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L’Illuminismo fuori dell’Europa. Una lettura a partire dalla Filosofia della liberazione latinoamericana

Non c’è dubbio che i filosofi illuministici ritenevano di elaborare concetti e principi universali, cioè diretti e validi per l’intera umanità, trasformandoli in ideali da realizzare, principi regolativi[1] di ogni futura azione pratica che ad essi si ispirasse. Il modello di questa nuova forma del pensiero filosofico è rappresentato dal motto kantiano: “Agisci soltanto secondo quella massima che, al tempo stesso, puoi volere che divenga una legge universale”[2]. Si tratta, come è noto, di un imperativo categorico formale, ma è, allo stesso tempo, regolativo di ogni futura legge universale. Enrique Dussel utilizza i principi regolativi universali in maniera non formale, ma materiale, cioè ponendo come contenuto del principio di comportamento morale «il principio di produzione, riproduzione e sviluppo della vita umana di ciascun soggetto etico in comunità». Questo principio potrebbe essere non realizzabile in toto, ma rimane come la stella polare per i naviganti il punto di riferimento, irraggiungibile praticamente, ma indispensabile per orientare la propria direzione, o meglio la propria azione pratica. Questo nuovo orientamento del comportamento pratico, che tiene insieme la formalità dell’imperativo categorico con la materialità della vita umana, viene dall’esperienza esistenziale, divenuta filosofica, di chi pensa e agisce moralmente nell’esteriorità dell’attuale sistema dominante, cioè fuori dal Centro del Mondo (Stati Uniti, Europa, Giappone). L’esperienza e il pensiero di Dussel, che userò come strumento per questo saggio, vengono dall’America latina, la prima vittima del sistema coloniale europeo, anzi la vittima che ha permesso con il suo sfruttamento la fondazione della Modernità[3], cioè con il saccheggio delle sue ricchezze naturali (metalli preziosi) l’accumulazione originaria del capitale, che è avvenuta soprattutto con l’uso del lavoro di schiavi strappati con la violenza dall’Africa.

Dussel indica chiaramente quali siano i principi normativi della politica: «I principi normativi della politica, gli essenziali, sono tre. Il principio materiale obbliga a curare la vita dei cittadini; il principio formale democratico determina il dovere di agire sempre rispettando le procedure proprie della legittimità democratica; il principio della fattibilità limita egualmente ad operare soltanto per il possibile (al di qua della possibilità anarchica, e al di là della possibilità conservatrice)»[4]. Secondo me, i principi normativi della politica devono essere ispirati ai principi regolativi universali di origine illuministica, più precisamente principi normativi sussumono in loro i principi regolativi universali, fino al punto che essi assumono una eticità in se stessi: divengono principi etici del comportamento comune, cioè collettivo e poi passano ad essere principi morali del comportamento del singolo individuo.

La patria dell’Illuminismo fu la Francia, che era contemporaneamente una potenza coloniale schiavista. I politici illuministi agirono per rendere questi principi regolativi principi normativi, in modo tale che qualsiasi azione pratica potesse trovare il consenso universale. Così la “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” (1789), basato su un testo di La Fayette, con la collaborazione di Jefferson, e ispirata al pensiero di Montesquieu[5], Rousseau e Voltaire, venne intesa come una legge universale e come tale è riconosciuta. I principi a fondamento di quella dichiarazione, Libertà, Fraternità e Uguaglianza, sono stati negli ultimi due secoli a fondamento di qualsiasi civile dichiarazione o costituzione statale. Anche la “Dichiarazione Universali dei diritti umani” (1945) dell’Organizzazione delle Nazioni Unite si ispira a quei principi regolativi, quindi quei principi sono stati a fondamento di una legislazione universale e di ogni azione di liberazione da qualsiasi forma di oppressione. Sono stati e, sicuramente, saranno per qualsiasi altra azione di liberazione, sia individuale che collettiva che sarà messa in pratica in futuro.

Anche la “Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America” (1776) si ispira a principi regolativi, ritenuti universali, che derivano dal pensiero di John Locke, il quale, per altro, riteneva legittima la schiavitù, in quanto riteneva la proprietà privata superiore alla stessa libertà. Alcuni di questi principi sono gli stessi della futura “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino”, come l’eguaglianza e la libertà, ma vi si aggiunsero il riconoscimento che ciascun essere umano ha diritti inalienabili, quali la vita e la felicità. Ma nel momento della stesura della “Costituzione degli Stati Uniti d’America” (1787) un evidente oblio fece dimenticare quei principi universali regolativi e la schiavitù non fu abolita, ma semplicemente regolamentata (vedi Artt. I, II e V). A questo punto è opportuno porsi qualche domanda: Perché la schiavitù non fu abolita? Forse gli schiavi non erano ritenuti uguali ai loro padroni bianchi? La risposta più ovvia è si, tant’è che anche dopo l’abolizione della schiavitù, nel 1865, la segregazione razziale non terminò e ancora oggi a più 250 anni dalla “Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America” e da più di 150 anni dall’abolizione della schiavitù la segregazione non è stata completamente superata, come insegna il movimento attuale Black Lives Matter. Buck-Morss avanza una propria interpretazione riguardo alla scarsa conoscenza delle vicende legate al mondo degli esclusi o degli oppressi: «Più le conoscenze sono specialistiche, più avanzato il livello della ricerca, più lunga e venerabile la tradizione accademica, più è facile che i fatti discordanti vengano ignorati. Va rilevato che la specializzazione e l’isolamento costituiscono un pericolo anche per nuove discipline come gli studi afro-americani»[6].

