Dall’emergenza epidemica alla crisi di sistema
di Vittorio Giacopini.
Considerazioni critiche a margine de “Sulla situazione epidemica” di Alain Badiou #4
di Vittorio Giacopini.
Considerazioni critiche a margine de “Sulla situazione epidemica” di Alain Badiou #4
di Mario Reale.
Considerazioni critiche a margine de “Sulla situazione epidemica” di Alain Badiou #3
di Giorgio Cesarale.
Considerazioni critiche a margine de “Sulla situazione epidemica” di Alain Badiou #2
di Domenico Bilotti.
Considerazioni critiche a margine de “Sulla situazione epidemica” di Alain Badiou #1
Il saggio di Alain Badiou che qui offriamo al pubblico, offre una serie di importanti riflessioni filosofiche che collocano l’evento emergenziale che stiamo vivendo in una dimensione al tempo stesso storica e critica. L’esperienza in corso dell’evento, nei diversi paesi dell’Occidente, in Europa in particolare, è stata affidata a tre «corpi» sociali che ne stanno gestendo l’emergenza: il corpo politico, il corpo medico e il corpo mediatico delle nostre società.
Ora, una parola che venga dal «corpo filosofico» è di grande utilità in quanto ci permette di coglierne la dimensione reale, al di là delle pur necessarie misure prese per arginare il pericolo epidemico. Anzitutto, la sua presunta «novità»: appare tale per la sola ragione che il flagello sta colpendo il pacifico e opulento Occidente capitalista, fino ad oggi al riparo (illusorio) da questi fenomeni. Niente di nuovo sotto il sole (Qoelet, I, 9), sono decenni oramai, che a partire dal virus Ebola, passando per numerosi altri agenti patogeni, influenzali e virali, diversi organismi viventi ostili, generati dall’azione (politico-economica) umana, han fatto strage fuori dell’Europa, e non nel solo Terzo Mondo. Ora si stanno diffondendo nel pianeta intero. Agenti patogeni originati dal mondo animale non-umano, passati e trasmessi all’uomo. La ragione di fondo del fenomeno è – non si può più ignorarlo, né nasconderlo – ecologica (vedi il saggio di Sonia Shah, Da dove vengono i coronavirus? Contro le pandemie, l’ecologia, in «Le Monde Diplomatique», n.3 anno XXVII, marzo 2020, pp. 1 e 21).
Per la prima volta nella storia, si sta vivendo sulla propria pelle, in Europa, una realtà nuova che investe la comunità mondiale intera, dopo che il genere di agente patogeno in questione ha iniziato da gran tempo la sua avanzata per le rotte della mondializzazione. Ci credevamo al sicuro, la reazione autoimmunitaria sembrava infrangibile e ora testiamo manifestamente che le cose non stanno così. L’origine del fenomeno di fragilizzazione del mondo (cui vanno aggiunte le altre «emergenze», climatica ed energetica) è legata al concorso, come spiega bene Badiou, di determinazioni naturali e determinazioni storico-economiche. Al di là delle diverse facce risorgenti di una caccia all’untore di medievale memoria, camuffata sotto apparenze diverse (il dilagare dell’irrazionale si fa inquietante), è il modello di sviluppo capitalista iperliberista dell’ultimo trentennio (almeno) ad aver prodotto un tale squilibrio nel rapporto tra le due determinazioni. L’effetto risultante rende, è evidente, tale «modello» del tutto insostenibile. Al di là dell’emergenza contingente, dunque, occorre riattivare un’azione – non una semplice riflessione– critica nei riguardi del «modello», non più rinviabile.
Le chiare, semplici, «cartesiane» considerazioni di Badiou aiutano a ripensare criticamente i fatti e orientare, si spera, diversamente, la nostra azione collettiva. Mai questa filosofia critica è stata ed è, oggi, tanto necessaria. Il dibattito è aperto.
di Alain Badiou
Ho sempre ritenuto che l’attuale situazione, segnata da un’epidemia virale, non aveva certo nulla d’eccezionale. Dalla pandemia (anch’essa virale) dell’HIV, passando per l’influenza aviaria, il virus Ebola, il virus SARS 1, per non parlare di diversi tipi d’influenze, persino del ritorno del morbillo o delle tubercolosi, che gli antibiotici non guariscono più, sappiamo ormai che il mercato mondiale, combinato con l’esistenza di vaste zone sotto-medicalizzate del pianeta e con l’insufficienza della disciplina mondiale nelle necessarie vaccinazioni, produce inevitabilmente delle epidemie serie e devastanti (nel caso dell’HIV, diversi milioni di morti). Messo da parte il fatto che la situazione dell’attuale pandemia colpisce, stavolta, l’abbastanza confortevole mondo detto occidentale – fatto in sé stesso privo di significato innovativo, e che chiama in causa sospette deplorazioni e asinerie rivoltanti sui social network – non avevo visto che, al di là delle ovvie misure protettive e del tempo che il virus impiegherà a scomparire in assenza di nuovi obiettivi, si debba andare su tutte le furie.
Del resto, il vero nome dell’epidemia in corso dovrebbe indicare che essa dipende, in un certo senso, dal «niente di nuovo sotto il sole» contemporaneo. Questo vero nome è SARS 2, ossia «Severe Acute Respiratory Syndrom 2» denominazione che tiene inscritta, infatti, un’identificazione «in secondo tempo», dopo l’epidemia di SARS 1, che s’era manifestata nel mondo durante la primavera del 2003. Questa malattia era stata denominata, all’epoca, «la prima malattia sconosciuta del XXI secolo». È dunque chiaro che l’epidemia attuale non è in alcun modo il sorgere di qualcosa di radicalmente nuovo o d’inaudito. È la seconda del secolo, nel suo genere, ed è situabile nella sua filiazione. Al punto stesso che la sola critica seria rivolta oggi alle autorità, in materia predittiva, è di non aver sostenuto seriamente, dopo la SARS 1, la ricerca che avrebbe messo a disposizione del mondo medico dei veri mezzi d’azione efficace contro la SARS 2.
Non ho trovato dunque nient’altro da fare che provare, come tutti, a sequestrarmi in casa mia, e nient’altro da dire se non esortare tutti a fare altrettanto. Rispettare, su questo punto, una rigida disciplina è tanto più necessario in quanto è un sostegno e una protezione fondamentale per tutti coloro che sono più esposti: certo, tutto il personale medico curante, che è direttamente sul fronte, e che deve poter contare su una ferma disciplina, ivi comprese le persone infette; ma anche i più deboli, come le persone anziane, in particolare quelle in EPAD (European Prevention of Alzheimer’s Dementia) o immunodepresse; e inoltre tutti coloro che vanno al lavoro e corrono così il rischio di un contagio. Questa disciplina per coloro che possono obbedire all’imperativo «restate a casa!» deve anche trovare e proporre i mezzi affinché coloro che non hanno affatto un «a casa» dove «restare», possano comunque trovare un rifugio sicuro. Qui si può pensare a una requisizione generalizzata degli hotel.
Queste obbligazioni sono, è vero, sempre più imperiose, ma non comportano in sé, almeno a un primo esame, grandi sforzi di analisi o di costituzione di un pensiero nuovo.
Ma ecco che veramente leggo troppe cose, sento troppe cose, ivi compreso nella mia cerchia, che mi sconcertano, per il turbamento che manifestano e per il loro carattere del tutto inappropriato rispetto alla situazione, a dire il vero semplice, nella quale ci troviamo.
Queste dichiarazioni perentorie, questi appelli patetici, queste accuse enfatiche, sono di diverse specie, ma hanno tutte in comune un curioso disprezzo della temibile semplicità, e dell’assenza di novità, dell’attuale situazione epidemica. O sono inutilmente servili nei confronti dei poteri costituiti, i quali di fatto non fanno altro che ciò a cui sono costretti, per la natura del fenomeno. Oppure ci tirano fuori la retorica del Pianeta e la sua mistica, il che non ci fa avanzare di un passo. Oppure, ancora, scaricano tutto sulle spalle del povero Macron, che fa unicamente, e non peggio di un altro, il suo lavoro di capo di Stato in tempo di guerra o di epidemia. Oppure gridano all’evento fondatore di un’inaudita rivoluzione, che non si vede quale rapporto potrebbe intrattenere con lo sterminio di un virus, e per la quale, del resto, i nostri «rivoluzionari» non hanno il minimo mezzo nuovo. O ancora, sprofondano in un pessimismo da fine del mondo. O si vedono portati all’esasperazione al punto che il «me stesso innanzitutto», regola d’oro dell’ideologia contemporanea, in questa circostanza, non sia di alcun interesse, di alcun aiuto, e possa addirittura apparire come complice di una continuazione indefinita del male.
Si direbbe che la prova epidemica dissolva dappertutto l’attività intrinseca della Ragione, e obblighi i soggetti a ritornare ai tristi effetti – misticismo, affabulazioni, preghiere, profezie, maledizioni ecc. – a cui il Medioevo era consueto addivenire quando la peste devastava i territori.
Di conseguenza, mi sento in certa misura costretto a raccogliere alcune idee semplici. Direi volentieri: cartesiane.
Per iniziare, conveniamo pure col definire il problema, peraltro così mal definito e, dunque, così mal trattato.
Un’epidemia ha questo di complesso, che è, sempre, un punto di articolazione tra le sue determinazioni naturali e le determinazioni sociali. La sua analisi completa è trasversale: bisogna afferrare i punti in cui le due determinazioni s’incrociano, e trarne le conseguenze.
Ad esempio, il punto iniziale dell’attuale epidemia si situa, con molta probabilità, nei mercati della provincia di Wuhan. I mercati cinesi sono ancora oggi noti per la loro pericolosa sporcizia, e il loro insopprimibile gusto della vendita all’aria aperta di ogni specie di animali vivi ammucchiati l’uno sull’altro. Da ciò, il fatto che il virus s’è trovato, in un certo momento presente, sotto una forma animale, essa stessa ereditata dai pipistrelli, in un ambiente popolare molto denso e a un ridotto tasso d’igiene.
La spinta naturale del virus da una specie a un’altra transita allora verso la specie umana. Come esattamente? Non lo sappiamo ancora, e solo delle procedure scientifiche ce lo insegneranno. Di passaggio, stigmatizziamo qui tutti coloro che lanciano, sulle reti sociali di Internet, delle favole tipicamente razziste fondate su immagini truccate, secondo le quali tutto proviene dal fatto che i Cinesi mangiano i pipistrelli quasi crudi, vivi…
Questa transizione locale tra specie animali, fino all’uomo, costituisce il punto originario di tutta la faccenda. Soltanto dopo ciò, opera un dato fondamentale del mondo contemporaneo: l’accesso del capitalismo di Stato cinese a un rango imperiale, ovvero una sua presenza intensa e universale sul mercato mondale. Da qui, le innumerevoli reti di diffusione, prima, evidentemente, che il governo cinese fosse in grado di confinare totalmente il punto d’origine – di fatto, un’intera provincia, quaranta milioni di persone – cosa che il governo finirà per riuscire a fare con successo, ma troppo tardi affinché all’epidemia venga impedito di partire sulle rotte – con gli aerei, e con le navi – dell’esistenza mondiale.
Un dettaglio rivelatore di quella che chiamo la doppia articolazione di un’epidemia: oggi, la SARS 2 è arginata a Wuhan, ma ci sono numerosi casi a Shanghai dovuti per la gran parte a delle persone, cinesi in generale, che ritornano dall’estero. La Cina è dunque un luogo in cui si osserva il legame stretto, per una ragione arcaica, poi moderna, tra un incrocio natura-società su dei mercati mal tenuti, di forma antica, causa dell’apparizione dell’infezione, e una diffusione planetaria di questo punto d’origine, trasmessa, questa, dal mercato mondiale capitalista e dai suoi spostamenti tanto rapidi quanto incessanti.
Dopo di che, si entra nella fase in cui gli Stati tentano, a livello locale, di arginare tale diffusione. Notiamo di passaggio che questa determinazione resta fondamentalmente locale, anche quando l’epidemia, essa, è trasversale. A dispetto dell’esistenza di alcune autorità transnazionali, è chiaro che sono gli Stati borghesi locali a essere in trincea.
