Un commento a Nancy Fraser, “Cosa vuol dire socialismo nel XXI secolo?” (Castelvecchi, 2020)

di Laura Pennacchi

 

Condivido largamente la riproposizione che Nancy Fraser  fa del “socialismo” per il xxi secolo basata su una “prospettiva allargata” con cui guardare tanto al capitalismo quanto al socialismo, lavorando sulla loro intrinseca multidimensionalità e pertanto ridimensionando visioni “ristrette”, sostanzialmente economiciste e deterministe. L’allargamento della visione del capitalismo compiuta da Fraser, fino a concepirlo come “ordine sociale istituzionalizzato”, comprende la critica dell’idea di meccanismi automatici che presiederebbero al suo funzionamento da cui scaturirebbe la tendenza naturale al “crollo” (prendendo invece pienamente atto della incredibile capacità di adattamento e di metamorfosi che il capitalismo storicamente ha manifestato), la presa di distanza dalla presupposizione di una linearità tra “crisi capitalistica” e conflitto sociale emancipante (linearità smentita tante volte dai fatti, che non di rado hanno portato ad esiti regressivi e pericolosi per la democrazia), la denunzia dell’errore di attribuire il primato alla sfera economica (e dunque alla produzione e alla lotta di classe) attribuendo un valore non primario alla storia, alla cultura, alla geografia, alla politica, all’ecologia, alle istituzioni, così sottovalutando come “contraddizioni secondarie” la distruzione ambientale, il razzismo, il sessismo, l’imperialismo, la divisione tra “economico” e “politico” (che in realtà spesso copre l’assoggettamento del “politico” e del “pubblico” – a cui Fraser attribuisce una grande importanza – all’”economico”).

Correlata è la visione allargata del socialismo alla cui costruzione, in una sorta di quadro polanyiano radicato sui “confini” tra sfere, Fraser ci sollecita, nella quale abbiano molto più peso di quanto non ne avessero nelle versioni precedenti, specie in quelle di stretta derivazione marxiana, gli apporti del femminismo attenti alla problematiche della “cura” e della riproduzione sociale, dell’ecologismo, del postcolonialismo, in grado di concorrere a configurare il socialismo non “solo” come “una trasformazione dell’organizzazione economica” (p. 27 e seg.), ma anche come trasformazione della riproduzione sociale e delle categorie sessuali e di genere, salvaguardia dal free riding del capitale sui “doni” gratuiti della natura, arresto della “espropriazione della ricchezza delle popolazioni razzializzate”, espansione della portata dell’autogoverno democratico. Ne scaturiscono da un lato un ampliamento della nostra stessa concezione della “crisi capitalistica” rivelandocene “innate tendenze autodestabilizzanti che vanno ben al di là di quelle interne alla sua ‘economia’”(p. 28), dall’altro una riconfigurazione del socialismo secondo quello che Giorgio Fazio chiama “punto di convergenza prospettico di tutte le soluzioni che è possibile escogitare, in uno spirito di ricerca cooperativo e sperimentale, ai mali strutturali delle nostre società” (p. 2).

L’ambizione che credo dovremmo nutrire è quella di un approfondimento ulteriore del quadro allargato che Fraser ci fornisce, in direzione di una discesa e di una risalita ancora più audaci nella fondazione filosofica del socialismo di cui abbiamo bisogno, se per filosofia intendiamo non qualcosa di astratto e di speculativo, ma la pensabilità stessa della vita e del mondo. Una pensabilità con cui dotarci, allo stesso tempo, sia di un di più di perspicuità cognitiva, sia di un di più di efficacia pratica e tale contiguità tra “cognitivo” e “pratico” non sembri un paradosso, tanto più nelle drammatiche condizioni odierne – con la recessione globale provocata dalla pandemia da coronavirus che assume le sembianze di un diluvio universale con disoccupazione, precarietà e inattività elevatissime – nelle quali dobbiamo riconoscere il carattere accentuatamente etico-politico di ogni accadimento, il quale chiama in causa in modo non banale la dimensione dei valori. Tale carattere etico-politico da una parte dà alla denunzia dei guasti sociali e politici un forte significato morale, dall’altra dà alla moralità un elevato contenuto critico: l’agire morale si presenta tout court come “un agire critico”. Dunque, gli aspetti “simbolici” e “culturali” alla cui considerazione Fraser ci richiama per costruire il socialismo come “ordine sociale istituzionalizzato” alternativo a quello racchiuso nel capitalismo debbono pienamente incorporare le strutture primordiali, e le categorie, della relazione, dell’ intercomunicatività, dell’alterità, della socievolezza, dell’apertura e quelle, connesse, della vulnerabilità e della interdipendenza,  prestando grande attenzione, oltre che ad Habermas, a filosofi quali Lévinas e Ricoeur.

Grazie a tali categorie non rinunziamo a una elaborazione intorno alle soggettività, individuali e collettive, rinunzia alla quale, invece, ci invita una riflessione postmodernista e di stampo foucaultiano che scambia la deflagrazione del “soggetto/sostanza” di matrice cartesiana (declinante la sovranità del soggetto nei termini di una razionalità illimitata, operazionalizzabile in qualunque direzione, fino al delirio onnipotente dell’homo faber che soggioga non solo la natura ma se stesso al dominio della tecnoscienza “fabbricando” l’uomo nuovo) con la deflagrazione del soggetto tout court, in Heidegger spinta fino allo scherno sull’”umanesimo” (posto che è un’illusione che con l’umanesimo “l’uomo si sia emancipato dai ceppi precedenti”). L’elaborazione sulle soggettività è imprescindibile se si vuole ripoliticizzare il mondo. Dopo la lunga fase di depoliticizzazione imposta dal neoliberismo, la ripoliticizzazione della vita e del mondo passa attraverso la riabilitazione della dimensione morale e dunque attraverso processi di risoggettivizzazione che incorporino la scoperta della vulnerabilità dell’io e della sua intrinseca ambivalenza “tra sovranità e carenza, tra desiderio di autoaffermazione e senso di sradicamento, tra conquista e perdita”[1]. Perché dalla tensione, intrinseca al soggetto individuale, tra “sovranità sul mondo” e “assoluta subordinazione” (portata all’estremo dalla desoggettivazione dell’homo oeconomicus del neoliberismo) esplodono le “figure della soggettività politica, dalla cittadinanza alla classe”, a loro volta “all’origine nella modernità di infinte tensioni e contraddizioni … costitutive della figura dell’individuo così come delle diverse figure della ‘collettività’ (da quella del popolo a quella della nazione)”[2]. L’interesse economicistico è imprigionato sul “ritorno su di sé”, ma è l’ordine simbolico dei “significati” a permettere la valorizzazione della stessa sfera economica. Questa non riesce a produrre da se stessa il significato valorizzante, la sua fonte funzionale in grado di dare un senso all’ordine economico. Ciò che dà senso è il disinteresse, è la cura per gli altri, per il vivere e per il mondo, estrema reazione della coscienza morale di fronte a ciò che accade.

Due terreni di immediata ricaduta pratica si stagliano di fronte a noi: uno riguarda le questioni ecologiche e ambientali, per affrontare le quali abbiamo necessità di interrogarci sulla “forma di soggettività”  che gli individui del mondo globalizzato debbono riscoprire e maturare per pensarsi e riconoscersi come un’unica umanità, sottraendo alla rimozione tratti costitutivi dell’umano come la vulnerabilità, la dipendenza, la reciprocità, la cura, senza tuttavia perdere il contatto con i grandi processi storici di trasformazione e di emancipazione, l’anelito alla autorappresentazione come tensione a una finalità, al dispiegamento di un potenziale ancora inespresso. L’altro terreno sono le problematiche del lavoro, sguarnite e trascurate da molti anni anche a sinistra (oggi presa – dopo la sbornia blairiana attenta primariamente al “merito” e alle “opportunità” – da una attenzione all’eguaglianza esclusivamente in termini redistributivi). Così si lascia solo a soggetti religiosi – come Papa Francesco, il papa che ha definito il neoliberismo “l’economia che uccide” e che grida “non reddito ma lavoro per tutti” – di mostrare una persistente forte sensibilità al binomio lavoro/persona, facendo uscire il lavoro dall’invisibilità, politica, ma anche teorica e analitica, in cui da decenni è caduto e tornando a ribadire con veemenza che il diritto al lavoro è primario, superiore alla stesso diritto di proprietà, e che il rapporto che ha per oggetto una prestazione di lavoro non tocca solo l’avere ma l’“essere” del lavoratore.

Di nuovo, un’impostazione apparentemente molto astratta, e che non rifugge da una specifica attenzione – di cui troviamo più di una traccia nel giovane Marx – a movenze spirituali, può rivelarsi più adeguata nell’interpretazione dell’oggi e, al tempo stesso, più utile a illuminare le nostre prassi. Penso in particolare al socialismo con “corposa concezione etica” di Honneth[3], il quale critica il marxismo tradizionale per la sua grave opacità quanto alla considerazione delle ricadute politico-morali del capitalismo e per il suo “monismo economicista disperante”, nel quale non rimane più “nessun spazio legittimo per l’autonomia dei singoli, per la ricerca intersoggettiva di una volontà comune”, consegnandosi a quella che si può definire “occlusione di un accesso normativo alla sfera politica” generato dalla propria stessa dottrina, la quale inibisce di pensare i diritti di libertà liberali (che sarebbero volti solo alla tutela della proprietà e della licenza di costruire patrimoni privati) come premesse, piuttosto che come ostacoli, delle libertà sociali. Qui c’è in embrione sollevato anche il punto importante della distinzione tra liberalismo e neoliberismo, su cui penso che Fraser converrebbe, e che io considero addirittura una cesura (a differenza di coloro, anche a sinistra[4], che non vedono tra i due alcuna “soluzione di continuità”), sulla base della quale ritengoo possibile, e auspicabile, un’alleanza tra liberalismo sociale e socialismo.

