo si dava senza problemi negli ospedali pubblici della città di Buenos Aires ed in altre regioni. I medici avevano assunto lo stesso atteggiamento dei colleghi dell’Uruguay, che prima della depenalizzazione dell’aborto utilizzavano la strategia della riduzione del rischio con una rispettosa accoglienza delle donne negli ospedali, davano un’informazione precisa sull’assunzione a casa del misoprostolo e le ricevevano negli ospedali senza denunce e con un rapporto educato e diligente. Già a quel tempo si era ridotta la mortalità materna in maniera significativa. Lo stesso accade da noi. Oggi la mortalità in Uruguay è minore a quella del Canada. Il problema che ancora abbiamo è il grande numero di medici che ancora abusano dell’obiezione di coscienza. Però anche questo sta cambiando grazie alle nuove generazione. Inoltre è importante notare che la medicina si trova principalmente in mano alle donne, il che fa sì che la simpatia per la donna che abortisce sia completamente diversa a quella del medico uomo. Oggi l’aborto non è più visto come un delitto, bensì come una componente della medicina riproduttiva.

L’aborto come un bene sociale

La modifica sostanziale e filosofica realizzata, direi, in gran parte del mondo occidentale e non occidentale è stata la visione della gravidanza non più come un obbligo per le donne. Così l’aborto come la libertà di decidere, se si vuole avere figli, costituisce un bene sociale ed una chiave per la libertà, dando una piena ed assoluta autonomia di decisione su come vogliono vivere le donne. Nascere è sempre stato considerato un privilegio per le donne e non importava in quali condizioni. Secondo il pensiero arcaico, l’essenza della donna risiedeva nel generare nuova vita. Non generare figli, invece, era considerato un enigma filosofico. La filosofa americana Christine Overall , della Queen`s University osserva che le donne devono sempre dare spiegazioni nella scelta di non avere figli, mentre invece, non le si chiede alcuna risposta nella scelta di una gravidanza. A questo punto le Overall ci pone sei questioni etiche, da tenere in conto al momento di scegliere di avere o non avere figli
1. Quale è una buona ragione per avere un figlio?
2. In quali condizioni avere un figlio è moralmente giustificato?
3. Le donne hanno un obbligo morale di avere figli?
4. Quali sono le buone ragioni per non avere figli?
5. In quali condizioni avere un figlio può essere moralmente ingiustificato?
6. Le donne possono avere un obbligo morale a non avere figli?

Le risposte non sono semplici. Può accadere che una donna può trovarsi nelle migliori condizioni per avere un figlio e non lo ha, mentre invece molte donne al mondo si trovano in una situazione di disagio socio-economico ed anche affettivo, ed invece si trovano come in ostaggio di gravidanze. Inoltre è anche comune che pur avendo iniziato una gravidanza, nel caso si facesse una diagnosi di una alterazione fisica o mentale del feto, si interrompe la gravidanza. Oggi uno dei temi più dibattuti della bioetica è la modificazione genetica dell’embrione per evitare diverse malattie. Seguendo il discorso o le domande di Overall, oggi, non si accetta come un dogma il fatto che abbiamo figli per amore. Abbiamo figli sostanzialmente per il fatto che abbiamo rapporti sessuali esattamente come gli animali, il ché non vuole significare che siamo come gli animali, ma che il progetto riproduttivo è così forte che, ogni volta che vogliamo fermarlo (tecnologie anticoncettive), i risultati sono ben diversi da quelli attesi dall’accademia o dagli studi farmacologici. Abbiamo figli perché imitiamo gli amici, abbiamo figli perché abbiamo una vita vuota, abbiamo figli per errori anticoncezionali, abbiamo figli per uno stigma sociale o religioso. Il 50% delle nascite sono non pianificate il ché parla eloquentemente del nostro comportamento riproduttivo.
Ma è chiaro oggi, come ci mostrò la filosofa dell’Università di Columbia, Judith Jarvis Thomson , che un feto non ha diritto di appropriarsi del corpo di una donna. La vignetta da lei creata è un sindacato di musicisti che obbliga una donna a sostenere con le sue reni un famoso violinista. Nel caso lei decidesse di staccarsi dal musicista, lui sarebbe morto. La donna cerca di iniziare una protesta, ma loro le dicono che questo rapporto durerà soltanto nove mesi. Dopo averci lasciato a bocca aperta con questa definizione, la Jarvis, e chiunque di noi, afferma che avere un figlio non è solamente questione di nove mesi, bensì di molti anni della vita di una donna.
Perciò la società sembra aver capito che non era morale obbligare una donna ad avere un figlio non desiderato. Aggiungo io, come sia possibile che, sotto la tesi della difesa della vita, si obblighi a portare in grembo un figlio per nove mesi e dopo accudirlo negli anni seguenti, quando un uomo ed una donna non sono obbligati a cedere un organo del proprio corpo, che potrebbe salvare la vita di un figlio. La risposta a questo quesito è che la società non ci obbliga a fare degli atti eroici, né a genitori, né alle persone in generale.

L’aborto è un diritto. L’aborto è libertà

I miei 45 anni di professione, con oltre 13 mila parti assistiti come medico ostetrico, mi hanno fatto cambiare parere nel tempo. Anche io, in principio, mi sentivo consolato o in una zona di comfort, dicendo che l’aborto era necessario per motivi di salute pubblica. Tutto lì. L’aborto era un male necessario per permettere alle donne di avere un’interruzione sicura della gravidanza. Ma tornando alla vignetta della filosofa Thomson chi di noi si sentirebbe consolato o moralmente coinvolto nella difesa della vita del violinista. E che succederebbe se, invece, di nove mesi uno di noi dovesse essere attaccato ad un’altra persona per darle la vita, e se nel caso non accettassimo, andremmo in prigione? Questa è precisamente la filosofia del progetto antiabortista, per cui la vita è un bene così supremo che una donna, pur non volendo, deve abdicare al suo corpo ed al suo progetto personale per giustificare la vita sacrosanta di un embrione o un feto. Questa idea mi sembra assolutamente totalitaria e non democratica nel senso che un gruppo di persone vogliono obbligare altri a vivere con dei valori non condivisi. Avere o non avere figli devono essere dei concetti morali armonizzati e non valutati come uno più morale dell’altro. Soprattutto sapendo che un aborto è un evento meno rischioso di un parto.
L’aborto fa parte della vita riproduttiva di una donna, permettendole di scrivere la propria biografia nella difesa della sua salute, lo studio, il lavoro. Fa parte, come scrissi prima, della medicina riproduttiva e non della sua antitesi. Come tale deve essere un evento privato. I senatori ed i deputati hanno finalmente sentito la condanna morale delle donne argentine. Adesso la lotta del femminismo, o di un femminismo, continua nel evitare il sessismo, la violenza sessuale, o la violenza di genere. Per le donne la strada sarà sempre lunga.

Realismo letterario e pedagogia socialista: a proposito dei saggi di Lukács su Gorki e Makarenko

di Miguel Vedda[1]

(traduzione di Antonino Infranca)

 

 

Dentro l’ingente insieme dei saggi lukácsiani sul realismo, gli studi che integrano il volume Der russische Realismus in der Weltliteratur[2] meriterebbero di occupare uno spazio rilevante, sia per il loro valore intrinseco, sia per il significato storico in essi rilevante. Tuttavia, e ad eccezione di alcuni saggi in particolare – prima di tutto, quelli dedicati a Tolstoi e Dostoevskij –, gli articoli su autori russi hanno ricevuto un’attenzione comparativamente esigua. Si potrebbe, forse, aggiungere, con qualche ragione, che Lukács non aveva, riguardo alla letteratura russa, la conoscenza sovrana che possedeva della letteratura tedesca o inglese; anche – con minor fondamento – che alcuni degli autori russi analizzati dal filosofo ungherese non raggiungono la statura estetica e intellettuale necessaria per meritare una ricerca minuziosa. Anche se si concedesse validità a queste affermazioni, esse non riuscirebbero diminuire, in nessun senso, la trascendenza che questi saggi posseggono e che non si deve soltanto alla trattazione originale che offrono riguardo a una serie di autori e opere rappresentative, bensì anche a ragioni forse meno evidenti a una approssimazione superficiale. In primo luogo, danno alcuni indizi importanti sulle posizioni di Lukács riguardo alla realtà culturale e anche politica dell’Unione Sovietica contemporanea, innanzitutto durante il periodo stalinista. In seconda istanza, troviamo in essi intuizioni, annunzi di problemi che avrebbero dovuto ricevere una trattazione esaustiva in periodi successivi, e anche questioni che – come accade con quella dell’edificazione di un’etica marxista – il filosofo non riuscì, infelicemente, a sviluppare. In terzo luogo, in Der russische Realismus in der Weltliteratur troviamo alcune riflessioni metodologiche che coincidono essenzialmente con quelle che vediamo in alcuni scritti teorici e critici precedenti e contemporanei, ma che qui sono formulati in maniera rapida e dettagliata e che in vari aspetti anticipano l’Estetica della vecchiaia.

Cominciamo affrontando quest’ultima questione. Benché le considerazioni metodologiche appaiano in forma ricorrente nei diversi saggi, è nei due prologhi che ricevono una trattazione più specifica. È un fatto che alcune delle prefazioni lukácsiane offrano notorie esibizioni di destrezza polemica e argomentativa, oltre a un’occasione particolarmente propizia per esporre alcuni dei principi teorici fondamentali delle analisi che introducono. Anche senza esibire la ricchezza dialettica e l’efficacia satirica, per esempio, delle prefazioni a Goethe e il suo tempo, o la profondità filosofica del prologo del 1967 alla riedizione degli scritti marxisti giovanili, le due presentazioni di Der russische Realismus in der Weltliteratur – innanzitutto la prima – offrono alcuni orientamenti fondamentali per una teoria marxista della letteratura. Punto di partenza della discussione è – come in altri prologhi lukácsiani, pensiamo a quello de Il giovane Hegel – la disarticolazione di due leggende ampiamente diffuse in quegli anni: quella secondo la quale i maggiori scrittori classici della Russia sono stati spiriti mistici e aristocratici, isolati dalle lotte sociali e politiche del loro tempo, e quell’altra che afferma che la “nuova” Russia sovietica ha rappresentato una rottura totale con la tradizione culturale classica. Come parte della disputa con tali costruzioni ideologiche operano alcuni dei principi metodologici che i prologhi si incaricano di esplicitare; innanzitutto, la rottura con qualsiasi tentativo di comprendere le grandi opere della letteratura partendo dalle opinioni coscientemente espresse dai loro autori. Il metodo raccomandato da Lukács è diametralmente opposto: invita ad esaminare la base sociale che determinò la forma d’esistenza degli scrittori scelti; studia le forze sociali sotto la cui influenza si costituì il carattere umano di – diciamo – un Tolstoi o un Dostoevskij. In secondo luogo, studia quella materia che rappresentano oggettivamente le opere; qual è il contenuto spirituale di queste, come le forme estetiche prendono corpo a partire dalla lotta per ottenere l’espressione adeguata del contenuto. Da questo non si dovrebbe inferire che il metodo proposto da Lukács coincida con quello della cosiddetta “sociologia della letteratura”, che si limita a ricostruire i condizionamenti storici di un corpus poetico determinato, perdendo di vista la peculiarità dell’estetico, quello che costituisce la dimensione sostanziale della letteratura e che non può essere ridotto né alla conoscenza teorica, né all’agitazione e alla prassi politica. In contrasto a tali prospettive, nei saggi inclusi in Der russische Realismus in der Weltliteratur, il peso «non è posto nell’analisi sociale, bensì nell’estetico; la ricerca dei fondamenti sociali è solo un mezzo per potere captare nel modo più completo possibile il carattere artistico del realismo classico russo»[3]. Come nei dibattiti dei decenni Trenta e Quaranta contro la sociologia volgare – ricordiamo, per esempio, il brillante saggio “Marxismo o proudhonismo nella storia della letteratura?” (1940) –, l’enfasi è posta nella necessità di salvaguardare l’autonomia dell’opera letteraria di fronte ai tentativi di subordinarla a finalità extra-letterarie. Ma l’impegno nel realizzare il fattore dell’autonomia non conduce Lukács a dimenticare il fatto che la letteratura è, a sua volta, un fatto sociale; specialmente, che essa possiede forme di influenza specifiche sulla vita delle società. Questo elán certamente vitale della letteratura ha luogo, quando gli scrittori rinunciano allo schematismo per consegnarsi a una esplorazione libera e spregiudicata del mondo e per presentare maniere innovative di percepirlo e di mettersi in relazione con lui; forme orientate a de-automatizzare gli schemi cosificati e cosificatori dell’esperienza quotidiana. Una disposizione saggistica simile è quella che Lukács voleva stimolare nei critici; non invano rileva il vincolo sostanziale che la letteratura possiede con il nuovo: «Nella risoluzione dei nuovi compiti della nuova vita, la letteratura svolge sempre un ruolo importante. Se vuole realmente compiere questo ruolo che la storia le ha dato, questo ha come condizione precedente e naturale la rinascita intellettuale e politica degli scrittori»[4]. È comprensibile e consistente con i fondamenti della sua teoria estetica, il fatto che Lukács rilevi la necessità che la liberazione sociale e politica dei popoli vada accompagnata da un rinnovamento di tutto il mondo sensoriale degli esseri umani; nel corso di questo processo, il valore della letteratura poggia, in parte, sul fatto che essa è «l’araldo più efficace dei sentimenti liberatori, legati al popolo, democratici»; se vuole compiere quella funzione, se vuole «essere un fattore nella rinascita della sua nazione, deve rinnovarsi anche letterariamente, formalmente, esteticamente. Deve rompere sia con le false tradizioni reazionario-conservatrici, che restringono la letteratura, sia con la decadenza, che irrompe massicciamente e che conduce la letteratura in un vicolo senza uscita»[5]. Coincidente con questo slancio di innovazione e con la condanna della routine burocratica in letteratura, è una convinzione fermamente radicata nel filosofo e affermata con frequenza nei suoi scritti, ma ignorata da una varietà di critici che pongono in questione le opere lukácsiane prima di averle lette: il realismo russo – come qualsiasi altro fenomeno estetico importante – non può essere un modello che debba essere imitato servilmente dalla letteratura successiva. Al di là dell’influenza che possano esercitare sul presente le opere del passato, la missione dello scrittore è produrre qualcosa di differente e innovatore, impiegando in forma sperimentale e creativa i materiali e le tecniche disponibili nella sua stessa epoca. In una conversazione con Hans Heinz Holz, il vecchio Lukács insiste che il passato, diventando attualità, non sgorga dal passato, bensì dal presente e dai suoi bisogni vitali: «Qui c’è un grande processo, un processo continuo dal quale ogni epoca trae ciò che le serve per i propri fini. […] La storia comparata della letteratura ritiene trattarsi di un’influenza che le opere esercitano l’una sull’altra: Götz von Berlichingen ha influito sui romanzi di Walter Scott e così via. Credo che la cosa si svolga in realtà in tutt’altro modo […]. La rivoluzione francese, le guerre napoleoniche, ecc., fecero sorgere per la letteratura il problema della storicità che […] nel ‘700 non esisteva ancora. Nella misura in cui è stato toccato personalmente da questo problema Walter Scott ha trovato, secondo la frase di Molière: “je prends mon bien je le trouve”, un punto di appoggio nel Götz von Berlichingen sebbene quest’opera sia sorta su ben altri fondamenti. Questo fatto ha per l’ontologia dell’arte una conseguenza straordinariamente importante: si possono conservare soltanto le opere d’arte che in un senso ampio e profondo si ricollegano allo sviluppo dell’umanità in quanto tale e perciò possono risultare efficaci nelle più diverse forme interpretative»[6].