Tocchiamo qui una contraddizione maggiore del mondo contemporaneo: l’economia, ivi compreso il processo di produzione di massa degli oggetti manifatturieri, dipende dal mercato globale. Si sa che la semplice fabbricazione di un telefono cellulare mette in moto del lavoro e delle risorse, comprese anche quelle minerarie, in almeno sette stati diversi. Ma d’altro canto, i poteri politici restano essenzialmente nazionali. E la rivalità degli imperialismi vecchi (Europa, USA) e nuovi (Cina, Giappone…) impediscono ogni processo di formazione di uno Stato capitalista mondiale. L’epidemia è anche un momento in cui questa contraddizione tra economia e politica si fa patente. Anche i paesi europei non riescono ad adattare in tempo le loro politiche di fronte al virus.
Essi stessi preda di questa contraddizione, gli Stati nazionali tentano di far fronte alla situazione epidemica, rispettando, per quanto è possibile, i meccanismi del Capitale, benché la natura del rischio li obblighi a modificare lo stile e gli atti del potere.
Si sa da gran tempo che in caso di guerra tra paesi, lo Stato deve imporre, non soltanto, certo, alle masse popolari, ma ai borghesi stessi, delle costrizioni considerevoli, e questo per salvare il capitalismo locale. Alcune industrie sono quasi nazionalizzate, a profitto di una produzione di armamenti intensiva, ma che sul momento non produce alcun plusvalore monetizzabile. Una gran quantità di borghesi sono mobilitati come ufficiali e esposti alla morte. Gli scienziati cercano, notte e giorno, d’inventare nuove armi. Gran numero di intellettuali e di artisti sono chiamati ad alimentare la propaganda nazionale ecc.
Dinanzi a un’epidemia, questa specie di riflesso statale è inevitabile. Ecco perché, contrariamente a quanto si dice, le dichiarazioni di Macron o di Edouard Philippe riguardanti lo Stato, ridiventato improvvisamente «Provvidenza», una spesa pubblica di sostegno alle persone che hanno perso il lavoro, o ai lavoratori autonomi a cui si chiude il negozio, che impegna cento e duecento miliardi di denaro pubblico, lo stesso annuncio di «nazionalizzazioni»: tutto questo non ha nulla di sbalorditivo o di paradossale. E ne consegue che la metafora di Macron, «siamo in guerra», è corretta. Guerra o epidemia, lo Stato è costretto – oltrepassando talvolta il corso normale della sua natura di classe – di mettere all’opera delle pratiche insieme più autoritarie e a destinazione più globale, per evitare una catastrofe strategica.
È una conseguenza del tutto logica della situazione, il cui scopo è di arginare l’epidemia – di vincere la guerra, per riprendere la metafora di Macron – con la maggiore sicurezza possibile, restando purtuttavia dentro l’ordine sociale stabilito. Non è per nulla una commedia, è una necessità imposta dalla diffusione di un processo mortale che sta all’incrocio tra la natura (da ciò il ruolo eminente degli scienziati, in questa faccenda) e l’ordine sociale (da cui l’intervento autoritario, e non può essere altrimenti, dello Stato).
Che in questo sforzo appaiano grandi carenze è inevitabile. Come nel caso della mancanza di maschere di protezione, o l’impreparazione riguardo l’estensione del confinamento ospedaliero. Ma chi può dunque vantarsi di avere «previsto» questo genere di cose? Per certi aspetti, lo Stato non aveva previsto la situazione attuale, è del tutto vero. Si può anche dire che indebolendo, da decenni, l’apparato del servizio sanitario nazionale, e in verità tutti i settori dello Stato che erano al servizio dell’interesse generale, lo Stato borghese aveva agito piuttosto come se niente di simile a una pandemia devastatrice potesse mai colpire il nostro Paese. Su questo lo Stato è assai colpevole, non soltanto nella sua forma-Macron, ma anche in quella di tutti coloro che l’hanno preceduto da oramai almeno trent’anni.
Tuttavia, è qui comunque corretto dire che nessun’altro aveva previsto, anzi neanche immaginato, lo sviluppo in Francia di una pandemia di questo tipo, salvo forse qualche specialista isolato. Molti pensavano probabilmente che questo genere di storia era buona per l’Africa profonda o per la Cina totalitaria, ma non per la democratica Europa. E non sono certamente gli esponenti dell’estrema sinistra (gauchistes) – o i Gilet Gialli, o persino i sindacalisti – ad avere ora un diritto particolare a sentenziare su questo punto e a continuare a dargli addosso a Macron, da sempre il loro bersaglio di derisione. Non hanno, neanche loro, avuto assolutamente contezza di qualcosa di simile. Tutt’al contrario: mentre l’epidemia era già in corso in Cina, hanno moltiplicato, fino a tempi assai recenti, i raggruppamenti incontrollati e le chiassose manifestazioni; il che dovrebbe proibire a costoro, oggi, quali che siano i soggetti, di pavoneggiarsi di fronte ai ritardi, mostrati dal potere, nel prendere le misure esatte di ciò che stava accadendo. In realtà, nessuna forza politica, in Francia, ha realmente preso queste misure prima dello Stato macroniano.
Da parte di questo Stato, la situazione è quella in cui lo Stato borghese deve, esplicitamente, pubblicamente, far prevalere degli interessi in qualche modo più generali di quelli della sola borghesia, pur preservando strategicamente, nell’avvenire, il primato degli interessi di classe, di cui tale Stato rappresenta la forma generale. O, in altre parole, la congiuntura obbliga lo Stato a non poter gestire la situazione se non integrando gli interessi di classe, di cui esso è il fondamento di potere, in interessi più generali, e ciò in ragione dell’esistenza interna di un «nemico» esso stesso più generale, che può essere, in tempi di guerra, l’invasore straniero, ed è, nella situazione presente, il virus SARS 2.
Questo genere di situazione (guerra mondiale, o epidemia mondiale) è particolarmente «neutro» sul piano politico. Le guerre del passato non hanno provocato rivoluzioni se non in due casi, per così dire eccentrici nei riguardi di quelle che erano le potenze imperiali: la Russia e la Cina. Nel caso russo, fu perché il potere zarista era, sotto tutti i rispetti, e da lungo tempo, ritardatario, compreso in quanto potere che si potesse adattare alla nascita di un vero e proprio capitalismo in quell’immenso paese. E, per altro verso, esisteva, con i bolscevichi, un’avanguardia politica moderna, fortemente strutturata da dirigenti notevoli. Nel caso cinese, la guerra rivoluzionaria interna ha preceduto la guerra mondiale, e il Partito comunista era, già nel 1940, alla testa di un esercito popolare che aveva fatto le sue prove. In compenso, per nessuna delle potenze occidentali la guerra ha provocato una rivoluzione vittoriosa. Anche nel paese vinto nel 1918, la Germania, l’insurrezione spartachista è stata rapidamente schiacciata.
La lezione da trarre da tutto questo è chiara: l’epidemia in corso non avrà, in quanto tale, alcuna conseguenza politica notevole in un paese come la Francia. Anche a supporre che la nostra borghesia pensi, alla vista dell’aumento dei brontolii informi e degli slogan inconsistenti ma diffusi, che è venuto il momento di sbarazzarsi di Macron, ciò non rappresenterà assolutamente alcun cambiamento notevole. I candidati «politicamente corretti» sono già dietro le quinte, come lo sono anche i sostenitori delle forme più ammuffite di un «nazionalismo» altrettanto obsoleto, quanto ripugnante.
Quanto a noi, che desideriamo un cambiamento reale dei dati politici in questo paese, bisogna approfittare dell’interludio epidemico e persino del confinamento – del tutto necessario – per lavorare a delle nuove figure della politica, al progetto di luoghi politici nuovi, e al progresso transnazionale di una terza tappa del comunismo, dopo quella, brillante, della sua invenzione e quella, interessante ma finalmente sconfitta, della sua sperimentazione statale.
Bisognerà anche passare per una critica serrata di ogni idea secondo la quale dei fenomeni come un’epidemia aprono, per se stessi, a qualsiasi cosa di politicamente innovativo. Oltre alla trasmissione generale dei dati scientifici sull’epidemia, conserveranno una certa forza politica solo delle affermazioni e convinzioni nuove riguardanti gli ospedali e la salute pubblica, le scuole e l’educazione egualitaria, l’accoglienza degli anziani e altre questioni di questo genere. Sono le sole che potranno essere eventualmente articolate con un bilancio delle pericolose debolezze messe in luce dalla situazione attuale.
Di passaggio, si mostrerà coraggiosamente, pubblicamente, che le presunte «reti sociali» mostrano, una volta di più, che sono anzitutto – oltre il fatto che ingrassano i maggiori miliardari del momento – un luogo di propagazione della paralisi mentale più sfacciata, di rumori incontrollati, della scoperta di «novità» antidiluviane, quando non è il caso dell’oscurantismo fascistizzante.
Non accordiamo credito, anche e soprattutto confinati come siamo, se non alle verità controllabili dalla scienza e alle prospettive fondate di una nuova politica, delle sue esperienze locali come dei suoi scopi strategici.
[Trad. it. di Paolo Quintili]
Gianfranco Macrì
1. Le note di commento che seguono riguardano quello che, in prima battuta, potremmo definire un piccolo trattato sui principi che hanno regolato l’ordine internazionale nel corso del ‘900 e sul modo come questi dovranno essere rielaborati di fronte alle sfide del nuovo secolo. Sullo sfondo permangono antiche e nuove piaghe: la guerra, la diffusione di pestilenze, la povertà, le disuguaglianze; tutto questo mette in allarme l’umanità, sollecita soluzioni all’altezza della complessità globale, invoca l’azione di nuovi attori in grado di comprendere lo scenario e di proporre alternative di governance efficaci e risolutive.
C’è ancora bisogno del ruolo delle organizzazioni internazionali? Come, questi apparati costruiti dopo la II guerra mondiale – e finalizzati a garantire la pace e la cooperazione in campo politico, sociale ed economico – riescono a garantire gli equilibri geopolitici di fronte all’avanzare di nuove emergenze (specie migratorie e sanitarie)? Gli attori in scena cambiano volto, e nuove soggettività, dai tratti non più soltanto statualistici, si impongono in modo marcato, rivendicando visibilità e potere. Che fare?
Il quesito investe certamente la politica e la storia (e poi l’economia, l’antropologia, etc.) ma anche il diritto e la sua funzione di “scienza pratica”, perché le istituzioni politiche in diverse parti del mondo sono sotto pressione, subiscono l’aggressione di fattori “concorrenziali” (fondamentalismi religiosi, gruppi di interesse, ideologie nazionaliste, etc.) che hanno ricadute sulla tenuta del principio democratico (come principio equilibratore). L’esempio più calzante, perché storicamente più noto, riguarda proprio l’incapacità da parte degli organismi internazionali di governare lo strumento della guerra, praticando, in diverse circostanze, la politica dell’affidamento alla “super potenza” di turno[1].
Qualcuno, a ragione, osserva che la trama dei diritti umani non ha saputo innervare allo stesso modo i diversi poli del pianeta; le crisi umanitarie sarebbero, perciò, crisi determinate anche dal cattivo funzionamento del circuito della legalità internazionale. Certamente sono mutati i criteri e i metodi di rappresentazione degli scenari – perché sono cambiati gli assetti di governance di un tempo. Il Novecento (qualcuno dirà) è finalmente alle nostre spalle, ma il suo fascino persiste, anche nelle declinazioni più nocive. Si tratta, allora, di verificare quali saranno gli effetti di una crisi mai così lunga e penetrante (adesso accresciuta sul fronte sanitario) che dal 2008 si dispiega a livello mondiale seguendo tracciati diversi, continuando a “mordere” in modo trasversale anche quegli spazi ritenuti meglio attrezzati in termini di diritti e di garanzie (l’Unione europa, giusto per fare un esempio di “prodotto” meglio riuscito del Novecento post-seconda guerra mondiale).