Ma è opportuno porsi un’altra domanda più radicale delle precedenti: In cosa consisteva l’ineguaglianza degli schiavi rispetto ai loro padroni? La risposta è ovvia ed evidente: erano neri, cioè non erano bianchi, o meglio non erano europei, perché soltanto gli europei si considerano veri bianchi, negando l’evidenza che anche gli asiatici (cinesi, coreani e giapponesi) sono bianchi. Pare che i principi regolativi universali valessero soltanto per gli europei e non per tutti gli esseri umani, quindi non erano universali, o meglio erano universali in teoria e non lo erano nella pratica, cioè nella società, nella politica e nell’economia. La stessa riproduzione della vita non era eguale tra i bianchi e i neri. La “Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America” era smentita dagli stessi cittadini che si erano dichiarati indipendenti dalla madrepatria inglese.

Una prima conclusione teorica si può trarre: nel momento in cui i principi regolativi universali dell’Illuminismo stavano per diventare principi normativi della politica non furono riconosciuti i tre principi normativi, come li ha indicati Dussel: il principio materiale fu fortemente ristretto alla semplice riproduzione della forza lavoro schiava, mentre totalmente negati furono il principio formale, in quanto gli schiavi non avevano dignità giuridica, se non come merci, e il principio di fattibilità, perché si realizzò l’unica possibilità esistente che era quella di considerare esseri umani come cose. Un’altra considerazione la ricavo dal bel libretto di Buck-Morss: la libertà come valore universale, si affermò nel momento di massimo sviluppo dello schiavismo[7], quindi un tale fenomeno, in piena espansione, ne condizionò la realizzazione pratica. Infatti la Buck-Morsse riporta un dato interessante: il 20% della borghesia francese viveva di economia schiavistica[8], quindi era liberale in patria e schiavista nelle colonie.

Data l’egemonia culturale degli Stati Uniti sulla cultura mondiale, questi avvenimenti sono molto noti e conosciuti. Molto meno conosciuta è la vicenda di chi realizzò effettivamente i principi regolativi universali della “Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del Cittadino”: gli haitiani. Della piccola isola di Hispaniola si sa molto poco nella cultura europea. Si sa, senza dubbio, che esistono due piccole nazioni caraibiche: Haiti e la Repubblica Dominicana. Ma non è molto noto che queste due piccole nazioni si dividono l’isola di Hispaniola. Ho scritto “nazioni”, perché nelle due parti dell’isola si parlano lingue diverse: francese ad Haiti[9] e spagnolo a Santo Domingo. È ovvio pensare che si parli francese ad Haiti, perché fu una colonia francese, ma Haiti ha una particolarità che la differisce da altre colonie francesi, insieme a Martinica e Guadalupe, era l’unica colonia francese dove era ammessa la schiavitù. È vero che il 28 marzo 1792 e il 4 febbraio 1794 la schiavitù fu abolita anche nelle colonie, in conseguenza della “Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino”, sebbene Robespierre si rifiutò di firmare di firmare il decreto di abolizione della schiavitù. Come negli Stati Uniti i principi regolativi universali rimasero tali nella teoria, nella pratica la segregazione schiavistica rimase inalterata fino al 1 gennaio 1804, quando i francesi abbandonarono l’isola per le pessime condizioni naturali dell’isola di Hispaniola, alle quali, invece, si erano adattati più facilmente gli schiavi africani, piuttosto che gli europei. I padroni bianchi erano riusciti, in nome dell’autonomia legislativa, a non far rispettare le decisioni della madrepatria francese del 1792 e del 1794, quindi la libertà e l’eguaglianza erano principi regolativi non universali, anzi subordinati all’autonomia legislativa delle colonie, così come era accaduto negli Stati Uniti, dove alcuni Stati della Federazione non avevano rispettato i principi regolativi di Libertà, Felicità e Vita. Quindi i principi regolativi universali avevano un limite nelle autonome decisioni di ciascun realtà politica: in pratica il loro carattere universale era negato. Naturalmente erano negati i principi normativi della politica come li intende Dussel. I principi regolativi universali erano negati dalla classe dei proprietari francesi di schiavi africani.

Ad Haiti, però, gli schiavi neri non accettarono pacificamente di rimanere schiavi, sapevano che in Francia la loro condizione di schiavitù era stata abolita e così desideravano che quei principi regolativi universali fossero messi in pratica nella loro terra. In realtà, erano le vittime della schiavitù che desideravano trasformare in pratica politica, economica e sociale, la teoria universalistica dell’Illuminismo francese. Questo movimento di liberazione dalla schiavitù trovò un leader nella figura di Toussant Louverture, ex-schiavo, che lottò contro la Francia rivoluzionaria e contro Napoleone, cercando di ottenere l’indipendenza di Haiti dalla Francia, perché l’indipendenza era l’unica condizione politica che avrebbe permesso la liberazione degli schiavi africani. La Francia illuministica, rivoluzionaria, giacobina e napoleonica represse sanguinosamente questo movimento di liberazione, finché la natura stessa dell’isola, le malattie, come la febbre gialla, e il clima tropicale decimarono le truppe francesi e costrinsero la madre patria dell’Illuminismo universalistico a lasciare l’isola e a permettere a Jean-Jacques Dessalines, successore di Toussant, che era morto in carcere in Francia, di trasformare i principi regolativi universali in principi normativi universali pratici. Nasceva così il primo vero territorio libero d’America, tenendo conto che negli Stati Uniti la schiavitù era rimasta in vigore. La rivolta delle vittime della schiavitù fece diventare i principi regolativi universali strumenti della lotta di classe. Iniziava realmente l’età delle lotte di classe in nome dei principi illuministici.