L’autore di Der russische Realismus in der Weltliteratur pensa, in consonanza con tali posizioni, che l’eredità di Puskin, Tolstoi o Dostoevskij, non meno che quella di Balzac o di Thomas Mann, non costituisce un prototipo atemporale destinato ad essere ripetuto fino alla scorpacciata e alla nausea dagli scrittori di tutti i tempi. La buona letteratura del presente non può essere un calco, né una copia della buona letteratura del passato; in parole concrete dell’autore: «Si può solo trattare della funzione esemplare del realismo russo, mai di un modello da imitare»[7]. L’“esemplarità” di questa tradizione letteraria si fonda su principi generali che, a giudizio di Lukács – per coloro, i cui interessi e bisogni del presente, riportano di continuo al punto di partenza per le analisi del passato –, potrebbero essere fruttiferi per gli scrittori e gli artisti contemporanei. Tra di loro si rileva il vincolo umano e artistico dei realisti russi con un movimento ampio e progressista; al margine del quale sta il gruppo sociale con il quale si collegano gli scrittori – i contadini in Tolstoi, gli strati urbani plebei in Dostoevskij, il proletariato e i contadini bisognosi in Gorki –, l’importante è il radicamento degli autori in movimenti che lottano per la liberazione del popolo. Una conseguenza di questo radicamento è che gli scrittori superano l’isolamento, il carattere di semplici osservatori che voleva imporgli l’evoluzione del capitalismo. Da qui la conclusione a cui arriva Lukács; una conclusione che possiede piena vigenza per il nostro tempo e, in particolare, per il nostro stesso contesto latinoamericano: «Il pericolo che lo scrittore si converta in un osservatore isolato persiste, con tutte le sue sfavorevoli conseguenze, anche oggi nella letteratura. E quel cammino con il quale Tolstoi, Dostoevskij e Gorkij, ciascuno alla propria maniera, superarono questo pericolo, segnala anche oggi l’unica soluzione: il profondo vincolo umano con un movimento progressista, che cerchi la liberazione del popolo. Quelle tendenze sociali che minacciano l’arte posseggono, in ciò, un carattere simile all’epoca del grande realismo classico russo»[8].

In funzione di queste preoccupazioni, Lukács sostiene, a ragione, che la posizione che un critico o un saggista assume di fronte ai problemi posti dalla letteratura russa non può essere una questione puramente scientifica, nel senso accademico; ma, anche, d’altra parte, che questa distanza riguardo allo “scientismo” non implica una rinuncia a un confronto serio ed esaustivo della materia. Questa esortazione ad unire la più estrema scrupolosità critica con la preoccupazione seria e impegnata con le questioni sociali ed umane essenziali della propria epoca richiama specificamente il nostro tempo, in cui l’intensa burocratizzazione del lavoro accademico suole causare sia un deterioramento del compromesso sociale degli intellettuali, sia l’oscuramente ipnotico di questi di fronte ai parametri quantitativi, essenzialmente formali, delle agenzie di valutazione scientifica. Questo offuscamento è una delle espressioni meglio riuscite della cosificazione della conoscenza, che continua degradandosi al livello che il vecchio Lukács, impiegando le parole di Lajos Hatvany, chiamava la scienza di ciò che non merita essere saputo[9]. Certi ricercatori universitari contemporanei potranno trovare difficoltà a comprendere che, quando Lukács scriveva i suoi saggi su Büchner e Heine o il libro su Il romanzo storico, il suo proposito non era ottenere una nota favorevole da parte delle istituzioni dedite alla valutazione scientifica, né rispettare le esigenze amministrative di un referaggio. Il suo proposito fondamentale era combattere il fascismo.

I saggi che formano Der russische Realismus in der Weltliteratur mostrano questa avventurosa combinazione di esaustività – l’imperativo di Gründlichkeit con il quale si identificarono vivamente i grandi pensatori tedeschi a partire dal periodo classico – e di impegno. Impossibile dare conto in un articolo della diversità di analisi dispiegata nel libro; ci occuperemo qui dei saggi dedicati a Gorkij e Makarenko: un insieme di scritti scarsamente esaminati dalla critica e, ciò nonostante, sostanziali per ottenere un’approssimazione ad aspetti cardinali della filosofia lukácsiana. Tra di essi, l’etica e la pedagogia.

 

II

 

I due saggi su Gorkij, “Der Befreier” (Il liberatore) e “Die menschliche Komödie des vorrevolutionären Russland” (La commedia umana della Russia pre-rivoluzionaria), entrambi del 1936, corrispondono a un punto di inflessione decisiva nella traiettoria intellettuale e politica di Lukács. Appartengono a una fase nella quale il pensatore inizia a distanziarsi dalla condanna in blocco della civiltà borghese – alla quale, approssimativamente, dagli inizi degli anni Trenta e fino al 1936 aveva caratterizzato come mera compagnia di viaggio del fascismo, in accordo con l’infausta dottrina del socialfascismo – e ad elaborare motivi e strategie che si convertiranno in motivi conduttori della sua filosofia matura. Vicini nel tempo all’opera Il romanzo storico, questi articoli affrontano la complessa relazione tra letteratura e vita popolare; in essi si sottolinea, in prima istanza, una contraddizione inerente alle società di classe e, in particolare, alla capitalista: da un lato, l’allontanamento della letteratura rispetto alla vita popolare è, in certe circostanze, per la letteratura l’unica via possibile; dall’altro, la stessa letteratura popolare può degradarsi al livello della ristrettezza di visioni e al provincialismo. Solo alcune figure rilevanti – come accadde a Shakespeare, Cervantes e Rabelais nell’Europa del Rinascimento – hanno potuto superare questo dilemma, che risulta sempre più difficile da vincere nello sviluppo della barbarie capitalistica, in modo che gli scrittori del capitalismo sviluppato e tardivo vengono sempre più affrontati con la falsa disgiuntiva tra il rifugio nella “torre d’avorio” e la pratica di una letteratura di agitazione. Queste due posizioni estreme, al di là di tutte le differenze apparenti, sono “antistoriche, in quanto restano alla superficie immediata dalla vita»[10]; entrambe si allontanano in egual modo da quello che, per Lukács, rappresenta l’autentica cultura e che implica «una profonda conoscenza della vita che consenta all’uomo di dominare la realtà»[11]. L’unica forma che Lukács giudica corretta per affrontare il problema è stabilire una connessione organica tra i propositi più elevati della configurazione artistica e il radicamento della letteratura nella produzione della vita popolare; suppone, allo stesso tempo, annodare legami con le tradizioni delle espressioni più alte della letteratura mondiale. Queste considerazioni generali sboccano nuovamente in una riflessione sulla funzione della letteratura, nella quale lampeggiano alcuni annunci delle successive considerazioni sulla catarsi e sulle interrelazioni tra estetica ed etica. Nel ritratto di Gorki, tracciato da Lukács, si attribuisce al narratore russo, non solo la convinzione che tutta la letteratura veramente grande deve essere popolare, ma anche l’idea che la letteratura deve rivelare tutte le possibilità assopite, latenti nell’uomo come qualcosa che si divenuta reale mediante la stessa attività umana. «La grande letteratura ridona la parola al muto, la vista al cieco. Essa aiuta l’uomo a prendere coscienza di sé e del suo destino. […] La grande missione della letteratura è dunque quella di dare all’uomo coscienza di sé»[12]. Queste considerazioni anticipano più di due secoli quelle che appariranno – con maggiore dettaglio e profondità – nell’Estetica; qui compiono un ruolo rilevante le parole che dice, alla fine dell’opera, il personaggio di Torquato Tasso nel dramma omonimo di Goethe, e che Lukács parafrasa nel saggio su Gorki: «Un’unica cosa resta: / La natura ci ha donato le lacrime, / Il grido di dolore, quando diventa insopportabi­le. E a me lasciò la parola armoniosa / con cui mi lamento in mezzo ai dolori / E se nel dolore l’uomo ammutolisce / A me un dio ha concesso di dire quanto soffro»[13]. Nell’Estetica, immediatamente prima di riprodurre questa dichiarazione di Tasso, si afferma che «la grande missione storica universale dell’arte getta le sue radici: essa può elevare all’attualità ciò che è latente, può dare a ciò che nella realtà stessa rimane muto una chiara espressione evocativamente comprensibile»[14]. Ne “La commedia umana nella Russia prerivoluzionaria”, queste osservazioni di principio appaiono enunciate in relazione al ruolo che compì la letteratura nella formazione di Gorki come scrittore e come umanista; se si distacca dall’autobiografia dello scrittore, il vincolo tra letteratura e vita e l’utilizzazione della prima per comprendere più compiutamente la seconda, queste sono state intense nell’autore russo: «Il giovane scrittore ancora in fase di formazione comprende assai presto la lezione e la portata della grande letteratura classica, che educa a vedere e a rappresentare gli uomini»[15]. Questo ricorso alla letteratura si trova agli antipodi della cristallizzazione: se, in questo fenomeno esaminato (e messo in questione) lucidamente da Stendhal in Dell’amore, la letteratura ingenuamente interpretata si converte in una torbida lente che occulta e deforma il reale, nella proposta lukácsiana l’estetico è uno strumento cardinale per arrestare l’alienazione e la cosificazione delle relazioni sociali.

Nei termini dell’Estetica della vecchiaia: la letteratura e l’arte svolgono una funzione capitale come mezzi per ridurre la mutua estraneità tra gli esseri umani e il loro ambiente; entrambi hanno la missione di rilevare tracce del mondo reale, in cui si rende visibile l’adattamento della natura all’uomo e in cui si supera l’estraneità e l’indifferenza di questa riguardo all’essere umano. È suggestivo che, al centro degli articoli su Gorki, troviamo osservazioni riguardo alle posizioni tipiche, che gli scrittori sono soliti adottare di fronte alla realtà oggettiva. Lukács mette in questione il soggettivismo di quegli autori moderni che sperimentano solo se stessi: «Per loro recettività significa soltanto interesse per le esperienze interiori, per le esperienze dell’io. La loro attenzione non si rivolge al mondo esterno, alla vita stessa, ma unicamente al processo delle loro personali reazioni al mondo esterno, e in questa loro recettività finiscono per immergersi totalmente nella passiva contemplazione del proprio ombelico»[16].

Queste osservazioni anticipano idee, che si dispiegheranno con più profondità nell’importante saggio di quattro anni successivi, “Marxismo o proudhonismo nella storia della letteratura?”. In questo si stabilisce una distinzione tra due tipi di scrittori moderni, il cui primo nitido confronto si trova nella relazione tra Goethe e Schiller. Da un lato stanno quegli autori che pongono nel particolare il loro ambito di lavoro specifico, e solo nel senso di questa particolarità esprimono l’universale; dall’altro, coloro che partono da un’idea astratta e da essa “discendono” fino al particolare per illustrarla. Il secondo tipo di autore antepone le sue concezioni personali alla dinamica intrinseca del tema scelto; il primo preferisce dedicarsi a un’esplorazione della realtà e si rifiuta di imporle una necessità estrinseca: «La reverenza che sente il primo tipo di scrittore di fronte ai personaggi da lui creati è solo l’espressione artistica della reverenza di fronte alla realtà stessa, di fronte all’astuzia di questa, al suo sapere. Nella misura in cui un tale scrittore si “chiude” nelle sue figure, permette che queste vivano d’accordo con le loro stesse leggi di movimento e non secondo i desideri dell’autore, nella misura in cui egli apprende da esse, accetta i loro destini […] si esprime qui artisticamente il suo apprendistato della realtà»[17].

Nel secondo tipo, si avverte l’influenza diretta dell’ideologia dell’autore sul mondo da lui configurato; qui si presenta il pericolo che, in quei casi in cui la realtà «sotto la forma della vita e del vissuto del personaggio, indipendenti dal proposito dello scrittore», entra in contraddizione con l’ideologia, lo scrittore vuole «correggere la realtà configurata a partire dalla sua propria ideologia. Questo lo ha criticato Goethe varie volte in Schiller»[18]. Lukács qualifica come violenza soggettivista contro la realtà l’ostinazione di questo tipo di autori che insistono ostinatamente ad affermare utopicamente le loro convinzioni in contrasto con la storia: essi considerano che, se la realtà non si adegua ai loro stessi desideri e opinioni, tanto peggio per lei. Nel secondo saggio su Gorki, questo problema è affrontato a partire da una contrapposizione tra l’autore di Bassifondi e Andreev; importante è che, nel corso di questo confronto, si promuove un pensiero ontologico in accordo con quello che troveremo pienamente sviluppato decenni più tardi, nel contesto della concezione e redazione dell’Ontologia. Si tratta, essenzialmente, di mettere in relazione il pensiero corretto – in termini della filosofia tardiva: la posizione teleologica accertata – con uno studio preciso delle possibilità latenti nell’oggetto, che possono solo farsi realtà a partire dalla prassi umana e con un’indagine sui mezzi per rendere concreta l’idea. La prassi si dispiega nel modo più produttivo, quando supera l’antitesi tra la disposizione meramente contemplativa, che lascia intatto l’oggetto, e la violenza soggettivista, che si ostina ad imporle una necessità che non è contenuta in esso come possibilità, come latenza. Ciò che il Lukács del 1936 mette in questione in Andreev, al di là della dichiarata ammirazione per le sue opere, è un’attenzione insufficiente verso la realtà: «Andreev è dotato di una fantasia molto vivace, e quindi di una grande capacità di astrazione, ma è del tutto disorientato. Non appena un fenomeno della vita gli capita sott’occhio, comincia a lavorare di fantasia, elevando il soggetto a un alto grado di astrazione poetica; […] ma in tal modo lo scrittore si disinteressa del fenomeno. Non ha la pazienza e la tenacia necessarie per penetrare più a fondo l’essenza del fenomeno, per esaminarlo in tutti i suoi aspetti e nelle diverse fasi del suo sviluppo, per confrontarlo costantemente e sistematicamente con altri fenomeni, e per plasmare soltanto allora l’immagine del fenomeno, un’immagine che si approssimi alla ricchezza della vita»[19].