Quello, dunque, del “veccho modello” di gestione delle emergenze (concepito secondo una logica piramidale, con in cima pochi attori “padroni del sistema”) rappresenta un “capitale” concettuale e operativo praticamente mai dismesso – sebbene declinato in modo diverso a seconda del momento e dei protagonisti coinvolti – dunque affidabile (intendo dal punto di vista della “tenuta” e del controllo della società). Gli strumenti operativi possono ovviamente essere diversi, finanche l’uso “retorico” e demagogico dei diritti e delle libertà si presta al gioco: l’importante è che il sistema regga; a qualunque costo. Un esempio? “Esportare la democrazia”[2] dove le tradizioni culturali sono “altre” (con tutto quello che ne è scaturito in termini di “messa in sicurezza” dei sistemi politico-istituzionali e socio-economici). Sullo sfondo è sempre necessario che si consolidi la tesi che c’è sempre qualcuno capace di affascinare, di “unire il popolo” proteggendolo dal nemico esterno, di rievocare i fasti del passato e di indicare la strada, soprattutto in tempi di “decadenza morale”, di crisi economica, di pericolo grave per la salute pubblica, di “invasioni” pericolose anche connotate in senso religioso (fondamentalismo, terrorismo, integralismo, etc.)[3]. Mai come in questo frangente della storia, la democrazia (quella di derivazione liberale, rappresentativa e costituzionale, per intenderci) è tornata ad essere al centro del dibattito politico e scientifico, a dimostrazione che non di una conquista definitiva si tratta, bensì di un processo autoriflessivo all’interno del quale vanno considerate variabili diverse e anche distanti tra loro, tutte però accomunate dalla volontà di allargare i canali della partecipazione[4].
Questo scenario, così frastagliato, che vede prevalere, a diverse latitudini (come il Mediterraneo) narrazioni politiche “egemoniche”, che affascinano sempre più leader di nazioni “minori” smaniosi di instaurare regimi politici neo-sovranisti aventi come obiettivo la critica, anche radicale, dei sistemi (e delle regole) sovrastatuali di organizzazione degli interessi, dei diritti e delle libertà (es. Unione europea in primis), riflette – come un prisma – la progressiva sofferenza in cui è precipitato quel grande principio consacrato nelle carte internazionali – fonte di pacificazione e di legalità condivisa – che è la cooperazione. Si fatica, cioè, a valorizzarne il primato, collocandolo al centro dell’agire civile dei popoli democratici.
I motivi di preoccupazione, allora, non mancano. Ben vengano, quindi, quei contributi che possono aiutarci a verificare l’eventuale presenza di fattori in grado, se non proprio di invertire la rotta, quanto meno di indicare percorsi alternativi, lungo i quali imbattersi in figure, oppure esperienze, all’altezza delle sfide in atto.
Tra i segnali di maggiore interesse che possono aiutarci a comprendere il quadro generale delle problematiche adombrate, la dimensione religiosa occupa un posto di prima grandezza. Si è parlato, non a caso, di ritorno della religione nello spazio pubblico, ma non sempre si riesce a spiegare a cosa questa espressione concretamente rinvia.
Da qui l’utilità del libro di Luigi Rossi, la cui lettura si offre quale utile strumento per capire come il fenomeno religioso (e non solo questo) ritrovi centralità nelle pieghe della geopolitica contemporanea e come alcuni protagonisti – in questo caso Papa Francesco (il protagonista dell’opera) – agiscano alla luce dei repentini cambiamenti in corso. Una cosa è certa: siamo tutti consapevoli di trovarci di fronte ad un “giro di boa” della storia mondiale, e che tutto quanto accade in qualsiasi posto del pianeta, mai come adesso, riverbera ovunque, producendo conseguenze anche dirompenti (il rimando al coronavirus- Covid-19 è ahimè automatico).
Luigi Rossi parla di «riflessione sulla spiritualità»[5]. Forse perché è finito (oppure attraversa un momento di crisi-ripensamento) il tempo del discorso centrato in massima parte sul peso politico delle organizzazioni religiose (a dispetto del sentimento religioso della persona e delle comunità) ed è iniziato quello calibrato sulla ricerca di senso di un nuovo homo viator. Certamente il discorso è più ampio. Qui, infatti, si propone – in filigrana – un nuovo modo di “convertire” l’umanità al senso di responsabilità, solidarietà, partecipazione, senza per forza passare “attraverso” le chiese (lato sensu), oppure senza che il loro imprimatur continui ad essere ritenuto decisivo per mettere in sicurezza le sorti del mondo. Quest’ultimo si governa anche con l’ausilio delle organizzazioni religiose, ma sono le persone (credenti, non credenti, diversamente credenti) che stanno a cuore a Papa Francesco. Naturalmente gli apparati più conservatori presenti sia nella Chiesa cattolica che in altre comunità religiose guardano con sospetto e apprensione a questo capovolgimento di prospettiva, perché è chiaro che la tensione temporale del potere religioso rischia di affievolirsi se sbilanciata a favore di quella “interiore” che purifica e modella il cittadino-fedele. Ma Bergoglio si muove su un sentiero diverso, quello diretto a recuperare lo “spirito delle origini” (un cristianesimo dal volto umano) e da questo far nuovamente germogliare una novella centralità ecclesiale.
2. Un argomento di grande dibattito è quello del rapporto tra Islam e democrazia (occidentale). I grandi rivolgimenti avvenuti dopo l’11 settembre[6] – fino alle “Primavere arabe” e oltre – hanno consigliato qualcuno a continuare a battere il tasto della irriducibilità tra i due fattori in campo (Islam vs. democrazia). A consolidare questo refrain si sono poi aggiunti una serie di attentati terroristici in alcuni paesi europei, dai quali in molti – specie leader di movimenti politici di estrema destra, o comunque populisti e neo-sovranisti – hanno tratto l’assunto schematico Islam = terrorismo. Quella che va sotto il nome di islamofobia non è altro che la materializzazione del teorema appena enunciato, che ostacola, attraverso vari strumenti (politici, sociali, giuridici, etc.) la costruzione di uno spazio pubblico aperto anche ai musulmani (il progetto di un Islam europeo), il cui contributo in termini culturali ed economici può anche non essere strumentalmente colto nella sua valenza positiva, ma resta invece chiaro a quanti, animati da buone intenzioni, lavorano fianco a fianco con le organizzazioni islamiche per la costruzione di una società tollerante e inclusiva.
La cosa sorprendente è che questo “grande ossimoro” (Islam vs. democrazia) continui a raccogliere ampio sostegno anche all’interno dei circuiti culturali liberal-progressisti[7]. Riecheggia, dagli Stati Uniti fino all’Europa, l’esperienza del teorema neo-conservatore americano, quel serbatoio di pensiero, imbastito da ex intellettuali di sinistra, che ha legittimato, con argomentazioni anche argute e una buona attività di lobbying posta in essere fino ai vertici della casa Bianca, la necessità di implementare (sia in ambito domestico che internazionale) scelte politiche focalizzate sul primato americano nella scena politica internazionale e, dunque, chiaramente anti-islamiche[8].
Ecco, dunque, il dilemma: come si fa a costruire un’arena internazionale aperta al contributo di tutti senza “appropriarsi” di Dio? Senza cioè declinare la religione in chiave nazionalistica (modello “religione civile” stile USA post-11 settembre) oppure come risorsa di senso avente lo scopo di onorare la memoria del passato (imbalsamandola) e orientare (ideologicamente) la storia?[9]
Una inversione di rotta così radicale (che significa capovolgere il seguente paradigma: dalla religione immersa nel linguaggio politico – che si fa istituzione e potere – alla religione come fatto sociale che si offre al mondo) può condurre a due opposti approdi.
Per alcuni, potrebbe significare dover disperdere la religione in qualcosa di riflessivo, in qualcosa cioè che “accompagna” il discernimento ma che non si impone in modo “verticale” sull’esistenza umana (modello religioso-confessionale). Questa modalità esplicativa permetterebbe di evitare gli errori del passato, quando la religione “sorpassava” la dimensione del politico imponendo il suo dogma, erga omnes. Per altri, invece, la religione andrebbe “recuperata” innanzitutto come componente costitutiva della socialità, cioè in quanto fattore inevitabilmente “reale” (dunque anche sotto il profilo organizzativo, ma non nella versione confessionale), tenuto conto del fatto che mai come in questa fase storica il fattore religioso sembra trovare sempre più spazio «[nei] corpi, [nel]le pratiche (…) [e in] precisi luoghi sulla terra»[10]. La religione, quindi, intesa come fattore integrativo dell’esperienza umana che “accompagna” l’esistenza del soggetto-persona e lo conforta nei momenti più difficili della sua esistenza[11].
Di fronte a questo “conflitto” politico-religioso – che spazia dalla dimensione nazionale a quella internazionale e che chiama in causa soggetti diversi, afferenti non solo alla dimensione organizzata dei culti ma pure alla società nella sua declinazione orizzontale – è legittimo indagare quali sono le trasformazioni in corso sia all’interno del discorso politico che di quello religioso. Su questo secondo fronte, indubbiamente l’avvento di Papa Francesco rappresenta una delle novità più importanti. Partendo dal modo come egli si approccia alla diversità (culturale e religiosa), specie quella più esposta al rischio dell’intolleranza, è possibile raccogliere alcuni punti fermi, che lasciano intravedere la costruzione di un modello di confronto con l’alterità destinato ad integrare, più in generale, la costruenda nuova governance della cittadinanza interculturale[12]. Quella di Bergoglio, allora, sembra essere una mano tesa verso chi lavora alla costruzione di ponti e non all’innalzamento di muri. E questo non può non essere motivo di contrasto prima di tutto con il Presidente degli Stati Uniti Trump. Bergoglio [infatti] si colloca agli antipodi, innanzitutto «psicologicamente [,] rispetto all’attuale inquilino della Casa Bianca»[13] il cui «muscoloso unilateralismo»[14] non trova accoglienza all’interno del palazzo di vetro delle Nazioni Unite, né a Santa Marta.
A costruire la giusta trama discorsiva attorno alla “politica” religiosa di Bergoglio provvede l’Autore del libro, abile a muoversi tra le pieghe del mito, specie quando rinvia ai «significati concreti e simbolici»[15], contenuti in un’opere come l’Odissea, che ci aiuta a comprendere la forza devastante – in un clima sociale frammentato – che può scaturire da una distorta percezione della diversità culturale[16]. Secondo Rossi, un sentiero praticabile per costruire una “coscienza globale” potrebbe consistere nel sostenere lo stile diplomatico «di Francesco, che utilizza un nuovo linguaggio, che risponde all’indole francescana e gesuitica fatta di comunicazione diretta»[17]. A questo modus operandi del Papa, Rossi dedica una parte importante del libro (la prima). Un passaggio, tra i tanti, colpisce il lettore:
«L’unica alternativa per realizzare un equilibrio condiviso e armonioso, presuppone la pratica di una politica improntata alla strategica fiducia, in alternativa a sterili e distruttive minacce, cioè il soft power secondo la logica della diplomazia multilaterale»[18].
Quando Bergoglio usa l’espressione “Terza Guerra Mondiale a pezzi”, ha chiaro il contributo che le religioni possono offrire «nell’attuale contesto internazionale»[19]. Il fattore “R” (come lo chiama Rossi), allora, non solo non può essere escluso dal circuito delle relazioni internazionali (perché si tratta di un attore di prima grandezza, in primis sotto il profilo storico e sociale, e perché grazie al contributo delle chiese e delle loro organizzazioni periferiche in diverse parti del mondo la fiammella della speranza resta ancora accesa), ma deve essere «trasformato in vincente strumento di soft power»[20]. Ovviamente, questo “ri-adattamento” al nuovo ordine delle cose, ha bisogno di trovare il consenso e il sostegno di tutta la struttura ecclesiastica. Si tratta, nelle intenzioni del Papa, di abbandonare il modello novecentesco delle relazioni di vertice[21] e di passare ad un sistema di presenza diffusa nelle pieghe della sofferenza, testimoniando la fede e agendo fianco a fianco alle istituzioni civili. La dimensione confessionale non può continuare ad essere ritenuta come prevalente fino a schiacciare (e anche mortificare) le tante esperienze di solidarietà orizzontale praticate su scala planetaria. Non cogliere le potenzialità di una “nuova Chiesa” significa – sulla scia di Bergoglio – tradire il patto col Vangelo, far percepire ai fedeli che la distanza con le gerarchie può rappresentare un problema nel percorso di testimonianza e marginalizzare l’opera di tutte quelle realtà attive nello spazio pubblico (le periferie del mondo) costituzionalmente riconosciute (art. 118, ult. co.).