In verità la lotta di classe si fonda sull’esclusione dai principi regolativi universali di libertà, eguaglianza e fratellanza, come alcuni rivoluzionari francesi più radicali intuirono. La legge economica del mercato, invece, si fonda dall’esclusione dalla retribuzione per l’intero valore prodotto dal lavoratore. Marx si rese conto che il lavoratore escluso dalla proprietà dei mezzi di produzione era esterno al mercato, anzi il suo corpo era esterno, mentre la sua forza lavoro era elemento fondamentale della produzione della ricchezza. Quindi l’esteriorità è la categoria fondante l’esclusione e chi è più esterno dello schiavo africano? Egli vive lontano, fuori, dal mondo euro-centralizzato.

La legalità che i proprietari francesi di schiavi africani volevano imporre non era ispirata ai principi regolativi universali dell’Illuminismo, ma quella del mercato, che tende ad occultare uomini, relazioni e cose. In pratica si voleva legittimare l’esclusione, lo sfruttamento e la negazione della dignità umana. La critica di questa logica giuridica è, quindi, anche critica dell’economia politica sulla quale quella logica si fonda. Franz Hinkelhammert è molto chiaro su questo punto: «La legalità assoluta è l’ingiustizia assoluta. Questo non implica nessuna abolizione della legalità, bensì la necessità di intervenire, quando distrugge la stessa convivenza umana. Questa legalità nella sua logica è incompatibile con la vigenza dei diritti umani»[10]. Quindi la rivolta degli schiavi africani partiva dalle condizioni di vita in cui erano costretti dai proprietari francesi, i quali con la loro pratica economico-politica anti-illuministica stavano trasformando la razionalità dei principi regolativi universali in forme irrazionali di condizioni di vita inumana per gli schiavi africani. La giustificazione di una legislazione autonoma locale è proprio una forma di razionalizzazione dell’irrazionale. La rivolta degli schiavi africani, quindi, aveva come fine l’abolizione, anche violenta, di queste loro condizioni di vita inumana, in pratica gli schiavi africani si ribellarono alla propria condizione di cose, di merce, di reificazione della loro vita.

I principi regolativi universali avevano offerto, dapprima, agli schiavi africani una prospettiva di liberazione, ma la reintroduzione della legalità della condizione di schiavitù aveva negato e represso quella aspirazione universalistica alla liberazione dalla schiavitù e soltanto il loro atto violento di ribellione li aveva liberati da questa ricostituita legalità giuridica oppressiva e restituito la condizione di vita degna di essere vissuta, tenendo sempre presente che la loro abitudine di vita si confaceva alla natura tropicale dell’isola di Hispaniola.

Con le parole del sociologo Anibál Quijano scopriamo un altro aspetto della rivoluzione haitiana: «L’esperienza più radicale accade e non per caso ad Haiti. Laggiù, è la popolazione schiava e “negra”, la base stessa della dominazione coloniale antillana, quella che distrugge insieme con il colonialismo, la propria colonialità del potere tra “bianchi” e “negri” e la società schiavistica in quanto tale. Tre fenomeni nello stesso movimento della storia. Benché distrutto, più tardi con l’intervento neocoloniale degli Stati Uniti, quello di Haiti rappresenta anche il primo momento mondiale nel quale si uniscono l’indipendenza nazionale, la decolonizzazione del potere sociale e la rivoluzione sociale»[11]. Quijano, nel giocare nel contrasto tra “bianchi” e “negri” intende sottolineare che la liberazione degli haitiani fu anche la liberazione dal razzismo europeo, cioè dalla convinzione, elevata ad ideologia, che i “negri” fossero talmente inferiori da essere incapaci di ricevere un salario. Gli Stati Uniti d’America, paese fondato sui principi dell’Illuminismo, è intervenuto a restaurare il colonialismo ad Haiti, ma rimane l’esperienza vissuta (Erlebnis) di avere negato il colonialismo con la propria lotta di liberazione e di indipendenza, a conferma che la vera decolonizzazione si ha nella separazione dall’Europa liberale e illuminata.

Ma, come detto, il paradosso più grande consiste nel fatto che questa lotta di liberazione si ispira ai principi regolativi universali illuministici, che in sé sono così poco eurocentrici, che gli stessi europei li negano. Ma questi principi regolativi universali fanno sorgere anche nelle vittime l’esigenza di una pretesa di giustizia, che è sostanzialmente una pretesa politica di giustizia. Enrique Dussel così definisce la pretesa politica di giustizia: «La “pretesa politica di giustizia” è la posizione che adotta il soggetto politico (…) esercitando un atto umano che normativamente ha rispettato i principi che la politica ha sussunto dall’etica. Il soggetto politico ha coscienza normativa di praticare, dentro le limitazioni della condizione umana, un atto di “pretesa” di giustizia, onestà, in coerenza con i principi normativi che dice di difendere e praticare»[12]. Quindi usando la definizione di Dussel, possiamo considerare l’atto di ribellione degli haitiani una interpellazione, una richiesta di “pretesa politica di giustizia” proprio a partire dai principi regolativi universali, rivolta non solo ai proprietari francesi, ma a tutta l’umanità, perché un singolo atto di liberazione, cioè di passaggio dalla possibilità alla realtà fattuale libera ed eguale è un atto di comune e universale liberazione.