Il soggettivismo appare qui come una malattia infantile del realismo; come i volontaristi politici, gli scrittori della stirpe di Andreiev vogliono sottomettere la realtà alle proprie illusioni astratte, al posto di prestare orecchie alle latenze che sonnecchiano in essa. Lukács avverte nella “pazienza” di Gorki, invece, non la passività, bensì il correlato del suo impegno con le lotte contemporanee, mentre Andreev avrebbe preferito circoscriversi a una mera “esistenza di scrittore” (Schriftstellerdasein). Qui, come nei saggi su Balzac e il realismo francese, ciò che il filosofo ungherese elogia, è l’importanza dell’apprendistato della realtà, del desiderio di ricercare il nuovo e lasciarsi sorprendere da esso, collocando il valore educativo della ricerca al di sopra di tutti i preconcetti. Nel suo saggio sulle Illusioni perdute di Balzac, Lukács si riferisce alla ricchezza della «struttura della realtà obiettiva, che noi – col nostro modo di pensare troppo astratto, sempre troppo rigido e lineare, troppo unilaterale – non siamo mai in grado di rispecchiare e concepire adeguatamente in tutta la sua ricchezza»[20]. In un modo simile si rileva, negli articoli su Gorki, la volontà eccezionale che questi aveva di apprendere costantemente dal mondo: «Solo l’essere innamorati della realtà, nonostante tutti i suoi errori che vanno odiati e combattuti (poiché in quella stessa vita esiste la strada verso il bene, verso l’umano), […] solo una tale passione della recettività pone le fondamenta per una vita attiva autentica e giusta. L’ottimismo di Gorki è senza illusioni. Le illusioni nascondono la realtà: l’illuso non vive una vita vera, ma solo le proprie illusioni e il loro fallimento. […] Il pessimismo e l’ottimismo moderni, le illusioni e disillusioni moderne producono soltanto schemi, sia pure – come avviene per Andreev – schemi fantastici e interessanti. Illusione e disillusione sono barriere che ostacolano la comprensione della realtà»[21].

Nella insaziabile fame di vita, nell’instancabile apprendistato della ricchezza di questa, nella separazione rispetto a ogni impegno nel violentare la realtà, riducendola a schemi, Lukács percepisce un tratto essenzialmente leninista nella personalità di Gorki. Legata a lui è la persuasione che – come sosteneva Lenin – l’umanità non conosce situazioni senza uscita; esiste un campo per la scelta tra alternative, pur se limitato, anche sotto condizioni estreme. È significativo che, mettendo in questione il fatalismo, nel quale spesso incorrono anche gli umanisti borghesi, l’argomentazione di Lukács culmini in una riflessione etica, che anticipa a distanza quelle che appaiono nell’opera tardiva: Gorki avrebbe visto chiaramente «come la bontà orientata in senso preciso e concreto, connessa con una particolare condizione del carattere, possa dare l’avvio alla rovina dell’individuo. Gorki esamina tutte le qualità umane individuali in rapporto al grande processo di emancipazione dell’uomo, processo che consente agli uomini di diventare, con la loro azione, veri uomini»[22].

Anche l’enfasi sul lavoro come essenza dimostrativa dell’essere umano, come – nelle parole di Marx – l’ambito nel quale questi riesce ad autoprodursi, nel quale si fa realtà la sua stessa essenza, come preannuncia il Lukács dell’Estetica e dell’Ontologia. Non invano Lukács sottolinea, in questo contesto, il vincolo indissolubile del lavoro con la grandezza umana e, come controparte, quella del parassitismo con la barbarie. Anche la considerazione del lavoro e della riflessione sull’etica hanno un ruolo rilevante nel saggio dedicato a Makarenko.

 

 

III

 

Pubblicata nel 1951, l’estesa analisi del Poema pedagogico (1933-1935) di Makarenko occupa un posto singolare dentro l’opera di Lukács e anche dentro Il realismo russo nella letteratura mondiale. In primo luogo, occorrerebbe chiedersi sul posto che, nella letteratura realista universale, occupa un’opera il cui vasto riconoscimento si deve innanzitutto a ragioni extraestetiche. La stessa pertinenza dell’opera al genere romanzesco è incerta nella misura in cui, da un lato, si elaborano esperienze autobiografiche; dall’altro – e in special modo –, la teoria e la pratica pedagogiche sono più importanti della dimensione strettamente della finzione. Il saggio è, in fondo, un’opportunità per sviluppare, a partire dall’opera di Makarenko, le idee del filosofo intorno alla pedagogia, in una maniera più particolareggiata ed esplicita di ciò che si avverte, per esempio, negli articoli sul Wilhelm Meister di Goethe o su Gottfried Keller. Il punto di partenza dell’analisi è la convinzione che, nelle società di classe, gli educatori e i teorici dell’insegnamento impegnati con il loro compito hanno dovuto sempre andare oltre al semplicemente professionale, ma senza risolvere in maniera piena i problemi che gli si ponevano. A causa del carattere antagonista di tali società, i pedagoghi non potevano apportare una soluzione, senza tracciare una prospettiva utopica, la cui realizzazione doveva essere proiettata indefinitamente. Gli uomini educati sotto il capitalismo si vedono posti di fronte a un’alternativa difficile da superare: o perseguono in forma disumana i propri fini egoistici, adattandosi alle condizioni di una lotta brutale per l’esistenza; o, in virtù dei principi umanistici con cui sono stati educati, diventano inadatti alla vita. Per Lukács, la distruzione dello sfruttamento capitalista è condizione necessaria, ma non sufficiente per la realizzazione di una pedagogia effettivamente liberatrice: «Perché le possibilità implicite della rivoluzione proletaria divengano realtà è necessario un generale processo di rieducazione dell’uomo, che supera di molto l’ambito ristretto della pedagogia»[23].

Alcune spiegazioni storiche sono qui necessarie. Lukács, che scrisse questo articolo negli ultimi anni del regime di Stalin, non poteva prevedere l’imminente morte di costui. Ma se avesse saputo che Makarenko, al di là di alcuni riconoscimenti formali, era stato una persona non grata* per lo stalinismo: a causa dei suoi concetti pedagogici, ma anche per avere formulato critiche al regime e al suo leader. In questo contesto deve essere letta l’ultima citazione che riproduciamo: ciò che sta sorgendo per via indiretta, in vista delle condizioni di censura imperante, è che il passaggio al socialismo (stalinista) ha lasciato irrisolte questioni fondamentali della formazione umana; e Lukács contrappone implicitamente alla realtà effettiva dell’Urss, negli anni successivi alla morte di Lenin, proposte innovatrici sviluppate precocemente e troncate (Makarenko fu espulso, nel 1928, dalla Colonia Gorki, nella quale ebbero luogo gli esperimenti che si descrivono nel Poema pedagogico). L’articolo mette in rilievo la singolarità del romanzo di Makarenko: «Anzitutto, la vicenda della nuova pedagogia, che viene svolgendosi davanti ai nostri occhi, rappresenta un momento essenziale nella storia obiettiva della genesi dell’educazione socialista. Assistiamo al caso rarissimo di un’opera d’arte che già di per sé, a prescindere dal suo valore estetico, segna una tappa importante nella storia di una scienza […] Il valore della sua opera [di Makarenko] non sta quindi soltanto nell’elaborazione teorica dei principi scaturiti dalla pratica, della strategia e della tattica di un importante settore della prassi socialista, ma anche nella presa di coscienza e nella sperimentazione di questi principi attraverso l’esperienza della propria vita. In termini estremi, si può affermare che il Poema pedagogico di Makarenko è la storia dell’“accumulazione originaria” della pedagogia sovietica»[24].

L’azione narrativa si sviluppa durante la guerra civile. Ma al lettore dell’articolo si può presentare molto bene l’idea che le esperienze, che si narrano, non ebbero continuità nell’evoluzione successiva dell’Urss. Può anche leggere con qualche diffidenza alcuni commenti; per esempio, quello che rilevano la relativa solitudine, in cui Makarenko portò a termine i suoi esperimenti nella “Colonia Gorki”, in un ambiente intensamente ostile, sprovvisto di ogni comunicazione con le autorità sovietiche, che nella descrizione lukácsiana appaiono in una spettrale lontananza comparabile con quella degli imperatori e degli alti funzionari di Kafka: «Gli organismi superiori sovietici […] sono molto lontani e oberati da altri compiti, che divengono in quel momento obiettivamente più importanti. Per un certo periodo, Makarenko e il gruppo ancora in formazione, dei suoi collaboratori debbono quindi confidare solo in se stessi»[25]. In vista delle dure condizioni dell’esilio del filosofo in Russia, sarebbe lecito chiedersi se Lukács non sta vedendo in Makarenko un alter ego di se stesso. Una sensazione simile abbiamo, quando si confronta l’autore del Poema pedagogico con i burocrati dell’insegnamento, che, incapaci di risolvere i problemi che pone la vita quotidiana, continuano ad applicare le stesse formule sclerotizzate: ciò non ricorda la posizione di Lukács di fronte ai difensori dogmatici del Diamat? Allo stesso modo possono essere lette le osservazioni sugli sforzi di Makarenko per superare la sconsolante solitudine in cui si trovavano lui e il suo progetto: «Non possono perciò mancare i momenti di solitudine, la sensazione di essere abbandonato, affidato esclusivamente a se stesso»; benché immediatamente si segnala che questi momenti «appaiono chiaramente transitori, effimeri, non rivelano un antagonismo, un’opposizione, come nelle società classiste, ma solo una differenza di ritmo nello sviluppo di persone che tendono agli stessi fini»[26]. Questa ponderazione della volontà di sovrapporsi all’ambiente ostile e anche ai propri sentimenti di solitudine e fallimento è un motivo caratteristico della filosofia di Lukács, che nel periodo maturo continua affermando che, nell’epoca della Teoria del romanzo e nei primi anni della sua militanza comunista, egli stesso designava come lento eroismo (langsames Heldentum), e che ai suoi occhi è più valido – come commenta József Lengyel, rimandando a una conversazione con Lukács e con la sua prima moglie, Jelena Grabenko – «che poter morire per una causa. Morire, realizzare fermamente e audacemente qualcosa di grandioso, è facile. Ma ciò che si deve tentare è vivere come un santo!»[27]. József Lukács segnala in questo senso: «Lukács richiama spesso l’attenzione […] sul fatto che il vissuto del più profondo contenuto morale del proprio essere, scintilla, certamente, negli uomini; risveglia in essi entusiasmo e anche un entusiasmo che si converte in azione; ma anche indica che questo entusiasmo non aggiunge nulla al modo di vita ulteriore: poi, dopo l’“impresa impetuosa” gli uomini tornano a immergersi nelle menzogne della vita precedente […] La brillante carriera di un Julien Sorel o di un Lucien de Rubempré* terminò nella morte o nella rovina spirituale; con ciò continua ad essere valido nella vita stessa l’ingegnosa diagnosi di Balzac, secondo la quale gli uomini sono cassieri o truffatori, onesti idioti o abili bricconi»[28].

Il vero eroismo consiste nel continuare a lavorare oltre i successi o i fallimenti temporanei; da qui l’ammirazione che mai Lukács smise di testimoniare per quegli intellettuali e leader che, come Marx e Lenin, si mostravano relativamente indifferenti di fronte alle variazioni storiche congiunturali, per quanto dure fossero, e preferivano adottare un punto di vista amplio e comprensivo. Da questo modello diverge quello che rappresentavano figure come quelle di Moses Hess, Ferdinand Lassalle o Arnold Ruge, le cui esplosioni entusiaste o le cadute in profonde depressioni si trovavano in buona parte condizionate, secondo Lukács, dal superficiale fascino per la superficie della vita sociale e per la disattenzione per i processi essenziali, meno agitati, ma più profondi. Alla stirpe di Marx e di Lenin appartiene Makarenko, in cui «non si trova traccia di stati d’animo o di mezzi espressivi romantici»; come nell’immagine di Gorki profilata da Lukács, c’è nell’autore del Poema pedagogico una disposizione non frequente per ricercare attentamente e pazientemente la realtà: «La grandezza di Makarenko consiste, non da ultimo, nel fatto che egli esamina sobriamente ogni fatto della vita, e sa in esso riconoscere con sguardo penetrante, sottolineare ed esaltare quei momenti che guardano effettivamente al futuro, nella direzione della costruzione socialista, del sorgere dell’uomo nuovo socialista, o quei fatti che ostacolano invece tale sviluppo. Il sobrio, ma attivo e incrollabile, ottimismo di Makarenko, che poggia sulle reali linee di sviluppo dell’umanità e non su vacui sogni utopistici, è assai significativo per delineare la fisionomia della sua opera, sotto l’aspetto pedagogico e letterario»[29].

Il metodo pedagogico di Makarenko si fonda sia su questo sobrio realismo, sia nell’appello alla prospettiva, intesa come la conseguenza prevedibile, in termini oggettivi, di una tendenza evolutiva realmente esistente. La prospettiva è, per il pedagogo russo, una questione centrale della vita e, innanzitutto, della formazione del soggetto; il procedimento, così come lo descrivono Makarenko e Lukács, si avvicina significativamente al concetto di sonno diurno (Tagtraum), così come appare nella filosofia di Ernst Bloch. Quest’ultimo aveva segnalato nei sogni diurni la forma più elementare dell’impulso utopico, della disposizione per immaginare il non ancora esistente e intraprendere il compito di convertirlo in realtà effettiva. Chesterton ha scritto che un uomo, che non porta dentro di sé una sorte di immagine onirica della sua realizzazione piena, è tanto mostruoso come un uomo senza naso; ed è caratteristico di Bloch di porre queste parole come epigrafe del capitolo de Il principio speranza dedicato a studiare l’immagine di sé. Le parole (citate da Lukács) con cui Makarenko descrive la prospettiva sono molto vicine alle idee di Bloch: «L’uomo non può vivere se non vede davanti a sé nulla di piacevole. Il vero stimolo della vita umana è la gioia di domani, e nella tecnica pedagogica tale gioia è uno dei più importanti strumenti di lavoro. Prima bisogna organizzare questa gioia, chiamarla alla vita, e farne una realtà. Poi, bisogna trasformare con tenacia le forme più semplici della gioia in forme più complesse e umanamente importanti»[30].

