Lettera ai miei docenti

di Anna – Studentessa liceale

9/03/2020, data fondamentale da ricordare poiché l’istituzione scolastica italiana si è fermata a causa dell’emergenza sanitaria più problematica del ventunesimo secolo.
Siamo stati tutti catapultati in una situazione di indubbio disagio, in cui nessuno sapeva come comportarsi e come sfruttare al meglio i molteplici (forse troppi) strumenti telematici che ci erano prospettati. Timore e totale disorientamento segnavano intere giornate passate in isolamento. Noi studenti abbiamo unito le forze e attinto alle nostre risorse per continuare il percorso scolastico al quale abbiamo, pur sempre, diritto, rivoluzionando il concetto classico di “scuola”, mettendo in discussione tutti i valori precedentemente acquisiti.
La domanda che sto per porvi richiede, per la risposta, un profondo esame di coscienza, la più sincera presa d’atto degli effetti delle decisioni prese: vi siete mai soffermati ad analizzare lo stress emotivo, e altrettanto psicologico, a cui siamo stati sottoposti?
La didattica a distanza ci ha segnato particolarmente, ma la peggiore esperienza è stata, ed è tutt’ora, la mancanza di comprensione da parte di persone che consideravamo quasi alla stregua di “modelli di vita”.
Sin da bambina, ero incuriosita da tutto ciò che mi circondava, dalle matite colorate che mia mamma riponeva nel mio zaino ogni mattina, alle singole storie che la mia insegnate era solita raccontare. La scuola è sempre stato un luogo in cui, ai miei occhi, era assente l’ignoranza (il male peggiore che possa esistere, a parer mio) e, soprattutto, la paura di essere incompresi.
15/09/2020, il Governo italiano afferma di aver lavorato incessantemente durante il periodo estivo ed è pronto a riaprire le scuole della penisola. Risultato? Tempo due mesi e sono stati costretti a richiudere; siamo punto e a capo. Sorpresi? Neanche noi.
Eravamo convinti di saper lavorare con questa dannata DAD, eppure riscontriamo gli stessi, identici problemi iniziali: scarsa connessione, problemi tecnici di ogni tipo, diminuzione della concentrazione e della voglia di continuare con questa, permettetemi di dirlo, inutile modalità. Ripeto, siete sorpresi?
Abbiamo difficoltà a farvi capire che ci sentiamo lasciati quasi allo sbando, quei “modelli di vita” di cui parlavo hanno ormai come unico obiettivo quello di farci ingurgitare più nozioni possibili, per poi farcele recitare a loro piacimento.
Eravamo coscienti di entrare in una scuola dove non c’è posto per la pigrizia e la non curanza per gli studi, certo, ma se avessimo saputo che il livello di comprensione umana sarebbe stato praticamente nullo, illustri professori, avremmo riconsiderato le nostre scelte. Non fraintendeteci, siamo fieri del percorso che abbiamo intrapreso ed essendo giunti quasi al termine di questa esperienza, non vogliamo lasciare questo ambiente così come lo abbiamo trovato. Proprio per questo vi chiediamo, ora, in questo momento così delicato, di seguirci nell’essere il cambiamento in cui tutti noi, ancora, crediamo.
La scuola non può essere un luogo in cui ansie e paure regnano sovrane, ma un posto in cui la curiosità non trova confini e l’educazione e il rispetto per il prossimo devono essere all’ordine del giorno.
Cercate di comprendere le nostre necessità, senza annientare le nostre capacità personali, e vi assicuro che non ci sarà spazio per future incomprensioni, poiché, con la giusta benevolenza, non avranno modo né luogo di esistere.

Presidenziali USA 2020: i sintomi per ora scompaiono, la crisi resta

Dall’altro ieri sera (ore italiane) il quadro intorno ai risultati delle appena trascorse elezioni presidenziali americane sembra acquistare un colore meno sfocato: Joe Biden, vincendo in Pennsylvania, ha superato la soglia dei 270 delegati necessari per essere eletto. La guerriglia legale di un Trump che, mentre rifiuta il concession speech, gioca a golf sui dolci declivi di Sterling (Virginia), sembra destinata a continuare, ma non “sfonda”, trova per ora meno sponde in quella magistratura, che pure ha provato in vari modi a “colonizzare” nei suoi anni da Presidente. Mettiamo però da parte il tourbillon e i toni derisori che passano per le bocche di scrittori e intellettuali così terrificati dai circa 71 milioni di voti per Trump da insolentire il loro stesso passato da sperticati laudatores dell’american way of life e proviamo a fissare alcune coordinate generali, prima di breve e poi di lungo periodo:

1) la strategia del centro liberale americano, impersonata dai clintonites e dagli obamians e avviata subito dopo le scorse elezioni di mid-term, è pienamente riuscita. Il suo obiettivo era duplice, e per questo non privo di una sua complessità realizzativa. Si trattava, infatti, da un lato di imprigionare la sinistra, fuori e dentro il Partito democratico, entro il quadro di compatibilità previsto dal sistema politico americano, che funziona attraverso la conventio ad excludendum nei confronti delle ali “estreme” (il goldwaterismo, a destra, e le varie forme di democrazia “radicale”, socialista, a sinistra); dall’altro, di scacciare il trumpismo dalle stanze del potere, con le sue scombiccherate anomalie, inadeguate per una potenza economica e politica che, benché in costante declino relativo, ha ancora alcune carte da giocare (soprattutto sul terreno tecnologico e militare). L’operazione era complessa soprattutto per un motivo: il centro liberale, che è a guardia degli interessi di Wall Street e di potenti lobby industriali, non ha alcuna intenzione di rinverdire i fasti del New Deal o di inaugurare una nuova stagione “riformista” (come fu capace di fare, in mezzo a terribili contraddizioni, durante gli anni ’60). È vero che il programma economico di Biden è più sensibile alle istanze della classe lavoratrice della Rust Belt di quanto fosse quello di Hillary Clinton. Ma sui capitoli centrali del “salario globale di classe” (costi dell’istruzione universitaria, della sanità etc.), Biden non ha promesso nulla di sostanziale (“nothing would fundamentally change”, ha detto l’attempato senatore a una platea di ricchi donatori qualche tempo fa; dovrebbero tenerlo a mente i suoi novelli cantori “progressisti” nelle desolate plaghe italiane). Questo avrebbe ancora una volta esposto il Partito democratico alla rincorsa della demagogia reazionaria, “populista”, anti-tecnocratica, se non fosse che Trump è Trump, e cioè apparentemente un difensore del forgotten man, della middle class in affanno; in realtà un promotore di ingenti tax cuts a favore dei più ricchi. Durante la pandemia, questo nodo si è sciolto, non solo per la sua indifferenza verso le preoccupazioni sanitarie di larghe sezioni di quell’elettorato che in passato non gli aveva negato il consenso (gli elettori over 65), ma anche per la sua plateale conversione a una politica più “reaganiana”, rivelata dalla sua ostilità al riaggiornamento dei piani di salvataggio. “Ognun per sé” (il liberismo) e “Dio per tutti” (con la nomina della fondamentalista Coney Barrett a giudice della Corte suprema) è tornato a essere il mantra della destra americana.