L’azione di liberazione degli schiavi africani ad Haiti dimostra che i principi regolativi universali e la pretesa che essi diventino principi normativi della politica sono strumenti critici nei confronti del sistema dominante. Le vittime dello schiavismo hanno chiesto la realizzazione della Libertà, dell’Eguaglianza e della Fratellanza, quindi a partire da questi principi regolativi universali hanno potuto criticare il sistema della schiavitù allora esistente. Il sapere da parte degli schiavi africani di Haiti, che quei principi sono stati dichiarati, ha armato la loro pretesa di giustizia. La liberazione dalla schiavitù è stata storicamente il primo passo per una pretesa di giustizia per l’intera umanità. Mi riferisco al movimento della liberazione femminile, che è nato dopo la liberazione dalla schiavitù. L’esperienza di liberazione dalla schiavitù è diventata l’arma dei movimenti femminili per la critica del sistema maschilista di esclusione. Anche in questo caso si è chiesto che i principi regolativi universali divenissero principi normativi della politica.

 

[1] Mi riferisco a quanto sostiene Enrique Dussel a proposito dei principi regolativi di matrice kantiana (cfr. E. Dussel, Ética de la liberación, Madrid, Trotta, 1998, p. 565). Dussel parla di “idea regolativa”, io preferisco usare il termine “principi regolativi”, perché sono momenti iniziali e fondamentali, mentre l’idea, soltanto nel senso platonico, può essere usata come principio e non voglio affatto rischiare di essere scambiato per un idealista di tipo platonico, che è un modo per banalizzare un discorso che banale non è di certo. Enrique Dussel (1934) è un filosofo argentino che, a causa della persecuzione della dittatura militare argentina, si è trasferito a Città del Messico. È professore emerito della UNAM, i suoi libri sono apparsi in inglese, francese, tedesco e in tantissime altre lingue. Castelvecchi ha pubblicato vari suoi saggi.

[2] I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, tr. it. P. Chiodi, Roma-Bari, Laterza, 1980, p. 49.

[3] Cfr. la mia opera Apocalisse. L’inizio e la fine della modernità, Trieste Asterios, 2020.

[4] E. Dussel, Venti tesi di politica, tr. it. A. Infranca, Asterios, Trieste, 2009, p. 95.

[5] Ricordo che Montesquieu era favorevole alla schiavitù.

[6] Susan Buck-Morss, Hegel e Haiti. Schiavi, filosofi e piantagioni, tr. it. F. Francis, Verona, Ombre corte, 2023, p. 11.

[7] Ivi, pp. 9-10.

[8] Ivi, p. 22.

[9] In realtà il francese è parlato da un’esigua minoranza della popolazione, perché la lingua più diffusa è il creolo haitiano, una lingua nata dal francese e dalle lingue degli schiavi africani. La lingua francese è stata sempre considerata dai governanti francesi come uno strumento per la formazione della nazionalità francese. Oggi è considerata la lingua ufficiale in 32 Stati e parlata da circa 270 milioni di esseri umani, ma in realtà i nativi parlanti francese sono 80 milioni. Così che dalla quinta lingua più diffusa al mondo, scende al 17° posto tra le madrelingue. Per capire bene questa situazione confrontiamo il francese con lo spagnolo. La lingua spagnola è parlata da 560 milioni di esseri umani e questa cifra la fa diventare la seconda madrelingua del mondo, dopo il cinese, ma più dell’inglese (430 milioni).

[10] F. Hinkelhammert, La maldición que pesa sobre la ley: Las raíces del pensamiento crítico en Pablo de Tarso, Arlekín, San Josè de Costarica, 2010, p. 298.

[11] A. Quijano, “Raza, etnia y nación en Mariátegui: cuestiones abiertas”, in José Carlos Mariátegui y Europa. La otra cara del descubrimiento, a cura di R. Forgues, Lima, Amauta, 1991, p. 179.

[12] E. Dussel, “Pretensión crítico-política de justicia”, in Política de la liberación, vol. III, a cura di E. Dussel, Madrid, Trotta, 2022, pp. 707-708.

VIDEO – Intervista al Sen. Gianni Marilotti sul tema desecretazioni

Filosofia in Movimento, in collaborazione con Bridges for Media Freedom, intervista il senatore Gianni Marilotti – Presidente della Commissione per la Biblioteca e per l’Archivio storico del Senato – in merito al progetto desecretazioni. Una proposta pratica per porre rimedio ai meccanismi che ostacolano la rimozione del segreto da ulteriori 137.000 pagine ancora non a disposizione di storici e cittadini.

Il Caso Assange: dieci anni di guerra al diritto all’informazione.

Se una decisione governativa non può essere professata pubblicamente prima di essere messa in atto è ingiusta a priori e dimostra che l’operato dei rappresentanti politici è contrario ai principi che sorreggono il diritto del Patto civile.
Il fatto che Assange, nella sua qualità di giornalista, abbia pubblicato documenti che provino l’infedeltà di alcuni politici ai principi che essi stessi dovrebbero propugnare, non può in alcun modo essere visto come un atto criminale contro la sicurezza di uno stato. Al contrario è sempre necessario che la verità sia resa pubblica al fine di rendere il dibattito politico il più possibile autentico e che non vi sia scollamento tra i fatti e le opinioni dei cittadini.
ne hanno parlato Sara Chessa, Antonio Cecere e Antonio Coratti

L’aborto in Argentina è legale

di Mario Sebastiani

L’Argentina è il primo grande paese latinoamericano a legalizzare l’aborto, dopo anni di lotte da parte delle donne argentine, e il secondo in generale, dopo l’Uruguay. Pubblichiamo con piacere l’articolo di Mario Sebastiani che per anni ha seguito con interesse questa lotta di emancipazione. Il suo articolo fornisce spunti di riflessioni, oltre che alcune notizie del successo delle donne argentine.