Del resto un’alleanza simile si è realizzata altre volte nella storia dando risultati straordinari. In un’altra sede Nancy Fraser ha ricostruito (con Rahel Jaeggi) la storia del capitalismo come una sequenza di “regimi di accumulazione” [5]: il capitalismo mercantile o commerciale, il capitalismo competitivo cosiddetto “liberale”, il capitalismo socialdemocratico o State-managed, il capitalismo finanziarizzato. Ecco, io non credo che i “Trent’anni gloriosi” e il compromesso keynesiamo in cui si è risolto lo State-managed capitalism possano essere considerati solo una fase in una successione lineare di “regimi di accumulazione”. Penso, invece, che si sia trattato di una rottura molto profonda, a tal punto che, per rovesciarla, è stato necessario per i conservatori e le destre di tutto il mondo pensare e organizzare la vera e propria “restaurazione” [6] in cui si è poi estrinsecato il neoliberismo. Non mi sfuggono i limiti  (in particolare l’eteronormatività e la dipendenza istituzionalizzata delle donne dal salario della famiglia) del compromesso keynesiano e del welfare state, una delle realizzazioni più importanti dei “Trenta gloriosi”. Ma la straordinarietà di quel periodo risalta comunque indubbia ed essa si deve al fatto che, talvolta più talvolta meno intenzionalmente, sempre si puntò su una “riforma” in grande del capitalismo, una riforma profonda in cui una radicalità inusitata di progettazione teorica e di critica ideologica congiunse il pensiero innovativo keynesiano alle rivoluzionarie iniziative di Roosevelt e al riformismo radicale europeo – il laborismo inglese ispirato da Beveridge e la socialdemocrazia scandinava – che si opponevano, anche idealmente, ai totalitarismi. In quella fucina Karl Polanyi scrisse il suo libro più importante (pubblicato nel 1954), mostrando come il capitalismo e l’economia di mercato furono salvati (nella Grande Trasformazione sottostante alle crisi dei decenni precedenti) da una nuova concezione del potere pubblico e dalla edificazione del welfare state, entrambi alla base dei Trenta gloriosi.

Non dobbiamo sottovalutare la potente carica di mobilitazione morale, oltre che politica, che c’era in tutto ciò, di cui fino al tardo Novecento i protagonisti sopravvissuti rendevano commossa testimonianza. Anche il New Deal – che si dotò di una cifra “sperimentalista” per la quale Roosevelt traeva direttamente ispirazione dai filosofi pragmatisti americani e da Dewey – deve la sua immensa anima trasformativa alla sua “capacità progettuale” e alla sua “carica morale”. L’assumere drammatici problemi morali, quali la sofferenza umana, in quanto tout court problemi politici era proprio di una tradizione politica anglosassone che interpretava gli eventi sociali nei termini di suffering situations, cioè terreni di contesa innanzitutto morale tra vittime, oppressori, riformatori. Ciò che rende unico il New Deal è che tale assunzione venne riprodotta al fine di ridisegnare radicalmente la “forma di vita” dominante, sottraendo gli individui alla passività e all’apatia con la mobilitazione per il lavoro e per la moralità politica.

 

 

 

 

[1] E. Pulcini, L’individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del legame sociale, Milano, Bollati Boringhieri, 2001, p.21

[2] S. Mezzadra, Nei cantieri marxiani. Il soggetto e la sua produzione, manifestolibri, Roma 2014 pp. 27,  23 e 24

[3] A. Honneth, L’idea di socialismo. Un sogno necessario, Feltrinelli, Milano 2016, pp. 49 e seg.

[4] Per tutti si vedano P. Dardot, C. Laval, La nouvelle raison du monde. Essais sur la societé néolibérale, La decouverte, Paris 2009 (tr. it. La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, DeriveApprodi, Roma 2013). Anche nel loro libro successivo (Commun. Essai sur la révolution au XXI siecle, La Decouverte, Paris 2014) Dardot e Laval rimangono all’interno di un quadro analitico sottovalutante gli aspetti più negativi del neoliberismo (in particolare l’aggressione al perimetro pubblico), il che li porta a caratterizzare  il pubblico come “predone” (e “asservito” ai privati)  non meno dei privati stessi, a considerare con uguale ostilità “pubblico” e “privato” e a vedere nel “comune” la sola alternativa da perseguire.

[5] Si veda N. Fraser, R. Jaeggi, Capitalism. A Conversation in Critical Theory, Polity Press, Cambridge 2018

[6] D. Harvey, A Brief History of Neoliberalism, Oxford University Press, Oxford 2005

Un’indagine sul rapporto tra i giovani e la filosofia. Sull’utilità e il danno della filosofia per la vita.

Il multiculturalismo nella quarantena

di Celso Frederico

(Traduzione di Antonino Infranca)

 

Parlare di multiculturalismo adesso? Fino a poco tempo fa era un tema centrale nei progetti politici dei governi progressisti, ma, ad un tratto, i cambiamenti del vento in Brasile hanno portato un’inattesa regressione e il franco dibattito sul multiculturalismo è entrato in quarantena. Le politiche pubbliche di inclusione sociale sono state archiviate e, in questa congiuntura sfavorevole, assistiamo alle reazioni infuriate che propongono la distruzione di statue di personaggi storici legati alla schiavitù. Più distruttivo, però, è il tentativo di bandire dalla letteratura autori considerati omertosi verso la schiavitù, come Machado de Assis, la cui lettura fu già sconsigliata da militanti antirazzisti. O anche Monteiro Lobado, vittima preferita del “politicamente corretto”. I libri di Lobato devono uscire dalla circolazione o le nuove edizioni devono essere emendate dai riferimenti razzisti? Nessuna di queste alternative educa. Soffriamo una schiacciante sconfitta e, così, non conviene essere puntigliosi con coloro che sono sotto attacco e, molto meno, fornire munizioni ai disprezzabili carnefici. L’ascesa del fascismo bolsonarista, comunque, ha portato novità inattese per le forze di opposizione e ciò ci obbliga a un processo riflessivo di autocritica e di ridefinizione delle strategie di lotta.
Quando si parla di multiculturalismo, non c’è come sfuggire a una questione fondamentale: come dovrebbero convivere le diverse culture in uno Stato democratico di diritto, che oggi cerchiamo penosamente di difendere?
Ci sono, almeno, due risposte possibili.
La prima enfatizza le differenze culturali ed etniche per proporre la “lotta per il riconoscimento” di tali differenze come forma compensatoria delle diseguaglianze e permettere un’integrazione sociale che preservi le differenze. Questa risposta è orientata da una logica culturale.
La seconda, al contrario, sposta l’enfasi dalla cultura alla sfera socioeconomica. Perciò, rivendica una politica pubblica che favorisca l’integrazione nel mercato del lavoro come condizione per la realizzazione della cittadinanza e dei valori comuni alla società. In questo modo evita che le differenze culturali si irrigidiscano e mettano in pericolo la democrazia.
Ciascuna risposta ondeggia su strade differenti: o si considera la nazione come un insieme di etnie differenti o si punta ad una visione di assimilazione che valorizza l’ibridismo come costitutivo della nazionalità e della cittadinanza.
Si aggiorna, così, nel campo politico, l’opposizione tra i diritti particolaristi (delle cosiddette “minoranze”), difesi dai diversi movimenti sociali e i diritti universali del cittadino, stabiliti con la Rivoluzione Francese del 1789.
Argomenti forti sono utilizzati in questa contesa dalle due correnti.
I difensori del particolarismo hanno ragione quando denunciano il carattere astratto di un universalismo centrato sulla falsa idea di cittadinanza, che proclama che tutti gli uomini sono uguali di fronte alla legge, malgrado siano diseguali nella vita reale.
I difensori dell’universalismo, a loro volta, hanno ragione nel criticare l’enfasi esagerata degli interessi particolaristi, affermando che essi impediscono la convivenza democratica e la comprensione tra gli uomini.
Siamo, pertanto, di fronte a un confronto che attraversa il campo della cultura, della politica e della filosofia.

Multiculturalismo e lotta per il riconoscimento

La lotta per il riconoscimento, prima di essere sollevata dal multiculturalismo, ebbe le sue origini in Francia, quando un movimento politico, la guerra per la liberazione dell’Algeria (1954-1962), ebbe ripercussioni forti nell’allora egemonica filosofia esistenzialista. Nei corsi di Alexandre Kojève, dedicati alla filosofia di Hegel, si discuteva con entusiasmo la dialettica del servo e padrone, presente nella Fenomenologia dello spirito. Queste due figure della coscienza si impegnavano in una lotta per il riconoscimento, così come il colonizzato e il colonizzatore, nei testi di Fanon e di Nemmi. Con questo riferimento astratto, la riflessione filosofica si incontrò con l’azione politica. A partire da lì si generalizzarono i movimenti sociali rivolti a rovesciare l’immagine di inferiorità della donna e del negro. Lo Stato democratico, allora, aderì alla politica dell’universalismo, consacrando l’eguaglianza di tutti i cittadini.
In un secondo momento, la lotta per il riconoscimento ebbe una trasformazione: il riconoscimento dell’eguaglianza lasciò posto alla lotta per il riconoscimento delle differenze. Lo Stato, adesso, affronta una nuova sfida: tener conto della rivendicazione particolarista di soggetti collettivi, in un ordinamento giuridico che permetta all’individuo isolato di essere il portatore di diritti universali.
Sul piano teorico, si consolidò una concezione del mondo che rifiuta l’universale in nome delle “micro-narrative” – la storia dei negri, delle donne, dei gay, ecc. La critica delle “grandi narrazioni” nega l’esistenza di una storia universale da tutti condivisa. Alcuni autori usano l’espressione “ghetti cognitivi” o “apartheid progressista” per caratterizzare criticamente la proposta; altri puntano alla vicinanza ideologica con il liberalismo e alla visione di una società democratica in cui le differenze siano ospitate: ciascuna nel suo angolo.
Il confronto tra il culturalismo e l’ideale democratico è risorto in Francia alcuni anni fa. Il centro del dibattito era l’uso di simboli religiosi (specificamente il burqa) nelle scuole pubbliche e laiche. Dopo vari anni di discussione accalorata, il governo francese decretò la proibizione. Non mancarono buoni argomenti dai due lati: la critica all’intolleranza statale che chiude gli occhi verso le altre culture e perseguita i musulmani: parla di universalismo, ma è al servizio di un particolare; o, dall’altro lato, la difesa della laicità minacciata dal fondamentalismo – una identità fanatica che vuole imporre il suo particolarismo a tutti.
È evidente che si deve rispettare la diversità culturale e la sua convivenza pacifica dentro lo Stato democratico, ma ciò presuppone una cultura politica comune che deve essere accettata. Perciò, il governo francese proibì l’uso del velo islamico nelle scuole pubbliche. La proibizione si basava sul principio che gli immigranti devono accettare la laicità dello Stato: chi è immigrato in Francia ha scelto e, pertanto, deve condividere le regole della convivenza esistenti in quel paese.
La lotta per il riconoscimento, come ogni confronto di dimensioni politiche, ebbe come uno dei suoi funesti ed imprevisti risultati un’odiosa reazione, anch’essa appoggiata da una visione essenzialista e particolarista: la xenofobia è risorta violentemente per difendere la “purezza” razziale (e la difesa dei posti di lavoro), mediante una “pulizia etnica”. Da un lato ha generato la segregazione, dall’altro l’odio razziale.
Passiamo alla critica all’universale, il punto di partenza del multiculturalismo.
La denuncia dell’“universalismo astratto” della sua concezione, secondo la quale, la legge è uguale per tutti, constata, a ragione, che essa eguaglia i disuguali e impone una pretesa uniformità. Tale concezione rimonta all’Illuminismo, che, concependo gli uomini, genericamente, come esseri razionali, non prestava attenzione alle differenze individuali. Contro questo livellamento, il romanticismo si oppose, esaltando la singolarità e collocandola in opposizione all’universale.
La dialettica è sorta per superare questa antinomia. Hegel affermava che non esiste un abisso insuperabile tra l’universale e il singolare e neanche una relazione di esteriorità, poiché i singolari sono parte costitutiva dell’universale e questo si incarna negli esseri singolari (basta ricordare “l’uomo universale” del Rinascimento e i “personaggi tipici” del romanzo realista). Non si può, pertanto, confondere la concezione dialettica dell’“universale concreto” con la visione livellatrice dell’“universale astratto”.
Secondo Hegel, quest’ultima deve essere compresa come manifestazione iniziale, immediata, del concetto di universale, ancora astratto, vuoto, indeterminato. Perciò, Hegel introdusse nel suo concetto dialettico le successive determinazioni che arricchiscono l’universale e che sono i suoi momenti costituenti. In questo modo, le particolarità possono, infine, riconoscersi, integrandosi armonicamente nell’universale e diventando coscientemente parti di esso senza perdere, nel frattempo, le loro qualità specifiche. L’universale, per la dialettica, non è una notte in cui tutte le vacche sono nere e non implica il cancellamento delle qualità inerenti dei singolari, che, spogliati di quelle, sarebbero integrati a forza in una pretesa indifferenziata unità. La dissoluzione dei diversi nella monotonia dell’Uno è l’accusa antica sollevata dai critici dell’hegelismo. Marx difese Hegel, affermando che il primato del generale sui particolari non significava la dissoluzione di questi “under a general principle”.
Tale diluizione è presente oggi nella falsa universalità della cosiddetta generalizzazione. Da un lato, essa ha messo in crisi lo Stato-Nazione, quell’istituzione che, secondo Habermas, ha reso possibile l’affermazione della politica come la strada che porterebbe all’accesso al vero universale. Dall’altro, essa impose, al suo posto, un preteso universale: la società del consumo. Adesso si può parlare di omogeneizzazione pastorizzata di un mondo popolato da false equivalenze: le differenti merci, svuotate dal loro valore d’uso, equiparate dall’astratto valore di scambio; gli individui appartenenti alle differenti classi sociali nominati indistintamente come “cittadini”; e, finalmente, questi ultimi trasformati in “rivendicanti” consumatori che lottano in apparente eguaglianza di condizioni per i loro “diritti” in un mercato che, cinicamente, consacra la “sovranità del consumatore”.
Oltre le relazioni di mercato, si concentra, ancora, la massa di individui privati, non di soggettività desideranti, ma di posti di lavoro stabili. Dentro il mercato coesistono le differenti classi sociali che si battono, non per il riconoscimento delle loro differenze, ma per il possesso della ricchezza prodotta dal lavoro sociale. Il multiculturalismo, contrariamente, ha sostituito la contraddizione con la diversità.
Se il campo della cultura, come disse Habermas, è pre-politico e, storicamente, ha prodotto solo «le sfilacciate forme tradizionali di integrazione sociale», è necessario allora riscattare la dimensione della politica, della democrazia, dell’ideario repubblicano, dell’emancipazione sociale, poiché è qui che l’universale può progressivamente realizzarsi. Perciò, alcuni autori, tornando alla concezione dialettica, preferiscono parlare di “universalismo concreto” per dar conto di un processo attraverso il quale la legge potrà produrre l’eguaglianza per tutti. Solo così è possibile uscire dalla “piccola politica”, dalla frammentazione culturale dei particolari che non si intendono, verso la “grande politica”: la lotta contro lo sfruttamento economico, fonte primaria della disuguaglianza e dei conflitti contro le forme di discriminazione sociale delle differenze.