La trama della solidarietà è l’opera più importante a cui il Papa ha deciso di dedicare la sua missione pontificale. È una sfida di grado molto elevato, che soltanto adesso inizia a raccogliere l’attenzione che merita e a trovare condivisione all’interno della Chiesa. Scoraggiare (rectius: umiliare), perciò, tutte queste energie ancora in ordine sparso che attendono di essere ricondotte ad unità, vorrebbe dire assestare un duro colpo alla Chiesa-comunità e arrecare un danno enorme alla società, non ultimo, in termini economici. Perché laddove lo Stato non riesce più ad arrivare[22] – per carenze strutturali (detto in modo sintetico) – può farcela la società civile organizzata (all’interno della quale sono comprese anche le diverse espressioni del solidarismo cattolico e delle altre organizzazioni religiose) [23].
La trasversalità a cui ho fatto riferimento (sia orizzontale che verticale) è allora uno dei cambiamenti più significativi di fronte ai quali ci troviamo. Ma non pensiamo che sia “senza radici”, che non abbia collegamenti con nessuna esperienza del passato, che sia frutto di un “esperimento in vitro” in corso di approntamento e che richieda ancora del tempo per essere testato. Intendo dire che, se Papa Francesco ha saputo catalizzare l’attenzione su di sé, azionando una comunicazione degna di un qualsiasi grande protagonista della storia, questo non toglie che, sfogliando le pagine del passato non sia possibile trovare alcun riferimento circa il modo come le religioni sono state capaci di contribuire alla costruzione di nuovi paradigmi di governo della società (specie in posti di frontiera). Papa Francesco e la sua Chiesa sono solo gli ultimi esempi di partecipazione alla costruzione di un nuovo sistema di relazioni umane e politiche della contemporaneità. E insieme a loro, anche altri attori afferenti alla galassia religiosa[24].
Rossi, da storico, non si lascia sfuggire l’occasione per puntualizzare alcuni aspetti che possono aiutare la comprensione del fenomeno in oggetto. Chiama perciò in causa addirittura i Padri fondatori della democrazia americana[25], che sebbene in larga misura deisti o scettici:
«non hanno mai dubitato del fatto che la religione fosse una componente significativa dell’ordine sociale perché parte essenziale dell’ordine morale»[26].
L’argomento trova ampia trattazione nel secondo capitolo, dove si approfondisce il modo come le religioni, nelle diverse parti del mondo, hanno influito sulle scelte di natura politica, e il modo come il potere politico ha stabilito “rapporti” con questi importanti attori sociali. Si tratta di una parte dell’opera dove l’Autore spiega, innanzitutto, come la Chiesa ha impostato storicamente il suo ruolo nell’arena dei soggetti politici internazionali. Da qui, una meticolosa ricognizione sul metodo adottato dalla Chiesa cattolica (rectius: la diplomazia vaticana) durante il “lungo Novecento” a difesa della cristianità e della pace. Una ricognizione che prende in considerazione, tra i diversi strumenti a disposizione, alcune importanti encicliche papali inquadrate come strumenti di diffusione di pratiche di smart power[27]. E così scopriamo la Mater et Magistra di Giovanni XXIII (1961), sulla “visione planetaria della questione sociale”, la Populorum Progressio di Paolo VI (1967), sullo “sviluppo umano di tutti i popoli”, la Sollecitudo rei socialis di Giovanni Paolo II (1987) sulla solidarietà come strumento di umanità universale, fino alla Caritas in Veritate di Benedetto XVI (2009) sulle nuove prospettive dell’umanità tra mercato, verità e solidarietà. Quest’ultima enciclica, in particolare, si presta – anche per ragioni temporali – a meglio aiutarci a comprendere quanto e come, quello strumento “raffinato” rappresentato dalla fede riesca a misurarsi rispetto alle problematiche del tempo attuale. Problematiche che richiedono un approccio pragmatico, e dunque una fede sorretta da ferma ragione, per non smarrirsi nel vortice del “rapimento” fine a sé stesso. È chiaro che un criterio del genere, non solo si presta a stabilire migliori canali di interazione tra mondi diversi (scienza e fede, per esempio), ma anche ad allargare la platea dei soggetti a base religiosa desiderosi di contribuire col proprio apparato di credenze agli svolgimenti dei fatti sociali[28].
3. Non sappiamo se Papa Francesco riuscirà a condurre la Chiesa verso una «nuova Primavera»[29]; di certo, una serie di condizioni materiali sembrando indicare che questo processo è in atto, ma la Chiesa è una società complessa, e con questa “complessità” il pontefice si sta confrontando (non senza problemi), sapendo bene di godere del sostegno di buona parte del “popolo di Dio” (e dell’episcopato), ma pure di avere diversi nemici interni (ed esterni). Avendo “cura” di queste difficoltà – e dunque guidando con benevolenza e decisione il suo gregge lungo il sentiero della normalizzazione – Bergoglio prova a legare in sequenza nuove determinazioni teologico-dottrinarie (sfida complessa) e nuove interpretazioni giuridiche e liturgico-pastorali. Da quanto abbiamo appreso in questi anni di pontificato, Bergoglio vuole una Chiesa adesiva ai valori del Concilio Vaticano II. In lui è forte l’elemento della “relazione” tra la dimensione istituzionale della Chiesa e la base dei fedeli: questo significa riconoscere a tutti i credenti la possibilità di partecipare alla vita della Chiesa. Contemporaneamente immagina di riconsiderare il momento dell’autorità “al servizio” della Comunità, riconoscendo certamente la sua funzione essenziale ma all’interno di un perimetro strutturato in forma più orizzontale.
Si tratta di una prospettiva indubbiamente fascinosa, specie per chi guarda all’azione di Papa Francesco con occhio cooperativo e non si lascia impressionare dalla supremazia dell’apparato di potere della Chiesa (elemento ancora forte, specie in certi ambienti filo-curiali). Da punto di vista, poi, di chi studia le relazioni internazionali, questa evidenza si concretizza nei termini di in piano a cerchi concentrici che vedono, appunto, il Pontefice provare a mettere in sintonia quanto accade in Europa rispetto a quanto accade oltre oltreoceano (USA), in Ameria Latina, e nel Sud-est asiatico. Bergoglio teme il ritorno del dei nazionalismi al pari dell’avanzare della povertà e della concentrazione delle ricchezze nelle mani di poche persone. Si batte per la difesa delle radici cristiane in Europa, ma ritiene altrettanto importante implementare lo sforzo anche nella difesa dei diritti e delle libertà ovunque calpestati. La sua è una metodologia ad ampio raggio, che non ammette gerarchie né corsie preferenziali (intra ed extra Ecclesiam). Il primato del Vangelo è ciò che gli interessa interamente; il resto (relazioni, regole, prassi, etc.) serve solo a integrare questa premessa necessaria, che affascina anche persone e organizzazioni non religiose, perché declinata sul primato della persona e sulla funzione servente degli apparati di potere. È, il suo – in buona sintesi – un progetto di convergenza della Chiesa sulla società contemporanea, che pero richiede gesuitico discernimento. Ovviamente, la convergenza su cui Bergoglio sta lavorando rappresenta per molti cattolici non-tradizionalisti una speranza, perché significa che la Chiesa – pur attraversata da tanti problemi (alcuni dei quali anche gravi) – prova a cambiare la società, cambiando essa stessa. Da qui la sottolineatura di Luigi Rossi quando scrive che Francesco non pone “condizioni” nel suo modo di comunicare, e che «solo chi è in malafede può proporre una lettura eretica dei suoi messaggi»[30] .
3.1. Bergoglio ha deciso di immergersi nel corpo vivo di una «umanità in disfacimento»[31] che però prende per mano proponendo una “lettura” della fede per nulla “credulona” – una fede che mortifica il Tommaso contemporaneo[32] –, bensì “fiduciosa”, capace di orientare senza togliere la libertà (che è libertà di cercare la verità)[33]. Al Papa gesuita non importa (o non sembra importare) tanto il modo come la Chiesa appare dal punto di vista istituzionale (questo non è indubbiamente un profilo secondario, ma nella narrazione di Bergoglio resta più sullo sfondo), quanto piuttosto il coraggio che dimostra nel saper tenere «la porta sempre spalancata»[34], nel provare a riconciliare l’umanità nella sua diversità (l’archetipo della trinità come amore plurale che abbraccia la vita in tutte le sue forme)[35].
Si tratta di un messaggio dirompente perché alla base c’è un grande anelito verso l’unità che si contrappone alle divisioni (le verità, potremmo dire con linguaggio laico – che convergono verso un unico percorso di salvezza, per tutti).
Scrive L. Rossi, parafrasando un passo del vangelo di Luca:
«Dio non guarda al peccato, ma valuta sofferenze e bisogni (…). La storia della salvezza [realizzata da Gesù col suo sommo sacrificio] non prevede esclusioni, separazioni, respingimenti” (187). Il “Regni di Dio procede sempre per inclusioni»[36].
De resto, se il primo ad entrare nel Regno di Dio è «un uomo dalla vita sbagliata»[37] – il malfattore che sulla croce cerca lo sguardo di Gesù e lo implora dicendogli “ricordati di me” – allora capiamo quanto il messaggio di Bergoglio sia tutto concentrato sulla prospettiva di Dio, sulla «solidarietà tra Dio e l’uomo»[38], sulla fiducia, sul senso di responsabilità, sulla generosa costruzione di una quotidianità che non distoglie lo sguardo dall’umanità (dal contesto dove ciascuno di noi opera), che chiama all’impegno; dunque alla misericordia; quel sentimento di intima commozione, scrive l’Autore, che genera compassione, pietas e nello stesso tempo azione, impegno civile, studio, doveri.
La cosa sorprendente, ascoltando Papa Francesco, è vedere con quale pacatezza egli inviti tutti i credenti ad intraprendere una sorta di pellegrinaggio interiore, a meditare sul significato dell’umano in relazione con la società; una società dove sembra mancare la direzione, ma pure il progetto comune. Ed ecco allora la preoccupazione per una Chiesa che Bergoglio vuole impegnata a ritrovare la sua collocazione nel mondo (partendo dall’angolo dietro casa), a farsi povera per entrare nuovamente in sintonia con la sofferenza del genere umano, senza però smarrire il suo ruolo di “orientamento” nello spazio pubblico e nelle dinamiche internazionali; a fungere da faro, da punto di riferimento per quanti (cittadini e istituzioni) sono impegnati nella costruzione di un nuovo ordine politico democratico.
Ma l’esempio di Papa Francesco ha bisogno di testimoni coraggiosi. Perché questo è un papa difficilmente “catturabile”. Lo sanno bene i cattolici conservatori (la lobby tradizionalista, direbbe qualcuno). E il libro di Luigi Rossi non tradisce le aspettative. Rossi è concreto come Bergoglio. È consapevole sia della cultura politica latinoamericana (del suo peso nell’ecumene delle relazioni internazionali) sia del progetto politico-ecclesiastico del Papa gesuita, della sua “radicalità”. Bergoglio, scrive Rossi, vuole «ritornare alla sorgente della fede (…), liberandosi della formalità (…) che certi moralisti tartufi pretendono d’imporre»[39] e lavorare alla ricomposizione di una «Chiesa policentrica»[40], una Chiesa aperta al dialogo, che rompe gli steccati e rinnova il proprio linguaggio, che invita i battezzati a sentirsi protagonisti di questa impresa, una Chiesa che «deve riscoprire le potenzialità della propria creatività missionaria mettendo da parte il lamento sterile, generato da tentativi di autodifesa»[41].
Questa chiamata in sussidiarietà del popolo di Dio – e di tutte le soggettività operanti nello spazio pubblico – presuppone che la Chiesa-organizzazione si dichiari più vicina alle problematiche morali e sociali; e dunque: «decentramento di alcune competenze alle chiese nazionali»[42] e nuovo modo di intendere il primato petrino, declinato in senso “collegiale”, capace, cioè, «come un cantiere sempre aperto»[43], di valorizzare «gli episcopati nel discernimento di tutte le problematiche dei loro territori»[44]. Insomma, una buona “cura dimagrante” per le strutture burocratiche romane «appesantite
[scrive l’Autore]
da una prassi che determina disfunzioni e allontana i vertici della Chiesa dalla pratica di una visibile e credibile povertà, in grado di favorire la definitiva opzione per i poveri»[45]. Da qui anche l’accento che il Papa pone ad “una riforma finanziaria che non ignori l’etica”.