Queste definizioni sono notevolmente vicine a quelle blochiane; e la somiglianza si accentua quando Lukács le confronta con la formula del “sognare in avanti” proposta da Lenin, innanzitutto se si pensa che l’autore de Il principio speranza ha citato con frequenza, in maniera encomiastica, l’espressione del leader bolscevico. Ma potrebbe approfondirsi ancora di più il parallelo: con frequenza, Bloch si è incaricato di distinguere la vera volontà utopica dalla lontananza, riguardo al reale, propria del mero entusiasta (Schwärmer). In forma simile, Makarenko distingue due prototipi nettamente diversi del sognatore: «Anche i sogni sono di vario genere. Una cosa è sognare di un principe sul cavallo bianco e un’altra di ottocento ragazzi in una colonia. Quando vivevamo ancora in piccole casermette, forse che non sognavamo ampie stanze luminose? Avvolgendo i piedi negli stracci, sognavamo vere calzature»[31].

Lukács sottolinea che la prospettiva a cui pensa Makarenko non si contrappone come l’ideale o il dover essere (Sollen) con l’essere; si tratta di un impulso che risveglia tutte le facoltà dello studente, le pone in movimento, le mobilita; e questo effetto si riferisce alle diverse capacità, non solo all’intelligenza o alla ragione. Abbraccia anche la fantasia e il sogno. Tanto importanti come l’enfasi sul “sognare in avanti” sono, in Makarenko, le forme di elaborazione del passato; un punto centrale in questo senso, che presenta notorie affinità con il pensiero di Lukács, è la critica del pentimento. In questo ultimo Lukács vede una forma di coscienza servile, un comportamento che pone l’essere umano in una relazione di dipendenza indegna e gli impedisce di ribellarsi contro lo stato di cose vigente. La propaganda a favore del pentimento pone un’enfasi esacerbata nella coscienza individuale; uno dei suoi obiettivi centrali è educare sudditi che si umilino, che incolpino se stessi e che, infine, si comportino in maniera sottomessa. Il soggetto colposo permane fissato nell’azione isolata, in quelle qualità – artificialmente isolate – che scatenarono questa azione, e non trova come uscire da questo vicolo senza uscita morale. Non invano “spiriti veramente liberi, come Spinoza o Goethe, hanno condannato sempre il pentimento”; non invano il giovane Marx, nella sua estesa recensione dei Misteri di Parigi di Eugene Sue, ha rilevato come un tratto positivo della giovane prostituta Fleur-de-Marie il fatto che questa, in opposizione al pentimento cristiano, elogi i fondamenti di una vita libera: «Enfin, ce qui est fait, est fait» (Infine, ciò che è fatto, è fatto). L’alternativa di fronte al pentimento e di fronte alla sua falsa alternativa, il cinismo nichilista, si trova ne la critica e l’autocritica orientate a indagare le radici e gli effetti sociali delle azioni passate; queste si occupano solo del passato «fino a quando questo passato (e l’errore che ne scaturisce) è ancora un fattore operante nella sua vita. Non appena il presente cessa di essere condizionato effettivamente da questi momenti del passato – e che ciò accada in modo radicale e definitivo è il fine di una giusta critica e autocritica – il passato, per riprendere il termine di Makarenko, può anche essere “scordato”. Tuttavia, anche se questo processo non si è ancora compiuto, la critica e l’autocritica non guardano al passato, non tendono a cristallizzarlo, ma cercano al contrario di superarlo»[32].

Lukács fa qui riferimento alla tecnica di Makarenko consistente nell’eliminare la colpa e il pentimento dall’insegnamento e nel dimenticare le mancanze degli studenti, una volta che queste sono state comprese e corrette. Non meno importante è quella tecnica che il pedagogo sovietico definiva come “metodo di esplosione” e che suppone l’applicazione cosciente e deliberata di un impulso che inizialmente era sorto in maniera spontanea e incontrollata. Si fa riferimento con ciò a certe reazioni esacerbate – a volte, motivate dalla frustrazione o dall’ira – degli educatori che producono un effetto positivo negli studenti, per cui questi vedono in quelle reazioni un sentimento umano genuino. Makarenko studiò con attenzione quelle “esplosioni” degli educatori e l’effetto che queste produssero nei giovani e condensò, a partire da quelle, una tecnica che poteva essere applicata nell’educazione di fronte a situazioni limite. Esempi tipici di questa tecnica sono la maniera in cui, nel Poema pedagogico, sono ammessi gli alunni della terza colonia: i bambini sono rapati e lavati, al fine di rendere visibile la rottura radicale con il proprio passato di miseria e maltrattamenti e simbolizzare l’ingresso in un collettivo vantaggioso. In un’altra occasione, quando centocinquanta alunni sono integrati imprevedibilmente nella colonia, i loro abiti sono bruciati pubblicamente per rappresentare la rottura rispetto al passato. Makarenko è cosciente che questo procedimento, orientato a emozionare intensamente gli alunni, possa essere impiegato in forma eccezionale, poiché, al contrario, svanirebbe la sua efficacia.

L’originalità dell’analisi, che fa Lukács di questo metodo, risiede nell’affinità che egli scopre tra l’esplosione e la catarsi, così come fu analizzata da Aristotele e dalla tradizione neo-aristotelica e come fu praticata da scrittori e artisti a partire dall’antichità. È noto che Lukács dedicò diversi saggi ad esaminare l’emozione catartica – va menzionato il saggio su Minna von Barnhelm di Lessing e l’importante capitolo sulla catarsi nell’Estetica. In essi mette in rilievo che la catarsi è un’esperienza corrispondente alla vita quotidiana e che la sua elaborazione estetica rappresenta un affinamento delle esperienze quotidiane, come lo è anche il metodo di esplosione abbozzato da Makarenko. Nel saggio sul Poema pedagogico, Lukács rileva la rilettura realizzata da Lessing nella Drammaturgia di Amburgo, nella quale mette in relazione il fenomeno della catarsi con la trasformazione delle passioni umane in disposizioni virtuose da un punto di vista, che il filosofo ungherese descrive come «di pura etica, anzi di educazione popolare»[33]. Queste considerazioni conducono a un piccolo excursus sulla tragedia, nel quale si pone in rilievo il carattere sostanzialmente pubblico delle forme drammatiche e nel peso che nel genere tragico posseggono le collisioni; collisioni che, spesso, emergono a partire dal confronto polemico tra l’antico, che decade, e il nuovo, che emerge. Il dramma è una delle forme più importanti, in cui le società tentano di dirimere tali conflitti presenti nella vita quotidiana. L’analisi di Lukács rivela tre tratti essenziali di questa problematica nelle società di classe. In primo luogo, le collisioni si producono, in generale, in forma spontanea; è abituale che le classi dominanti si impegnino ad occultare le contraddizioni esistenti tra l’azione dettata dalla propria posizione di classe e la morale pubblicamente dichiarata. Ma il mascheramento ideologico delle contraddizioni non implica che queste smettano di esistere e, per questo, si producono inevitabili scoppi, quando certi conflitti raggiungono il grado preciso di acutizzazione. In seconda istanza, la “purificazione delle passioni” si sviluppa, in ciascuna società, solo al livello ideologico che le è proprio; nelle società di classe, con falsa coscienza. Infine, le catarsi sorgono, nelle società di classe, in una stretta relazione con l’acutizzazione delle lotte di classe; le collisioni avanzano verso una conclusione ineludibile che usualmente qualifichiamo tragica. La pedagogia comunista posta in pratica nella Colonia Gorki punta a sviluppare la catarsi nel senso di un’esclusione delle conclusioni tragiche; l’esplosione catartica alla quale, secondo noi, ci si appella solo in casi inusuali – innanzitutto, quando il comportamento di uno studente ha un’influenza nociva sulla vita del collettivo – tenta di produrre la purificazione delle passioni dell’individuo ostile alla comunità e di reintegrarlo avventurosamente dentro di essa. Per essere reali e duraturi, da un lato, lo scatenamento e la risoluzione delle collisioni deve affettare l’intera personalità dello studente e non solo la comprensione intellettuale; d’altro lato, il salto qualitativo introdotto dalla collisione deve rappresentare un anello dentro uno sviluppo lento, minuziosamente osservato. La priorità che, in Makarenko, ha la personalità congiunta dello studente di fronte alla mera comprensione intellettuale non implica la disattenzione verso quest’ultima. Punta ad integrare la varietà di capacità che gli studenti posseggono e a sfruttare, allo stesso tempo, l’individualità di ciascuno. Questo richiede la rinuncia alle formule generali con le quali usualmente si gestiscono i burocrati della pedagogia e comprendere che la nuova pedagogia socialista «elabora in certo senso da sé la sua teoria, le sue premesse organizzative e i suoi strumenti […] Quando Makarenko […] all’inizio della sua impresa che non sa quale strada dovrà percorrere per assolvere il suo compito, naturalmente non vuol riferirsi con questo al nullismo teorico, ma semmai a ciò che disse Lenin sul capitalismo di Stato, nei primi tempi della NEP: “… Non v’è nemmeno un libro che parli di capitalismo di Stato esistente durante il comunismo. Neanche a Marx è venuto in mente di scrivere una sola parola a questo proposito, ed è morto senza lasciare alcuna esatta citazione o indicazione irrefutabile. Perciò ora dobbiamo cavarcela da soli”. E Makarenko, trovandosi in una situazione simile, cerca infatti di operare secondo questo metodo leninista»[34].

La sperimentazione non si riferisce solo alla pratica pedagogica. Abbraccia anche la prassi letteraria di Makarenko. Lukács rileva fino a qual punto lo scrittore russo, in quanto artista, ha saputo trovare una nuova forma, appropriata per configurare una realtà nuova. Ha composto un’opera il cui protagonista è la massa, superando sia l’individualismo del romanzo borghese precoce, sia il collettivismo amorfo di un Naturalismo che aveva esercitato profonde (e nocive) influenze su numerosi autori socialisti. La Colonia Gorki, nella quale avviene l’azione del Poema pedagogico, non è un milieu fisso e cosificato come quelli che si rappresentano nella narrativa di Zola; i suoi membri non costituiscono neanche una massa indifferenziata, inerte come quella che appare con frequenza nella novellistica dagli inizi del XX secolo. Il mondo, che Makarenko rappresenta, è «l’intricata, contraddittoria unità di altrettanto intricati, contraddittori rapporti, continuamente evolventisi, di uomini visti concretamente e rappresentati come figure vive»[35]. Lì la massa non assume un’esistenza indipendente rispetto agli esseri umani che la conformano; gli individui non si dissolvono pienamente in essa, perdendo la loro singolarità e autonomia. Con ciò, il Poema pedagogico porta, riguardo al trattamento della relazione tra individuo e massa, a un livello di sviluppo più alto alcune potenzialità latenti nella grande narrativa realista borghese; in questa sono esistiti tentativi di rappresentare come un’emozione imprevista scuota l’esistenza di un individuo e lo costringa a portare a termine un’azione straordinaria, per la quale deve dispiegare, a sua volta, qualità morali straordinarie; esempi eccellenti del modello sono i personaggi di Dorothea in Hermann e Dorothea di Goethe e Jeanny Deans in The Heart of Midlothian. Entrambe le donne si confrontano, in un modo relativamente casuale, con le sfide che le conducono a realizzare le loro imprese e, una volta compiutele, ritornano alla loro esistenza abituale per riprendere un’esistenza oscura. Esperimenti come quelli di Tolstoi o di Gorki ne La madre mostrano una portata più ampia, che punta già in direzione al romanzo di Makarenko; in questo, i differenti successi rappresentati non appaiono come un ostacolo o una sfida casuali e, in ciascuno dei differenti caratteri, l’elevazione, al di sopra della quotidianità precedente, non è un’azione isolata, eccezionale, scatenata da un avvenimento eccezionale, bensì una parte necessaria della nuova vita in pieno dispiegamento. Nel romanzo si riesce a vedere, da un lato, un’opera di imponente realismo in tutti i suoi dettagli e, allo stesso tempo, un’incarnazione tipica della letteratura di idee: «Qui si può ammirare ancora una volta l’originalità dell’arte di Makarenko. La sua opera […] è costituita da un incastro di fatti isolati, di singoli episodi che si manifestano per lo più nella forma di collisioni. Da queste collisioni scaturisce, nel corso dell’opera, la pedagogia socialista, ma non come “scopo finale”. Lo svolgimento artistico dell’opera consiste piuttosto nel fatto che nelle singole collisioni esplodono e giungono a soluzione le contraddizioni di una data fase di sviluppo; la fase successiva, più evoluta, genera a sua volta contraddizioni superiori, collisioni e soluzioni con esse connesse»[36].

Posto all’incrocio tra tradizione e innovazione, il Poema pedagogico offre, agli occhi di Lukács, una proposta di risoluzione eccezionale per un problema che ha occupato grandi scrittori epici dell’era borghese, come Goethe e Thomas Mann, in cui ebbe anche una funzione rilevante la trattazione del vincolo tra letteratura e formazione, tra estetica e pedagogia. In Makarenko si avverte una sintesi tra letteratura di immagini e letteratura di idee, tra una configurazione propriamente epica degli avvenimenti e una riflessione esaustiva e rivelatrice. Qualcosa di simile trovò Lukács in Thomas Mann, nella cui opera vedeva la coincidenza di uno “specchio del mondo” e una lucida coscienza della borghesia tedesca. È suggestivo che l’analisi di questo aspetto dell’opera di Mann sbocchi in una riflessione pedagogica, orientata a definire le condizioni di un’autentica paideia: «Il dover essere non deve necessariamente ergersi, come in Kant e per buona parte in Schiller, materialmente estraneo, di fronte a una realtà di natura affatto diversa: può sorgere – hegelianamente – dalla contraddittoria identità di fenomeno ed essenza. La coscienza è allora soltanto l’ammonimento: divieni ciò che sei, realizza la tua essenza, dispiega, a dispetto degli influssi disturbatori del mondo esterno e interno, quanto è vivo in te come nucleo, come essenza»[37].

Vediamo sintetizzato qui un modello di formazione che riuscì ad incarnarsi in varie epoche e figure più progressiste nella storia dell’umanità – quello che nell’Ontologia si denomina genericità per sé – e che l’autore de Il realismo russo nella letteratura universale voleva vedere realizzato come ideale di formazione per tutti gli uomini in un’umanità socialista.

[1] Professore ordinario di Letteratura tedesca presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Buenos Aires, ricercatore principale del Consejo Nacional de Investigaciones Científicas y Técnicas (CONICET), direttore del Dipartimento di Lettere dell’Università di Buenos Aires, membro del consiglio direttivo della rivista Herramienta.

[2] Berlin, Aufbau, 1949, II ed.: 1952. In italiano tradotto, in parte, con il titolo La letteratura sovietica, tr. it. I. P., Roma, Editori Riuniti, 1955, e un’altra parte è contenuta nei Saggi sul realismo, tr. it. A. e M. Brelich, Torino, Einaudi, 1976. La raccolta contiene, però dei saggi non tradotti in italiano [NdT].