Dal 24 gennaio, l’aborto in Argentina è legale fino alla quattordicesima gravidanza. In un paese con 37 anni di democrazia, dove l’aborto era un delitto, mi domando cosa sia cambiato.
Da una parte bisogna riconoscere il lavoro tenace del gruppo “Campaña por el derecho al aborto legal, seguro y gratuito”. Ci vuole una lobby sostenuta nel tempo per poter cambiare l’atteggiamento conservatore di deputati, senatori e di tutta una società. Dall’altra parte bisogna rendere omaggio alla “marea verde” di milioni di giovani che, come le Madri di Plaza de Mayo, hanno dipinto di verde con i loro panuelos ogni zaino, ogni borsetta, ogni bicicletta, ogni bus e così hanno occupato le strade, le fabbriche, le scuole, le università, manifestando ogni volta in maniera più numerosa.
La società era divisa, fino a gennaio, tra i sostenitori dell’aborto e un gruppo opposto che diceva decisamente di proteggere la vita dell’embrione o del feto e della donna gravida, ma le cifre degli aborti e nelle conseguenze di un aborto clandestino non gli davano sostegno. In Argentina ci sono da tre a cinque volte più aborti che in paesi simili al nostro. Con le gravidanze delle adolescenti triplichiamo le cifre. Ci sono circa 90 mila nascite da donne con meno di 19 anni e 4 mila da ragazze con meno di 15 anni (bisogna accettare il carattere di stupro della maggioranza di queste gravidanze, di solito compiute da qualche membro della famiglia). Questo stesso gruppo ha radici nella chiesa cattolica e porta avanti un discorso dogmatico-religioso e soprattutto contraddittorio, dichiarandosi contrari alla contraccezione ed all’educazione sessuale nelle scuole. Ancora si sentono voci legate alla Chiesa che affermano che le pillole anticoncezionali sono abortive o bombe di ormoni. È fondamentale accettare che queste sono le uniche strategie per poter diminuire la quantità di aborti. Questo gruppo si appoggia all’idea che 46 cromosomi di una nuova cellula siano un essere umano perfettamente formato e la stessa legge lo assimila giuridicamente ad una persona. La loro posizione è contraria a discorsi diversi, provenienti dalla scienza, dalla bioetica, dalla filosofia. Il danno fatto è irreparabile nel tempo. Ancora oggi si appellano alla magistratura, cercando di proibire la legge per motivi costituzionali. Infatti, la nostra costituzione protegge la vita dal momento del concepimento.
Un altro gruppo, invece, pur capendo la situazione socio-sanitaria delle donne, in quanto l’aborto già esiste, chiedeva venisse proibito con le conseguenze catastrofiche sulla salute delle donne e specialmente delle meno agiate socio-economicamente. Bisogna ricordare che in questi anni di democrazia più di tre mila donne hanno perso la vita e altre decine di migliaia sono state ricoverate negli ospedali per le complicazioni di infezioni o di emorragie. Ciò accade più spesso in ospedali soprattutto del nord dell’Argentina, dove si trovano le province più radicalizzate e più religiose riguardo alla protezione della vita. Questa posizione era rinforzata dal fatto che le donne, anche capendo la situazione, si lasciavano trascinare dalle argomentazioni emozionali di protezione dell’embrione e accettavano, a mezza voce, la concezione che la donna doveva accettare il suo ruolo riproduttivo. Abbiamo sentito, in altre occasioni, che l’uomo doveva partecipare nella decisione riguardo all’interruzione o alla continuità di una gravidanza.
Al terzo gruppo, invece, appartengono coloro che sono d’accordo con la legalizzazione dell’aborto per motivi di salute pubblica e, negli ultimi anni, è cresciuto il numero di persone, grazie alle nuove generazioni consapevoli, che credono che la situazione di rischio ed indegnità delle donne era impossibile da sostenere. Il ruolo del femminismo in questo campo è stato ed è ancora, fondamentale. Le differenze in questo gruppo possono essere limitate al periodo entro il quale è permesso l’aborto.
Torno a dare il mio omaggio alla “marea verde” ed al panuelo verde, simbolo di lotta collettiva, bandiera di lotta sociale, eguaglianza, empatia, riconoscimento e sovranità del proprio corpo. L’importanza di questa marea è ancora più evidente se paragonata alla anomia manifesta delle società scientifiche o dei sindacati, tutti in mano a uomini con simpatie manifeste verso la Chiesa ed il Papa. Ognuno è libero di pensare come vuole. Ma, probabilmente non è del tutto lecito che i rappresentanti del popolo o i governanti vadano nell’aula parlamentare con i loro pregiudizi, essendo poco elastici a capire anzitutto che il nostro paese è laico, secondo che la politica non può essere giudicata con valori, che non tutti condividono come appunto i valori religiosi.