2) perché questa correzione di rotta? Il motivo sta probabilmente nella ripresa di vaste mobilitazioni di massa, dietro l’insegna di Black Lives Matter. La tumultuosa crescita di questo movimento ha spaventato il blocco sociale conservatore, inducendolo a stringersi ancora una volta al GOP e al suo leader, richiamato tuttavia alle funzioni elementari di protettore di law and order, di custode della sacrosanctitas della proprietà privata [ref]Di ciò sono emblema i coniugi McCloskey, immortalati mentre impugnano le armi per proteggere la loro villa dalle manifestazioni BLM (https://www.bbc.com/news/election-us-2020-53891184). Per questa superba prova di eroismo proprietario sono stati perfino invitati a parlare alla convention repubblicana.[/ref]. Ma perché BLM è cresciuto così vertiginosamente? Di questo movimento, come è noto, sono state fornite molte spiegazioni, che giustamente risalgono agli insuccessi dei tentativi di includere più organicamente la popolazione afroamericana entro i ranghi della democrazia. Ma sono state trascurate le motivazioni immediatamente politiche, la frustrazione provata da ampi segmenti dell’elettorato democratico-socialista per il fallimento dell’ultimo tentativo di riforma del sistema dall’interno, quello di Bernie Sanders. Ritirandosi dalle primarie democratiche senza ottenere nulla in cambio, né la promessa di alcuni posti-chiave nella amministrazione Biden né quella di mettere capo a qualche seria politica redistributiva, Sanders ha disarmato il suo campo, lo ha privato di direzione politica. A quel punto (Sanders si è ritirato dalle primarie democratiche a metà aprile; le grandi manifestazioni BLM appaiono alla fine di maggio) l’uscita di alcuni settori, specie giovanili, verso l’azione diretta e di massa era quasi inevitabile.

3) con ciò, ritorniamo all’oggi e al quadro che ci consegnano le elezioni presidenziali: Trump esce senz’altro sconfitto dalla contesa con Biden, ma ha rafforzato la sua presa sul blocco sociale conservatore, malgrado i mal di pancia delle aree più moderate del GOP, destinati probabilmente ad acuirsi. Biden, conformemente alla natura del suo stesso progetto, proverà a solleticare gli appetiti di questa parte del Partito repubblicano, promettendo a essa alcuni posti nella sua amministrazione; del resto, con un Senato che rimane nelle mani dei repubblicani, si tratta, per lui, di una scelta quasi obbligata. Il problema è l’assenza, in questo contesto profondamente instabile e polarizzato, di una credibile ipotesi strategica da parte della risorta sinistra democratico-socialista[ref]Fuori o dentro il partito democratico? Se fuori, partito del lavoro o dei movimenti? Organizzazione con un certo grado di centralizzazione o federazione dei movimenti, sulle orme della rainbow coalition degli anni ’80 etc.? [/ref]: tramortita dal successo dei liberali, di cui ha sottovalutato le ancora enormi capacità di influenza, essa oscilla fra collateralismo (nutrito dalla speranza che i movimenti sociali, facendo pressione sull’amministrazione Biden, riaprano spazi di manovra a Bernie, AOC etc.) e riflusso nella jacquerie urbana: die Organisationsfrage, la questione dell’organizzazione, di partito, sindacale etc., dovrebbe essere al centro delle preoccupazioni delle forze più avanzate della sinistra. Ma così è soltanto in ridottissima parte.

Per concludere: una destra sempre più radicale mantiene le sue posizioni, raggiungendo una sorta di “equilibrio statico”, per citare il Gramsci dei Quaderni, con il centro liberale, ancora in possesso di molte casematte. Di fronte a situazioni analoghe, Gramsci tuttavia avvertiva: questi equilibri non durano a lungo, vengono per lo più risolti dall’intervento di un tertium. E questo tertium, a sinistra, ancora non si vede.

Homo pandemicus: ideologia COVID e nuove frontiere del consumo.

Di Fabio Vighi
Come scrisse Ralf Dahrendorf nel lontano 1985, ‘la società centrata sul lavoro è morta, ma non sappiamo come seppellirla’ – e in effetti, aggiungiamo noi, il fetore comincia a farsi insopportabile. Rimaniamo cioè definiti dal produttivismo capitalista senza però poter più estrarre nuova ricchezza (plusvalore) da un “lavoro vivo” ormai estromesso da inarrestabili processi di automazione. Ma proprio l’individuo improduttivo e atomizzato della globalizzazione neoliberista, il soggetto “senza valore”, smarrito e infantilizzato, è oggi completamente assuefatto al dominio reale dei rapporti capitalistici. L’indole conformistica della piccola borghesia di un tempo si trasferisce oggi nell’aspirazione collettiva di appartenere a un “ceto mediocre” impegnato solo a consumare e sopravvivere, o a vivere per rimanere in vita. Solo l’essere-per-la-merce (insieme a un avvilente narcisismo fatto di palestra, addominali, tatuaggi, pilates, cardiofitness, ecc.) ci tiene uniti. Mai come ora la teologia feticistica del valore si afferma come ideologia, estendendosi a tutti i settori della vita, inclusi l’informazione, l’istruzione e la medicina.