[3] G. Lukács, Der russische Realismus in der Weltliteratur, Berlin, Aufbau, 1952, p. 8.

[4] Ivi, p. 9.

[5] Ibidem.

[6] W. Abendroth, H. H. Holz e L. Kofler, Conversaciones con Lukács, tr. sp. Jorge Deike e Javier Abásolo. Madrid, Alianza, 1971. [tr. it., C. Pianciola, Bari, De Donato, 1968, pp. 36-37.

[7] G. Lukács, Der russische Realismus in der Weltliteratur, cit., p. 10.

[8] Ivi, p. 11.

[9] Lukács, György, Gelebtes Denken. Eine Autobiographie im Dialog, red. István Eörsi, trad. dall‘ungherese: Hans-Henning Paetzke, Frankfurt/M, Suhrkamp, 1981, p. 58 [tr. it. A. Scarponi, Roma, Editori Riuniti, 1983, p. 43].

[10] G. Lukács, Der russische Realismus in der Weltliteratur, Berlín, Aufbau, 1952, p. 267 [M. Gorki, „L’emancipatore“, in G. Lukács, La letteratura sovietica, tr. it, I. P., Roma, Editori Riuniti, 1955, p 24].

[11] Ibidem.

[12] G. Lukács, Der russische Realismus in der Weltliteratur, cit., p. 284 [tr. it., p. 44].

[13] Goethe, Torquato Tasso, V atto, scena 5.

[14] G. Lukács, Estética. La peculiaridad de lo estético, tr. sp. M. Sacristán, Barcelona, Grijalbo, 1982, vol. II, p. 268 [tr. it. A. Solmi, Torino, Einaudi, 1970, p. 551].

[15] G. Lukács, Der russische Realismus in der Weltliteratur, cit., p. 292 [tr. it., p. 54].

[16] Ivi, p. 290 [tr. it., p. 51].

[17] G. Lukács, Escritos de Moscú, intr. di Miguel Vedda, tr. sp. e note di Martín Koval e Miguel Vedda, Buenos Aires, Gorla, 2011, p. 171.

[18] Ibidem.

[19] G. Lukács, Der russische Realismus in der Weltliteratur, cit., p. 290 [tr. it., p. 51].

[20] G. Lukács, Balzac und der französische Realismus, Berlín, Aufbau, 1952, p. 58 [tr. it. M. e A. Brelich, Torino, Einaudi, 1976, p. 81].

[21] G. Lukács, Der russische Realismus in der Weltliteratur, cit., p. 291 [tr. it., p. 52].

[22] Ivi, p. 283 [tr. it., p. 43].

[23] Ivi, p. 396 [tr. it., p. 171].

* [in italiano nel testo; NdT].

[24] Ivi, p. 399 [tr. it., pp. 173-174].

[25] Ivi, p. 400 [tr. it., p. 176].

[26] Ivi, p. 404 [tr. it., p. 180].

[27] G. Lukács, Dostojewski. Notizen und Entwürfe, a cura di J.C. Nyíri, Budapest, Adadémiai Kiadó, 1985, p. 33.

* Julien Sorel è il protagonista del romanzo Il rosso e il nero di Stendhal; Lucien de Rubempré è il protagonista del romanzo Illusioni perdute di Balzac.

[28] Jószef Lukács, “Georg Lukács über Probleme der Kulturentwicklung”, in Bermbach, U., Trautmann G. (a cura di), Georg Lukács. Kultur, Politik, Ontologie, Westdeutscher Verlag, Opladen, 1987, p. 34.

[29] G. Lukács, Der russische Realismus in der Weltliteratur, cit., p. 404 [tr. it., p. 182-183].

[30] Ivi, p. 408 [tr. it., p. 185].

[31] Ibidem [tr. it., p. 186].

[32] Ivi, p. 415 [tr. it., p. 193].

[33] Ivi, p. 424 [tr. it., p. 204].

[34] Ivi, p. 401 [tr. it., pp. 176-177].

[35] Ivi, p. 443 [tr. it., pp. 226].

[36] Ivi, p. 447 [tr. it., p. 231].

[37] G. Lukács, Thomas Mann. Berlín: Aufbau, 1957, p. 17 [tr. it. G. Dolfini, in G. Lukács, Scritti sul realismo, a cura di A. Casalegno, Torino, Einaudi, 1978, p. 741].

Lev Tolstoj – La morte di Ivan Il’ic

I ragazzi del Liceo Benedetto da Norcia di Roma vi danno appuntamento all’incontro della rubrica #Alcibiade dedicato a “La morte di Ivan Il’ič” di Lev Tolstoj. Dialogherà con loro Davide Fischanger, curatore di progetti di lettura in scuole e biblioteche.

La morte Ivàn Il’íč di Lev Tolstòj. Appunti di lettura

1
Nel primo capitolo de La morte Ivàn Il’íč di Tolstòj, nel primo dei movimenti (in senso musicale) che compongono questo sottile e misterioso racconto, non sono presenti, a rigore, né la morte né Ivàn Il’íč. La morte del protagonista è già avvenuta e, di questi, è solamente esposta – solenne, pacificata – la salma. La morte, al più, in questa sezione del racconto, è una notizia, giunta attraverso il giornale ai colleghi dello scomparso. In quanto notizia, essa genera delle reazioni individuali che si conformano alla manifestazione mondana del lutto, alle regole da mantenere in questi casi: neppure i segreti pensieri di avanzamento di carriera, che i colleghi si aspettano dalla fine di Ivàn Il’íč, si sottraggono a questa legge di conformità, a questa prevedibile ritualità.
La morte è anche un apparato, un allestimento, una recita: prevede un sistema di frasi di circostanza, una chiave di lettura del senso implicito di alcune espressioni, tanto di quelle di pena quanto di quelle di conforto, uno scambio di gesti che corrisponde ai codici di comportamento concordati e a tal punto introiettati da apparire perfettamente naturali. L’evento della morte di qualcuno, di ciascuno, è il motore di una meccanica commedia funebre a parti fisse: i colleghi, la vedova, i familiari, la servitù; il posto libero, la pensione, il cordoglio, i costi delle esequie.
La morte è anche un odore, il più terribile, il più indecoroso, ma da cui ci si allontana con rapidità, una volta espletati i riti previsti. Questo racconto è anche un balletto di personaggi che si allontanano.
Si intuisce che la morte è un grande Altrove, eppure il brulicante tumulto dei sopravvissuti, degli eredi come dei conoscenti, è dominato da un piccolo altrove, dal desiderio di non esser lì: ma si intuisce che anche questo piccolo altrove (il gioco delle carte, il teatro, l’ufficio) sia un espediente provvisorio. Non si sa bene, a pensarci, dove vorremmo stare, dal momento che, prima o poi, ogni luogo viene a noia, ogni interlocutore è di peso, ogni distrazione è sopraffatta dallo scorrere del tempo.
Ma il motivo segreto di questo primo movimento non sembra essere, o almeno non sembra soltanto, quello di una satira di costume. Si avverte un’altra necessità strutturalmente connessa alle ragioni di efficacia e persuasività del testo. Questa necessità è la distanza: il procedere da un punto lontano, quando tutto è già compiuto e irreversibile. Il procedere su una materia già fredda, inerte, come il cadavere di Ivàn Il’íč. Un cadavere non parla, un cadavere non fa smorfie. “Dall’alba della sua giovinezza l’uomo sprofonda nelle parole e nelle smorfie” scriverà Witold Gombrowicz, cinquant’anni dopo, in Ferdydurke. La prima parte del racconto tolstojano inaugura una fenomenologia (o una semiologia) delle smorfie, delle parole e dei loro sottintesi; un lavoro di primi piani (volti, schiene, mani), di inquadrature ravvicinate, allo stesso tempo proiettato davanti agli occhi del lettore come se provenisse da una remota sorgente di luce livida. È necessario che sia così, perché da questo momento in poi il piano dell’azione e dello sguardo non può che scendere, non può che calarsi nel racconto di una vicenda e accompagnarsi all’umano che di questa vicenda è emblema.

2
Quello che si diceva del giovane Ivàn: la phénix de la famille.
La medaglia appesa alla catenella che decora il suo nuovo abito da funzionario: Respice finem, recita il motto inciso sopra.
Essere portatori di equivoci (e ironici) segni di appartenenza. Alla morte.

3
La vita di Ivàn Il’íč, ci viene detto, era stata delle più semplici e delle più orribili. È uno di quei procedimenti tolstojani che ci sembra a prima vista del tutto evidente, ma conserva (ed è bene che sia così) un fondo di ambiguità. Cosa vi è di veramente orribile in una vita comune? Da dove nasce e in quale punto di un’esistenza normale, come quella del quieto giudice istruttore, può dirsi che questo orrore germini e si manifesti? Un velo di calcolata incertezza è sospeso tanto per chi legga questo racconto per la prima volta quanto per chi lo abbia assimilato in più occasioni e ne abbia introiettato le valenze filosofiche e morali. Si intuisce che la cifra di questo orrore stia proprio nella normalità (e quindi nella sua esemplarità da Everyman in veste borghese) di Ivàn Il’íč, ovvero nel sistema fittizio di convenzioni su cui questa normalità poggia, ma non possiamo essere sicuri che l’orrore non si riferisca anche alla sua malattia, alle forme della sua sofferenza e alla sua conseguente iscrizione alla categoria dei reietti, se non alla definitiva disperazione e all’abisso spirituale in cui il protagonista precipita fino a pochi secondi dal suo estremo respiro. E se orribile fosse la condizione umana tout-court, determinata sempre e soltanto da scelte irrevocabili, da strade non prese, da occasioni perdute?

4
Il colpo subìto al fianco, perno narrativo che sconvolge la vita del protagonista e fa ruotare l’intera vicenda, raggiunge Ivàn Il’íč al culmine della sua carriera, di una carriera tutto sommato modesta che dà accesso a un tranquillo benessere e a un sistema di utili relazioni sociali. È probabile che l’ultimo (e insperato) avanzamento di carriera sia, più o meno, il traguardo professionale più alto a cui il protagonista possa aspirare. Anche la cura di Ivàn Il’íč nell’arredare personalmente l’ ambìto appartamento pietroburghese rivela che, per costui, questa non possa che essere la dimora definitiva. Ecco perché la sua angoscia è tanto più elementare e orribile. Se il protagonista avesse consapevolezza di poter aspirare a più alti successi, a una maggiore gloria, la sua disperazione sarebbe da attribuire al pensiero di quanto gli resti da fare: verrebbe proiettata così su uno sfondo quasi eroico. Ma il pensiero di Ivàn Il’íč è tutto rivolto a una posizione conseguita e, mano a mano che il decorso della sua malattia procede, i sentimenti del protagonista si orientano più al passato che al futuro. Al futuro è demandata la speranza di una guarigione. Possiamo chiamarla speranza ma anche superstizione: in entrambi i casi, si tratta di sentimenti ancorati alla duplice e ossessiva decifrazione degli arcani medici e dei segnali del corpo.

5
Di cosa muore infine Ivàn Il’íč? Neppure di questo abbiamo particolare certezza. Egli urta con violenza contro un mobile. Dai giorni successivi, che coincidono con l’arrivo e l’insediamento del resto della famiglia nella nuova abitazione, cominciano a manifestarsi i segni del malessere. Un colpo violento, uno stato morboso e i molteplici consulti dei dottori. Le contraddizioni dei responsi, i silenzi. Le analisi. Forse il rene mobile, forse l’intestino cieco. L’attenersi disincantato alle prescrizioni e all’ottimismo incontrovertibile della scienza medica.
Non è possibile sapere di cosa muoia. Non dobbiamo saperlo. Se lo sapessimo con certezza, saremmo portati a pensare che a noi non può accadere. Che potremmo morire in molti modi ma non di quella malattia. Attiveremmo dei meccanismi di difesa, ci sentiremmo affidati al mondo dei sani, confortati dal fatto di esserlo o di essere un po’ meno malati del protagonista. L’incertezza delle diagnosi è un espediente narrativo, certo un po’ crudele. È quell’opacità che frustra nel lettore il desiderio di trasparenza: quella trasparenza (è la malattia della letteratura contemporanea) che trasforma i lettori in moralizzatori con l’istinto dei voyeurs.

6
Si legge e si accredita un po’ ovunque che Gerasim, il servo che tiene sollevate le gambe di Ivàn Il’íč, per offrirgli un notturno sollievo, sia l’unico personaggio positivo del racconto. Di Gerasim sappiamo che è un servo contadino trasferito in città, è giovane, è sano, è ben pasciuto. Appare di sfuggita nel primo capitolo, si intrattiene con Ivàn Il’íč nelle fasi in cui la malattia isola costui dal contesto familiare e sociale, gli offre la propria opera con pazienza e gaia generosità. Non appare né è nominato nell’ultimo capitolo. Non sappiamo nulla della sua vita e della sua famiglia, non sappiamo come morirà, se anche lui in mezzo a brucianti sofferenze fisiche e morali o se accompagnato dalla stessa mitezza manifestata nei confronti del suo padrone. È un personaggio letterario, del resto. Vive per il tempo esatto in cui rimane in scena. Ci piace perché è giovane, perché è del popolo. Tolstoj arriva sull’orlo preciso di una descrizione di Gerasim venata di populismo (nell’accezione storica del termine), ma per fortuna se ne trattiene. L’idealizzazione appartiene più allo sguardo del lettore che dell’autore.

7
Philippe Ariès, in Storia della morte in Occidente, cita il racconto di Tolstòj come documento di storia della mentalità, come attestazione di un passaggio decisivo nella percezione di malattia e morte nella società occidentale moderna. A proposito della condizione del malato, illumina: “A poco a poco egli [Ivàn Il’íč] viene spogliato della sua responsabilità, della sua capacità a riflettere, a osservare, a decidere, è condannato alla puerilità.”

8
Capire il mistero de La morte di Ivàn Il’íč. Avvertire come ogni singola frase del racconto, ogni snodo, ogni dialogo, ogni personaggio compongano un emblema complessivo della condizione umana, ma senza intenzioni edificanti. Avere anzi l’impressione che, a coglierne tutte le implicazioni (ma dopo quante letture?), la coscienza di un lettore autentico non possa non comprendere qualcosa di necessario e terribile e trarne le inevitabili conseguenze. Ma comprendere cosa? Probabilmente che la morte eccede ogni elaborazione concettuale e ogni espressione linguistica. Probabilmente che anche un racconto perfetto, come quello che abbiamo sotto gli occhi, può arrivare sino a una soglia, farsi massa critica della soglia stessa ma non può riuscire a superarla. Ivàn Il’íč è vivo, fino al punto conclusivo del racconto. Poi comincia l’oltre della pagina bianca. Può la letteratura, può l’arte sottrarsi ai suoi stessi principi costitutivi? Per natura la rappresentazione non può accedere all’Irrappresentabile: deve accontentarsi di emblemi, metafore, finzioni. È come se il racconto avesse due lati, uno aperto verso la vita (e il morire che le è connesso) e uno verso la morte. Il primo brulica di parole, speranze, intenzioni, dolore, inconcludenza, successi, rimpianti. Il secondo è privo di immagini, di parole, di pensieri, eppure la sua semplice evocazione basta a mettere in scacco le pretese di autenticità del primo. Eppure, direbbe Vladimir Jankélévitch, “è la morte a dar senso alla vita, proprio sottraendole tale senso. Essa è il non-senso che dà un senso negando questo senso”.