Brasile: il multiculturalismo come politica pubblica

Il multiculturalismo come politica pubblica implementata dallo Stato ha fatto il suo ingresso tra di noi nel seminario sul multiculturalismo e razzismo, realizzato il 2 giugno 1996, durante il governo di Fernando Henrique Cardoso. Per il seminario furono convocati diversi intellettuali brasiliani e brasilianisti nord-americani per discutere l’introduzione delle affermative actions a Brasilia. La centralità della questione razziale, come si aspettava, suggeriva ovviamente una comparazione tra Brasile e Stati Uniti.
Monica Grin, in un saggio dedicato al seminario, chiede: «Se ci sono nell’ordine sociale brasiliano i “soggetti razziali” di diritto ai quali dovrebbero essere dirette quelle politiche? Così la domanda che il dibattito di Brasilia poneva in forma più incisiva era: quale è lo statuto ontologico della “razza” in Brasile? Esistono soggetti “razziali”? Ossia i soggetti sociali si definiscono e si percepiscono a partire da una chiara divisione razziale?».
Affermare che, a somiglianza degli Stati Uniti, ci sarebbero tra di noi “soggetti razziali”, come pretendevano alcuni degli intellettuali presenti, così come alcune correnti del movimento negro, ha come risultato la politicizzazione delle differenze e una concezione razzializzata della vita sociale. Si tratta qui della trasposizione di una problematica nord-americana della race-conscious – la presa di coscienza della negritudine come presupposto per la lotta per politiche compensatorie che puntino alla diminuzione delle disuguaglianze. Ma in Brasile, al contrario, la presa di coscienza sorge come risultato dell’azione statale che pretende di creare i “soggetti sociali” da includere mediante interventi focali compensatori.
La creazione dei “soggetti razziali”, in Brasile, cozza contro la specificità di un contesto che non ha nulla a che vedere con gli Stati Uniti. La “graduazione” tra le “razze” stabilisce un continuum che cancella la rigida differenziazione tra bianchi e negri esistente negli Stati Uniti, espressa dalla antica legge del one-drop rule seconda la quale un’unica goccia di sangue negro, ereditata dagli antenati, è sufficiente per classificare un individuo come negro.
Dall’altro lato, l’inesistenza tra di noi di una borghesia negra dimostra che la questione razziale e la questione sociale si fondono. Perciò, Fabio Wanderley Reis ha considerato «chiaramente odiosa, nelle condizioni generali che caratterizzano i vasti strati indigenti della popolazione brasiliana, la pretesa di stabilire una discriminazione tra le razze come criterio per l’azione di promozione sociale dello Stato. Si rifletta che è proprio alla base della piramide sociale, dove ovviamente si trovano i bersagli potenziali più importanti dello sforzo sociale dello Stato, che più si mescolano e si integrano socialmente popolazioni razzialmente diverse, per non parlare della presenza più intensa della stessa mescolanza».
Il brasilianista George Reid Andrews, a sua volta, ricordò che l’azione affermativa, negli Stati Uniti, è una politica che «ha beneficiato principalmente o esclusivamente, la classe media negra; poco o nulla ha fatto per la classe povera». Non sorprende, quindi, dice l’autore «che il movimento negro negli anni Ottanta sia stato guidato in maggior parte da membri di questo strato sociale».
Così, fu necessario un intellettuale nord-americano, che nulla ha di marxista, per ricordare l’equivoco di cercare i riferimenti per le nostre piaghe nell’esempio nord-americano. Egli ebbe anche l’audacia di ricordare ai presenti che l’unico programma governativo nel mondo che ha ridotto le disuguaglianze razziali fu quello cubano, che ha eliminato le differenze razziali nella salute, aspettativa di vita, educazione e lavoro. e ciò fu possibile perché l’azione governativa non si è diretta al colore della pelle, ma alla promozione degli strati più poveri della popolazione.
Oggi, dopo l’implementazione delle politiche affermative e l’ascesa di Trump e Bolsonaro, assistiamo al “ritorno del represso”. Gli ampi settori delle classi medie nei due paesi hanno esposto apertamente, senza alcun prurito, il risentimento di fronte alla “sgradevole” presenza dei segmenti fino allora marginalizzati. Il risentimento, questa “passione fredda”, questa “forza reattiva”, è entrato con forza nella sfera pubblica.
La nuova congiuntura che si è aperta obbliga a tornare al tema, oggi “inopportuno”, del multiculturalismo e riscattare la “grande politica”. Se la piccola politica, come quelle espresse nell’affermazione di identità e nella cultura delle differenze, rimaneva prigioniera del particolare, la Politica – con P maiuscola – ci può condurre progressivamente all’universale. Si tratta qui dell’azione politica che induca gli uomini a superare le loro limitazioni singolari e la mera particolarità che li caratterizzano per identificarsi con il genere umano.
Nello stato democratico di diritto, le politiche pubbliche dovrebbero muoversi in questa direzione. Nel caso brasiliano, il superamento della particolarità ha a suo favore il mito della “democrazia razziale”, considerato da molti soltanto come un’“ipocrisia”. Ma, l’ipocrisia è un omaggio che il vizio presta alla virtù. C’è qualcosa di importante e virtuoso in questo mito brasiliano che dovrebbe servire di riferimento per costruire una democrazia sostantiva, senza aggettivazioni, in cui il colore della pelle di una persona smetta di essere oggetto di orgoglio o discriminazione.

 

IL PRINCIPIO DI PRECAUZIONE E L’EMERGENZA COVID-19

di Andrea Ciacci

Abstract:

Il contributo affronta la tematica del principio di precauzione, vera e propria bussola dei governi nazionali nel fronteggiare la pandemia da Covid-19. L’analisi prende le mosse dalle prime apparizioni del principio per giungere alle sue più recenti formulazioni, interrogandosi infine relativamente alla coerenza dell’operato del Governo italiano con il corretto utilizzo del principio de quo.

The research addresses the issue of the precautionary principle, which has been the main tool many National governments have been using to face the Covid-19 pandemics. The analysis also questions the actions taken by the Italian government, subjecting them to the magnifying glass of the principle itself.

SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Genesi ed applicazioni del principio di precauzione. – 3. Considerazioni conclusive.

1. Premessa

La pandemia [ref]Così classificata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Si rimanda al WHO Director-General’s opening remarks at the media briefing on COVID-19 dell’11 Marzo 2020.[/ref] della patologia respiratoria denominata COVID-19 [ref]Abbreviazione dell’inglese COronaVIrus Disease-2019.[/ref], che sin dai primi mesi del 2020 sta interessando l’intera popolazione mondiale, ha richiesto l’adozione di misure straordinarie da parte degli Stati, volte – nell’attesa dello sviluppo di un vaccino – al contenimento del contagio da coronavirus SARS-CoV-2 [ref]Denominazione adottata dall’International Committee on Taxonomy of Viruses (ICTV) e successivamente utilizzata anche dall’European Centre for Disease Prevention and Control (ECDC).[/ref]: si tratta, principalmente, di restrizioni a diritti fondamentali quali l’autodeterminazione e la libera circolazione degli individui, nonché di limitazioni allo svolgimento di attività economiche.