Aborto sicuro

Oggi l’intervento abortivo grazie ai farmaci è diventata una procedura molto sicura. La stessa Organizzazione Mondiale della Salute fa appello a permettere l’utilizzazione di una prostaglandina e di un agente anti-progesterone per produrre l’aborto. Noi ancora non abbiamo il RU 487 (anti-progesterone) ma da anni usiamo il misoprostolo (prostaglandina), che le donne potevano comprare sul mercato nero, oppure negli ultimi anni lo si dava senza problemi negli ospedali pubblici della città di Buenos Aires ed in altre regioni. I medici avevano assunto lo stesso atteggiamento dei colleghi dell’Uruguay, che prima della depenalizzazione dell’aborto utilizzavano la strategia della riduzione del rischio con una rispettosa accoglienza delle donne negli ospedali, davano un’informazione precisa sull’assunzione a casa del misoprostolo e le ricevevano negli ospedali senza denunce e con un rapporto educato e diligente. Già a quel tempo si era ridotta la mortalità materna in maniera significativa. Lo stesso accade da noi. Oggi la mortalità in Uruguay è minore a quella del Canada. Il problema che ancora abbiamo è il grande numero di medici che ancora abusano dell’obiezione di coscienza. Però anche questo sta cambiando grazie alle nuove generazione. Inoltre è importante notare che la medicina si trova principalmente in mano alle donne, il che fa sì che la simpatia per la donna che abortisce sia completamente diversa a quella del medico uomo. Oggi l’aborto non è più visto come un delitto, bensì come una componente della medicina riproduttiva.

L’aborto come un bene sociale

La modifica sostanziale e filosofica realizzata, direi, in gran parte del mondo occidentale e non occidentale è stata la visione della gravidanza non più come un obbligo per le donne. Così l’aborto come la libertà di decidere, se si vuole avere figli, costituisce un bene sociale ed una chiave per la libertà, dando una piena ed assoluta autonomia di decisione su come vogliono vivere le donne. Nascere è sempre stato considerato un privilegio per le donne e non importava in quali condizioni. Secondo il pensiero arcaico, l’essenza della donna risiedeva nel generare nuova vita. Non generare figli, invece, era considerato un enigma filosofico. La filosofa americana Christine Overall , della Queen`s University osserva che le donne devono sempre dare spiegazioni nella scelta di non avere figli, mentre invece, non le si chiede alcuna risposta nella scelta di una gravidanza. A questo punto le Overall ci pone sei questioni etiche, da tenere in conto al momento di scegliere di avere o non avere figli
1. Quale è una buona ragione per avere un figlio?
2. In quali condizioni avere un figlio è moralmente giustificato?
3. Le donne hanno un obbligo morale di avere figli?
4. Quali sono le buone ragioni per non avere figli?
5. In quali condizioni avere un figlio può essere moralmente ingiustificato?
6. Le donne possono avere un obbligo morale a non avere figli?

Le risposte non sono semplici. Può accadere che una donna può trovarsi nelle migliori condizioni per avere un figlio e non lo ha, mentre invece molte donne al mondo si trovano in una situazione di disagio socio-economico ed anche affettivo, ed invece si trovano come in ostaggio di gravidanze. Inoltre è anche comune che pur avendo iniziato una gravidanza, nel caso si facesse una diagnosi di una alterazione fisica o mentale del feto, si interrompe la gravidanza. Oggi uno dei temi più dibattuti della bioetica è la modificazione genetica dell’embrione per evitare diverse malattie. Seguendo il discorso o le domande di Overall, oggi, non si accetta come un dogma il fatto che abbiamo figli per amore. Abbiamo figli sostanzialmente per il fatto che abbiamo rapporti sessuali esattamente come gli animali, il ché non vuole significare che siamo come gli animali, ma che il progetto riproduttivo è così forte che, ogni volta che vogliamo fermarlo (tecnologie anticoncettive), i risultati sono ben diversi da quelli attesi dall’accademia o dagli studi farmacologici. Abbiamo figli perché imitiamo gli amici, abbiamo figli perché abbiamo una vita vuota, abbiamo figli per errori anticoncezionali, abbiamo figli per uno stigma sociale o religioso. Il 50% delle nascite sono non pianificate il ché parla eloquentemente del nostro comportamento riproduttivo.
Ma è chiaro oggi, come ci mostrò la filosofa dell’Università di Columbia, Judith Jarvis Thomson , che un feto non ha diritto di appropriarsi del corpo di una donna. La vignetta da lei creata è un sindacato di musicisti che obbliga una donna a sostenere con le sue reni un famoso violinista. Nel caso lei decidesse di staccarsi dal musicista, lui sarebbe morto. La donna cerca di iniziare una protesta, ma loro le dicono che questo rapporto durerà soltanto nove mesi. Dopo averci lasciato a bocca aperta con questa definizione, la Jarvis, e chiunque di noi, afferma che avere un figlio non è solamente questione di nove mesi, bensì di molti anni della vita di una donna.
Perciò la società sembra aver capito che non era morale obbligare una donna ad avere un figlio non desiderato. Aggiungo io, come sia possibile che, sotto la tesi della difesa della vita, si obblighi a portare in grembo un figlio per nove mesi e dopo accudirlo negli anni seguenti, quando un uomo ed una donna non sono obbligati a cedere un organo del proprio corpo, che potrebbe salvare la vita di un figlio. La risposta a questo quesito è che la società non ci obbliga a fare degli atti eroici, né a genitori, né alle persone in generale.