3.2. C’è un aspetto, poi, nel libro di Rossi – che potremmo definire di diritto pubblico-ecclesiastico – che secondo me merita di esser adeguatamente sottolineato. Mi riferisco al tema della sana cooperatio come strumento di raccordo virtuoso tra dimensioni parallele: da un lato, la società civile e le sue istituzioni pubbliche (dunque lo stato, nelle sue diverse declinazioni anche ordinamentali e dunque multilevel), dall’altro la Chiesa (anch’è essa vista come soggetto multiforme). Ebbene, l’art. 1 dell’Accordo di modificazione del Concordato lateranense (legge n. 121/1985) parla esplicitamente di «reciproca collaborazione [tra Italia e Santa Sede] per la promozione dell’uomo e il bene del paese», e Rossi sottolinea il grande auspicio di Papa Francesco affinché si venga a determinare una “convergenza” (tra sfera pubblica e sfera religiosa, apparati politici e apparati ecclesiastici) su “azioni” comuni aventi lo scopo di “trasformare la mentalità”, a partire da chi gestisce il potere (quello economico in primis). A differenza del passato, quando i due “ordini” (art. 7, comma 1 Cost.) si confrontavano (e si scontravano) quasi sempre per logiche di potere (il timore era quello di perdere consenso e “presa” sulla società), oggi, con l’avvento di Francesco, sembra possa finalmente maturare una volontà generale diretta a farsi carico delle sorti dell’umanità – e dei problemi pratici che la affliggono – cedendo, entrambi i fronti (quello civile e quello religioso) quote della propria sovranità per il bene comune[46].
Un esempio calzante ce lo offre la questione ecologica, sulla quale Papa Francesco incalza gli stati e raccoglie consensi ampi, capace com’è di proporre una rinnovata narrazione antropologica in direzione contraria rispetto alle «forme di potere condizionate dalla tecnologia»[47]. Su questo aspetto aggiungo solo che, rispetto al tempo in cui anche l’ecologia era stata sfigurata dal vortice delle ideologie, oggi, con la presa in carico del tema da parte di Papa Francesco (ma anche grazie al protagonismo di altri soggetti capaci di imporsi all’attenzione dei media e dei poteri sovrastatali) il problema del modo come «avere cura della casa comune, la Terra, nostra sorella e madre»[48] acquista una centralità politica che va al di là di ogni previsione. Anche in questo caso, Rossi ricorre allo strumento dell’enciclica sfogliando Laudato sì (2015), dove il Papa «invita a riflettere, senza innalzare steccati ideologici»[49]. Questa premessa è la forza del pensiero del Papa perché egli riesce dove altri hanno fallito: rivolgersi a tutti (credenti e non) per valorizzare la responsabilità di ciascuno. In continuità con i suoi predecessori, il pontefice utilizza questo tema sia per valorizzare la dimensione collegiale intra Ecclesiam, sia per allargare il raggio d’azione del suo pensiero costruendo una narrazione politica: la costruzione di un idem sentire aperto alla meraviglia del creato. Laudato sì è, perciò, una Enciclica assolutamente “sociale”, perché la crisi che ci investe è socio-ambientale e richiede un approccio “integrale”[50].
4. Papa Bergoglio è un autentico figlio dell’altro Occidente perché incarna al meglio la radicalità carismatica verso «le creature e le cose»[51], che è un tratto tipico della cultura latino-americana. Questo lo spinge a non trascurare un fattore determinante di quella tradizione: l’amore per la natura che si sposa con la società e le sue complesse articolazioni. Questa sensibilità antropologica verso il creato, lo mette automaticamente più in sintonia con quei sistemi politico-istituzionali che hanno “costituzionalizzato” la dimensione del buen vivir – l’idea di una forma di vita in armonia con la natura –(es. Ecuador e Bolivia) che, collegata al principio di relazionalità «portano inevitabilmente all’affermazione di nuove forme di partecipazione popolare e[a] nuove forme di governo e così [ad un] nuevo constitucionalismo»[52]. Correttamente Rossi parla di «intima relazione fra i poveri e la fragilità del pianeta»[53]. Una relazione ontologica incentrata sulla “ricerca del senso”, dunque, intrinsecamente solidaristica[54].
Questa ampiezza di visione, il Pontefice la radica nella «sacralità della natura»[55] per poi indirizzarla verso la condanna esplicita di qualsiasi logica di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, e del capitalismo finanziario che non garantisce uguali opportunità perché provoca disuguaglianze e ingiustizie[56]. Siamo al cospetto di una trama che si dispiega lentamente ma inesorabilmente, perché ha chiaro l’obiettivo e gli strumenti d’azione. Una trama all’interno della quale uno dei nodi principali è il destino della Chiesa che il Papa vuole, per un verso, de-clericarizzata – meno attenta a soddisfare l’ego dei singoli chierici – e nello stesso tempo fortemente impegnata a dismettere l’antica pratica di “scambiarsi la veste” col potere politico per finalità esclusivamente egemoniche. A seguire vengono i giovani: la categoria sociale più a rischio perchè più facilmente condizionabile dal fascino del denaro. Per Bergoglio, scrive Rossi, ai giovani bisogna insegnare
«a pensare criticamente, superando i localismi e affrontando i problemi mondiali con la consapevolezza di essere cittadini del mondo, in grado quindi di specchiarsi negli altri con simpatetica predisposizione»[57].
E infine, il ruolo dei laici nella chiesa del nuovo secolo. Bergoglio vorrebbe una società all’interno della quale il laicato diventi protagonista attento e attivo (fare politica è importante), anche a costo di mettersi contro una certa «egemonia clericale»[58]; una “Chiesa in uscita”, capace cioè di rompere con le vecchie logiche centralistiche e aperta al mondo, con le sue contraddizioni e le sue speranze. Rossi scrive che «non bisogna aver paura della propensione a una radicale revisione teologico-canonica»[59] e aggiunge che questa profonda rigenerazione si inquadra nell’originale approccio di Francesco alla geopolitica, riassumibile nella trama relazionale del messaggio evangelico, irriducibile alle posizioni apicali e convergente sul bene dell’umanità.
Nessuno, allora, dovrà sentirsi “lo scarto del mondo” perché tutti sono necessari per costruire quel progetto “armonico” che già Paolo VI riteneva essenziale. Il carisma di Bergoglio non sfugge certamente a Rossi, che parla del Papa come del «primo nunzio della Santa Sede»[60], enumerando alcune tra le più delicate vertenze internazionali verso le quali il Papa ha già indirizzato l’attenzione; questo «anche a costo d’incomprensioni da parte di chiese locali gelose della vita interna e attente a privilegiare lo spazio clericale o specifiche concezioni etnico-politiche»[61].
A tutto questo, l’Autore aggiunge l’attenzione del Pontefice verso le problematiche del sud del mondo, verso le tensioni che attraversano la non ancora completa unità politica dell’Europa, verso il metodo del dialogo interreligioso (unico antidoto al radicalismo falsamente ammantato dalla fede) e in direzione dei rapporti con la Cina, gli Stati Uniti, la Turchia, l’Egitto e la Russia (per citare gli attori più rilevanti). Tutti fronti complessi, in buona parte in via di svolgimento.
Siamo nel pieno di una navigazione che non riesce ancora
a scrutare l’approdo finale. Ma forse Francesco ha ben in mente dove e come
arrivare. Di certo la sua missione terrena continuerà a offrirci occasioni
preziose da cogliere se vogliamo provare a cambiare le sorti dell’umanità e con
esse quelle delle comunità. Se c’è una cosa che il Papa argentino non è
disposto a lasciare in secondo piano questa è rinvigorire «la fecondità della
cattolicità romana»[62]
nello spazio scalpitante (e sofferente) della globalizzazione. E gli stati farebbero
bene a condividere alcune delle sue politiche, tenuto conto del fallimento
definitivo di vecchi modelli di governance delle relazioni internazionali.
[1] Sullo sfondo si posiziona la posizione di alcuni critici del sistema-ONU. Ricordo in particolare la tesi di C. Rocca (oggi direttore de Il Foglio), Contro l’ONU. Il fallimento delle Nazioni Unite e la formidabile idea di un’alleanza tra le democrazie, Torino, 2005, secondo cui l’alternativa a questo “fallimento” consisterebbe nel progettare un’alleanza tra le democrazie avente il «compito di rimuovere gli ostacoli che i regimi dittatoriali frappongono alla democrazia e al rispetto dei diritti umani».
[2] Tra i primi a sostenere la tesi, certamente F. Fukuyama, Esportare la democrazia. State-building e ordine mondiale nel XXI secolo, Torino, 2005.
[3] La politica c.d. dei respingimenti (v. il caso italiano), i provvedimenti di natura giuridica aventi ad oggetto la messa in sicurezza dei confini nazionali messi in pericolo dalle “invasioni” di immigrati clandestini (in violazione della normativa internazionale, come specificato da recente giurisprudenza), la comunicazione politica costruita ad arte “a ridosso” di questa tipologia particolare di messaggio (c.d. sovran-populista), etc. rappresentano il tentativo di replicare, su scala nazionale, la logica egemonica diffusa ad ampio raggio da vecchi e nuovi protagonisti della scena planetaria (es.: il sogno di un nuovo “califfato”, la grande madre Russia, il motto “America first”, etc.).
[4] D. della Porta, Democrazie, Bologna, 2011.
[5] L. Rossi, La geopolitica di Francesco. Missione per l’ecumene cristiano, Francesco D’Amato editore, 2019, p. 65.
[6] A. Benazzo, Il dibattito su terrorismo, democrazia ed emergenza dopo l’11 settembre, in Percorsi Costituzionali, 1/2008, pp. 127-136. Alla luce dei recenti fatti legati alla diffusione del virus Covid-19 si impone una riflessione più ampia attorno alla categoria della sicurezza che includa anche le tematiche ambientali, di salute pubblica e del “nuovo” ordine pubblico ad esse conseguenziali.
[7] Molte realtà del nord-Europa, certamente non di destra, si sono lasciate infatuare dal ragionamento sovranista, della necessità cioè di non poter più essere (ridotto all’osso!) “tolleranti con gli intolleranti”. Mai come nel caso dei musulmani gli schematismi funzionano bene, purtroppo … e producono disastri! Da qui, l’affermazione, anche importante, di molte opere letterarie, aventi come nucleo centrale del ragionamento la “presa del potere” da parte di partiti politici di ispirazione islamica con i quali dover scendere a patti per non mettere a rischio la civiltà europea. Ha fatto scalpore il romando di M. Houellebecq, Sottomissione, Milano, 2015. Sul modo invece come la sinistra europea guarda verso la tematica islamica, si rinvia, tra i tanti, a O. Roy, L’Europa è ancora cristiana? Cosa resta delle nostre radici religiose, Milano, 2019.
[8] Fra i tanti, F. Felice, Prospettiva “neocon”. Capitalismo, democrazia, valori nel mondo unipolare, Soveria Mannelli, 2005.
[9] Prendo in prestito la frase dal libro di E. Gentile, La democrazia di Dio. La religione americana nell’era dell’impero e del terrore, Roma-Bari, 2006, p. 185, tra i migliori a saper descrivere il ruolo della religione negli Stati Uniti dopo l’11 settembre.
[10] J.S. Jensen, Che cosa è la religione?, Roma, 2018, p. 236 (il corsivo è dell’Autore).
[11] In questa ipotesi, religione e spiritualità è come se viaggiassero sullo stesso treno; pur avendo parti costitutive diverse, entrambe agiscono “a supporto” della ricerca di senso da parte dell’uomo. Una società, in grado di procedere per assemblaggi virtuosi tra le diverse realtà che la compongono, ne guadagnerebbe in termini di tenuta generale. Ovviamente, all’interno dei diversi contesti geografici e politico-sociali, il modello può facilmente trovare resistenze da parte delle organizzazioni religiose (o delle tradizioni spirituali) di più antico radicamento, che si vedono accomunate ad altre esperienze (non autoctone) a dispetto di una “memoria” che per loro “deve” conservare la stessa matrice. Sul modo come le religioni storiche reagiscono di fronte al tentativo da parte dell’Unione europea di considerare tutti i sistemi di credenza equiparati dal punto di visto giuridico, mi permetto di rinviare a G. Macrì, M. Parisi, V. Tozzi, Diritto civile e religioni, Roma-Bari, 2013, p. 87.