In assenza di presidi terapeutici convalidati e certi, il governo italiano [ref]Attraverso decreti legge (in particolare, i numeri 6 e 19 del 2020), decreti ministeriali e decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri adottati in ossequio alla legge 23 agosto 1988, n. 400 e nell’ambito delle materie che l’articolo 117 della Costituzione riserva alla potestà legislativa e regolamentare esclusiva dello Stato, nonché esercitando il potere di ordinanza in materia di protezione civile che l’articolo 5 del Codice della protezione civile (Decreto Legislativo n. 1 del 2 gennaio 2018) attribuisce al Presidente del Consiglio dei Ministri; per quanto di competenza del Ministro della Salute, per il tramite delle ordinanze di cui all’articolo 32, primo comma, della legge 23 dicembre 1978 n. 833.[/ref] e gli enti locali [ref]Le Regioni si sono avvalse del potere di ordinanza loro conferito, anche nelle materie di igiene e sanità pubblica, dall’articolo 32 della legge 23 dicembre 1978 n. 833. I Comuni hanno adottato misure eccezionali attraverso lo strumento delle ordinanze contingibili ed urgenti di cui all’articolo 50, comma 5, del decreto legislativo n. 267 del 2000, predisposto dal testo unico degli enti locali (anche) per i casi di emergenza sanitaria o di igiene pubblica, qualora rivestano esclusivamente carattere locale.[/ref] hanno optato per un approccio all’emergenza [ref] In data 31 gennaio 2020, il Consiglio dei Ministri ha dichiarato lo stato di emergenza fino al 30 luglio 2020. Ciò si è reso necessario “in conseguenza del rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili”.[/ref] di tipo precauzionale, principalmente inibendo agli individui (a prescindere dal loro stato di salute) la possibilità di allontanarsi dai propri luoghi di dimora (se non per casi eccezionali, tassativamente previsti nei decreti adottati) [ref] Il c.d. “lockdown”; detto termine, nei paesi anglosassoni, indica quel particolare protocollo d’emergenza teso al confinamento degli individui in una determinata area, per ragioni di sicurezza ed ordine pubblico.[/ref], vietando gli assembramenti, precludendo l’ingresso e l’uscita da determinati territori, prescrivendo l’utilizzo di idonei presidi sanitari.

È noto come, a partire dal Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 9 marzo 2020, le misure in un primo momento operanti limitatamente in circoscritte zone della penisola [ref]Per mezzo del DPCM datato 8 marzo 2020, il quale, all’articolo 1, individua le località interessate nella regione Lombardia e nelle province di Modena, Parma, Piacenza, Reggio nell’Emilia, Rimini, Pesaro e Urbino, Alessandria, Asti, Novara, Verbano-Cusio-Ossola, Vercelli, Padova, Treviso, Venezia.[/ref] siano state, successivamente, estese a tutto il territorio nazionale, interessando anche comuni e regioni che fino ad allora non avevano registrato casi di positività al COVID-19.

La vigorosa politica cautelativa adottata dal governo, centrale e locale, è conseguenza della mancanza di esaustiva letteratura scientifica in merito al SARS-CoV-2; l’opportunità di intervenire, “sospendendo” talune libertà costituzionalmente garantite per salvaguardare il bene primario della salute pubblica nonché la tenuta del sistema sanitario nazionale, è suggerita dal principio di precauzione.

2. Genesi ed applicazioni del principio di precauzione

Il principio di precauzione costituisce uno dei più importanti approdi della riflessione giuridica del XX secolo.

La sua genesi è legata a doppio filo col progresso nel campo tecnologico e scientifico, il quale ha reso possibile lo svolgimento di attività il cui raggio d’azione si estende ben oltre il luogo ove le stesse siano poste in essere [ref]Per mezzo del DPCM datato 8 marzo 2020, il quale, all’articolo 1, individua le località interessate nella regione Lombardia e nelle province di Modena, Parma, Piacenza, Reggio nell’Emilia, Rimini, Pesaro e Urbino, Alessandria, Asti, Novara, Verbano-Cusio-Ossola, Vercelli, Padova, Treviso, Venezia.[/ref]. Tale condizione di “onnipotenza tecnologica” non è stata, tuttavia, affiancata da una parallela, esaustiva cognizione in merito ai suoi effetti collaterali. È in questo scenario che si afferma il principio di precauzione, non senza qualche opinione critica [ref]A tal riguardo, si segnala il pensiero del costituzionalista statunitense Cass R. Sunstein. Ne Il diritto della paura (trad. it. di U. Izzo, il Mulino, Bologna 2010), Sunstein sostiene che il principio di precauzione è “incoerente, perché le misure regolative da adottare genererebbero, a loro volta, nuovi rischi, con effetti paralizzanti: da un lato proibendo l’adozione di misure regolative, dall’altro consigliando di mantenere fermo lo status quo. Sunstein propone, pertanto, di limitare l’ambito di applicazione del principio di precauzione alle situazioni di esposizione ad un rischio potenzialmente catastrofico, con conseguenze non stimabili ed effetti dannosi irreversibili (il cd. principio anticatastrofe).[/ref].

Hans Jonas è considerato uno dei padri del principio di cui si discorre. Il filosofo tedesco, nel postulare una nuova etica fondata sulla responsabilità verso le generazioni future, riteneva fosse necessario, “nell’era della civiltà tecnica divenuta, modo negativo, onnipotente”e delle conseguenti incertezze sulle “previsioni del futuro”, dare maggiore considerazione alla “profezia di sventura”, piuttosto che ad una più rassicurante “profezia di salvezza” [ref]Cfr. H. Jonas, Das Prinzip Verantwortung, 1979, ed. it. a cura di P.P. Portinaro, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino 1990.[/ref]. Da tali premesse, Jonas ne derivava l’esigenza di scelte umane lungimiranti e tese ad anticipare il malum immaginato, non soltanto quello esperito.

La règle de droit [ref]Cfr. Charles Lében, Le principe de précaution. Aspects de droit International et communautaire, Edition Pantheon-Assas, Parigi 2002, p. 95 ss.[/ref] dell’agire precauzionale valorizza il dialogo tra diritto e scienza, trovando il proprio ambito di applicazione, dunque, nelle situazioni connotate da un fattore di incertezza scientifica [ref]La Commissione Europea, nella Comunicazione sul ricorso al principio di precauzione del 2000, osserva – al punto 5.1.3 – che “l’incertezza scientifica deriva di solito da cinque caratteristiche del metodo scientifico: le variabili prescelte, le misurazioni effettuate, i campioni individuati, i modelli utilizzati e le relazioni causali impiegate. L’incertezza scientifica può derivare inoltre da controversie sui dati esistenti o dalla mancanza di dati. L’incertezza può riguardare elementi qualitativi o quantitativi dell’analisi.”.[/ref] relativamente alle conseguenze eziologiche di una data condotta.

Questo aspetto consente di discernere il principio de quo da quello similare di prevenzione, il quale opera in situazioni in cui sussistono evidenze scientifiche ed il rischio di eventi dannosi non è meramente temuto, ma di sicura configurazione. Questa maggiore disponibilità di conoscenze consente, contrariamente a quanto avviene nelle angustie delle acquisizioni scientifiche in cui opera la precauzione, l’adozione di provvedimenti mirati, specifici e proporzionati all’evento infausto da evitare.

Il principio di precauzione giustifica un’eccezionale anticipazione della soglia di intervento dello Stato e della Pubblica Amministrazione per la tutela di determinati beni di importanza primaria (quali l’ambiente e salute umana), sacrificando altri interessi pur meritevoli di tutela – si pensi ai diritti di proprietà o di iniziativa economica privata – nonostante l’assenza di evidenze circa l’effettiva sussistenza di rischi [ref]Con l’ordinanza n. 93 del 18 luglio 2019, il Sindaco di Scanzano Jonico ha disposto, “in ossequio all’art. 32 della Costituzione ed al principio di precauzione sancito dal diritto comunitario e dall’art. 3-ter del D. Lgs. n. 152/2006”, il divieto di sperimentazione e/o installazione del 5G su tutto il territorio del Comune, posto che “le radiofrequenze del 5g sono del tutto inesplorate, mancando qualsiasi studio preliminare sulla valutazione del rischio sanitario e per l’ecosistema derivabile da una massiccia, multipla e cumulativa installazione di milioni di nuove antenne”.[/ref].

La necessità, per il legislatore o l’amministrazione, di intervenire (o di non agire [ref]R. Titomanlio osserva come, analizzando la normativa internazionale, comunitaria e nazionale, nonché la prassi giurisprudenziale, tale principio non goda di contorni ben definiti, potendo esser invocato tanto quale criterio di intervento dei poteri pubblici, quanto come criterio di legittimazione dell’astensione degli stessi. Cfr. R. Titomanlio, Il principio di precauzione fra ordinamento europeo e ordinamento italiano, Giappichelli, Torino 2018, p. 13.[/ref]) scaturisce, inoltre, dalla constatazione che l’eventuale danno prodotto sarebbe di ardua, se non impossibile, riparazione una volta verificatosi.

Il principio di precauzione registra la propria affermazione nell’ambito della tutela ambientale, trovando oggi applicazione tendenzialmente in ogni settore. Nella prassi, in particolare, un notevole utilizzo del principio si rinviene nella tutela della salute umana e dei consumatori.

Quanto al diritto positivo, le prime formulazioni possono rinvenirsi nella legislazione tedesca degli anni Settanta, allorquando la Legge sull’impiego pacifico dell’energia nucleare, all’articolo 7, subordina la concessione di un’autorizzazione alla produzione di energia atomica all’adozione di tutte le precauzioni necessarie contro i danni derivabili dalla costruzione e dal funzionamento dell’impianto.

In seguito, e parallelamente al crescente interesse verso la causa ecologista che si registra nella seconda metà del ‘900 [ref]Per i movimenti ambientalisti contemporanei è fondamentale la figura del naturalista statunitense Aldo Leopold, che, con la teoria dell’ etica della Terra, evidenzia come la salvaguardia dell’intero ambiente in cui viviamo sia lo scopo ultimo della specie umana. Cfr. A. Leopold, A Sand County Almanac and Sketches Here and There, Oxford University Press, Oxford 1949 (trad. it. di Andrea Roveda, Pensare come una montagna, Piano B edizioni, Prato 2019).[/ref], numerose convenzioni internazionali contempleranno il principio in esame.

L’approccio precauzionale, dopo un primo riconoscimento nella Carta mondiale della natura adottata dall’Assemblea generale dell’ONU nel 1982, è ripreso dal principio n. 15 della Dichiarazione di Rio sull’ambiente e lo sviluppo del 1992. Quest’ultimo stabilisce che gli Stati, ove “sussistano minacce di danni gravi o irreversibili” per l’ambiente, non potranno addurre “la mancanza di una completa certezza scientifica (…) come motivo per rimandare iniziative costose in grado di prevenire il degrado ambientale”.