9
Le prugne francesi, “crude e grinzose” dell’infanzia di Ivàn Il’íč. Verrebbe da associare quel ricordo al professor Isak Borg, al posto delle fragole e all’ultima sequenza dell’omonimo film di Ingmar Bergman. L’infanzia come radice di tutte le possibilità. E aggiungo: non di ciò che è dolce ma di ciò che è acerbo sono fatte le promesse dell’infanzia. La fresca asprezza di un frutto come nucleo originario di tutte le promesse destinate a fallire.

10
I quattro movimenti musicali di questo racconto. L’esordio con la notizia della morte e le esequie. Il riepilogo della tranquilla e convenzionale vita del nostro eroe. L’insorgere dei sintomi della malattia e la progressiva consapevolezza della fondamentale finzione dell’esistenza. E infine: i tre giorni (con evidente corrispondenza cristologica) dell’agonia.
Il suono di questa agonia è un ululato ininterrotto. Questo suono sgretola le strutture del linguaggio e dei suoi significati, è il correlativo fisico (ma di segno opposto) della voce interiore che ha interrogato Ivàn Il’íč nelle ultime settimane della sua malattia, smontandone convinzioni e illusioni. Dentro all’urlo dell’uomo parole e intenzioni si deformano (“Voleva ancora dire «perdonami» [in russo: prostì], ma disse «lascia andare» [in russo: propustì]”), subiscono una torsione dentro la quale non è escluso che sia nascosta la vera natura del linguaggio. Questo urlo è quanto di più lucido e vitale e sconveniente il malato possa compiere. È sconveniente perché non lascia in pace gli altri abitanti della casa, ne turba il decoro; è necessario perché guida il morente a una nuova e decisiva consapevolezza. Doppio è il viatico a questa consapevolezza: prima, la visione del figlio, disperato e inerme di fronte al dolore del padre, di quel figlio così simile a lui da adolescente. E poi, quell’ È finita, pronunciato da qualcuno sopra di lui, che dà luogo all’ultimo malinteso: quell’ È finita la morte, la morte non esiste, che Ivàn Il’íč pronuncia dentro di sé. Malinteso benefico, ma pur sempre malinteso, a conferma dell’inadeguatezza di quel linguaggio che è pure l’unico modo che l’individuo ha per testimoniare la sua presenza e la sua giustificazione al mondo.

11
Si possono portare alcune visioni verso estreme conseguenze. “È come una vita tra le quinte” scrive Franz Kafka in un frammento. E poi evoca la possibilità di un’evasione, attraverso fondali e attrezzi di scena, fino al vicolo adiacente al teatro “stretto, umido, buio”: il Vicolo del Teatro, appunto. Esso è reale e ha “tutte le profondità del vero”. Eppure, si può notare, esso è talmente vicino al Teatro da portarne ancora il nome. E chi ci può assicurare, aggiungo, che dal teatro non si sia evasi verso una finzione ancora più reale? O che dal vicolo non si possa evadere verso un’altra realtà ancora più profonda e da questa verso un’altra ancora?

12
Vi dovrebbe essere un quinto movimento, da qualche parte, oltre il punto finale del racconto. Ma già l’espressione “da qualche parte” risulta incongrua rispetto alla morte intesa come alterità assoluta e irrappresentabile. Bisognerebbe immaginarlo come il silenzio, mai udito da alcuno, che sovrasta una terra di nessuno dopo la furia del combattimento. Ma anche questa è solo una metafora.

Testo di riferimento utilizzato: Lev Tolstòj, La morte Ivàn Il’íč e altri racconti, a cura di Igor Sibaldi, Mondadori, Milano, 1999.
Altri autori citati
Witold Gombrowicz, Ferdydurke, a cura di F. M. Cataluccio, trad. I. Salvatori e M. Mari, Il Saggiatore, Milano 2020
Philippe Ariès, Storia della morte in Occidente, trad. Simona Vigezzi, Rizzoli, Milano 1978
Vladimir Jankélévitch, Pensare la morte?, a cura di Enrica Lisciani-Petrini, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1995
Franz Kafka, Frammenti e scritti vari, trad. Italo A. Chiusano e Ervino Pocar, Mondadori, Milano 1989

Lukács e Dostoevskij: Concordia discors?

[Introduzione e traduzione di Lelio La Porta] Lukács, nel corso del suo esilio viennese, scrisse venti articoli per il quotidiano del Partito comunista tedesco (Kommunistische Partei Deutschlands – KPD), Die Rote Fahne. L’articolo che viene qui proposto costituisce un contributo all’approfondimento della conoscenza del rapporto fra il giovane Lukács e Dostoevskij.

Iniziativa degli Accademici “NO ALLA POLIZIA NEI CAMPUS” nelle Università greche

Le università Greche sotto il mirino – la Democrazia in pericolo. La nuova proposta di legge sull’Istruzione Superiore minaccia la Libertà Accademica e introduce lo Stato di Polizia nei campus universitari.

Americana II. 6 gennaio 2021: insurrezione, colpo di Stato o cosa?

di Giorgio Cesarale

È appena terminato l’Inauguration Day della Presidenza Biden e un empito di emozione ha invaso il petto della stampa borghese, dalle Alpi alle Piramidi dal Manzanarre all’Hudson. Quel che si spera è che sia la volta buona per risistemare il volto, invero sfigurato, della vecchia signora “democrazia americana”. Bei tempi quando uno dei più commoventi combattenti per il “mondo libero”, Angelo Panebianco, poteva scrivere che “dalla fine della Seconda guerra mondiale” l’America “ha contribuito a difendere e a sostenere” la “società liberale occidentale”, di contro a tutti quei cattivoni dei totalitari, che magari oggi sono putiniani e filo-cinesi, ma ieri erano comunisti, e che, in quanto “nemici del libero mercato e della democrazia (occidentale)”, da “sempre, odiano l’America perché, con le idee e con le armi, ha sostenuto, e difeso (contro i vari tipi di totalitarismo che si sono succeduti nel corso del tempo), questi due pilastri della società liberale” (Le ipocrisie di chi odia l’America, “Corriere della sera”, 20 maggio 2017). Per le armi, ci sarà di nuovo tempo, specie se il nuovo presidente Biden non abbandonerà i propositi della vecchia amministrazione Trump, intensificando la guerra, commerciale e non, contro la Repubblica Popolare Cinese; per le idee, invece, spiace constatarne la scarsità o, quando ve ne sono, la confusione. Al loro posto subentra, dicevamo, il pathos, per alimentare il quale ieri si sprecavano i titoli su come l’America avrebbe “voltato pagina” fra un vocalizzo di Lady Gaga e una lacrima di Jill Biden.
Mettiamo da parte, tuttavia, i nobili sentimenti e proviamo ad aggiornare l’analisi di fase che avevamo fornito, anche su queste colonne, intorno alla situazione politica americana uscita dalle elezioni presidenziali del 3 novembre. In quella sede, dopo aver sostenuto che “Trump esce senz’altro sconfitto dalla contesa con Biden, ma ha rafforzato la sua presa sul blocco sociale conservatore, malgrado i mal di pancia delle aree più moderate del GOP, destinati probabilmente ad acuirsi”, concludevamo, con classica, ma non per questo meno incongrua, categoria gramsciana, che “una destra sempre più radicale mantiene le sue posizioni, raggiungendo una sorta di “equilibrio statico”, per citare il Gramsci dei Quaderni, con il centro liberale, ancora in possesso di molte casematte. Di fronte a situazioni analoghe, Gramsci tuttavia avvertiva: questi equilibri non durano a lungo, vengono per lo più risolti dall’intervento di un tertium. E questo tertium, a sinistra, ancora non si vede”. Il prosieguo degli avvenimenti ha pienamente confermato, mentre altrove si stappavano bottiglie di champagne, la nostra prognosi. Che ora va persino peggiorata: la nostra tesi, infatti, è che il tragicomico carnevale del 6 gennaio scorso a Capitol Hill abbia rafforzato di molto le prospettive politiche della destra radicale, a trazione trumpiana. Perché?
La risposta sta nella stessa sequenza di avvenimenti che porta dal 3 novembre 2020 al 6 gennaio 2021. Sappiamo come l’ormai ex Presidente Trump ha occupato questo tempo: tentando energicamente di sabotare la proclamazione di Biden come nuovo presidente degli Stati Uniti. Da un lato, facendo pressione su alcuni gangli della macchina dello Stato, come dimostra l’implorante richiesta al Segretario di Stato della Georgia, Brad Raffensperger, di “trovargli” quei voti, 11780 per la precisione, che gli avrebbero consentito di superare Biden in Georgia; dall’altro, decidendo di non smobilitare il suo popolo, ormai dotato di una colorita, anche se embrionale, struttura organizzata. Sì, organizzata: quando si parla di QAnon o dei Proud Boys magari l’affezionato lettore di “Repubblica” pensa a qualche mattacchione che crede di aver avvistato un Ufo, non certo a milizie armate, che creano consenso (sui social, ma anche per le strade) o usano quello esistente, per tenere sotto ricatto i maggiorenti del Partito Repubblicano. È evidente che i materiali ideologici di cui si nutre questa gente è pura ed esecrabile paccottiglia (paranoico-razzista e antiscientifica, in una parola: anti-illuministica), ma Trump, con l’intuito da rabdomante tipico dei demagoghi reazionari, lavora su un terreno già abbondantemente preparato per il suo messaggio. Facciamo un esempio: Trump protesta in modo vibrato contro i risultati delle presidenziali, giudicandoli fraudolenti. Il riconteggio dei voti, in due Stati (Wisconsin e la stessa Georgia), lo ha smentito: ma vi è ancora qualcuno, almeno fra quelli che vogliono fare scienza e non battaglia per il “mondo libero”, che sia disposto a negare che il sistema elettorale americano – pensato per una società agraria, pre-industriale, e dunque premiante spudoratamente i “borghi putridi” di ottocentesca memoria – produca risultati in costante tensione con il solenne principio della democrazia moderna “una testa, un voto”? È ancora una volta evidente che un conto è dichiarare falsamente che vi sono stati brogli; un altro è rilevare la non piena democraticità di una procedura elettorale. Ma la peculiarità della demagogia reazionaria è proprio quella di rompere le connessioni causali empiricamente e logicamente sostenibili: a effetti certi la demagogia reazionaria sovrappone cause fantasticate, che poi assumono un volto concreto sulla base di ciò che la teoria critica novecentesca ha chiamato, su scorta marxiana, reificazione (se c’è la crisi generale di capitale diamone la colpa all’ebreo, ieri, o al latino che preme alle frontiere, oggi).
Bene, il 6 gennaio 2021 queste due azioni, una centrata sullo “Stato” e l’altra sulla “società civile”, si sono accavallate: lo scopo era quello di interrompere la certificazione del risultato elettorale del 3 novembre 2020, giocando tanto sul “Palazzo” – come testimonia il coinvolgimento di alcuni membri repubblicani del Congresso nell’operazione – quanto sulla “piazza”, con le migliaia di estremisti di destra convocati alla manifestazione di protesta, coronata dal comizio “incendiario” dello stesso Trump. Il risultato è noto, con la violenta irruzione dei facinorosi nelle sale del Congresso. Insurrezione? Colpo di Stato? O cosa? Forse né l’uno né propriamente l’altro. Non un colpo di Stato, che presuppone un appoggio da parte dei settori più significativi della borghesia, che qui è vistosamente mancato. La borghesia americana è profondamente divisa al proprio interno, per ragioni che qui non abbiamo lo spazio per spiegare, ma è ancora complessivamente contraria alla diretta torsione autoritaria. Né si può parlare propriamente di insurrezione, che presuppone un certo coordinamento di forze su scala nazionale, che appare piuttosto in formazione, ma non è ancora conseguito. Al tentativo insurrezionale ci siamo però arrivati molto vicino: anzi, donde la nostra particolare preoccupazione, la relativa facilità con cui il coltello è stato affondato nel burro avrà un effetto straordinariamente galvanizzante sulle milizie della destra para-fascista. Badiousianamente, potremmo dire che con il 6 gennaio 2021 quest’ultima ha ottenuto il suo “evento”, un grosso moltiplicatore a lungo termine di energie soggettive.
Il cattivo presagio è corroborato dal modo, incerto, con cui il centro liberale sta affrontando la minaccia, essendo esso divaricato al proprio interno fra chi vuole usare la “mano dura” contro le milizie di estrema destra e chi vuole semplicemente spuntarne le armi. Ma anche la sinistra democratica-socialista è politicamente debole, come avevamo precedentemente diagnosticato: la sua rappresentanza parlamentare si è bensì irrobustita, ma non appare capace né di imporre una propria agenda (come ha dimostrato il sostanziale appeasement con Nancy Pelosi, personalità particolarmente invisa all’elettorato americano, di cui ha garantito la rielezione a Speaker della Camera dei Rappresentanti) né di suscitare un processo di organizzazione delle forze adeguato alla situazione presente. La minaccia para-fascista non si affronta infatti invocando gli impeachment, come fa Ocasio-Cortez, o meglio non solo con essi: servirebbe, a tal proposito, la costruzione di organismi di “doppio potere”, in cui possano anzitutto affluire, su base territoriale e senza discriminazioni di sesso, razza e nazionalità (altro che identity politics), tutte le componenti fondamentali della classe lavoratrice americana. Questi organismi non avrebbero solo una funzione difensiva, di argine all’espansione del trumpismo presso le classi popolari – comunque già contrastata, perché il bastione sociale del trumpismo non è il proletariato, culturalmente meticcio e altamente produttivo, ma la piccola borghesia e il piccolo capitale soffocati dalle recenti trasformazioni del capitalismo americano; essi potrebbero anche favorire il compimento di un processo che, sebbene ostacolato in tutti i modi possibili, da tempo spinge verso la formazione di un “partito di operai”, ma allo stesso tempo aperto “agli uomini illuminati di altre classi” (Engels), che è l’unica garanzia, a nostro avviso, per realizzare le promesse, quelle sì splendidamente democratiche, contenute, per un verso, nella “Rivoluzione anticoloniale” del 1776-1787 e, per altro verso, nella “Second American Revolution” (Charles A. Beard) del 1861-1865, con il suo ricco portato di idee e prassi emancipative.[ref]“Partito di operai” non significa, perciò, ridimensionamento dell’alta composizione sociale e culturale delle classi subalterne americane, attraversate, negli ultimi decenni, da imperiosi conati di lotta antirazzista, femminista, antiautoritaria, antimperialista. Significa, piuttosto, indicazione di una necessaria direzione, senza la quale la rivendicazione antirazzista o femminista non arriva a esprimere la potenza dell’universale reale, ma ripiega sul tessuto eterogeneo della “sfera della circolazione”, della perenne scomposizione e moltiplicazione delle particolarità, come tali destinate a rifluire nel discorso medio del liberalismo di sinistra. La discussione critica sul concetto di “identità”, che anima ampi settori della sinistra americana (si veda da ultimo Mistaken Identity di Asan Haider), coglie pienamente il problema, anche se è ancora incerta nell’individuazione della soluzione politica.[/ref]
La “regressione oligarchica” che deprime la repubblica statunitense può essere spezzata solo se si riapre l’orizzonte politico, introducendovi un terzo partito che sia espressione diretta degli interessi delle masse popolari, giacché, come diceva Gore Vidal, “there is only one party in the United States, the Property Party … and it has two right wings: Republican and Democrat”.[ref]Sarebbe paradossale, ma non è improbabile, che la sinistra lasci a Trump il compito di fare il terzo partito, rompendo il duopolio Repubblicani/Democratici.[/ref]