Nota sull’intervista a Lukács del 1969

Sollecitato dai redattori di “Filosofia in movimento”, scrivo queste righe per chiarire lo scenario dentro il quale si inserisce l’intervista che Lukács concesse a Leandro Konder nel 1969. Per ragioni di spazio non ho avuto modo di fare questa opera di storicizzazione nel presentare la stessa intervista.
Innanzitutto lo stesso intervistatore va presentato: Leandro Konder. Nato nel 1936 a Petropolis, vicino a Rio de Janeiro, prima avvocato del lavoro, poi costretto all’esilio dal Brasile a causa del golpe militare del 1964, si rifugiò in Germania e in Francia. Nell’esilio approfondì lo studio della filosofia e del marxismo. Con Lukács aveva già intrattenuto un carteggio, insieme al suo amico Carlos Nelson Coutinho prima del golpe del 1964 – carteggio che è pubblicato in filosofiainmovimento. Nel 1978 poté fare ritorno in Brasile, dove intraprese la carriera accademica nelle facoltà di Storia e di Educazione. È morto nel 2014, dopo una lunga e tormentata malattia. Nel 1969 visitò Lukács a Budapest e da quella visita scaturì l’intervista di cui parliamo. La lingua dell’intervista fu il tedesco. L’intervista fu pubblicata in un grande giornale brasiliano Jornal do Brasil il 24 e 25 agosto 1969, proprio per il titolo che gli fu dato: “L’autocritica del marxismo”. La censura militare guardò più alle critiche che Lukács faceva al marxismo che alle proposte, che forse non furono neanche capite, così fu concesso il permesso di pubblicazione.
Lukács, nel 1969, aveva 84 anni, morirà due anni dopo, il 4 giugno 1971. Era un filosofo famoso in tutto il mondo, ma viveva isolato nella sua natia Ungheria. Non era particolarmente gradito al regime comunista di Kádár, perché era un pensatore indipendente e non disponibile a seguire le linee ideologiche del partito comunista ungherese. Alcune relazioni della C.I.A. che lo indicava come un dissidente sono citate in un mio articolo presente in filosofiainmovimento. L’anno precedente all’intervista, in occasione dell’invasione sovietica della Cecoslovacchia, a cui parteciparono anche truppe ungheresi insieme a quelle di altri paesi del Patto di Varsavia, Lukács aveva ribadito la sua posizione di indipendenza ideologica, scrivendo e inviando al Comitato Centrale del Partito, un saggio di argomento politico, Demokratisierung heute und morgen (La democrazia della vita quotidiana è il titolo in italiano). Naturalmente il saggio fu sepolto negli archivi del Partito, da dove riemerse soltanto nel 1985, suscitando un forte dibattito sull’analisi politica del vecchio Lukács.
Il tema centrale dell’analisi di Lukács è la sua polemica contro lo stalinismo, come ricorda anche nell’intervista. Una delle distorsioni politiche dello stalinismo era per Lukács il tatticismo, cioè la subordinazione delle scelte politiche non a un progetto strategico di lungo termine, ma a calcoli politici di dimensione ridotta, che, però, causavano enormi danni di immagine e di scelte politiche. Nell’intervista Lukács riferisce della crisi interna al Partito Comunista Francese, che non partecipò inizialmente alla Resistenza anti-nazista, perché l’URSS aveva firmato il patto di non belligeranza con la Germania. Questo patto di non belligeranza non si estendeva all’Italia e il Partito Comunista Italiano continuò senza limitazioni nella sua attività anti-fascista. La difformità di comportamenti, in base agli ordini di Mosca, ha segnato fortemente la storia futura, post-bellica, dei due partiti comunisti. Lukács ricorda che il tatticismo continua anche nella politica sovietica post-stalinista, in particolare nella politica estera, per cui alcuni paesi arabi, come l’Egitto, sono considerati socialisti, in contraddizione palese con la loro effettiva e reale struttura economica e sociale.
Come è detto nell’intervista Lukács, al momento dell’intervista stava scrivendo la sua Ontologia dell’essere sociale. Infatti Lukács fa riferimento al fenomeno dell’alienazione, che poi sarà indicata con il termine di estraniazione. L’estraniazione è l’argomento del quarto e ultimo capitolo dell’Ontologia dell’essere sociale. Per Lukács si tratta di un fenomeno specifico del capitalismo del XX secolo, per cui l’intera vita quotidiana dell’essere sociale è subordinata, addirittura progettata, dal sistema capitalistico. Così alla classica estrazione di plusvalore dal lavoro vivo del lavoratore, si unisce lo sfruttamento dei suoi consumi: il consumismo è un fenomeno specifico del capitalismo moderno, è un’energia irrefrenabile che spinge il capitalismo a sfruttare anche i bisogni dell’essere sociale e il loro soddisfacimento. I bisogni vengono indotti e controllati dalla pubblicità e dalla propaganda, come facevano i due sistemi totalitari, fascismo e nazismo. Il consumo è indirizzato verso le merci che il sistema capitalistico ha prodotto e predisposto a un consumo programmato. La psicologia dell’essere sociale è così manipolata e subordinata alla produzione delle merci. La totalità sociale è interamente programmabile e calcolabile. Lukács confessa che non crede che siano possibili crisi fondamentali nel capitalismo moderno. La capacità di manipolabilità del sistema sembra in grado di superare qualsiasi crisi e, in realtà, così è avvenuto negli ultimi cinquanta anni.
Dietro a questa capacità di manipolabilità del sistema capitalistico dominante, c’è la calcolabilità sia della produzione che del consumo. Il tema della calcolabilità era stato sviluppato dal grande amico di gioventù di Lukács, Ernst Bloch in Lo spirito dell’utopia, e Lukács riprese il tema già in Storia e coscienza di classe. Il tema è implicito ovviamente nella sua analisi dell’estraniazione nell’Ontologia dell’essere sociale. Sostengo questa implicita presenza, perché Lukács critica radicalmente la concezione del mondo del neo-positivismo – in particolare vi dedica un capitolo nella prima parte dell’Ontologia dell’essere sociale – che fa della calcolabilità lo strumento di analisi della realtà. Lukács si ribella a questa riduzione delle cose e degli esseri umani a numeri. In fondo, quindi, la calcolabilità è una forma ideologica del capitalismo moderno, un suo strumento di azione nella realtà sociale.
Lukács accusa il marxismo post-Lenin di essere stato incapace di analizzare i fondamenti teorici del capitalismo contemporaneo. Egli sostiene che il marxismo deve riprendere la sua concezione razionale e storicistica della realtà sociale. L’irrazionalismo è da lui considerato il grande avversario del marxismo. Così fenomeni come l’esistenzialismo – di cui però salva alcune analisi di Sartre, ma condanna in blocco Heidegger –, il neopositivismo e anche alcune tendenze considerate marxiste, come quelle della Scuola di Francoforte, sono asservite all’ideologia borghese in lotta contro la ragione dialettica. In pratica le tendenze dominanti la scena della filosofia della seconda metà del Novecento sono considerate da Lukács come oppositrici del marxismo. La reazione a questa generale opposizione lukácsiana fu il considerare Lukács uno stalinista. Il giudizio di “stalinista” ha condizionato fortemente la diffusione della conoscenza delle opere del Lukács maturo. In realtà Lukács fu una vittima dello stalinismo sia per l’ostracismo decretato alle sue opere nei paesi del socialismo realizzato, sia nei confronti della persona, arrestato per due volte – una nella Russia stalinista nel 1941 e una seconda in Ungheria per la sua partecipazione alla Rivoluzione del 1956 – e isolato dal regime post-stalinista ungherese – isolamento favorito anche dalla ostilità degli intellettuali occidentali.
Soltanto in America latina il pensiero di Lukács ha avuto un notevole successo, che continua ancora oggi. Infatti Lukács, come si nota nell’intervista, non assume una posizione eurocentrica nei confronti del suo interlocutore brasiliano. Anzi sprona gli intellettuali latinoamericani a sviluppare una propria analisi della loro realtà sociale ed economica, cioè a non ripetere gli errori degli intellettuali marxisti occidentali che non hanno saputo ripetere l’analisi compiuta dai fondatori del marxismo. Egli si considerava un semplice indicatore di tendenze da sviluppare.
Per concludere queste righe di esplicazione, ricordo il giudizio di Lukács nei confronti di Gramsci. Lukács non conosceva l’italiano e le opere di Gramsci, almeno fino agli anni Sessanta, non erano ampiamente tradotte in inglese, francese o tedesco, ancor meno in ungherese, le lingue che Lukács conosceva; quindi la sua conoscenza di Gramsci non era ampia, ma malgrado questa ristrettezza il suo giudizio è indicativo: nel considerare Gramsci come un teorico che dà indicazioni generali, le quali devono essere tratte dallo studio del contesto storico ove Gramsci agì, Lukács invita a trattare Gramsci come un classico del marxismo. Invita a analizzare dettagliatamente il rapporto che il pensiero di Gramsci ha intessuto con la storia che lui ha vissuto e ha visto. È lo stesso lavoro di ricerca che lui compì nei confronti di Marx.