Nell’ordinamento europeo entra in scena col Trattato sull’Unione Europea firmato nel 1992 a Maastricht, annoverato tra i principi fondamentali in materia ambientale della politica comunitaria (art.174 TCE, oggi 191 TFUE [ref]Per quanto qui di interesse, si riporta il comma secondo, prima parte, dell’articolo 191 TFUE (ex articolo 174 del TCE), che recita:

“La politica dell’Unione in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela, tenendo conto della diversità delle situazioni nelle varie regioni dell’Unione. Essa è fondata sui principi della precauzione e dell’azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché sul principio chi inquina paga.”.[/ref]). L’articolo 191 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea [ref]Il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) è il risultato di diverse modifiche apportate al testo del Trattato istitutivo della Comunità economica europea (TCEE) firmato a Roma nel 1957. L’attuale denominazione è stata introdotta dal Trattato di Lisbona, del 2007.[/ref] prevede che la politica dell’Unione in materia ambientale sia basata, tra gli altri, sui principi della precauzione e dell’azione preventiva.

Formulato originariamente per agire all’interno dei confini della sola politica ambientale, il principio ha nel tempo assunto connotati di principio generale, grazie soprattutto all’azione della giurisprudenza europea. Da più parti, tuttavia, si è evidenziata l’estrema vaghezza della sua formulazione, constatato come né l’art. 174 TCE né il successivo art. 191 TFUE contengano indicazioni di carattere sostanziale.

Pertanto, la Commissione, su incarico del Consiglio europeo, ha predisposto la Comunicazione sul ricorso al principio di precauzione [ref]COM(2000) 1 final. 2 febbraio 2000. Tale comunicazione è ritenuta “vaga e confusa” da Sunstein, che nutre notevole perplessità circa la possibilità di combinare l’analisi costi-benefici col principio di precauzione, soprattutto perché non si specifica alcunché su come operare laddove i costi della regolamentazione siano superiori ai benefici attesi: cfr. C. R. Sunstein, op. cit., p. 166.[/ref] relativa al significato nonché al margine di operatività da attribuire al principio, cui riconosce portata generale. Nella sezione introduttiva si legge come la scelta di assumere una decisione fondata sul principio di precauzione sia da preferire in presenza di due condizioni: quando le informazioni scientifiche sono “insufficienti, non conclusive o incerte”, e vi siano indicazioni in merito a possibili effetti nocivi sull’ambiente e sulla salute degli esseri umani, degli animali e delle piante “incompatibili con il livello di protezione prestabilito dalla Comunità”.

La Commissione, rilevato come tale principio si scontri, da una parte, con le libertà economiche e, dall’altra, con le istanze di tutela ambientale e della salute umana, ammette la possibilità per le amministrazioni europee di adottare misure precauzionali, purché proporzionate, non discriminatorie, trasparenti e coerenti [ref]Come recita COM(2000) 1 final. 2 febbraio 2000, ai punti 6.3.1, 6.3.2 e 6.3.3[/ref], all’esito di una procedura strutturata di adozione delle decisioni condotta sulla base di informazioni particolareggiate e obiettive di carattere scientifico. Il ricorso al principio di precauzione sarà dunque legittimato ove, al termine di una strategia strutturata di analisi dei rischi, comprensiva di valutazione, gestione e comunicazione del rischio, residui incertezza scientifica relativamente all’entità e alla gestione degli stessi.

La Corte di giustizia si è occupata in numerose occasioni del principio in esame [ref]Si ricorda, in particolare, la recente sentenza del 5 settembre 2019 della quinta sezione della Corte di giustizia (causa C-443/18), con la quale la Corte ha riconosciuto l’Italia inadempiente degli obblighi precauzionali sanciti dall’art. 7, par. 2 c) e 7, della decisione di esecuzione (UE) 2015/789 della Commissione, come modificata dalla decisione di esecuzione (UE) 2016/764 della Commissione, in tema di Xylella fastidiosa. La decisione di esecuzione 2015/789 aveva imposto all’Italia la rimozione degli ulivi che si fossero trovati in un raggio di 100 metri dalle piante già infette dal batterio Xylella, “indipendentemente dal loro stato di salute”.[/ref]. L’approccio precauzionale, secondo copiosa giurisprudenza comunitaria, giustifica l’adozione di misure di protezione quando sussistano incertezze in merito all’esistenza o alla portata di rischi per la salute delle persone, non dovendosi attendere la dimostrazione dell’effettiva sussistenza, nonché della gravità, di tali pericoli [ref]Cfr. sentenza 9 giugno 2016, cause riunite C-78/16 e C-79/16.[/ref].

È sufficiente, dunque, che “persista la probabilità di un danno reale per la salute pubblica nell’ipotesi in cui il rischio si realizzasse” [ref]Così la sentenza 17 dicembre 2015, Neptune Distribution, C-157/14.[/ref]. La Corte sottolinea come il principio di proporzionalità, nella scelta delle misure precauzionali da applicare nel caso concreto, debba fungere da criterio-guida teso ad evitare che si oltrepassino “i limiti di ciò che è appropriato e necessario per il conseguimento degli obiettivi” [ref] Cfr. sentenza 17 ottobre 2013, Schaible, C-101/12.[/ref]. Pertanto, ove fosse possibile optare tra più misure, il rispetto del principio di proporzionalità impone che la preferenza ricada su quella meno gravosa per il destinatario. Allo stesso tempo, nell’ipotesi in cui l’incertezza ricada sull’ an della produzione di conseguenze nocive, non potranno esser adottate misure che dispongano un divieto assoluto dell’attività sub iudice.

Nell’ordinamento giuridico italiano non vi è una norma generale che contempli questo principio, quanto, piuttosto, si rinvengono semplici riferimenti alla precauzione in normative di settore (ex multis, si pensi al codice dell’ambiente [ref]D. Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, che, all’art. 301 prevede come, “in applicazione del principio di precauzione di cui all’articolo 174, paragrafo 2, del Trattato CE”, laddove sussistano pericoli, anche solo potenziali, per la salute umana e per l’ambiente, debba esser garantito un elevato livello di protezione. Si consente, perciò, al Ministro dell’ambiente, in applicazione del principio di precauzione, di adottare “in qualsiasi momento” misure di prevenzione, purché proporzionali rispetto al livello di protezione da raggiungere, non discriminatorie e coerenti con misure analoghe già adottate.[/ref], al codice del consumo [ref]D. Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, che, ai commi 4 e 5 dell’art. 107, stabilisce che le amministrazioni competenti possano tener conto del principio di precauzione, ma le misure adottate devono essere proporzionate alla gravità del rischio.[/ref] nonché alla legge quadro sulla protezione dalle esposizioni a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici [ref]Legge 22 febbraio 2001, n. 36. L’articolo 1, al primo comma, pone tra gli scopi della legge quello di dettare i principi fondamentali diretti, tra l’altro, a “promuovere la ricerca scientifica per la valutazione degli effetti a lungo termine e attivare misure di cautela da adottare in applicazione del principio di precauzione di cui all’articolo 174, paragrafo 2, del trattato istitutivo dell’Unione Europea”[/ref]).

Per via del richiamo ai principi dell’ordinamento comunitario, contenuto nell’articolo 1 della legge 7 agosto 1990 n. 241, per come modificato dalla legge 15/2005, quello di precauzione costituisce, inoltre, uno dei principi che guidano l’azione amministrativa.

Il Consiglio di Stato ha contribuito a definirne i contorni e ha precisato che il principio di derivazione comunitaria della precauzione impone, qualora sussistano incertezze o un ragionevole dubbio riguardo all’esistenza o alla portata di rischi per la salute delle persone, l’adozione di misure di protezione “senza dover attendere che siano pienamente dimostrate l’effettiva esistenza e la gravità di tali rischi” [ref]Consiglio di Stato, sezione quarta, sentenza 8 febbraio 2018, n. 826.[/ref]. Notevole importanza, a tal proposito, riveste la sentenza n. 6250 del 2013 con la quale è stato stilato quello che, in dottrina [ref] G. Monaco, Dal Consiglio di Stato quasi un “decalogo” sull’applicazione del principio di precauzione. Nota a Cons. Stato, sez. V, 27 dicembre 2013, n. 6250, in Urbanistica e appalti , 2014, 5, 551 ss. [/ref], è stato definito un “decalogo” per la corretta applicazione del principio in esame da parte delle pubbliche amministrazioni. Le misure precauzionali da adottare, si osserva, “presuppongono che la valutazione dei rischi di cui dispongono le autorità riveli indizi specifici i quali, senza escludere l’incertezza scientifica, permettano ragionevolmente di concludere, sulla base dei dati disponibili che risultano maggiormente affidabili e dei risultati più recenti della ricerca internazionale, che l’attuazione di tali misure è necessaria al fine di evitare pregiudizi all’ambiente o alla salute”. La valutazione dei rischi propedeutica all’adozione di tali misure, specifica il Consiglio di Stato, dovrà esser il più completa possibile; non potrà basarsi su rischi meramente ipotetici e, al contempo, non sarà necessario raggiungere quell’evidenza scientifica che, d’altronde, difetta e rende necessaria tale anticipazione di tutela. Infine, i giudici amministrativi – allineandosi alla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea – ritengono indispensabile che la pubblica amministrazione, nello scegliere le misure da applicare, sia guidata dal principio di proporzionalità, affinché gli interessi coinvolti dalla sua azione sopportino il minor sacrificio possibile.

Anche la Corte Costituzionale ha avuto modo di occuparsi del principio di precauzione, sebbene in via mediata, pronunciandosi in tema di salute, tutela dell’ambiente ed iniziativa economica privata. Dallo studio della recente giurisprudenza della Consulta si evince come tale principio abbia assunto le vesti di strumento di bilanciamento fra contrapposti interessi di rilievo costituzionale. Paradigmatica in tal senso è la sentenza n. 116 del 2006, in tema di organismi modificati geneticamente. In tale circostanza, il giudice delle leggi ha utilizzato il principio di precauzione per sostenere la necessità di limitare – non mortificando totalmente – l’iniziativa economica dell’imprenditore agricolo per ragioni di utilità sociale, ovvero di tutela della salute umana e dell’ambiente. Precauzione, dunque, che richiama un giudizio di ragionevolezza e proporzionalità sulle scelte del legislatore. Richiamando un proprio precedente [ref]Corte Costituzionale, sentenza n. 282 del 2002.[/ref], la Corte ha ritenuto tuttavia necessario che l’imposizione di limiti all’esercizio della libertà di iniziativa economica, sulla base dei principi di prevenzione e precauzione nell’interesse dell’ambiente e della salute umana, per esser costituzionalmente ammissibile, debba esser basata su “indirizzi fondati sulla verifica dello stato delle conoscenze scientifiche e delle evidenze sperimentali acquisite, tramite istituzioni e organismi, di norma nazionali o sovranazionali, a ciò deputati, dato l’essenziale rilievo che, a questi fini, rivestono gli organi tecnico scientifici”.