L’aborto è un diritto. L’aborto è libertà

I miei 45 anni di professione, con oltre 13 mila parti assistiti come medico ostetrico, mi hanno fatto cambiare parere nel tempo. Anche io, in principio, mi sentivo consolato o in una zona di comfort, dicendo che l’aborto era necessario per motivi di salute pubblica. Tutto lì. L’aborto era un male necessario per permettere alle donne di avere un’interruzione sicura della gravidanza. Ma tornando alla vignetta della filosofa Thomson chi di noi si sentirebbe consolato o moralmente coinvolto nella difesa della vita del violinista. E che succederebbe se, invece, di nove mesi uno di noi dovesse essere attaccato ad un’altra persona per darle la vita, e se nel caso non accettassimo, andremmo in prigione? Questa è precisamente la filosofia del progetto antiabortista, per cui la vita è un bene così supremo che una donna, pur non volendo, deve abdicare al suo corpo ed al suo progetto personale per giustificare la vita sacrosanta di un embrione o un feto. Questa idea mi sembra assolutamente totalitaria e non democratica nel senso che un gruppo di persone vogliono obbligare altri a vivere con dei valori non condivisi. Avere o non avere figli devono essere dei concetti morali armonizzati e non valutati come uno più morale dell’altro. Soprattutto sapendo che un aborto è un evento meno rischioso di un parto.
L’aborto fa parte della vita riproduttiva di una donna, permettendole di scrivere la propria biografia nella difesa della sua salute, lo studio, il lavoro. Fa parte, come scrissi prima, della medicina riproduttiva e non della sua antitesi. Come tale deve essere un evento privato. I senatori ed i deputati hanno finalmente sentito la condanna morale delle donne argentine. Adesso la lotta del femminismo, o di un femminismo, continua nel evitare il sessismo, la violenza sessuale, o la violenza di genere. Per le donne la strada sarà sempre lunga.