Politica- una introduzione filosofica

L’obiettivo che questo volume si prefigge è quello di presentare in modo sintetico le questioni principali della filosofia politica, con particolare attenzione alle teorie e ai problemi del tempo presente. La trattazione è articolata in tre parti.
Nella prima parte («La politica tra realismo e valori») si presentano le grandi questioni di fondo che stanno alla base della riflessione teorica sulla politica: per un verso la politica non può fare a meno di un riferimento etico e valoriale, per altro verso rimane comunque una dimensione caratterizzata dal conflitto e dalla lotta per il potere. Si tratta dunque di pensare insieme queste due dimensioni, cosa che molto spesso le filosofie politiche non sono riuscite a fare. I temi affrontati nella prima parte sono dunque: la definizione della politica, il «realismo politico», i rapporti della politica con il potere e la violenza, da un lato, con l’etica e la giu- stizia dall’altro.
Nella seconda parte («I principî della giustizia politica») vengono delineate le coordinate essenziali del patto politico moderno e sviluppati i concetti fondamentali della politica nella modernità (liberalismo, democrazia e socialismo) e la loro articolazione concreta nelle contemporanee democrazie costituzionali.
Anche in questa parte si ragiona su un duplice registro. In primo luogo si presentano i punti principali della democrazia costituzionale: diritti fondamentali, rappresentanza politica, divisione dei poteri, giustizia sociale. In secondo luogo si mostra come la promessa democratica del potere condiviso sia ampiamente ridimensionata dalle cristallizzazioni di potere non democratico che permangono ben salde anche nelle democrazie avanzate (poteri economici, mediatici, tecnocratici). Si perviene quindi a una visione dinamico- conflittuale della democrazia e della giustizia sociale, come posta in gioco delle tensioni e degli antagonismi che attraversano la società.
Nella terza parte («Cosmopolitica: la politica oltre lo Stato») si mostra come gli approdi conseguiti a livello di politica statale vengano rimessi in discussione dalla centralità che acquistano, nell’età globale, le questioni che riguardano la politica oltre lo Stato. Il pensiero moderno ha visto gli Stati come entità che sono tra loro in un rapporto simile a quello dello «stato di natura» e si è posto innanzitutto il problema di superare questa condizione e di porre le basi per la pace tra i popoli. Ma oggi sono venuti in primo piano molti altri problemi sui quali non disponiamo ancora di visioni consolidate. Come possiamo pensare, realisticamente, la costruzione di un ordinamento cosmopolitico, nel contesto del quale gli Stati e i popoli cooperino in modo responsabile per farsi carico dei problemi comuni, dalle guerre locali al terrorismo, dal cambiamento climatico ai rischi sanitari globali? Gli Stati e i popoli sono legati da obblighi di assistenza reciproca, o è giusto che ognuno pensi per sé? Condividono responsabilità comuni di fronte a fenomeni come la fame, la povertà estrema, la negazione dei diritti umani da parte di regimi tirannici? E fino a che punto è legittimo che ogni Paese si chiuda dentro i propri confini? Sono queste, a parere di chi scrive, le nuove frontiere con le quali la filosofia politica si dovrà misurare oggi e domani.

Si ringraziano l’editore e l’autore per aver concesso la pubblicazione della premessa al testo.

L’autocritica del marxismo. Intervista di Lukács concessa a Leandro Konder.

traduzione di Antonino Infranca[ref] Journal do Brasil, 24-25 agosto 1969; ripubblicata in Lukács e a atualidade do marxismo, a cura di M. O, Pinassi e S. Lessa, San Paolo, Boitempo, 2002, pp. 125-132. Per rendere il testo più agevole, si sono tradotte soltanto le risposte di Lukács, tralasciando le osservazioni di Konder, che erano giustapposte alle domande.[/ref]

 

 

Presento al lettore italiano questa breve intervista di Lukács, ricordando che è apparsa nel 1969, cioè due anni prima della sua morte, e più di cinquanta anni fa. Nonostante la distanza temporale, alcuni temi rimangono ancora validi, altri sono stati superati dal tempo, come è naturale che avvenisse. Rimane, però, sempre palese la forza intellettuale di Lukács, un filosofo che non detta verità al suo interlocutore, dà risposte generali e teoriche, ponendo esigenze piuttosto che insegnamenti, e che chiude l’intervista con domande, approfittando dell’interlocutore per avere notizie e idee nuove. Lukács aveva 84 anni, ma la sete di conoscenza e di novità rimane cristallina, non c’è il minimo accenno a ricordi personali, suggestivi o patetici. Ci dà una lezione di come si possa restare giovani, intellettualmente parlando, anche se vecchi. Il lettore giudicherà il vigore della sua voglia di pensare.

 

L.K.- Come affronta l’attuale crisi del marxismo?

 

G.L.- Alla radice della nostra crisi c’è una modalità di opportunismo che è, forse, la più grave delle deformazioni che ci ha lasciato Stalin: il tatticismo. Al contrario di utilizzare i principi teorici generali del marxismo per criticare e correggere l’azione politica, li subordiniamo meccanicamente, in ciascun passo, ai bisogni immediati, alle esigenze momentanee della nostra attività politica. Con ciò, rinunciamo a una delle conquiste fondamentali della prospettiva marxista: l’unità di teoria e prassi. La teoria è ridotta alla condizione di serva della prassi e la prassi perde la sua profondità rivoluzionaria. Gli effetti di tale situazione sono catastrofici. Oggi, purtroppo, tutti i Partiti Comunisti sono più o meno tatticisti.