[12] Icasticamente, L. Rossi, op. cit., p. 28, scrive: «Che fare dello straniero?» (mio il corsivo).
[13] L. Rossi, op. cit., pp. 239-240.
[14] L. Rossi, op. cit., p. 271.
[15] L. Rossi, op. cit., p. 8.
[16] Rinvio a M. Ricca, Polifemo. La cecità dello straniero, Palermo, 2011, p. 18, che ci guida a “scoprire” l’alterità e le modalità attraverso le quali si è chiamati a organizzare l’incontro con l’altro. «L’Odissea [scrive l’Autore] è una gigantesca grammatica dell’incontro con l’estraneo (…). Come una profezia, la parabola delle avventure di Ulisse potrebbe mostrarci l’esito di un relazionarsi con l’Alterità che ci fa divenire estranei a noi stessi (…). Nell’episodio di Polifemo [in particolare], narrato nel IX libro del poema, è racchiusa però la chiave narrativa di tutta l’epopea. È quello, l’antro del Ciclope, il luogo immaginario dove Omero orchestra il lato oscuro dell’essere ospite, la tragedia e il terrore dell’inaccoglienza, del trovarsi indifesi e vulnerabili in terra straniera».
[17] L. Rossi, op. cit., p. 286.
[18] L. Rossi, op. cit., pp. 58-59.
[19] L. Rossi, op. cit., p. 69.
[20] L. Rossi, op. cit., p. 71. Si rinvia, per alcuni aspetti più recenti legati al modo come Papa Francesco lavora per costruire una nuova diplomazia della pace e del dialogo a M. Ventura, Il destino della libertà religiosa, in La Lettura – “Corriere della Sera”, 1° marzo 2020, pp. 8-9.
[21] G. Zagrebelsky, Scambiarsi la veste. Stato e Chiesa al governo dell’uomo, Roma-Bari, 2010.
[22] Pensiamo ai costi dei diritti sociali, elevatissimi (e agli scarsi investimenti). La parabola della crisi economica (2008 in poi) ha assestato un duro colpo a questa peculiare categoria di diritti. Oggi, mentre scriviamo questo testo, si aggiunge l’emergenza “Coronavirus”, destinata a far ripiombare il mondo nella paura e nell’incertezza. Servirà un grande sforzo collettivo, passata l’emergenza, per riannodare i fili della solidarietà e questo momento chiamerà in gioco sicuramente le organizzazioni internazionali e gli Stati, ma pure le tante comunità religiose (a-religiose), spirituali e filosofiche ovunque sparse. Il papa, ha già puntato l’obiettivo sul futuro e non sembra affatto intenzionato ad abbandonare la presa. Con questa “caparbietà bergogliana” dovranno confrontarsi (e scendere a patti) sia gli stati, sia le strutture del potere ecclesiastico.
[23] È importante sottolineare il contributo di tante chiese e comunità religiose, cristiane e non, nel complesso spazio della società globale e multiculturale. Il fronte della solidarietà non è più “sotto il controllo” esclusivo delle organizzazioni cattoliche, ma spazia all’interno di una variegata offerta che si caratterizza per essere altamente affidabile e meritevole di gratitudine. Un contributo a questo grande afflato caritatevole è stato indubbiamente offerto dallo strumento del dialogo interreligioso. Smussando antichi pregiudizi, l’incontro, nel rispetto delle diversità, fra religioni diverse, diventa fonte di conoscenza e arricchimento reciproci, ma pure esercizio di libertà e condivisione di progetti. Mai come adesso si sente forte la spinta a cooperare tra esperienze religiose diverse.
[24] Se consideriamo il lavoro sui temi della pace, del dialogo interreligioso (citato), della solidarietà, etc., i numeri sono tali da poter dire con assoluta certezza che la partecipazione è massiccia e in molti casi decisiva. Le organizzazioni che esprimo “sul campo” l’azione politica delle istituzioni religiose si rivela fondamentale e in alcuni casi risolutiva per il ripristino della normalità oppure per la messa in cantiere di percorsi di appeasement all’interno di zone ad alto grado di conflittualità.
[25] La citazione a Tocqueville è praticamente scontata. G. Buttà, The First Liberty. Politica e religione nell’età della formazione degli Stati Uniti d’America, in M. Tedeschi (a cura di), La libertà religiosa, Tomo II, Soveria Mannelli, 2002, pp. 467-468, prendendo in prestito le parole del pensatore francese, ben rimarca che: «Fin da principio, in America, la politica e la religione si trovarono d’accordo e, in seguito, non hanno mai cessato di esserlo. [Per poi aggiungere che] i Padri Pellegrini avevano stabilito nel Nuovo Mondo un Cristianesimo (…) democratico e repubblicano che coglieva la coessenzialità, quasi la complicità, della religione con la democrazia, e l’assenza in America della resistenza delle Chiese, in particolare di quella cattolica, a quel passo grande e necessario della società umana verso la democrazia, passo preparato dai disegni stessi di Dio».
[26] L. Rossi, op. cit., p. 81, nota 124.
[27] L. Rossi, op. cit., p. 132 ss. Si tratta di un materiale – quello delle encicliche – di grande valore socio-politico perché aiuta a comprendere come, in un determinato momento storico e in particolari condizioni sociali e politiche, un pontefice decide, di concerto con la sua Curia, di affrontare un tema specifico e di “offrirlo” ai credenti e non solo. Ecco perché, proprio in ragione di questo approccio ampio e trasversale, le encicliche vanno studiate per quello che riescono a dire innanzitutto al cuore delle persone, prima ancora che ai diretti interessati. Il loro afflato “politico” è dunque inestimabile. Mi permetto di rinviare a G. Macrì, I rapporti Stato-Chiesa nell’evoluzione della forma di Stato (1848-1871), Lancusi (SA), 2000, pp. 26 ss., dove ho affrontato l’uso da parte della Chiesa delle encicliche quale arma ideologica per orientare le masse contro quelle che, nei primi anni dell’800, venivano senza mezzi termini definite “nuove eresie” (democratismo, liberalismo, comunismo, etc.). Ma parliamo, appunto, di un’altra epoca.
[28] Un metodo del genere, per funzionare, a mio parere, deve partire dal presupposto che nessuna fede (o sistema di credenze) può vantare posizioni di supremazia rispetto agli altri. E dunque, per funzionare concretamente, per essere cioè “utile” alla società e contribuire al miglioramento delle relazioni pubbliche, avrà bisogno di un perimetro civile ampio e flessibile connotato in senso laico. La laicità, allora, ritorna ad essere il fulcro dello spazio politico democratico e pluralista. Una condizione necessaria, che non richiede alcun imprimatur “esterno”, solo quello della certificazione del primato della politica.
[29] L. Rossi, op. cit., p. 151.
[30] L. Rossi, op. cit., p. 167.
[31] L. Rossi, op. cit., p. 171.
[32] Scrive L. Rossi, op. cit., p. 173: «Come discepolo Tommaso rimane vicino nonostante la distanza delle idee, ma la crocifissione e la morte costituiscono una delusione per le sue speranze, reagisce in nome della ragione contro le pretese di una fede evidentemente credulona, che ritiene reale un fatto così distante da ogni prospettiva di umana razionalità».
[33] Mi trovo in perfetta sintonia con quanto scrive M. Ventura, Creduli e credenti. Il declino di Stato e Chiesa come questione di fede, Torino, 2014, p. 21: «La vera differenza è […] un’altra. Il credente si mette al servizio della storia, ci entra dentro per misurare i propri limiti. La storia del credente è incessante superamento di sé. Inseguimento tra il soggetto e l’oggetto, che si scoprono a vicenda. Il credulo, invece, sfrutta la storia: sta fuori di essa e ne mette in tasca i pezzi di cui ha bisogno. La storia del credulo è affermazione di sé. Ansiosa ricomposizione di un racconto che gli serve per controllare il presente. E per ergersi a protagonista del futuro».
[34] L. Rossi, op. cit., p. 176.
[35] L. Rossi, op. cit., pp. 181-182.
[36] L. Rossi, op. cit., p. 187.
[37] L. Rossi, op. cit., p. 188.
[38] L. Rossi, op. cit., p. 189.
[39] L. Rossi, op. cit., p. 198.
[40] L. Rossi, op. cit., p. 202.
[41] L. Rossi, op. cit., p. 212.
[42] L. Rossi, op. cit., p. 203.
[43] L. Rossi, op. cit., p. 224.
[44] L. Rossi, op. cit., p. 203.
[45] L. Rossi, op. cit., p. 203.
[46] Sulla scia dell’art. 11 della Cost. che prevede una sovranità cooperativa, non divisiva, al fine di favorire la costituzione di organizzazioni internazionali rivolte al perseguimento della pace.
[47] L. Rossi, op. cit., p. 225.
[48] L. Rossi, op. cit., p. 225.
[49] L. Rossi, op. cit., p. 225.
[50] Card. M. Czerny S.I. – R. Czerny, COP25: preoccupate lezioni sulla crisi del clima, in La Civiltà Cattolica, 7/21 marzo 2020, p. 460.
[51] L. Rossi, op. cit., p. 227.
[52] Così E.A. Imparato, I diritti della Natura e la visione biocentrica tra l’Ecuador e la Bolivia, in DPCE on line, 2019/4, p. 2466. Si tratta di un filone del costituzionalismo (c.d. “nuevo constitucionalismo”) sconosciuto alla scienza costituzionalistica classica (Stati Uniti ed Europa) che però inizia a trovare addentellati anche all’interno delle nuove proposte politiche ambientalistiche presenti nello scenario occidentale. Da qui la collocazione della “politica” bergogliana “a cavallo” tra Europa (Occidente) e America Latina, con importanti elementi di contaminazioni destinati a dare frutti nel prossimo futuro.
[53] L. Rossi, op. cit., p. 227.
[54] Qui è chiaro il legame con le costituzioni democratiche del mondo, all’interno delle quali, il legane funzionale tra persona umana e fratellanza, trova ampio riconoscimento. D. Fares S.I., La fratellanza nell’itinerario di Papa Francesco, in La Civiltà Cattolica, 20 luglio/3 agosto 2019, p. 129, rimarca come: «La fratellanza è il primo tema al quale ha fatto riferimento papa Francesco nel giorno della sua elezione, quando ha chinato la testa davanti alla gente e, definendo la relazione vescovo-popolo come “cammino di fratellanza”, ha espresso questo desiderio: “Preghiamo sempre per noi; l’uno per l’altro. Preghiamo per tutto il mondo, perché ci sia una grande fratellanza».
[55] L. Rossi, op. cit., p. 231.
[56] Qui il rinvio corre, tra i tanti, a J. Hickel, The divide. Guida per risolvere la disuguaglianza globale, Milano, 2018, secondo cui, per risollevare le sorti delle popolazioni povere del pianeta, bisogna agire non sulla “condizione di natura” bensì sulle dinamiche all’interno del sistema di sfruttamento economico mondiale.
[57] L. Rossi, op. cit., p. 233.
[58] L. Rossi, op. cit., p. 235.
[59] L. Rossi, op. cit., p. 237.
[60] L. Rossi, op. cit., p. 239.
[61] L. Rossi, op. cit., p. 239.
[62] L. Rossi, op. cit., p. 296.
di Enrique Dussel
(traduzione di Antonino Infranca)
Mentre il sovranismo dilaga in tutto il mondo eurocentrico, la coscienza critica non eurocentrica si chiede se non sia il caso di ripensare i valori fondamentali del mondo occidentale. L’Occidente è nato con la Conquista dell’America e il saccheggio delle sue ricchezze ed è proprio dall’America latina, precisamente dal Messico, che è arrivata una richiesta impellente: il presidente del Messico, Andrés Manuel López Obrador, rappresentante vivente della storia e della tradizione messicana pre e post-conquista, interpella con una lettera il Re di Spagna, affinché chieda perdono e restituisca, per quanto possibile a cinquecento anni di distanza, dignità a chi è stato trattato brutalmente in nome del Dio dell’amore e della pace.