La morte di Ivan Il’ič

Nel 1859, Tolstoi comunicò in una lettera la sua idea di un racconto, che scrisse e nell’anno stesso pubblicò: I tre morti. L’idea era questa: muoiono tre esseri viventi: una signora, un contadino e un albero. La morte della signora è “misera e ripugnante perché ha mentito tutta la vita”. Il contadino muore tranquillamente “proprio perché non è cristiano”: anche se per abitudine compie riti cristiani, la sua religione è la natura con cui vive: quella legge della vita, della nascita e della morte che la signora non conosce. L’albero infine muore in modo tranquillo e magnifico, “perché non mente, non finge, non teme, non si duole”. Questa semplice idea, potrebbe già farci entrare nel mondo della vita poetica e anche morale e religiosa, e persino politica di T. In tema di religione, ad esempio, riguardo al drammatico contrasto tolstoiano, che gli segnerà la vita e l’arte, tra natura “pagana” e cristianesimo radicale; o anche in merito alla scissione tra felice e spontanea creatività artistica, da “divinità” figlia della natura, e rattrappimento creativo di crisi morale e moralistica. Th. Mann ha scritto su questo cose bellissime, in un saggio dei primi anni ’20, Goethe e Tolstoj; e sempre intorno a questo tema molte cose s’imparano nell’imponente libro, documentato e a volte fine, sebbene discutibile perché troppo sbilanciato, rispetto a Tolstoj, dal lato di Dostojevskij, di D’mitri Merezkovskij.
Ma, nel caso di I.I. la religione non entra quasi per nulla, né vi entra il pauperismo e l’ansia di riforme economiche e sociali. O forse, a dir meglio, tutti questi temi possono essere recuperati nel tema originario della verità e della menzogna. Tutto ciò che corrompe la vita, la coerenza di sé, la freschezza autentica della pacifica e fraterna armonia sociale, è menzogna. E, com’è evidente, la massima menzogna è quella verso se stessi, circa la propria vita, quale si rivela in prossimità della morte. La signora che muore misera e ripugnante ha sempre mentito. Anche I.I. ha sempre mentito a se stesso, e questo, ancor più che i tremendi dolori fisici di cui soffre, è la devastante causa del suo angosciato terrore della morte, come un atto di verità che intervenga in un mondo di falsità. Ma come si mente? Tostoj non fa differenze tra le grandi menzogne politiche militari sociali proprietarie (le grandi ricchezze terriere di cui voleva e seppe disfarsi), e le piccole menzogne borghesi, sempre a tutti abituali. Un eccesso moralistico, forse, se non fosse che la grande arte narrativa di T. sa calarsi, senza preconcetti ideologici, con estrema aderenza alle figure e soprattutto ai corpi dei protagonisti, nell’ambiente sociale della loro vita pubblica e privata, da rendere leggera la menzogna, persino impalpabile, quasi risolta nelle convenienze professionali e sociali, nell’essere, secondo quanto la (scelta) cerchia di persone che si frequenta si aspetta da noi – comme il faut.
Anche per questo, il dubbio capitale di I. I. – “che forse io non sia vissuto come si dovrebbe – incontra in lui tanta ostinata resistenza: “Ma come si può dire mai una cosa simile, se io ho agito sempre in perfetta regola”. E immediatamente respinse, commenta Tolstoj, “quell’unica risoluzione di tutto l’enimma della vita e della morte, come una completa assurdità”. Ma allora, di nuovo, perché, “a che scopo, tutto questo orrore?» E poiché la risposta tornava a essere sempre la stessa: l’idea di non aver vissuto come si doveva, immediatamente la scacciava, richiamandosi innanzi l’irreprensibile correttezza della sua vita (420-21). Eppure, segni premonitori non erano mancati. Fin dall’insorgere della malattia, alla prima visita medica, I.I. nota una stretta parentela tra il suo comportamento di giudice in tribunale e quello dei medici: “sussiego affettato e dottorale”, domande e risposte scontate e inutili, ipotesi e probabilità ed esami, condiscendenza di chi dica: tranquillo, sappiamo noi proprio tutto, senza mai dare una risposta all’”oziosa domanda” sulla gravità della malattia. Proprio come accadeva a lui in tribunale, quando si “metteva una certa maschera di fronte agl’imputati” (394). In tribunale, I.I. aveva molte e riconosciute qualità, ma specialmente l’abilità di tener separati nel modo più rigoroso, l’ufficio e la vita degli interessati, escludendo del tutto “quel non so che di grezzo, di aderente alla vita che sempre impedisce il retto corso degli affari d’ufficio”, tutto ciò che non potesse venir espresso legalmente, su un “foglio con tanto d’intestazione”, riempito con formule di precisa burocrazia. (390-91).
Intorno a sé, Ivan respira finzioni; il suo “più gran tormento è ora la menzogna” sulle sue condizioni. Lo invitavano, i medici e i familiari, a star calmo e a curarsi, così sarebbe guarito, senza dirgli mai che sarebbe presto morto tra dolori strazianti. E il peggio era che, in questo cumulo di menzogne, facevano tanto da costringere lui stesso a prendervi parte, abbassando il solenne atto della morte a farmaci e diete. Né aveva forza di dire: smettetela con queste bugie. Una trama di finzione e di convenzione è con leggerezza sospesa sul racconto, che su questo, e fin dall’inizio, è mirabilmente strutturato. La notizia della sua morte, che colleghi e amici (uno, in particolare) avrebbero appreso dal giornale. Era, vi si sarebbe detto, amato da tutti; ma i primi e insopprimibili pensieri sarebbero stati sul posto che si “libera”, sui possibili avanzamenti di carriera e sulle retribuzioni che ne derivano: 800 rubli d’aumento, più l’indennità di cancelleria. E poi, la noia della visita, delle condoglianze e del funerale, i “noiosissimi doveri di convenienza”. La casa lontana, come vestirsi, come comportarsi, il penoso e insieme divertente colloquio di Pjotr con sua moglie, la vedova, informatissima di tutto, eppure ancor avida di spillar più soldi di pensione allo stato. E sempre con un “certo senso di gioia”: “è toccata a lui, e non a me”; e i segni, le parole sussurrate per accordarsi sulla partita serale a carte.
Dopo questo prologo, la fine in forma d’inizio, il racconto di Tolstoj narra la vita di I.I. Sono sette o otto pagine, ma di straordinaria intensità, ricche di penetranti osservazioni psicologiche e di felici aperture sul mondo privato: la famiglia e l’ambiente, gli studi e la carriera, la casualità del matrimonio, la precoce infelicità coniugale (un campo dove Tolstoj è maestro), i particolari sull’arredamento della casa, che è causa del primo malore di I.I. La narrazione è costantemente sottesa, come un basso continuo, da alcuni aggettivi sul modo di I.I. di concepire la vita: leggera, lieta, piacevole, corretta, approvata (dai superiori e dalla buona società); distinta, elegante – e insomma comme il faut. E quando si arriva al buio straziante e indicibile, alla solitudine astiosa, assillata da domande senza risposta della malattia terminale, altri aggettivi sottendono il discorso. Merezkovskij nota, a proposito dell’eccezionale capacità di Tolstoj di calarsi nella realtà del corpo, gli aggettivi, nessuno superfluo, per descrivere la sofferenza e il dolore di I.I. : noto, vecchio, sordo, rodente, ostinato, silenzioso, grave.
Ma, nella più atroce, interminabile solitudine, ecco che si apre la luce di Gheràsim, il giovane pulito fresco allegro leggero abile (altri aggettivi) che assiste I.I. G. si occupa, con partecipe discrezione, dei più naturali bisogni di I.I. e gli tiene per ore le gambe alzate, per un’impressione di sollievo. Ma soprattutto G. è la sola persona che non ferisca d’invidia: è puro calore umano, capacità di comprendere le stagioni della vita, la legge umana della natura; esprime ciò che è più caro a T.: i contadini russi, semplici, vigorosi, attivi, saggi. Una lezione per la buona morte, questa necessità di essere accuditi, anche da estranei (e forse solo da essi), con discrezione e accettazione aperta della morte, di essere anche vezzeggiati e accarezzati (cosa di cui I.I. sente gran bisogno). Un servizio che si rende volentieri, nella speranza che altri faranno la stessa cosa per noi, quando sarà il momento. Credo, che G. costituisca la vera svolta nel riscatto dalla menzogna e nella serena accettazione della morte di I.I.. Dopo lo strazio urlato per i tre giorni dell’agonia, c’è la risoluzione finale, avvenuta in pochi attimi. Al posto della sofferenza e del terrore, arriva la luce e la pace. La sua vita, sì, era stata fuori strada, ma ora, se non si poteva più parlare, si poteva ancora agire, preoccupandosi che gli altri non soffrissero, e “godendo”, con “esultanza” della liberazione. Dove è finito il dolore, dov’è la morte, quale morte? “Che esultanza!”. Essa, la morte non c’è più.
La morte prende senso dalle vita (fino ai suoi ultimi istanti) ed è essa stessa vita: la (buona) idea della morte è un “passaggio obbligato al sapere, alla salute e alla vita”. Lo dice Th. Mann, nella conferenza sulla Montagna incantata che nel 1939 tenne agli studenti dell’università di Princeton; e sarebbe istruttivo un confronto tra questo grande libro (i medici, la malattia, la morte) e il racconto di Tolstoi, un autore che Mann tanto amava e ammirava. “Possiamo togliere la morte o il dolore o il male dal tessuto della vita?” – si chiedeva l’ultimo Croce della riflessione sulla vitalità. Si toglierebbe la “vita stessa”. E, ancora in queste pagine crociane, leggiamo che “senza dubbio, il benessere, nel chiuso e ingenuo suo egoismo, è il male in tutte le sue conseguenze, anche le più terrificanti”. Questa è l’esatta diagnosi del male o della menzogna che opprime I.I., e di cui alla fine riesce a liberarsi.
Parlare della morte è facile e insieme tremendamente difficile. Alla fine, non si sa proprio cosa dire. Paul Ricoeur ha scritto un bellissimo libretto, all’origine una voce d’enciclopedia, intitolato Il male, tradotto anche in italiano dalla Morcelliana agli inizi degli anni ’90. Sul male e sulla morte, vi si sostiene, appunto, non c’è presso che nulla da dire. Magistralmente, Ricoeur ripercorre le soluzioni tentate dalla filosofia e dalla teologia, e vi riconosce molti insegnamenti, ma nulla sul punto decisivo, quello che giustamente I.I. voleva conoscere. I.I. insegna che molto si può fare e dire finché c’è vita, prima del silenzio. Il problema è allora quello che si può fare per vivere pienamente finché si può e, certo, pensare anche alla morte, ma fuor di ogni ossessione, come in Heiddeger. E sperare in una buona morte, senza troppi dolori, e, soprattutto, senza menzogne e sensi di colpa. Sperare insomma di morire un po’ come accade, negli ultimi istanti, a I.I.

LUKÁCS SU HÖLDERLIN E IL TERMIDORO

di Michael Löwy (traduzione di Antonino Infranca)