 

L.K.- Anche l’italiano?

 

G.L.- Anch’esso. È il partito che possedeva il livello teorico più elevato e che realizza nella sua attività le esperienze più interessanti nel campo del lavoro ideologico, ma ancora non si è liberato del tatticismo. Questa convinzione non mi impedisce di riconoscere in Togliatti un rivoluzionario di alto livello, un dirigente che alleava la sensibilità politica alla stoffa di intellettuale e pensatore. Tuttavia, non vedo in lui qualcosa che lo avvicini a ciò che potrebbe essere una specie di Lenin del nostro tempo.

 

L.K.- E Gramsci?

 

G.L.- Gramsci è un pensatore di eccezionale interesse e la sua influenza è stata, senza dubbio, molto feconda. Penso, intanto, che non si debba cercare in lui un elenco di risposte pronte per i problemi del presente. Per essere correttamente valutato, Gramsci ha bisogno di essere posto storicamente, ha bisogno di essere compreso nel suo ambiente, nella sua situazione.

 

Ritornando alla crisi del marxismo, Lukács aggiunge:

Stalin era dotato di molta intelligenza politica, quando fece l’accordo con la Germania nazista nel 1939 prese una misura che mi sembra essere stata la risposta certa alla situazione creata dalla procrastinazione dei governi occidentali. Per giustificare la misura tattica che prese, tuttavia, Stalin forzò un orribile “adattamento” della strategia comunista e dei principi generali della teoria marxista all’ingiunzione tattica, in modo che i comunisti francesi furono portati a dire alla classe operaia francese: «Il nemico è dentro il nostro stesso paese, il nemico non è tanto Hitler quanto la borghesia francese». Ancora oggi esistono cose così. Per dare maggiore appoggio ai popoli arabi contro la politica imperialistica di Israele, ci sono autori che in nome del marxismo descrivono volontariamente come socialiste determinate caratteristiche degli Stati arabi che non hanno nulla a che vedere con l’autentico socialismo. E c’è anche questo appoggio dato dall’Unione Sovietica alla Nigeria in questa orribile guerra in Biafra. Cosa hanno a che vedere con ciò i principi del marxismo e del socialismo?

Un’altra manifestazione del nostro opportunismo è il fatto che, finora, trascorsi più di 120 anni dalla pubblicazione del Manifesto Comunista, non siano stati pubblicati tutti gli scritti di Marx. Posso assicurargli che esistono numerosi scritti di Marx, annotazioni di studi legati alla preparazione de Il capitale, che rimangono ammuffiti in archivi inaccessibili. Di fronte alle attuali controversie tra marxisti – effervescenza che segnala un rinascimento del marxismo – tale situazione mi sembra particolarmente assurda.

 

L.K.- Questa rinascita del marxismo, alla quale si riferisce, è un processo appena pronunciato o già iniziato?

 

G.L.- È un processo che è già iniziato, ma è ancora all’inizio. Il capitalismo ha sofferto molti cambiamenti in questi ultimi decenni. Mentre non conosco nessuna analisi marxista del capitalismo attuale che possa essere comparata a ciò che Marx fece del capitalismo del suo tempo o che Lenin fece dell’imperialismo all’epoca della Guerra del 1914. Non dico del livello qualitativo, ma, almeno, riguardo alla sistematicità. Le ultime elaborazioni teoriche realmente fondamentali realizzate nello sviluppo storico del marxismo furono di Lenin.

 

L.K.- Come pone la sua propria opera nel quadro di questo sviluppo recente del marxismo?

 

G.L.- Sono tranquillamente convinto che non sono un nuovo Marx. Mi sono limitato a dare alcune indicazioni, che reputo utili, riguardo alla direzione in cui dovremmo lavorare nel campo teorico.

 

L.K.- Adesso si sta occupando dell’Etica?

 

G.L.- Sì. Per essere più esatto, all’introduzione all’Etica, che porta il titolo di Ontologia dell’essere sociale. L’elaborazione dell’ontologia del marxismo mi sembra essere un compito filosofico fondamentale per noi. Lo sviluppo di un sistema di categorie capaci di dare conto della realtà del reale (se mi permette l’espressione) è imprescindibile affinché i marxisti affrontino in maniera giusta gli equivoci diffusi intorno al carattere materialista del marxismo, è imprescindibile affinché i marxisti approfondiscano la critica delle posizioni esistenzialistiche e delle posizioni neopositivistiche. Dobbiamo sviluppare un’ontologia marxista capace di determinare più concretamente l’unità del materialismo storico e del materialismo dialettico. La base di una concezione che sia storicistica senza cadere nel relativismo e che sia sistematica senza essere infedele alla storia. Fin quando non avremo svolto questo compito, i marxisti saranno preparati malamente per affrontare le tendenze irrazionalistiche di tipo marcusiano, per esempio, o le posizioni razionalistiche formali diffuse dai neopositivisti e specialmente dagli strutturalisti. Inoltre, il razionalismo e il razionalismo formale possono essere rapidamente combinati, secondo i bisogni della lotta mossa dall’ideologia borghese contro la ragione dialettica.

 

L.K.- Se oggi tornasse a scrivere La distruzione della ragione, non darebbe maggiore importanza alle tendenze neopositivistiche che si stanno diffondendo nella filosofia contemporanea?

 

G.L.- Senza dubbio. Inoltre, la parte finale di quel mio libro è molto invecchiata, avrebbe bisogno di essere riscritta. Nei nostri giorni, ai marxisti si impone l’analisi delle nuove forme di alienazione. Nel secolo passato e all’inizio di questo, il capitalismo controllava la produzione e sfruttava il lavoratore, strappandogli plusvalore, nell’ambito della produzione. Attualmente, il capitalismo ha esteso il suo controllo al consumo. Mediante la pubblicità, la cui forza manipolatrice cresce di giorno in giorno, il capitalismo suscita bisogni artificiali e, per il controllo di essi, controlla il meccanismo degli acquisti e delle vendite, delimita le crisi generate dallo squilibrio del mercato. Con ciò, il lavoratore non è sfruttato solo come lavoratore: è sfruttato anche come consumatore. Perciò, nei paesi capitalistici ricchi, egli può ricevere anche salari reali più elevati, poiché sarà inesorabilmente portato a spendere il valore del suo lavoro nel mercato dei beni di consumo manipolato dal capitalismo. Una simile situazione comporta forme complesse di alienazione, che dobbiamo studiare con spirito critico rivoluzionario. Pertanto dobbiamo risolvere quegli equivoci con i quali i neopositivisti le circondano, quando cercano di slegarle dalla storia e dall’insieme della vita sociale.

 

L.K.- Lei crede che ci saranno nuove crisi del capitalismo, crisi del tipo di quella del 1929, per esempio?