3. Considerazioni conclusive

Il principio di precauzione trova, dunque, piena cittadinanza nel nostro ordinamento giuridico e, nel contesto emergenziale in essere, viene in rilievo in almeno due momenti.

Costituisce, anzitutto, l’humus dei provvedimenti [ref]Prevalentemente di natura amministrativa, pertanto suscettibili di vaglio giurisdizionale laddove non si tratti dei cd. atti politici, per i quali l’articolo 7 del decreto legislativo n. 104 del 2 luglio 2010 dispone l’insindacabilità.[/ref] di contrasto al diffondersi del SARS-CoV-2 adottati da Stato ed enti locali sin dai primi mesi del 2020, a causa di una letteratura scientifica in fieri che non consente tuttora di operare sotto l’egida esclusiva della prevenzione in senso stretto e, di conseguenza, adottare presidi meno generici.

Allo stesso tempo, il principio si pone quale strumento di cui avvalersi nel bilanciamento di opposti interessi di rango costituzionale.

A tal riguardo, la preminente tutela della salute, riconosciuta dall’articolo 32 della Carta costituzionale come fondamentale diritto dell’individuo ed interesse della collettività, giustifica norme dal carattere eccezionale volte ad impedire o restringere il godimento di altri diritti e libertà costituzionalmente garantiti, nella misura e per il tempo in cui l’effettivo esercizio degli stessi possa compromettere il fine di contenimento del contagio, e quindi anche al di là delle espresse previsioni costituzionali.

Tuttavia, deficit di proporzionalità e ragionevolezza, principi che la giurisprudenza, comunitaria e nazionale, considera immanenti al principio di precauzione, si son palesati per taluni specifici aspetti.

Anzitutto, con riferimento all’imposizione di divieti allo svolgimento anche di quelle attività esercitate senza alcun pericolo per la propagazione del virus come, ad esempio, la circolazione in ampi spazi di soggetti sani, muniti di dispositivi anti-contagio e nel rispetto delle indicazioni in merito al distanziamento sociale ed al divieto di assembramento. Secondariamente, con riguardo alla mancata predisposizione di un termine finale ad hoc per ogni specifica, gravosa, compressione delle libertà costituzionali contenuta nei decreti. In proposito, non si può sottacere come la fissazione del termine andasse definita non in via generale, ma con particolare attenzione alle singole limitazioni, e che anche là dove ciò sia stato successivamente fatto le decisioni assunte non son apparse congruamente motivate, ma, più che altro, dettate da una prudenza forse eccessiva ed a volte ingiustificata.

È in prospettiva, con l’auspicabile progresso del sapere scientifico e la normalizzazione della situazione sanitaria del Paese, che il principio di proporzione assumerà un ruolo ancor più decisivo.

I poteri pubblici saranno, infatti, tenuti ad adeguare – costantemente – le straordinarie misure ancora in parte vigenti al mutato contesto, attenuandone il rigore e differenziandole, se del caso, su base territoriale. Un tale modus operandi si rende necessario affinché le legittime esigenze precauzionali non comportino costi sociali superiori ai benefici perseguiti.

Dottorando di ricerca in Teoria del diritto e Ordine giuridico ed economico europeo presso l’Università degli Studi “Magna Graecia” di Catanzaro.

Il virus, il tempo e la scienza

di Ettore Rocchi e Sara Peluso 

 

La pandemia ha alimentato in questo periodo una latente ideologia antiscientifica che da anni serpeggiava nel nostro paese. Non c’è da stupirsi. Da decenni, ormai, i governi tagliano su istruzione, università e ricerca. L’italiano medio si affida a blog a dir poco imbarazzanti per farsi un’idea. L’ultimo dei cialtroni ha la stessa visibilità sui social di un premio Nobel. Anzi, ne ha molta di più perché, rispetto a un premio Nobel, ha molto più tempo da perdere. L’analfabetismo funzionale ha raggiunto livelli da primato europeo. L’analfabetismo scientifico è diffuso come mai, probabilmente, prima d’ora e come in nessun’altra nazione del mondo occidentale. Ci mancava solo la pandemia per dare il colpo di grazia all’immagine che la scienza ha prodotto nei quattro secoli dalla rivoluzione scientifica. 

E veniamo al punto dell’immagine che la scienza ha dato di sé in questo frangente. Iniziamo col dire che la scienza ha un metodo e dei tempi che non sono adatti alle emergenze. E quindi per questo è fallimentare? No. È pur sempre il metodo migliore che abbiamo per conoscere. Semplicemente, ha modi e tempi incompatibili con delle risposte immediate. Un modello scientifico nasce da osservazioni che richiedono tempo, deve essere costruito con un lavoro paziente, e soprattutto deve essere validato: tutto ciò costa denaro, risorse umane e soprattutto tempo. E quando anche sia validato, questo sarà in grado di fare predizioni solo finché la situazione rimarrà costante, stabile (ci riferiamo soprattutto ai famigerati modelli matematici). Al cambiare delle condizioni, cambieranno modelli e previsioni. Dunque, è lecito che il non addetto ai lavori si chieda: “a cosa serve un modello che descriva l’andamento dell’epidemia?”.

Su questo bisogna essere molto chiari. Un modello epidemico serve a due cose. La prima è che ci aiuta a capire la dinamica epidemica. E quindi la modalità di trasmissione del virus. Se si costruisce un modello che risponde bene alle osservazioni sul campo, allora questo significa che gli assunti biologici che sono stati postulati come base teorica del modello sono veri (o, più propriamente, compatibili coi fatti osservati). Conosceremo meglio, quindi, le modalità dell’infezione. Poi, un modello serve a fare previsioni. Ma le previsioni saranno valide esclusivamente se la situazione – e di conseguenza i parametri del modello – rimarranno inalterati. Quei parametri che dipendono esclusivamente dalle caratteristiche biologiche del virus certamente lo rimarranno, a meno di mutazioni virali, appunto. Ma i parametri di infettività, ciò che viene definito come la forza del contagio, dipenderanno – oltre che dalle caratteristiche intrinseche al virus – fondamentalmente dalle politiche di contenimento. Insomma, nessun modello che sia valido durante un lockdown potrà essere valido anche in fase di riapertura. Purtroppo, come si diceva, la scienza ha dei tempi lunghi. 

E ha dei tempi ancora più lunghi per lo sviluppo di terapie e di vaccini, che sono approvati dalle autorità competenti solo dopo un’attenta valutazione della sicurezza e dell’efficacia. Quindi, rinunciamo alla scienza? Volentieri, se ci fosse un’alternativa più efficace. Però chiediamo che l’efficacia di un metodo alternativo non sia stabilita su base dogmatica, ma suffragata dall’impietoso vaglio dei fatti. Se dovessimo scommettere, noi siamo convinti che tale alternativa non esista, semplicemente. E certo non si trova in alghe magiche, lieviti, e in tante altre intuizioni mediate dai social, le più sgangherate e prive di fondamento.

Parafrasando Churchill e la sua celebre affermazione sulla democrazia, potremmo dire che la scienza è la peggior forma di conoscenza, eccetto per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora. È un metodo che richiede pazienza, che richiede verifiche, osservazioni che confermano le ipotesi, correzioni di queste ipotesi sulla base delle osservazioni. E tutto questo può apparire incompatibile con un’emergenza. Ma se oggi, a distanza di pochi mesi, siamo in grado di proporre dei protocolli terapeutici, per quanto non completamente risolutivi, lo dobbiamo al metodo scientifico. E se, tra qualche tempo, avremo una terapia specifica ancora più efficace e, auspicabilmente, un vaccino, lo dovremo alla scienza. Allo stesso modo in cui oggi abbiamo terapie che hanno sostanzialmente azzerato la spaventosa letalità da HIV degli anni ‘80. Se ne ricordi, chi oggi biasima la scienza.

Discorso differente meritano gli scienziati. Inutile dire che c’è stata una miserevole corsa alle apparizioni televisive e alle concioni, spesso propinate con un tono profetico che poco si addice alla scienza. Dovrebbe essere chiaro a tutti che in questi casi non parla la scienza, parlano uomini. La scienza si fa nei laboratori e si legge sulle riviste scientifiche. Scomodo? Magari sì, per un giornalista medio. Poco spettacolare? Certamente sì, per un tycoon televisivo. Ma così è, che ci piaccia o no. E persino le riviste scientifiche, lo abbiamo visto, sotto pressione possono commettere degli errori. Anche in questo caso, la fretta non è una buona consigliera.

Ma biasimare la scienza per il comportamento a volte sconsiderato di qualche scienziato, non è una mossa saggia. La scienza si basa sui fatti e, come diceva Demmings, “senza dati sei soltanto un’altra persona con un’opinione”.

La scienza, in questa circostanza, l’hanno fatta anche i medici in prima linea, quei medici che sono stati abbandonati dalle istituzioni e che hanno dovuto barcamenarsi tra le informazioni spesso veicolate da un passaparola personale e sorretti da un’etica della responsabilità, senza alcun coordinamento ministeriale (che, lo ricordiamo, a tutt’oggi non ha emanato protocolli sanitari e terapeutici). Quegli stessi medici che, eroi fino a qualche settimana fa, oggi subiscono denunce come se il virus l’avessero inventato loro.

Insomma, per sintetizzare, i media e l’opinione pubblica hanno chiesto alla scienza ciò che la scienza non poteva dare. O, perlomeno, ciò che non poteva dare in tempi così rapidi.

Avremmo chiesto a Michelangelo di dipingere la Cappella Sistina in due giorni? Lo avremmo potuto chiedere a un imbianchino, magari, ma non a un artista. Allo stesso modo, non si poteva chiedere alla scienza di risolvere il problema Covid-19 in tempo reale. Per questo, ci si sarebbe dovuti rivolgere alla magia. Peccato che non esista.

 

IL SOCIALISMO DEL XXI SECOLO NON ESISTE

di Domenico Bilotti 

 

Michael Walzer, teorico radicale e animatore di una delle riviste più importanti nel dibattito liberal statunitense, “Dissent”, rimproverava alla sinistra politica, in un saggio di qualche anno addietro, di aver espunto dal suo orizzonte conoscitivo e rivendicativo il tema della religione e delle religiosità nella sfera pubblica. Walzer, vicino alla cultura ebraica laico-umanista, di cui ne è in qualche modo continuatore, era a un tempo nel giusto e a un tempo in errore. È vero, la sinistra politica non aveva ragionato abbastanza sulla religione e sulle religioni, ma la direzione di quello scavo non doveva essere quella indicata dal filosofo. Si sarebbe dovuto (e il tempo non è finito) indagare piuttosto su come la secolarizzazione di principi e temi teologici si sia trasformata in norme giuridiche privatistiche, influenzando attraverso ciò l’approccio morale alle regole condivise. 