Gli scritti di Georg Lukács negli anni Trenta, malgrado i loro limiti, le loro contraddizioni e i loro compromessi (con lo stalinismo) sono di grande interesse. È il caso soprattutto del suo saggio su Hölderlin del 1935, intitolato L’“Hyperion” de Hölderlin, tradotto in francese da Lucien Goldmann e incluso nel volume Goethe et son époque (1949).
Lukács è letteralmente affascinato dal poeta, che descrive come «uno dei poeti elegiaci più puri e profondi di tutti i tempi», in cui l’opera «ha un carattere profondamente rivoluzionario»[ref]G. Lukács, L’Hyperion de Hörderlin, p. 197 [“L’Iperione di Hölderlin” in Id., Goethe e il suo tempo, tr. it. A. Casalegno, in Id. Scritti sul realismo, Torino, Einaudi, 1978, p. 315[/ref] . Ma contrariamente all’opinione generale degli storici della letteratura, egli rifiuta ostinatamente di riconoscerlo come un autore romantico. Perché?
Dopo l’inizio degli anni Trenta, Lukács aveva compreso, con grande lucidità, che il romanticismo non era una semplice scuola letteraria ma una protesta culturale contro la civiltà capitalista, in nome dei valori – religiosi, etici, culturali – del passato. Era, allo stesso tempo, convinto che, per i riferimenti al passato, si trattasse di un fenomeno essenzialmente reazionario.
Il termine “anticapitalismo romantico” appare per la prima volta in un articolo di Lukács su Dostoevskij, dove lo scrittore russo è condannato come “reazionario”. Secondo questo articolo, pubblicato a Mosca, l’influenza di Dostoevskij risulta dalla sua capacità di trasformare i problemi dell’opposizione romantica al capitalismo in problemi “spirituali”; a partire da questa «opposizione intellettuale piccolo-borghese anticapitalista romantica (…) si apre una larga strada verso la destra, verso la reazione, oggi verso il fascismo e, al contrario, un sentiero stretto e difficile verso la sinistra, verso la rivoluzione»[ref]G.Lukacs, «Über den Dotsojevski Nachlass », Moskauer Rundschau, 22/3/1931[/ref] . Questo “sentiero stretto” sembra sparire, fino a quando scrive, tre anni più tardi, un saggio su “Nietzsche precursore dell’estetica fasciste”. Lukács presenta Nietzsche come un continuatore della tradizione dei critici romantici del capitalismo: come loro «egli contrappone continuamente alla mancanza di civiltà del suo tempo l’alta civiltà di periodi precapitalistici o protocapitalistici». A suo avviso, questa critica è reazionaria, e può facilmente condurre al fascismo[ref]G. Lukács, «Nietzsche als Vorläufer des faschistischen Aesthetik », pp. 41 e 53 (1934) [«Nietzsche precursore dell’estetica fascista » in Id. Contributi alla storia dell’estetica, tr. it. E. Picco, Milano, Feltrinelli, 1975, pp. 336 e 360[/ref] .
Si trova qui un sorprendente accecamento: Lukács non sembra percepire l’eterogeneità politica del romanticismo e, in particolare, l’esistenza, a fianco del romanticismo reazionario, che sogna un impossibile ritorno al passato, di un romanticismo rivoluzionario che aspira a una svolta dal passato, in direzione di un avvenire utopico. Questo rifiuto è ancor più sorprendente, perché l’opera dello stesso giovane Lukács, per esempio il suo saggio La teoria del romanzo (1916), appartiene a questo universo culturale romantico/utopico .
Questa corrente rivoluzionaria è presente nelle origini del movimento romantico. Prendiamo come esempio Le origini dell’ineguaglianza tra gli uomini di Jean-Jacques Rousseau (1755), che si può considerare come una sorta di primo manifesto del romanticismo politico: la sua feroce critica della società borghese, dell’ineguaglianza e della proprietà privata, si fa in nome di un passato più o meno immaginario, lo Stato di Natura (direttamente ispirato ai costumi liberi ed egualitari degli indigeni “Caraibi”). O contrariamente a ciò che pretendono i suoi avversari (Voltaire!), Rousseau non propone che gli uomini moderni ritornino alla foresta, ma sogna una nuova forma di eguale libertà dei “selvaggi”: la democrazia. Si trova il romanticismo utopico, sotto diverse forme, non soltanto in Francia ma anche in Inghilterra (Blake, Shelley) e anche in Germania: il giovane Schlegel non era un ardente partigiano della Rivoluzione francese? È il caso anche, ben inteso, di Hölderlin, poeta rivoluzionario, ma che, come molti dei romantici dopo Rousseau, è posseduto dalla “nostalgia dei giorni di un mondo originario” (ein Sehnen nach den Tagen der Urwelt) .
Lukács è obbligato a riconoscere, controvoglia, che si trovano «tratti romantico-anticapitalistici di Hölderlin, che quando egli scriveva non erano affatto reazionari» . Per esempio, l’autore dell’Iperione odia, anche lui, come i romantici, la divisione capitalistica del lavoro e la ristretta libertà politica borghese. «Eppure nel fondo del suo essere, Hölderlin non è romantico, benché molti tratti della sua critica del capitalismo incipiente lo siano»[ref]G. Lukács, L’Hyperion de Hörderlin, p. 313[/ref] . Si sente in queste righe che affermano una cosa e il suo contrario, l’imbarazzo di Lukács e la sua difficoltà a designare chiaramente la natura romantica rivoluzionaria del poeta. Questo perché in una prima epoca il romanticismo non aveva «tratti [… che] non erano affatto reazionari»? ciò vorrebbe dire che tutta la Frühromantik, il periodo iniziale del romanticismo, alla fine del XVIII secolo, non era reazionario? In questo caso, come si può proclamare che il romanticismo è, per sua natura, una corrente retrograda?
Nel suo tentativo, contro ogni evidenza, di dissociare Hölderlin dai romantici, Lukács menziona il fatto che il passato al quale essi si riferivano non è lo stesso: «La differenza tra la tematica di Hölderlin e quella dei romantici – Grecia contro medioevo – è dunque anche una differenza politico-ideologica» (p. 313). O, se molti romantici si riferiscono al medioevo, non è il caso di tutti: p. es. Rousseau, come si è visto, si ispira al modo di vita dei “Caraibi”, uomini liberi ed eguali. Si trovano, d’altronde, dei romantici reazionari che sognano l’Olimpo della Grecia classica. Se si tiene conto del cosiddetto “neo-romanticismo” della fine del XIX secolo – la continuazione del romanticismo sotto una nuova forma – si trovano autentici romantici rivoluzionari – il marxista libertario William Morris e l’anarchico Gustav Landauer – affascinati dal Medioevo.
Infatti, ciò che distingue il romanticismo rivoluzionario dal reazionario non è il tipo di passato al quale si riferisce, ma la dimensione utopica dell’avvenire. Lukács sembra non rendersene conto, in un altro passo del suo saggio, quando evoca la presenza, in Hölderlin, di un «sogno di una risorta età dell’oro» e dell’«utopia di una liberazione reale dell’umanità» . Egli percepisce anche, con perspicacia, la parentela tra Hölderlin e Rousseau: nei due trova «il sogno di una trasformazione della società», con la quale, quella sarà «ridiventata natura»[ref]Ivi, p.304-305[/ref] . Lukács è dunque preso dal rendere conto dell’ethos romantico rivoluzionario di Hölderlin, ma il suo pregiudizio ostinato contro il romanticismo, catalogato come “reazionario” per definizione, gli impedisce di raggiungere questa conclusione. È, secondo noi, uno dei principali limiti di questo saggio, altrimenti brillante …
L’altro limite riguarda piuttosto il giudizio storico-politico di Lukács sul giacobinismo ostinato – post-termidoriano – di Hölderlin, paragonato al “realismo” di Hegel: «Hegel si adatta ad essa [la situazione post-termidoriana], si adatta alla fine del periodo rivoluzionario borghese e costruisce la sua filosofia proprio sul riconoscimento di questa svolta nuova nella storia mondiale; Hölderlin rifiuta ogni compromesso con la realtà post-termidoriana, resta fedele all’antico ideale rivoluzionario di rinnovamento della democrazia ellenica e viene schiacciato da una realtà in cui per quell’ideale non c’era più posto, nemmeno sul piano filosofico e poetico». Mentre Hegel interpreta «la rivoluzione borghese come un processo unitario, del quale sia il Terrore che il Termidoro e Napoleone erano le fasi necessarie», «l’intransigenza di Hölderlin resta invece un tragico vicolo cieco: solitario Leonida degli ideali giacobini, egli cade sconosciuto e incompianto alle Termopili del termidorismo avanzanto»[ref]Ivi, p. 302-303[/ref] .
Riconosciamo che questo affresco storico, letterario e filosofico non manca di grandezza! Esso, però, non è meno problematico … E, soprattutto, contiene, implicitamente, un riferimento alla realtà del processo rivoluzionario sovietico, così come esisteva nel momento in cui Lukács redigeva il suo saggio.
È, in ogni caso, l’ipotesi, un po’ rischiosa, che ho tentato di difendere in un articolo apparso in inglese sotto il titolo “Lukács and Stalinism”, e incluso in un libro collettivo Western Marxism, a Critical Reader, London, New Left Books, 1977. L’ho incluso anche nel mio libro su Lukács pubblicato in francese nel 1976 e apparso, nel 1978, in Italia con il titolo Per una sociologia degli intellettuali rivoluzionari. Ecco un passo che riassume la mia ipotesi riguardo all’affresco storico schizzato da Lukács nell’articolo su Hölderlin: «Il significato di queste osservazioni in rapporto all’Urss del 1935, è chiaro; basterà ricordare che Trotsky aveva pubblicato, proprio nel febbraio 1935, un saggio in cui utilizzava per la prima volta il termine “Termidoro”, per caratterizzare l’evoluzione dell’Urss dopo il 1924 (Lo Stato operaio e la questione del Termidoro e del bonapartismo). Non vi sono dubbi che i brani citati, siano la risposta di Lukács a Trotsky, questo Leonida intransigente, tragico e solitario, che rifiuta il Termidoro ed è condannato all’impotenza … Lukács, invece, allo stesso modo di Hegel, accetta la fine del periodo rivoluzionario e costruisce la propria filosofia sulla comprensione della nuova svolta della storia universale. Notiamo, inoltre, che Lukács sembrerebbe accettare, implicitamente, la caratterizzazione trotskista del regime di Stalin, come termidoriano …»[ref]M. Löwy, Per una sociologia degli intellettuali rivoluzionari. L’evoluzione politica di Lukács 1909-1929, tr. it. R. Massari, Milano, La Salamandra, 1978, p. 236[/ref] .
Con un certo stupore, ho letto in un recente libro di Slavoj Zizek, un passo a proposito del saggio di Lukács su Hölderlin, che riprende, quasi parola per parola, la mia ipotesi, ma senza menzionare la fonte: «È evidente che l’analisi di Lukács è profondamente allegorica: essa è stata scritta qualche mese dopo che Trotsky lancia la sua tesi, secondo la quale lo stalinismo era il Termidoro della Rivoluzione d’Ottobre. Il testo di Lukács deve essere letto come una risposta a Trotsky: egli accetta la definizione del regime stalinista come “termidoriano”, ma in lui prende una svolta positiva. Piuttosto che deplorare la perdita di energia utopica, dovremmo, in una maniera eroicamente rassegnata, accettare le sue conseguenze come l’unico spazio reale del progresso sociale»[ref]S. Zizek, La révolution aux portes, Paris, Le Temps des Cerises, 2020, p.404[/ref] .
Non credo che Zizek abbia letto il mio libro su Lukács, ma egli probabilmente è venuto a conoscenza della mia analisi nell’articolo pubblicato nella raccolta, a grande circolazione, Western Marxism. Dato che Zizek scrive molto e molto velocemente, è comprensibile che non abbia sempre il tempo di citare le sue fonti …
Slavoj Zizek fa molte critiche a Lukács, nelle quali, paradossalmente, Lukács «diviene dopo gli anni Trenta il filosofo stalinista ideale che, per questa ragione precisa e a differenza di Brecht, passa dalla parte della vera grandezza dello stalinismo…»[ref]Ivi, p. 257[/ref] . Questo commento si trova in un capitolo del suo libro curiosamente intitolato “La grande interiorità dello stalinismo” – un titolo ispirato dall’argomento di Heidegger sulla “grandezza interiore del nazismo”, in cui Zizek si distanzia, negando, a giusto titolo, ogni “grandezza interiore” del nazismo.
Perché Lukács non ha colto questa “grandezza” dello stalinismo? Zizek non lo spiega, ma lascia capire che l’identificazione dello stalinismo con il Termidoro – proposta da Trotsky e implicitamente accettata da Lukács – era un errore. Per esempio, a suo avviso, «il 1928 fu una svolta travolgente, una vera seconda rivoluzione – non un tipo di “Termidoro”, piuttosto la radicalizzazione conseguente della Rivoluzione d’Ottobre». Morale della storia: si deve «cessare il ridicolo gioco consistente nell’opporre il terrore stalinista e l’“autentica” eredità leninista» – un vecchio argomento di Trotsky ripreso «dagli ultimi trotskysti, questi veri Hölderlin del marxismo attuale»[ref]Ivi, p. 250-252[/ref] .
Slavoj Zizek sarebbe, dunque, l’ultimo stalinista? È difficile rispondere, dato che la sua pensiero-mania, con un considerevole talento, usa i paradossi e le ambiguità. Cosa pensare delle sue grandiose proclamazioni sulla “grandezza interiore” dello stalinismo e del suo “potenziale utopico-emancipatore”? Mi sembra che sarebbe più giusto parlare della “mediocrità interiore” e del “potenziale distopico” del sistema stalinista … La riflessione di Lukács sul Termidoro mi sembra più pertinente, anche se esso stesso è discutibile.
Il mio commento, nell’articolo “Lukács e lo stalinismo” (e nel mio libro) concernente l’ambizioso affresco storico di Lukács, a proposito di Hölderlin, tenta di porre in questione la tesi della continuità tra Rivoluzione e Termidoro: «Questo testo di Lukács rappresenta indubbiamente uno dei tentativi più intelligenti e più sottili di giustificare lo stalinismo come una “fase necessaria”, “prosaica” ma “dichiaratamente progressista” dell’evoluzione rivoluzionaria del proletariato, vista come un processo unitario. Questa tesi – che costituiva probabilmente il ragionamento segreto di molti intellettuali o militanti più o meno seguaci dello stalinismo – conteneva un certo “nucleo razionale”, ma gli avvenimenti degli anni seguenti (i processi di Mosca, il patto russo-tedesco, ecc.), avrebbero dimostrato, anche a Lukács, che questo processo non era così “unitario”». Aggiungo in una nota a piè di pagina che il vecchio Lukács, in un’intervista del 1969 a New Left Review, ha una visione più lucida sull’Unione Sovietica: il suo potere d’attrazione straordinaria è durato dal “1917 alle grandi purghe” .
Ritornando a Zizek: le questioni che pone nel suo libro non sono unicamente storiche: esse riguardano la stessa possibilità di un progetto comunista emancipatore a partire dalle idee di Marx (e/o di Lenin). In effetti, secondo l’argomento che egli propone in uno dei passi più bizzarri del suo libro, lo stalinismo, con tutti i suoi orrori (che non nega) è stato, in ultima analisi, un male minore, in rapporto al progetto marxiano originale! In una nota a piè di pagina, Zizek spiega che la questione dello stalinismo è spesso mal posta: «Il problema non è che la visione marxista originale sia stata sovvertita dalle sue conseguenze inattese. Il problema è la questione stessa. Se il progetto comunista di Lenin – e dello stesso Marx – fosse stato pienamente realizzato secondo il suo vero nucleo, le cose sarebbero state ben peggiori che lo stalinismo – avremmo una visione di ciò che Adorno e Horkheimer chiamarono verwaltete Welt (la società amministrata), una società totalmente trasparente a se stessa, regolamentata dal general intellect reificato, dalla quale sarebbe stato bandita ogni velleità di autonomia e di libertà»[ref]Ivi, p. 419[/ref] .
Mi sembra che Slavoj Zizek sia troppo modesto. Perché nascondere in una nota a piè di pagina una tale scoperta storico-filosofica, la cui importanza politica è evidente? In effetti, gli avversari liberali, anticomunisti e reazionari del marxismo si limitano a renderlo colpevole dei crimini dello stalinismo. Zizek è, che io sappia, il primo a pretendere che se il progetto marxista originale si fosse realizzato pienamente, il risultato sarebbe stato peggiore che lo stalinismo …
Si deve prendere sul serio questa tesi, o piuttosto è meglio metterla sul conto del gusto smoderato di Slavoj Zizek per la provocazione? Non potrei rispondere a questa questione, ma penso alla seconda ipotesi. In ogni caso, ho qualche difficoltà a considerare come seria questa affermazione alquanto assurda – uno scetticismo senza dubbio condiviso da coloro – soprattutto giovani – che continuano ad interessarsi, ancora oggi, al progetto marxista originario.