 

G.L.- È possibile che accadano, però mi sento un po’ scettico riguardo a questa possibilità. Lo sviluppo della manipolazione e del controllo capitalistico delle condizioni di consumo forse è riuscito ad allontanare il fantasma della crisi. Questa conquista, intanto, ha implicato un prezzo molto alto, poiché le contraddizioni immanenti del capitalismo si sono aggravate e si sono estese al piano dell’esistenza umana che, fino a poco tempo fa, erano relativamente poco colpite da esse. L’autoregolamentazione della vita nel mondo creato dal capitalismo provoca, attualmente, un sentimento sempre più generalizzato di malessere e un numero sempre più grande di persone si dispongono a contestare i principi della società capitalistica. Questa è una delle ragioni più profonde della rivolta della gioventù. Il nostro compito deve essere quello di offrire un’alternativa concreta per tutta questa gente che rifiuta il capitalismo, presentandogli un socialismo sempre più libero dalle deformazioni inerenti al sistema capitalista.

 

L.K.- Per gli effetti confusi che portano con esse, quale delle due tendenze merita una critica più serrata da parte dei rivoluzionari marxisti: la marcusiana o la strutturalista?

 

G.L.- Veda, questa domanda non deve essere formulata così. Così come lei la sta presentando, essa rimane in un quadro ristretto, pregiudicato dal tatticismo. Sul piano dell’azione immediata, i bisogni tattici della lotta devono essere misurati in funzione delle circostanze. Sul piano teorico e del confronto delle idee, la situazione è diversa. Ancora da poco, ci siamo messi d’accordo sul fatto che le tendenze francamente irrazionalistiche o neopositivistiche, in senso lato, erano espressioni necessarie della prospettiva ideologica borghese. Su questo piano, di conseguenza, i marxisti sono obbligati alla lotta con lo stesso rigore e la stessa fermezza di principi contro entrambe. L’elaborazione teorica del marxismo, sebbene polemica, non può farsi in condizioni di stretta dipendenza dalle vicissitudini tattiche. Secondo la mia opinione, su determinati problemi generali non può variare secondo le fluttuazioni della politica quotidiana. Se pretende di essere scientifico, un giudizio sulle leggi della dialettica, per esempio, o sulla natura dell’ideologia borghese, non può essere completamente modificato ad ogni crisi ministeriale.

 

L.K.- Quando è stato in Francia ha conosciuto Sartre o Garaudy?

 

G.L.- Sartre no. Ho conosciuto Garaudy, che in quell’epoca era un fanatico stalinista.

 

L.K.- Adesso è cambiato…

 

G.L.- Ha cambiato il dogmatismo stalinista con il sentimentalismo liberale.

 

L.K.- Ma Garaudy, nonostante non sia un grande filosofo, ha sviluppato un lavoro positivo nel dialogo con i cristiani

 

G.L.- Guardi, considero la posizione filosofica di Sartre sbagliata, ma lo rispetto e lo ammiro come personalità. Di Garaudy non posso già dire lo stesso. Il dialogo con i cristiani è molto importante; per essere profittevole, comunque, ha bisogno di essere sviluppato senza demagogia, con rigore teorico.

 

L.K.- Qual è la sua opinione sull’America Latina?

 

G.L.- In generale gli intellettuali europei si ritengono soddisfatti con le informazioni deficitarie che posseggono sulla realtà latinoamericana. In maniera generale mi pare che la realtà concreta in diversi paesi dell’America latina non è ben conosciuta neanche dagli stessi latinoamericani. Gli studi che ho potuto leggere, anche quando sono interessanti, rimangono molto empirici, frammentari, sono lontani dalla sistematicità desiderabile. E il punto di vista marxista proprio della realtà latinoamericana dovrà risultare da un lavoro fatto da voi stessi; non si può sperare nessun contributo sostanziale da parte degli specialisti europei, dei tecnici marxisti dell’Europa. Per adesso, le forme concrete delle trasformazioni sociali in corso nei diversi paesi e le forme possibili di transizione al socialismo sono lontane dall’essere state sottomesse a un’analisi soddisfacente. Non credo, d’altro lato, che i cubani siano riusciti a raggiungere buoni risultati nella teorizzazione generalizzata della loro esperienza. Voi avete di fronte, in verità, un lavoro di proporzioni smisurate. Una domanda che mi sovviene, per esempio, è la seguente: perché il processo di trasformazione rivoluzionaria dei diversi paesi dell’America Latina presente così forti tendenze alla deteriorizzazione? Non parlo di rivoluzioni in senso socialista, ma anche nel caso della rivoluzione antiimperialistica o nel caso della rivoluzione democratico-borghese il fenomeno è abbastanza sensibile. Veda quanto succede con la rivoluzione messicana. Ha iniziato con molta energia, si è sviluppata con intensa partecipazione popolare ed è arrivata alla malinconica situazione in cui si trova adesso. Lei conosce qualche analisi marxista realmente sistematica della rivoluzione messicana e dei suoi problemi? Si considera in condizione di spiegare come e perché la rivoluzione messicana è arrivata al suo attuale punto di strangolamento? Forse l’esperienza messicana offre insegnamenti che, generalizzando, si rivelano utili per i rivoluzionari di altri paesi dell’America Latina, anche per il Brasile. E, per parlare del Brasile, voi possedete un’interpretazione marxista solida degli avvenimenti del 1964 [ref] Il colpo di Stato militare che terminò nel 1985. Si tenga presente che l’intervista fu ugualmente pubblicata in Brasile, nonostante che la stampa era fortemente controllata dai militari. Probabilmente le critiche allo stalinismo e ai partiti comunisti attirarono il favore dei censori militari, che non compresero il valore dell’intera intervista; NdT.[/ref] nel vostro paese?

Un commento a Nancy Fraser “Cosa vuol dire socialismo nel XXI secolo?” (Castelvecchi, 2020)

di Laura Pennacchi

Condivido largamente la riproposizione che Nancy Fraser fa del “socialismo” per il XXI secolo basata su una “prospettiva allargata” con cui guardare tanto al capitalismo quanto al socialismo, lavorando sulla loro intrinseca multidimensionalità e pertanto ridimensionando visioni “ristrette”, sostanzialmente economiciste e deterministe. L’allargamento della visione del capitalismo compiuta da Fraser, fino a concepirlo come “ordine sociale istituzionalizzato”, comprende la critica dell’idea di meccanismi automatici che presiederebbero al suo funzionamento da cui scaturirebbe la tendenza naturale al “crollo” (prendendo invece pienamente atto della incredibile capacità di adattamento e di metamorfosi che il capitalismo storicamente ha manifestato), la presa di distanza dalla presupposizione di una linearità tra “crisi capitalistica” e conflitto sociale emancipante (linearità smentita tante volte dai fatti, che non di rado hanno portato ad esiti regressivi e pericolosi per la democrazia), la denunzia dell’errore di attribuire il primato alla sfera economica (e dunque alla produzione e alla lotta di classe) attribuendo un valore non primario alla storia, alla cultura, alla geografia, alla politica, all’ecologia, alle istituzioni, così sottovalutando come “contraddizioni secondarie” la distruzione ambientale, il razzismo, il sessismo, l’imperialismo, la divisione tra “economico” e “politico” (che in realtà spesso copre l’assoggettamento del “politico” e del “pubblico” – a cui Fraser attribuisce una grande importanza all’“economico”).