Di seguito, pubblichiamo l’articolo del filosofo argentino, Enrique Dussel, che raccoglie l’interpellazione delle vittime della Conquista
Nel 1992 si è dibattuto il problema dell’invasione dell’Amerindia (denominata eurocentricamente la Scoperta d’America) a cinquecento anni dal 1492. Sarebbe bene che in questi due anni (2019-2021) ricordassimo la problematica ancora attuale per gli effetti della sanguinosa conquista delle grandi culture della Mesoamerica (l’atzeca, la maya, la zapoteca, l’otomì, ecc.) che fu un genocidio di significato mondiale, perché qui si produsse lo scontro e la dominazione violenta dell’estremo occidente di Eurasia (Spagna) sulle culture dell’estremo oriente dell’Asia (poiché i nostri popoli originari arrivano probabilmente dall’Asia orientale attraverso lo stretto di Bering). Certamente la Spagna (per la sua occupazione militare) e Roma (per l’organizzazione della Cristianità delle Indie occidentali) sono autrici e complici di un genocidio. In effetti, il papa concede ai re di Spagna con la bolla Inter caetera del 3 maggio 1493, le terre appena scoperte con l’obbligo di evangelizzare i loro abitanti, cioè le non ben conosciute Isole del Mare Oceano ad occidente dell’allora scoperto Oceano Atlantico. Qui si trova già il primo motivo che giustifica il chiedere perdono ai popoli originari da parte del Papa. Lo stesso Bartolomé de las Casas si chiedeva con quale diritto il Papato concedeva o donava al re di Spagna terre e popoli dei quali non aveva alcuna conoscenza, possesso o dominio? Bartolomé negava al Papa questo diritto, che inoltre lo rendeva complice del crimine ingiusto e del genocidio della conquista, con i suoi massacri e con l’orribile servitù in cui aveva ridotto i popoli originari del continente. E, riguardo a Spagna e Portogallo, e specialmente ai loro re e al Consejo de Indias, furono responsabili della ferocia, della violenza, dei sanguinosi scontri con armi sconosciute agli indigeni (come cannoni, balestre, cavalli, ecc.) e di ogni tipo di vessazione che si compirono. Valgano alcune citazioni di lettere che ebbi tra le mie mani nell’Archivo de Indias di Siviglia, inviate al re, mostrando la situazione: «Molto argento che di qui si strappa e va a questi Regni, è ottenuto con il sangue degli indios e va avvolto nella loro pelle» (Lettera del vescovo di Mechoacan Don Juan de Medina y Rincon, del 13 ottobre 1583; AGI, Messico, 374). E ancora: «Saranno quattro anni che, per terminare di perdere questa terra, si scoprì una bocca dell’inferno, per la quale entra ciascun anno una gran quantità di gente, che la cupidigia degli spagnoli sacrifica al loro dio, ed è una miniera di argento che si chiama Potosì» (Lettera del vescovo Domingo di Santo Tomás, del 1 luglio 1550; AGI, Charcas 313).
Il minimo che si possa dire a chi ignori la violenza e l’ingiustizia della conquista dell’America latina, e molto specialmente del Messico, è che è ignorante e che, non avendo cattiva coscienza di un vero crimine, si rende oggi complice di quello stesso crimine, benché sia, e in maggior misura, il re di Spagna. Ho letto migliaia di Schede Reali nelle quali i re spagnoli stampavano una grande firma e che dicevano: IO IL RE, senza ulteriore indicazione (si dovrebbe verificare mediante la data del documento il nome del personaggio). I noti storici demografi, Cook-Boràh e Simpson attribuiscono al Messico una popolazione di 11 milioni di abitanti nel 1519, che decrebbe nel 1607 a 2 milioni di indigeni. È chiaro che ci furono malattie contro le quali la popolazione indigena non era protetta, ma i massacri nelle guerre narrate dal Chilan Balam[1], i maltrattamenti nelle miniere, l’assegnazione degli indios e le fattorie e la produzione di zucchero, e il lavoro domestico delle donne indigene nelle case dei bianchi (che diventavano concubine, obbligandole a lasciare i loro mariti, per essere vessate dagli spagnoli e dai creoli), la trasformazione del territorio agricolo dai più fecondi a deserto sterile (che produsse fame mortale tra tarahumaras)[2] causerà una crisi demografica gigantesca. Tutto questo ci suggerisce che è molto conveniente in Messico cominciare ad avere presente, giorno per giorno, il 500° anniversario dell’orrenda Conquista del Messico. Ci sono date emblematiche: il 18 febbraio di 500 anni fa Hernán Cortés partiva da L’Avana con 600 uomini, 16 cavalli, 10 cannoni, 32 balestre. Il prossimo 22 aprile di 500 anni fa sbarcò a Veracruz; avendo già occupato in Messico, Tenochtitlán il 30 giugno sconfigge Panfilo Narváez[3]. Il prossimo anno, il 30 giugno, si compiranno i 500 anni dell’inizio dell’assedio di Città del Messico con l’aiuto dei tlaxcaltecas e di altri popoli dominati dagli aztechi. 500 anni fa, il 13 agosto del 1521 prenderanno e distruggeranno Tenochtitlán. Devono essere date ricordate e studiate, giorno per giorno, per prendere coscienza che fummo colonia e, dopo, non abbiamo smesso di essere neocolonie, del che non si ha autocoscienza a causa dell’eurocentrismo culturale dei nostri creoli (i messicani bianchi e americani, figli di spagnoli, che dopo rimangono al potere fino ad oggi). Nel futuro, la piena decolonizzazione politica, economica e culturale è necessaria, dopo 500 anni dalla Conquista. Deve essere un proposito della Quarta Trasformazione. È tempo che il re di Spagna e il papa romano chiedano perdono, non solo per mezzo di parole bensì con atti oggettivi, ai popoli originari per il crimine della Conquista! Ma anche che chiedano perdono i creoli messicani, i bianchi e principalmente i razzisti, ai popoli originari realizzando gli Accordi di San Andrés[4] e dando piena autonomia ai nobili e colti eredi delle antiche culture millenarie centroamericane!
[1] Miscellanee maya dei XVII e XVIII secoli dove si narrano gli scontri tra i Maya e i primi spagnoli arrivati in Yucatan.
[2] Comunità indigena del nord del Messico.
[3] Conquistador spagnolo che entrò in conflitto con Cortez.
[4] Accordi tra il governo messicano e l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale per concedere diritti alle popolazioni indigene (1996).
di Domenico Bilotti
(Docente di Storia Contemporanea e di Storia delle Religioni – Università Magna Graecia di Catanzaro)
La storia della medicina e quella delle religioni convergono su un punto importante. In ogni tempo, l’essere umano ha paura di due cose: del logorio della sofferenza individuale e dell’onda montante dei cataclismi collettivi in cui, insieme a tutti, è proprio lì drammaticamente solo. Nulla di nuovo sotto il Sole della coscienza e delle regole. È avviso comune che la tragedia greca sia nata per creare un sistema giustificativo e rielaborativo intorno all’afflizione umana. In periodi storici a noi più vicini Voltaire non può fare a meno di pensare all’esistenza del male quando smentisce la razionalità dell’ottimismo cieco e ricorda il terremoto di Lisbona. E che dire della teologia giuridica e politica del Ventesimo secolo? Auschwitz e i campi di concentramento sono la cartina di tornasole per la critica del male assoluto: gli atei ne hanno tratto la conferma che Dio non esistesse e perciò non guardasse e tuttavia continuano a dirselo; i credenti ancora si chiedono come sia stato possibile che il loro stesso Dio non abbia impedito, non abbia fermato. Le ansie che ci vengono dalla pandemia appena dichiarata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità sono, in effetti, a metà strada tra l’accidente e il dolore che ci viene da un male esterno ai nostri mezzi di comprensione (come il terremoto di Lisbona) e il senso di sciagura, iniquità e ingiustizia al quale tutto sommato riusciamo a dare umana spiegazione (una guerra). E in particolare: la propagazione così invasiva e capillare, l’aggravarsi della prognosi e l’estrema duttilità aggressiva del virus sono elementi che appartengono all’imponderabile, a quel vasto quadro di casualità negative che speriamo la scienza e la medicina abbiano i codici per trasformare in causalità positive. I sistemi di gestione, i comportamenti pubblici e privati che non hanno canalizzato per tempo l’ondata del virus, le conseguenze di vita aggregata alle quali si va incontro … questi sono, invece, temi e fattori sin d’ora rimessi alla nostra applicazione cognitiva. Temi sui quali, come nelle guerre, è molto più facile sbagliare che avere ragione; sol che come nelle guerre gli errori, pur meglio scusabili e forse comprensibili, diventano invero assai più pesanti e pericolosi. Se il quadro non fosse già enormemente complesso, si potrebbe aggiungere un nuovo capitolo alla riflessione giuridica sull’emergenza: la comunicazione dell’emergenza. La rete sociale in cui siamo immersi non tollera deviazioni da quella normalissima libertà contrattuale che Marx non polemicamente inserisce all’interno del progetto capitalistico. Ecco perché è difficile far colpevolismo contro chi, soprattutto in Italia e soprattutto nelle primissime settimane, invitava più o meno bonariamente a non disperdere le abitudini e i costumi abituali: nel capitalismo in cui viviamo gli usi locali sono già costumi abituali ma ancor di più “consumi seriali”. L’aperitivo a tagliere, il volo lowcost, il lavorar fuori ma avere sempre il bisogno fisico della propria radice (una nostra nostalgia che ci consente di dimenticarla prima) … non sono solo comportamenti appresi; sono ahinoi parti inevitabili del nostro odierno agire in comune. In questa fase in cui si voleva rispondere all’alba della paura col sorriso di un drink, c’erano politici che si dichiaravano contrari a ogni chiusura e restrizione. E questo, scopriremo, ci insegna tra l’altro il coronavirus: il populismo è l’amplificazione opportunistica di ogni traccia di senso comune che intercetta. La cannibalizza e la stravolge. È venuta, poi e presto, spiazzandoci, la fase della preoccupazione seria, stimolata indubbiamente dalla progressiva trasformazione di tempi e ritmi che si davano per acquisiti e da un aumento quantitativo di decessi e contagi che forse nemmeno gli esperti del ramo avrebbero saputo calibrare in questi termini. E un’altra politica, un altro populismo, sempre lo stesso perché sempre uguale a se stesso, ha perso di nuovo la testa. Oggi che il trend è diventato “chiudete”, loro vogliono “sotterrare”, “bloccare”, “chiudere tutto”; ieri che il trend era “resistiamo”, “viviamo”, “gioiamo”, loro invece volevano resistere di più, vivere di più, gioire di più. Consumare di più. È presto per dare un giudizio, in termini di efficacia preventiva rispetto al contagio, ai tre decreti consecutivi dell’attuale Presidente del Consiglio dei Ministri. I primi due in particolare avevano non occasionali profili di contraddizione che sembravano dover rimandare addirittura a fonti interpretative di pari rango (tra gli altri: l’organizzazione degli uffici giudiziari e le modalità di funzionamento delle pubbliche amministrazioni; i limiti alla libertà di circolazione e le eccezioni a quegli stessi limiti). Oltretutto, per quanto apprezzabili nello sforzo, quei decreti affrontano purtroppo marginalmente le condizioni di sofferenza delle categorie realmente più esposte a un contagio, si è visto, che può facilmente annientare e costringere a invalidanti e distruttive fasi finali di vita: i senzacasa, lavoratrici e lavoratori d’impresa la cui opera è coessenziale al mantenimento della produzione (al punto forse di sopravanzare il loro diritto alla salute?), gli anziani, il personale di cura. Inutile, però, mettersi in cattedra. Dovendo decidere su ciò, sulle vittime di una guerra, sbagliare è facile: è questo modo di sbagliare, al più, che ci turba. Gran parte della riflessione dei giuristi, sin qui affidata ovviamente alla estemporaneità dei social, si sta concentrando sui termini dell’assembramento (cioè, quel fenomeno di pubblica concentrazione sin dal primo provvedimento preso di mira) e su quelli della libertà di culto (l’esercizio collettivo di detta libertà è garantito tanto dal diritto dello Stato quanto dal diritto delle Chiese, anche se non esistono diritti legibus et iuribus soluti). Forse però è ancora più necessario fare un passo indietro: all’emergenza. Cosa sospende la procedura democratica? Cos’è l’emergenza? Potrebbe essere forse fondato anche un modo di ragionare completamente opposto a quello che abbiamo sempre seguito finora. Siamo portati a credere che sia l’emergenza a sospendere la procedura democratica, ma non può darsi che sia la procedura democratica a sospendere l’emergenza? Non può darsi che all’emergenza si arrivi perché qualcosa nella procedura democratica non ha funzionato, che sia l’irresponsabilità dei cittadini o l’insipienza dei governanti? Non può essere allora emergenza lo speculare gemello dello stato di natura hobbesiano? Ho la sensazione sia questo il guanto di sfida che questa dannata epidemia ci sta lanciando.
di Antonino Infranca
L’America latina è l’Altro Occidente, perché la negazione della sua Alterità sta a fondamento dell’egemonia dell’Occidente sull’intero pianeta. L’idea stessa di America latina nasce come negazione della realtà concreta di quel continente: olocausto dei suoi abitanti originari, sostituiti da esseri umani considerati schiavi, da una parte, e sfruttamento delle sue ricchezze naturali per instaurare la prima globalizzazione, dall’altra.