Oggi Nancy Fraser rilancia non questa specifica direttrice di lavoro, quanto piuttosto il dibattito che la precede: cosa è mancato e cosa servirà al discorso sul socialismo per affermarsi nella sua contemporaneità? La Fraser lo fa con un pregevole saggio breve di peculiare raffinatezza argomentativa pubblicato, per i tipi di Castelvecchi, “Cosa vuol dire socialismo nel XXI secolo?”. Quel saggio, lo chiariamo indubitabilmente in premessa sì da procedere meglio in analisi, è un lavoro di grande importanza anche nella brevità, rilancia con grande qualità un percorso tematico vivido e ricco di spunti. Non stupisca perciò se la riflessione si incentrerà totalmente sui risvolti critici che il volumetto solleva: ciò vale del resto a rinfocolare il dibattito già proficuamente lanciato. 

In primo luogo, l’entusiasmo di Fraser per la riscossa della sinistra socialista americana è troppo chiaramente territorializzato; si riferisce, salvo pochi inquadramenti di metodo, soprattutto all’ala del Partito Democratico statunitense che ha cercato negli ultimi anni di imporre un cambiamento di rotta al liberalismo centrista introiettato da parte importante di classe dirigente americana. Si può però dire che quella corrente non è novità di questi anni: esisteva, certo con minore efficacia e non creando il medesimo immaginario, al tempo della guerra del Golfo; esisteva negli anni scintillanti della Presidenza Clinton, quando il dominio americano sembrava aver definitivamente affermato se stesso; esisteva nei due mandati obamiani, nei quali, dialettizzando con autorevolezza, il presidente Obama era contemporaneamente un possibile alleato e non meno un leader da sferzare sul fronte della politica internazionale e della giustizia sociale. Per strano che possa sembrare, al socialismo del XXI secolo, che ancora non esiste, occorre una volta di più saper guardare con spirito “glocal”: tenere in gran conto lo sfondo analitico del contesto internazionale, ma sapere anche in quali concreti perimetri ci si muove. Manca, ad esempio e da parte nostra, una riflessione di sistema sulle possibilità dell’Europa nell’affermazione di un nuovo socialismo per il XXI secolo. Si era a lungo creduto, sino alla Third Way blairiana, che la vecchia Europa avesse un modello sociale (troppo) confortevole, ma lo si diceva in quegli stessi anni in cui si stava sfarinando, rinunciando a prestazioni sociali e dismettendo proprietà pubblica. Cos’è oggi l’Europa per il socialismo? Forse l’Unione Europea, nella sua strutturazione formale dopo il trattato di Lisbona e nel suo apparato decisionale sostanziale, non basta al socialismo, anzi lo avversa. L’Europa unitaria è tale solo se concretamente federalista, proiettata su politiche redistributive di economia reale, capace di favorire la mobilità orizzontale delle persone, senza irreggimentarsi nelle posizioni attuali – che pare dividano, in modo viepiù inconcludente, un continente già non unito in sottogruppi radunati per interessi regionali. 

Nel volume della Fraser, altra issue latente è forse quella della formazione partitica. Il tanto celebrato funerale del partito, che ormai si gioca a retrodatare ad libitum, è una delle più pericolose auto-narrazioni che la sinistra si sia inflitta. Non v’è dubbio infatti che fosse necessario prendere atto di dove le liturgie e le burocrazie (per riprendere la bella intuizione di Galli) avessero definitivamente frantumato la ricchezza dialogica e relazionale della partecipazione politica resa attraverso i partiti. Ma aggregati stabili di interessi, principi, forme dell’organizzazione sociale, persino sensibilità etiche, ideologiche, comunicative, devono morire tutti insieme ai partiti? Ci si permette di formulare questo quesito dal momento che partiti e movimenti politici comunque denominati e denominabili continuano proficuamente a presentarsi alle elezioni, a fomentare campagne mediatiche, a gestire potere. Quel che è seppellito non è la salma del partito, ma la nervatura umana della sua esperienza individuale e collettiva dell’esistere. 

Da Pareto in poi, con una peculiare enfasi in tutto il mutualismo socialista che precedette la formazione dei partiti marxisti novecenteschi, si elogiava la natura strutturalmente aggregativa e mediativa del partito, veicolo di interessi o, bordighianamente, peraltro, “cinghia di trasmissione”. Questa funzione è stata ampiamente equivocata e ha dato spesso vita, anche in Italia, a mere forme di welfare particolaristico. Quella funzione, tuttavia, epurata dalla sua ossificazione parassitaria, è coessenziale a un discorso sul socialismo: non per selezionare leader, non per irrigidire paradigmi organizzativi, quanto piuttosto per continuare a produrre, discernere e comporre conflitto. E qui l’analisi della Fraser trova il suo più diretto, radicale e forte, riferimento alla carne delle odierne intemperie: il socialismo del XXI secolo o realizza azione diretta sulle diseguaglianze sociali o non è socialismo. 

Normalmente, il dibattito filosofico-politico degli ultimi decenni ha tenuto ontologicamente distinti i temi delle migrazioni e delle diseguaglianze sociali. Li ha ritenuti uniti sul piano funzionale (errore in parte reiterato dalla Fraser), come se a spiegare il movimento servisse il ricorso alle categorie della disparità e dell’iniquità. Ci pare che quel legame sia invece un po’ più stretto, un po’ meno contingente, un po’ meno transitorio. Alcuni tipi di crisi zonali (che siano – come dimostrato dai tempi – sanitarie, idriche, civili, di leadership religiosa o di costituzione politica), di imprevedibile gittata quanto agli effetti materiali, mettono in movimento intere generazioni di cittadini del mondo. O si attua e si agisce – cioè, si dispone e si pratica – una nuova regolamentazione anche formale del diritto migratorio, o le nostre capacità di lettura e di comprensione delle migrazioni saranno sempre e comunque aggredite e aggredibili dai corifei di presunti interessi particolaristici, inseguiti da sbandierate minacce altrettanto presunte. 

Questa istanza nei movimenti sociali radicali e nelle correnti di opinione pubblica che la Fraser analizza, tematizza e perora, purtroppo non è ancora presente; l’approccio inclusivistico nei confronti delle lotte sociali dei migranti, nella odierna sinistra socialista europea e americana, non basta sfortunatamente ad assicurare la debita onda d’urto a una riscrittura complessiva della narrativa d’assalto sui fenomeni migratori. L’accoglienza senza il sussidio di istituti regolativi specifici – se non si vuole arrivare a parlare di dispositivi – è minacciata dal momento in cui il potere decisionale è preso da chi vuole reprimerla, o con leggi-vergogna chiamate un po’ ovunque “pacchetti sicurezza” o con zelante legalismo di giurisdizioni ormai abituate più alla dogmatica giuridica della condanna che a quella (d’esito invece aperto) del procedimento, la sede in cui la rappresentazione del fatto giunge a composizione nella distribuzione di ragioni di giustizia. 

E forse questa è la mancanza più urticante nell’abbozzo di socialismo del XXI secolo che anche questo forum vuole attivamente concorrere a creare: una riflessione sulla giurisdizione, da intendersi soprattutto come garanzia di libertà fondamentali nella fase del giudizio. È sul giudizio e sull’esecuzione del dispositivo (ancora una volta!) che lo chiude, è lì, che si gioca una delle più importanti differenze tra democrazie e dittature, tra sistematiche socialiste di libertà e socialismi nazionalisti, tra equità e arbitrarietà. Un socialismo del XXI secolo senza garantismo non sarà socialismo, non certo quello che serve alla fase. Da troppo tempo la sinistra italiana, e di più l’opinione pubblica che vorrebbe riferirvisi, ritiene che le imperanti corruttele privilegiarie debbano essere aggredite in prima istanza dalla repressione giudiziaria. E siamo convinti che la qualità metodologica della funzione inquirente sia coessenziale al necessario equilibrio di quella giudicante, oltre che da esso non sempre per forza indivisibile. Ciò tuttavia non ha impedito affatto che i risultati pratici, oltre che la mentalità giustizialista alimentatavi, non avessero alcun riscontro reale sulla qualità dell’amministrazione e, più in generale, della vita sociale. E anche questo è tema globale, perché l’avvicendamento elettoralistico dei ceti dirigenti, quando parte dalla mera dichiarazione di boicottaggio delle malversazioni, produce esiti disastrosi: lo abbiamo visto in Brasile, negli Stati Uniti ben noti alla Fraser, persino nell’attuale riaffermazione neoconfuciana in Cina, che non ha sin qui allargato particolarmente spazi di libertà nella viva carne dell’esercizio dei diritti politici. 

Siamo drastici e provocatori con la necessità che sia proprio questa la fase a richiederlo in onore della lucidità: un costituzionalismo democratico e plurale, esattamente quanto un socialismo per il XXI secolo, non potrà mai esistere senza formazione, federalismo, eguaglianza sociale, libertà di movimento, garanzie anche giudiziarie delle libertà. E se questi elementi ancora non consideriamo abbastanza, vuol dire che quel costituzionalismo e quel socialismo non esistono.  

Valerio Magrelli, “Ora serrata retinae”, Feltrinelli, 1980.

Poesia come “segreta epopea della soglia”

di Beatrice Monti

Il titolo dell’opera è indizio della “posa di scrittura” che caratterizza il fare poesia di Magrelli: Ora serrata retinae, ossia margine frastagliato della retina, superficie e limite dell’occhio; dove la poesia ha come suo luogo di appartenenza questo stesso margine, l’occhio nel punto in cui esso è apertura e insieme limite estremo di visione. È occhio che indaga il suo stesso guardare, in un incessante esercizio di torsione al fine di potersi ripiegare su stesso e farsi oggetto del suo vedere. “Senza accorgermene ho compiuto/il giro di me stesso”. Ma occhio che permane irrimediabilmente il proprio punto cieco e così insegue oggetti dove specchiarsi, cose a partire dalle quali possa far esperienza della propria potenza prensile. Poesia liminare che per sua natura si colloca sul divenire ombra della luce: interrogazione costante sul sé che interroga, indagine sull’io e sul suo corpo, corpo che tenta di toccarsi nel suo toccare il mondo. Ma, “in quanto vede o tocca il mondo, il mio corpo non può quindi essere visto né toccato. Esso non è mai un oggetto, non è mai un completamente istituito, proprio perché è ciò grazie a cui vi sono degli oggetti. Non è né tangibile né visibile nella misura in cui è corpo che vede e che tocca. Non è semplicemente sempre là. Se è permanente, lo è di una permanenza assoluta che serva da sfondo alla permanenza relativa degli oggetti suscettibili di eclissi”. (Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione). E da qui deriva l’impossibilità di una visione nitida, la difficoltà della messa a fuoco: 

 

“Io sono ciò che manca

dal mondo in cui vivo,

colui che tra tutti

non incontrerò mai.

Ruotando su me stesso ora coincido

con ciò che mi è sottratto.