Correlata è la visione allargata del socialismo alla cui costruzione, in una sorta di quadro polanyiano radicato sui “confini” tra sfere, Fraser ci sollecita, nella quale abbiano molto più peso di quanto non ne avessero nelle versioni precedenti, specie in quelle di stretta derivazione marxiana, gli apporti del femminismo attenti alla problematiche della “cura” e della riproduzione sociale, dell’ecologismo, del postcolonialismo, in grado di concorrere a configurare il socialismo non “solo” come “una trasformazione dell’organizzazione economica” (Ivi, p. 27 e seg.), ma anche come trasformazione della riproduzione sociale e delle categorie sessuali e di genere, salvaguardia dal free riding del capitale sui “doni” gratuiti della natura, arresto della “espropriazione della ricchezza delle popolazioni razzializzate”, espansione della portata dell’autogoverno democratico. Ne scaturiscono da un lato un ampliamento della nostra stessa concezione della “crisi capitalistica” rivelandocene “innate tendenze autodestabilizzanti che vanno ben al di là di quelle interne alla sua ‘economia’” (Ivi, p. 28), dall’altro una riconfigurazione del socialismo secondo quello che Giorgio Fazio chiama “punto di convergenza prospettico di tutte le soluzioni che è possibile escogitare, in uno spirito di ricerca cooperativo e sperimentale, ai mali strutturali delle nostre società” (Ivi, p. 2).

L’ambizione che credo dovremmo nutrire è quella di un approfondimento ulteriore del quadro allargato che Fraser ci fornisce, in direzione di una discesa e di una risalita ancora più audaci nella fondazione filosofica del socialismo di cui abbiamo bisogno, se per filosofia intendiamo non qualcosa di astratto e di speculativo, ma la pensabilità stessa della vita e del mondo. Una pensabilità con cui dotarci, allo stesso tempo, sia di un di più di perspicuità cognitiva, sia di un di più di efficacia pratica e tale contiguità tra “cognitivo” e “pratico” non sembri un paradosso, tanto più nelle drammatiche condizioni odierne – con la recessione globale provocata dalla pandemia da coronavirus che assume le sembianze di un diluvio universale con disoccupazione, precarietà e inattività elevatissime – nelle quali dobbiamo riconoscere il carattere accentuatamente etico-politico di ogni accadimento, il quale chiama in causa in modo non banale la dimensione dei valori. Tale carattere etico-politico da una parte dà alla denunzia dei guasti sociali e politici un forte significato morale, dall’altra dà alla moralità un elevato contenuto critico: l’agire morale si presenta tout court come “un agire critico”. Dunque, gli aspetti “simbolici” e “culturali” alla cui considerazione Fraser ci richiama per costruire il socialismo come “ordine sociale istituzionalizzato” alternativo a quello racchiuso nel capitalismo debbono pienamente incorporare le strutture primordiali, e le categorie, della relazione, dell’intercomunicatività, dell’alterità, della socievolezza, dell’apertura e quelle, connesse, della vulnerabilità e della interdipendenza, prestando grande attenzione, oltre che ad Habermas, a filosofi quali Lévinas e Ricoeur.

Grazie a tali categorie non rinunziamo a una elaborazione intorno alle soggettività, individuali e collettive, rinunzia alla quale, invece, ci invita una riflessione postmodernista e di stampo foucaultiano che scambia la deflagrazione del “soggetto/sostanza” di matrice cartesiana (declinante la sovranità del soggetto nei termini di una razionalità illimitata, operazionalizzabile in qualunque direzione, fino al delirio onnipotente dell’homo faber che soggioga non solo la natura ma se stesso al dominio della tecnoscienza “fabbricando” l’uomo nuovo) con la deflagrazione del soggetto tout court, in Heidegger spinta fino allo scherno sull’“umanesimo” (posto che è un’illusione che con l’umanesimo “l’uomo si sia emancipato dai ceppi precedenti”). L’elaborazione sulle soggettività è imprescindibile se si vuole ripoliticizzare il mondo. Dopo la lunga fase di depoliticizzazione imposta dal neoliberismo, la ripoliticizzazione della vita e del mondo passa attraverso la riabilitazione della dimensione morale e dunque attraverso processi di risoggettivizzazione che incorporino la scoperta della vulnerabilità dell’io e della sua intrinseca ambivalenza “tra sovranità e carenza, tra desiderio di autoaffermazione e senso di sradicamento, tra conquista e perdita”[ref] E. Pulcini, L’individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del legame sociale, Milano, Bollati Boringhieri, 2001, p. 21.[/ref]. Perché dalla tensione, intrinseca al soggetto individuale, tra “sovranità sul mondo” e “assoluta subordinazione” (portata all’estremo dalla desoggettivazione dell’homo oeconomicus del neoliberismo) esplodono le “figure della soggettività politica, dalla cittadinanza alla classe”, a loro volta “all’origine nella modernità di infinte tensioni e contraddizioni … costitutive della figura dell’individuo così come delle diverse figure della ‘collettività’ (da quella del popolo a quella della nazione)”[ref]S. Mezzadra, Nei cantieri marxiani. Il soggetto e la sua produzione, manifestolibri, Roma 2014, pp. 27, 23 e 24. [/ref]. L’interesse economicistico è imprigionato sul “ritorno su di sé”, ma è l’ordine simbolico dei “significati” a permettere la valorizzazione della stessa sfera economica. Questa non riesce a produrre da se stessa il significato valorizzante, la sua fonte funzionale in grado di dare un senso all’ordine economico. Ciò che dà senso è il disinteresse, è la cura per gli altri, per il vivere e per il mondo, estrema reazione della coscienza morale di fronte a ciò che accade.