La conquista dell’America latina ha trasformato radicalmente il mondo e non solo quello occidentale, innanzitutto perché ha iniziato quel processo di accumulazione del capitale che ha permesso nel corso del tempo all’Europa di diventare il Centro del mondo. I metalli preziosi razziati e trasportati in Europa, cioè in Spagna e Portogallo, in quanto nazioni direttamente predatrici, sono stati impiegati in operazioni belliche che hanno permesso alla Spagna di egemonizzare il Mediterraneo. Mentre in Inghilterra, Francia e Olanda, in quanto nazioni indirettamente predatrici, perché depredavano i predatori spagnoli e portoghesi, i metalli preziosi sono stati lo strumento primario per la nascita del capitalismo.
Ma la conquista dell’America latina ha rappresentato anche il fallimento morale del cristianesimo, per i modi violenti, terroristici, sanguinari, in cui la religione dell’amore e della pace è stata imposta alle popolazioni indigene. Intere civiltà sono state annichilate in nome del Dio dell’amore e della pace, un Olocausto, il primo Olocausto della storia moderna, è stato compiuto in nome del Dio dell’amore e della pace. Lutero è stato testimone dell’uso delle ricchezze latinoamericane come strumento di lusso, quindi, come sostanziale negazione dei fondamenti morali del cristianesimo; ma non ha speso alcuna parola sull’Olocausto degli indios. Non a caso, poi, il protestantesimo è diventato ideologia dello schiavismo, al pari del cattolicesimo. Anche il mondo ideale dell’Occidente è stato stravolto dalla conquista dell’America.
All’Europa, grosso modo, dopo la Seconda Guerra Mondiale sono subentrati gli Stati Uniti come Centro del mondo, ma la struttura Centro-Periferia non è stata messa in discussione ed è ancora oggi in vigore.
Qualcosa sta lentamente cambiando. Proprio dall’America latina arrivano i primi movimenti intellettuali di critica all’egemonia eurocentrica sul Pianeta. Una concezione critica della religione cattolica, la teologia della liberazione, ha messo in discussione l’idea di una Iglesia espejo (Chiesa specchio) di Roma, contrapponendole un’idea di Iglesia hogar (Chiesa focolare) che sia espressione di una religiosità dal basso, delle vittime dell’evangelizzazione coloniale.
Anche dentro gli ambienti filosofici è sorta una nuova concezione filosofica, la Filosofia della Liberazione, fondata da Enrique Dussel; essa rivolge un’interpellazione, con un atto-di-parola, al Centro del mondo, chiedendo il riconoscimento dell’esclusione e dello sfruttamento delle vittime dell’attuale sistema dominante, che è il risultato storico di quella conquista. Le vittime sono gli indios, i negri, i mulatti, i meticci, ma anche le donne, i bambini e i vecchi dell’America latina. La Filosofia della Liberazione chiede il riconoscimento dell’Alterità di queste vittime. La sua critica è indirizzata all’universalità presunta della cultura eurocentrica. L’umanità non forma una comunità universale, se una gran parte dell’umanità è negata nei suoi bisogni primari, cioè mangiare, bere, coprirsi, abitare.
La condizione di esclusione e sfruttamento, imposta all’America latina nel passato, si è estesa all’intero mondo, e, per questa ragione, paradossalmente è la Filosofia della Liberazione ad essere universale. Ma anche nel Centro del mondo ci sono esclusi e sfruttati; le donne occidentali lottano per il riconoscimento di diritti paritari nel posto di lavoro, lottano per non essere più sfruttate sessualmente dagli uomini più potenti, vengono sacrificate dall’assurdo orgoglio maschile. Ai lavoratori si negano i diritti conquistati dopo decenni di lotte. La Filosofia della Liberazione può dare voce a tutti gli esclusi e sfruttati.
Una vera etica universale, allora, è quella che parte dalla vita materiale e dalla riproduzione della vita materiale, quindi anche dell’ambiente, dove si svolge la riproduzione della vita. L’Etica della liberazione è l’etica dell’umanità, di tutta l’umanità, dell’umanità che ha superato le differenze, le esclusioni e lo sfruttamento, dell’umanità che si fonda sull’Alterità.
Progetto PCTO a cura di Kappabit s.r.l. e Filosofia in movimento
Il progetto s’inserisce nell’ambito della rassegna Pubblicittà: percorsi sinestetici tra parola e immagine, promosso da Kappabit in partnership con FiM. Tema centrale dell’iniziativa è, come si può facilmente evincere dal titolo, il rapporto tra parola e immagine, indagato a partire dall’esperienza della Neoavanguardia italiana, nella fattispecie della Poesia Visiva. L’argomento viene approcciato da diversi punti di vista, coinvolgendo i più vari ambiti di ricerca (filosofia, arti visive, sociologia e teatro) in un fitto calendario di eventi costellato da incontri, workshop, azioni artistiche ed eventi sul territorio.
In questo contesto, il progetto PCTO che qui s’illustra mira a coinvolgere gli studenti all’interno di percorsi di apprendimento e sviluppo dello spirito critico attraverso un programma di attività costituito da lezioni e workshop, tutti incentrati sull’esperienza della Poesia Visiva.
La Poesia Visiva è, più che una tendenza artistica, una variegata esperienza di contaminazione fra linguaggi: la simultanea presenza di scrittura e di immagini su una superficie. Interagendo, la parola si fa segno visivo e l’immagine assume una dimensione mentale. Infatti, proprio negli anni Sessanta, in cui domina l’arte concettuale, questa ricerca prende corpo in molti gruppi e in parti diverse del mondo (oltre che in Europa, in Brasile Argentina e Giappone). Il più numeroso e vivace è stato quello italiano, con base Firenze dal 1963. Maggiori esponenti Lamberto Pignotti, Eugenio Miccini, Ugo Carrega, Emilio Isgrò, Luciano Ori, Luca Maria Patella, Nanni Balestrini, Sarenco. I precedenti storici sono in avventure sperimentali delle avanguardie del primo Novecento: Apollinaire con i Calligrammes, futuristi come Marinetti e Cangiullo con le Tavole Parolibere. Ma inserzioni di scrittura sono frequenti già nei quadri cubisti e futuristi. Il principio ispiratore è quello di attivare gli scambi tra i cinque sensi (sinestesia): infatti al movimento partecipano autori che realizzano installazioni sonore, spartiti musicali[1].
Il valore aggiunto del progetto è rappresentato dal coinvolgimento attivo nell’ambito delle attività PCTO di colui che unanimemente è considerato il padre della Poesia Visiva: Lamberto Pignotti[2].
Gli alunni coinvolti nel progetto avranno, infatti, l’opportunità d’interagire direttamente con il Maestro Pignotti, il quale, oltre a determinare l’indirizzo delle attività da svolgere, ne coordinerà in prima persona lo svolgimento.
Tale opportunità è resa possibile dallo stabile rapporto di collaborazione instauratosi tra Pignotti e la Kappabit, che, oltre a rappresentare il fondamento sul quale la stessa rassegna Pubblicittà: percorsi sinestetici tra parola e immagine è basata, nell’anno in corso ha dato vita anche a una mostra personale dell’artista ospitata dalla Galleria CONTACT artecontemporanea[3] e alla pubblicazione per le Edizioni Kappabit dei volumi Lamberto Pignotti. Controverso – Arte per fraintenditori, a cura di
Gaia Bobò (ISBN 9788894361827) e LESSICO RESISTENTE – La Poesia visiva e la critica alla società dell’immagine, In un dialogo con Lamberto Pignotti, di Antonio Cecere (ISBN 9788894361872).
Il fulcro delle attività previste dal progetto PCTO è costituito dall’analisi del rapporto tra parola e immagine quale passaggio critico dello sviluppo culturale della nostra società. Oggi la conoscenza è fortemente condizionata dalle nuove tecnologie e il Gruppo 70, fondato da Lamberto Pignotti, attraverso la Poesia Visiva, aveva compreso, molto prima di Guy Debord, la natura della società dello spettacolo. Pignotti ha scritto, prima di Edgar Morin, un’analisi circa l’influenza che il linguaggio pubblicitario ha avuto sullo sviluppo del linguaggio politico nel corso del Novecento. Per queste ragioni, Pignotti è senza alcun dubbio l’intellettuale più autorevole con il quale si possa intraprendere un percorso come quello definito da questo progetto.
Oltre a Lamberto Pignotti, saranno coinvolti nelle attività anche Marco Contini[4] e Gaia Bobò[5].
Il progetto si articola in tre momenti che prevedono diverse modalità di partecipazione per gli studenti:
[1] Fonte: https://www.collezionedatiffany.com/glossary/poesia-visiva/
[2] Lamberto Pignotti nasce nel 1926 a Firenze. Qui si laurea e risiede fino al 1968, anno in cui si trasferisce a Roma. Nei primi anni Sessanta concepisce e teorizza le prime forme di “poesia tecnologica” e “poesia visiva”, di cui cura nel 1965 la prima antologia. Nel 1963 dà vita, con altri artisti e critici, al “Gruppo 70” e partecipa pochi mesi dopo alla formazione del “Gruppo 63”. Dal 1971 al 1996 ha portato avanti, prima come professore alla Facoltà di Architettura di Firenze e poi al DAMS della Facoltà di Lettere di Bologna, dei corsi sugli svariati rapporti fra avanguardie, mass-media e new-media. Tra le più recenti mostre personali si ricordano: La poesia ve lo dice prima, la poesia ve lo dice meglio, Opere dal 1945 al 2010, Fondazione Berardelli, Brescia, 2010; Poesia visiva tra figura e scrittura, CSAC, Università di Parma, 2012; Cinquant’anni di inquietudine. La poesia visiva di Lamberto Pignotti, Galleria Clivio, Milano, 2016; Verso libero e indipendente, Centre Pompidou, Parigi 2018. Vive e lavora a Roma.
[3] http://kappab.it/?qr=217Z
[4] Esperto di tecnologia dell’informazione e della comunicazione, specializzato in editoria elettronica multimediale, con oltre vent’anni di esperienza sul campo. Fondatore, CEO e responsabile delle attività editoriali della Kappabit, nonché direttore della Galleria CONTACT artecontemporanea.
[5] Curatrice indipendente laureata in Comunicazione e Valorizzazione del Patrimonio Artistico Contemporaneo presso l’Accademia di Belle Arti di Roma. Recentemente ha curato l’esposizione “Controverso. Arte per Fraintenditori” di Lamberto Pignotti presso la Galleria CONTACT artecontemporanea nonché il catalogo dell’omonima mostra (Edizioni
Kappabit, 2019). Come autrice pubblica regolarmente per Exibart; ha inoltre scritto per le riviste di settore Inside Art e Rivista Segno. Per Filosofia in Movimento è curatrice della pagina “Lamberto Pignotti, Arte per Fraintenditori” (http://filosofiainmovimento.it/arte/arte-per-fraintenditori/).