Io sono la mia eclissi

la contumacia e la malinconia

l’oggetto geometrico

di cui per sempre dovrò fare a meno.”

 

Il problema dell’evento del mondo, del suo avvento, è quindi profonda occasione per analizzare i meccanismi del sé, dell’abitare umano. Non è casuale, infatti, che una poesia dell’opera sia dedicata al filosofo dell’empirismo inglese George Berkeley, per il quale l’essere è essere percepito, secondo la famosa definizione “esse est percipi”. Le cose sono idee ossia fenomeni presenti allo spirito, gli oggetti sensibili vengono a coincidere con gli oggetti della percezione. Il problema del mondo diviene problema innanzitutto del corpo proprio come punto di snodo tra l’io, inteso come autocoscienza, e il reale fenomenico. “Dietro di me ci sono io, bifronte,/ curvo sullo specchio del pensiero.”. La questione dell’esperienza si esprime, in Magrelli, nel tema costante del passaggio, sempre indagato e mai portato a definitiva spiegazione, dell’oggetto fenomenico dagli occhi al cervello. Il corpo si costituisce qui come condizione di possibilità, ma insieme impossibilità, di una visione lucida, controllata, puramente razionale, dell’oggetto. Corpo come intermediario necessario e insieme momento di dispersione del sé e del mondo: 

 

“Qui si smarrisce la vista

 e nel suo andare alla mente

si corrompe e tramonta.

Come se traversando

 pagasse ad ogni passo

il pedaggio del corpo.”

 

Il tema della difficoltà della messa a fuoco, di una visione nitida, ossia di una conoscenza cartesianamente intesa come idea chiara e distinta, secondo il tradizionale paradigma della visione, si scontra con la resistenza di un corpo proprio ma insieme estraneo. Riprendendo le riflessioni del filosofo francese Merleau-Ponty, ogni nostro agire nella realtà esterna, ossia il nostro essere-nel-mondo, implica un apriori corporeo. Un “corpo abituale”, ossia un corpo che reca traccia delle nostre esperienze passate e del cammino evolutivo della nostra specie; corpo che definisce l’ampiezza della nostra vita, e della nostra vista, l’apertura di ogni possibile orizzonte di senso. Ma questo stesso corpo ci è sconosciuto nei suoi più intimi meccanismi e ignota a ogni scienza è la connessione tra i fenomeni chimico-biologici delle cellule e i pensieri, le idee della coscienza. Questo filtro, membrana, misterioso e pure onnipresente è ciò che impedisce una chiara messa a fuoco del mondo, e in modo più radicale del sé che su questo mondo si interroga. Sempre riprendendo Merlau-Ponty: “l’ambiguità dell’essere al mondo si manifesta con quella del corpo, e quest’ultima si comprende mediante quella del tempo” (Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione). Ambiguità del corpo che si dà innanzitutto secondo la duplicità, espressa da Husserl, di Körper e Leib, corpo biologico, oggetto delle scienze, e corpo vissuto, irriducibile ad ogni paradigma scientifico. Per l’io lirico, che nel ripiegarsi su di sé ha fatto esperienza di questa ambiguità costitutiva, l’unica certezza rimasta non è che la “prodigiosa difficoltà della visione”: il soggetto è consegnato a una carne che in qualche modo lo precede, carne che determina però il luogo e la modalità della sua visione. Rivolgersi alla carne che siamo, ossia indagare questa soglia costitutiva, non può che significare il farsi carico di una visione difficile, liminare appunto. 

In Magrelli, la necessità di riflessione, fa sì che il soggetto divenga esso stesso oggetto per poter essere analizzabile, sottoponibile allo sguardo indagatore della ragione. Posto a distanza viene oggettivato e analizzato, colto nelle componenti biologiche, nel suo Körper.  Ma proprio attraverso questa esperienza conoscitiva si apre la frattura esistenziale tra il piano di un’esperienza vissuta in prima persona, il piano del Leib e della vita di coscienza dell’io lirico che dice io, e il piano di un corpo fratto, ridotto in parti, in elementi minerali. 

 

“Io abito il mio cervello

come un tranquillo possidente le sue terre.

Per tutto il giorno il mio lavoro

è nel farle fruttare,

il mio frutto nel farle lavorare.

E prima di dormire

mi affaccio a guardarle

con il pudore dell’uomo

per la sua immagine.

Il mio cervello abita in me

come un tranquillo possidente le sue terre.”

 

L’io è abitato nel suo più profondo dall’Impersonale, da una molteplicità estranea: un corpo biologico, insieme di cellule che interagiscono secondo processi fisico-chimici. In questi versi è esplicito il tema della percezione di sé nella propria unità-molteplicità, o meglio ancora, la percezione della propria alienazione in un corpo biologico-minerale: l’io lirico è un io che si dichiara esistente in una condizione di “cattività”, uno spirito che dimora nella muta e inerme carne. L’abitare dell’io nel suo cervello è un abitare tranquillo, di pacata e normale convivenza. Ma l’aggettivo “tranquillo” si scontra con il “pudore” dei versi successivi: l’io guarda con pudore la sua immagine, la sua carne, sente vergogna e disagio. Dove il pudore è indice di un sentimento di estraneità, del non riconoscerci in quel corpo che l’io sa essere il suo: la presenza del corpo è una presenza inquietante, è l’Altro che dimora nel sé. “Questo cuore stesso, che pure è il mio, resterà sempre per me indefinibile. L’abisso che c’è fra la certezza che io ho della mia esistenza e il contenuto che tento di dare a questa sicurezza, non sarà mai colmato. Sarò sempre estraneo a me stesso” (Albert Camus, Il mito di Sisifo, p. 21). Quest’abisso, l’esperienza dell’Altro che è in noi, è definito dal filosofo francese Albert Camus, l’assurdo: assurdo è il rapporto tra l’uomo e il mondo, o meglio tra l’irrazionalità del mondo, e così anche del corpo proprio, e il desiderio di chiarezza dell’uomo. Contro questa condizione di assurdità nulla possono le scienze naturali: “tutta la scienza di questa terra non potrà darmi nulla che possa rendermi certo che tale mondo mi appartiene” (Ivi, p. 22). Il senso di questa scissione sembra dimorare altrove e l’abisso che qui si spalanca non sembra poter essere cancellato: il corpo nella sua presenza non fa che manifestare la sua alterità mineraria. 

 

“Il corpo è chiuso come una muraglia,

è come un pozzo immerso nella carne

che non giunge ad avere

impressione di sé.

E le sue membra stanno

mute e cieco e fermo

nella gamba riposa il ginocchio.

Ma nella testa s’apre

l’alba del mondo:

l’osso si allarga, accoglie

dentro di sé lo sguardo.

Dolcemente si compie

il paziente travaso del vedere,

acquedotto di chiarore, strada

che porta l’essere a se stesso.

E nella radura della fronte

il portale del ciglio ha la sua luce.”

 

In Magrelli il corpo è muraglia, osso, cavità, “pietra levigata”, “terreno calpestato”, pozzo, muro, “campo desolato”, “pianta della terra”, miniera, “fruttificare di sassi”, “muta malinconia biologica”: descritto con termini propri dell’ambito geologico; è luogo ma luogo arido e deserto, inumano. A questo corpo-pietra continuamente si rivolge l’io poetico, in un dialogo precluso in partenza: è l’uomo che parla con il sasso. Il corpo permane inerme e muto difronte alle richieste di comprensione dell’io. La poesia è dunque il luogo preposto all’analisi di questo dialogo impossibile, al rapporto ambiguo tra l’io e la sua carne, tra l’io e il suo mondo. L’assurdo esistenzialista di cui il soggetto fa esperienza è trattato qui con distanza, nell’idea che solo attraverso questo posizionarsi al di fuori della propria vicenda esistenziale sia possibile una comprensione della propria condizione umana. Il dire è quindi pacato, freddo, analitico. Un dire che  insegue l’ideale di trasparenza espressiva secondo una scrittura sillogistica e paratattica. Non vi è la ricerca di nessuna oscurità formale, nessuna sperimentazione avanguardistica: la poesia è luogo di analisi, metodo di conoscenza, espressione, e quindi attuazione, di un movimento di pensiero, di un ragionamento. 

 

“Scrivere in genere è nascondere,

sottrarre alla realtà qualcosa

di cui sentirà la mancanza.

Questa maieutica del segno

indicando le cose con il loro dolore

insegna a riconoscerle.”

 

Poesia come “maieutica del segno”: scrivere è strappare le cose dal reale, trasporle su una pagina e così concretizzarne il senso nel tentativo di ricomporre la scissione tra ideale e reale, tra cosa e idea. “La scrittura è una morte serena:/ il mondo diventato luminoso”. Comporre è prelevare la cosa dal divenire immemore del reale per consegnarla a un’esistenza stabile, eterna: all’esistenza dell’idea divenuta segno, parola, traccia scritta. Dove l’istanza gnoseologica è innanzitutto rivolta verso l’io lirico di modo che la poesia diventi una pratica di cura. Pratica da compiersi preferibilmente nel letto, prima di dormire: un recar traccia del sé che si è ora, che si è in questo giorno, e che l’indomani non si sarà più, un dare a questo “confuso accavallarsi del pensiero” una materia stabile, una carne. “Disegno queste parole/preparando la mia resurrezione”. La mano che annota la “secrezione/ spontanea e vegetale dell’idea” sul taccuino giallo è “gesto/che assolvendo il giorno lo dissolve”: 

 

“Questa carta è per me prima del sonno

l’incarnazione del corpo

nel velo del pane.

Comunione e consunzione

dell’ultima parola.

Come se ogni sera

lasciassi sopra il letto

una lapide quotidiana,

l’emblema per conoscere chi dorme”

 

La pagina è luogo in cui accade il rendersi corpo del senso: l’idea trasmigra, e così si presentifica al soggetto stesso, nel segno scritto. L’idea si fa esistenza materiale, permanente, essa stessa mineraria per la qualità della sua composizione, ma differente dalla mineraria impassibilità del corpo: la pagina scritta non è mai muta. In Magrelli, poesia è dunque “segreta epopea della soglia”: poesia di confine tra il corporeo-minerale e il senso-idea, tra una dimensione di materialità muta e una dimensione di trascendenza spirituale, di autocoscienza. Scrivere è il duplice movimento di trasformazione del corpo in segno-idea e del segno-idea in corpo permanente: “diventare così da carne a segno/da strumento a ossatura esile del pensiero.” È pratica di liberazione dall’alienazione della carne, costruzione di un orizzonte di senso possibile, è “dolce eclissi della materia”. È innanzitutto una postura etica. Dove, la questione è quella del vivere bene e in ultima istanza di prepararsi alla morte o quanto meno di accettarla come condizione più propria dell’umano: “c’è chi tramonta solo col suo corpo:/ allora più doloroso ne è il distacco”.