Due terreni di immediata ricaduta pratica si stagliano di fronte a noi: uno riguarda le questioni ecologiche e ambientali, per affrontare le quali abbiamo necessità di interrogarci sulla “forma di soggettività” che gli individui del mondo globalizzato debbono riscoprire e maturare per pensarsi e riconoscersi come un’unica umanità, sottraendo alla rimozione tratti costitutivi dell’umano come la vulnerabilità, la dipendenza, la reciprocità, la cura, senza tuttavia perdere il contatto con i grandi processi storici di trasformazione e di emancipazione, l’anelito alla autorappresentazione come tensione a una finalità, al dispiegamento di un potenziale ancora inespresso. L’altro terreno sono le problematiche del lavoro, sguarnite e trascurate da molti anni anche a sinistra (oggi presa – dopo la sbornia blairiana attenta primariamente al “merito” e alle “opportunità” – da una attenzione all’eguaglianza esclusivamente in termini redistributivi). Così si lascia solo a soggetti religiosi – come Papa Francesco, il papa che ha definito il neoliberismo “l’economia che uccide” e che grida “non reddito ma lavoro per tutti” – di mostrare una persistente forte sensibilità al binomio lavoro/persona, facendo uscire il lavoro dall’invisibilità, politica, ma anche teorica e analitica, in cui da decenni è caduto e tornando a ribadire con veemenza che il diritto al lavoro è primario, superiore alla stesso diritto di proprietà, e che il rapporto che ha per oggetto una prestazione di lavoro non tocca solo l’avere ma l’“essere” del lavoratore.

Di nuovo, un’impostazione apparentemente molto astratta, e che non rifugge da una specifica attenzione – di cui troviamo più di una traccia nel giovane Marx – a movenze spirituali, può rivelarsi più adeguata nell’interpretazione dell’oggi e, al tempo stesso, più utile a illuminare le nostre prassi. Penso in particolare al socialismo con “corposa concezione etica” di Honneth[ref]A. Honneth, L’idea di socialismo. Un sogno necessario, Feltrinelli, Milano 2016, pp. 49 e seg. [/ref], il quale critica il marxismo tradizionale per la sua grave opacità quanto alla considerazione delle ricadute politico-morali del capitalismo e per il suo “monismo economicista disperante”, nel quale non rimane più “nessun spazio legittimo per l’autonomia dei singoli, per la ricerca intersoggettiva di una volontà comune”, consegnandosi a quella che si può definire “occlusione di un accesso normativo alla sfera politica” generato dalla propria stessa dottrina, la quale inibisce di pensare i diritti di libertà liberali (che sarebbero volti solo alla tutela della proprietà e della licenza di costruire patrimoni privati) come premesse, piuttosto che come ostacoli, delle libertà sociali. Qui c’è in embrione sollevato anche il punto importante della distinzione tra liberalismo e neoliberismo, su cui penso che Fraser converrebbe, e che io considero addirittura una cesura (a differenza di coloro, anche a sinistra[ref] Per tutti si vedano P. Dardot, C. Laval, La nouvelle raison du monde. Essais sur la societé néolibérale, La decouverte, Paris 2009 (tr. it. La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, DeriveApprodi, Roma 2013). Anche nel loro libro successivo (Commun. Essai sur la révolution au XXI siecle, La Decouverte, Paris 2014) Dardot e Laval rimangono all’interno di un quadro analitico sottovalutante gli aspetti più negativi del neoliberismo (in particolare l’aggressione al perimetro pubblico), il che li porta a caratterizzare il pubblico come “predone” (e “asservito” ai privati) non meno dei privati stessi, a considerare con uguale ostilità “pubblico” e “privato” e a vedere nel “comune” la sola alternativa da perseguire.[/ref], che non vedono tra i due alcuna “soluzione di continuità”), sulla base della quale ritengoo possibile, e auspicabile, un’alleanza tra liberalismo sociale e socialismo.

Del resto un’alleanza simile si è realizzata altre volte nella storia dando risultati straordinari. In un’altra sede Nancy Fraser ha ricostruito (con Rahel Jaeggi) la storia del capitalismo come una sequenza di “regimi di accumulazione”[ref] Si veda N. Fraser, R. Jaeggi, Capitalism. A Conversation in Critical Theory, Polity Press, Cambridge 2018.[/ref]: il capitalismo mercantile o commerciale, il capitalismo competitivo cosiddetto “liberale”, il capitalismo socialdemocratico o State-managed, il capitalismo finanziarizzato. Ecco, io non credo che i “Trent’anni gloriosi” e il compromesso keynesiamo in cui si è risolto lo State-managed capitalism possano essere considerati solo una fase in una successione lineare di “regimi di accumulazione”. Penso, invece, che si sia trattato di una rottura molto profonda, a tal punto che, per rovesciarla, è stato necessario per i conservatori e le destre di tutto il mondo pensare e organizzare la vera e propria “restaurazione”[ref] D. Harvey, A Brief History of Neoliberalism, Oxford University Press, Oxford 2005.[/ref] in cui si è poi estrinsecato il neoliberismo. Non mi sfuggono i limiti (in particolare l’eteronormatività e la dipendenza istituzionalizzata delle donne dal salario della famiglia) del compromesso keynesiano e del welfare state, una delle realizzazioni più importanti dei “Trenta gloriosi”. Ma la straordinarietà di quel periodo risalta comunque indubbia ed essa si deve al fatto che, talvolta più talvolta meno intenzionalmente, sempre si puntò su una “riforma” in grande del capitalismo, una riforma profonda in cui una radicalità inusitata di progettazione teorica e di critica ideologica congiunse il pensiero innovativo keynesiano alle rivoluzionarie iniziative di Roosevelt e al riformismo radicale europeo – il laborismo inglese ispirato da Beveridge e la socialdemocrazia scandinava – che si opponevano, anche idealmente, ai totalitarismi. In quella fucina Karl Polanyi scrisse il suo libro più importante (pubblicato nel 1954), mostrando come il capitalismo e l’economia di mercato furono salvati (nella Grande Trasformazione sottostante alle crisi dei decenni precedenti) da una nuova concezione del potere pubblico e dalla edificazione del welfare state, entrambi alla base dei Trenta gloriosi.

Non dobbiamo sottovalutare la potente carica di mobilitazione morale, oltre che politica, che c’era in tutto ciò, di cui fino al tardo Novecento i protagonisti sopravvissuti rendevano commossa testimonianza. Anche il New Deal – che si dotò di una cifra “sperimentalista” per la quale Roosevelt traeva direttamente ispirazione dai filosofi pragmatisti americani e da Dewey – deve la sua immensa anima trasformativa alla sua “capacità progettuale” e alla sua “carica morale”. L’assumere drammatici problemi morali, quali la sofferenza umana, in quanto tout court problemi politici era proprio di una tradizione politica anglosassone che interpretava gli eventi sociali nei termini di suffering situations, cioè terreni di contesa innanzitutto morale tra vittime, oppressori, riformatori. Ciò che rende unico il New Deal è che tale assunzione venne riprodotta al fine di ridisegnare radicalmente la “forma di vita” dominante, sottraendo gli individui alla passività e all’apatia con la mobilitazione per il lavoro e per la moralità politica.