QUANDO LA NATURA METTE SOTTO SCACCO L’ORGOGLIOSA MODERNITÀ

di Enrique Dussel
traduzione di Antonino Infranca

Stiamo vivendo un evento di significato storico mondiale, del quale possibilmente non misuriamo il suo senso abissale come segno finale di un’epoca di lunga durata e inizio di un’altra nuova Età, che abbiamo denominato la Transmodernità. Il virus che attacca oggi l’umanità, per la prima volta nel suo millenario sviluppo, in un momento nel quale può aversi piena coscienza della simultaneità (in tempo reale) verificata dai nuovi mezzi elettronici, ci fa pensare nel silenzio e nell’isolamento auto-imposto a ciascun essere umano davanti a un pericolo, che mostra la vulnerabilità di un castello di carte che viviamo quotidianamente, come se fosse la consistenza di una struttura invulnerabile. Il fatto ha prodotto innumerevoli reazioni di colleghi filosofi e scienziati, perché richiama profondamente l’attenzione. Vogliamo aggiungere un granello di sabbia alla riflessione sullo spaventoso avvenimento.
L’Umanità, almeno l’homo sapiens, da circa 200.000 anni, è riuscita a svilupparsi storicamente vincendo numerosi ostacoli per ottenere la sua sopravvivenza. Si inserisce in un processo iniziato, se andiamo all’origine, con il cosiddetto Big Bang (accaduto circa 15 miliardi di anni fa), con il momento della solidificazione della Terra (5 miliardi di anni fa), con la comparsa della vita (3,5 miliardi di anni fa) cominciò a trasformarsi in Gea, cioè, modificando la corteccia terrestre, creando l’atmosfera e proteggendo la biosfera, affinché i raggi ultravioletti non potessero distruggerla. Circa 70 milioni di anni fa apparvero i primati e, infine, lo stesso homo sapiens (la noosfera di T. de Chardin o oggi denominata Antropocene o Età dell’essere umano sulla Terra).
Con il Neolitico (circa 15.000 anni fa) l’umanità cominciò a trasformarsi da nomade in urbana, creando i primi villaggi o città, possibili grazie all’organizzazione di un doppio parassitismo: vegetale (con l’agricoltura) e animale (con la pastorizia). Come viventi noi uomini dobbiamo alimentarci di vegetali per ottenere proteine e altre sostanze che solo essi producono. Cominciò così un’inevitabile entropia (il passaggio da un bene d’uso a una cosa inutile, senza possibile nuovo uso) che significò il distruggere i boschi, che producono ossigeno, per trasformarli in campi per la coltivazione agricola. Come onnivori noi umani uccidiamo e ci alimentiamo di animali non umani (fu uno dei primi tabù negare l’antropofagia). Così nacquero e crebbero le grandi civilizzazioni urbane del Neolitico in Eurasia, Africa e America.
Nel 1492, Cristoforo Colombo, un membro dell’Europa latino-germanica scopre l’Atlantico, conquista l’America latina e nasce così l’ultima Età dell’Antropocene: la Modernità, producendo inoltre una rivoluzione scientifica e tecnologica, che lasciò indietro tutte le civiltà del passato, catalogate come arretrate, sottosviluppate, artigianali. Lo denomineremo Sud globale; e questo solo cinquecento anni fa.
Questa splendida Età del Mondo inaugurata si porrebbe in relazione con la Natura metodologicamente, grazie a Francis Bacon (1562-1626) con la sua opera Novum Organum (1620) e a partire dal manifesto filosofico di René Descartes (1596-1650) Il discorso sul metodo (1637). In questo modo, l’indicata Natura è costituita come una cosa osservabile o sfruttabile, quasi infinita per le sue risorse e come oggetto manipolabile da un demiurgo umano inteso come un soggetto senza limiti di conoscenza o manipolazione di questo oggetto: la Natura. Per Descartes l’essere umano è «un’anima alla quale è indifferente avere un corpo» (res extensa); cioè, una realtà quantitativa, non avendo importanza la qualità e la vita. La interpretava come una macchina conosciuta prevalentemente dalla matematica. Questa Natura è così un oggetto conoscibile, manipolabile, sfruttabile. La fisica si trasforma nella scienza fondamentale. L’essere umano fonda il suo privilegio nell’“Io penso”, che conosce, che si pone a un livello teorico davanti agli oggetti naturali quantificabili a nostra intera disposizione.
Con questi presupposti trascorsero i secoli successivi. L’“Io europeo” produsse una rivoluzione scientifica nel XVII secolo, una rivoluzione tecnologica nel XVIII, avendo il XVI secolo inaugurato un sistema capitalista (la cui razionalità ultima è l’aumento quantitativo del tasso di profitto in qualsiasi investimento sul mercato, che si effettua grazie all’ottenimento di un plusvalore da parte dell’operaio) con un’ideologia moderna eurocentrica (come superiorità culturale, estetica, morale, politica, ecc.), coloniale (perché questa Europa era il centro del sistema-mondo grazie alla violenza conquistatrice del suo esercito che giustificava il suo diritto di dominio su altri popoli), patriarcale (perché il maschio bianco dominava la donna in Europa e le donne coloniali di colore come in Messico), e, come culmine, l’europeo si pose come sfruttatore senza limite della Natura.
In effetti, i valori positivi ineguagliabili dell’indicata Modernità, che nessuno può negare, si trovano corrotti e negati con una sistematica cecità degli effetti negativi delle loro scoperte e dei loro continui interventi nella Natura. Questo è dovuto, in parte, al disprezzo per il valore qualitativo della Natura, specialmente per la sua nota costitutiva suprema: l’essere una “cosa viva”, organica, non semplicemente meccanica; non è solo una “cosa estesa”, quantificabile. La scienza di riferimento adesso smette di essere la fisica, sostituita dalla biologia, e, come momento centrale cosmico, la neurobiologia: il cervello umano. Il cervello umano è l’organismo vivente più complesso dell’universo conosciuto. Inoltre, la Natura non è un semplice oggetto di conoscenza, bensì è il Tutto (la Totalità) dentro il quale esistiamo come esseri umani: siamo frutto dell’evoluzione della vita della Natura che si pone come nostra origine e ci porta come sua gloria, rendendoci possibili come un effetto interno (“le sue figlie e figli”) e, per questo, non metaforicamente, l’etica si fonda nel primo principio assoluto e universale: quello di affermare la Vita in generale e la vita umana come la sua gloria! Essa è condizione di possibilità assoluta e universale di tutto il resto, della civiltà, dell’esistenza quotidiana, della felicità, della scienza, della tecnologia e finanche della religione. Male potrebbe operare qualche azione o istituzione se l’Umanità fosse morta.
Oggi, la Madre natura (adesso come metafora adeguata e certa) si è ribellata; ha messo sotto scacco (come quando si dà uno “scacco matto al re” sulla scacchiera) sua figlia, l’Umanità, per mezzo di un’insignificante componente della Natura (Natura della quale è parte anche l’essere umano che condivide la realtà con il virus). Mette in questione la Modernità e lo fa mediante un organismo (il virus) immensamente più piccolo che un batterio o una cellula e infinitamente più semplice che l’essere umano che ha miliardi di cellule con complessissime e differenziate funzioni (che sono milioni). E la Natura oggi ci interroga: O mi rispetti o ti annichilisco! Si manifesta come un segno finale della Modernità e come annuncio di una nuova Età del Mondo, successiva a questa civilizzazione moderna superba che è diventata suicida. Come reclamava Walter Benjamin, si doveva applicare il freno e non l’acceleratore necrofilo in direzione all’abisso.
Si tratta, quindi, di interpretare la presente epidemia come se fosse un boomerang che la Modernità ha lanciato contro la Natura (poiché è l’effetto non intenzionale di mutazioni di germi patogeni che la stessa scienza medica e industriale farmacologica ha originato) e che ritorna contro di essa nella forma di un virus dei laboratori o della tecnologia terapeutica. L’interpretazione tentata indica che il fatto mondiale, mai sperimentato prima, nella maniera così globalizzata come lo stiamo vivendo, è qualcosa più che la generalizzazione politica dello stato di eccezione (come lo propone G. Agamben), il necessario superamento del capitalismo (nella posizione di S. Zizek), l’esigenza di mostrare il fallimento del neoliberalismo (dello “Stato minimo”, che lascia nelle mani del mercato e del capitale privato la salute del popolo) o di tante altre proposte molto interessanti. Crediamo che stiamo vivendo per la prima volta nella storia del cosmo, dell’Umanità, i segni dell’esaurimento della Modernità come ultima tappa dell’Antropocene e che permette di intravedere una nuova Età del Mondo, la Transmodernità (della quale abbiamo esposto alcuni aspetti in altri articoli e libri), nella quale l’Umanità dovrà apprendere, a partire dagli errori della Modernità, ad entrare in una Nuova Età del Mondo, dove, partendo dall’esperienza della necro-cultura degli ultimi cinque secoli, dobbiamo innanzitutto affermare la Vita sul capitale, sul colonialismo, sul patriarcalismo e su molte altre limitazioni che distruggono le condizioni universali della riproduzione di questa Vita sulla Terra. Questo dovrà essere ottenuto pazientemente lungo il XXI secolo che abbiamo solo iniziato. Nel silenzio del nostro ritiro, richiesto dai governi per non contagiarci con questo segno apocalittico…, abbiamo tempo per pensare al destino dell’Umanità in futuro.

Epidemie, ovvero per un senso della misura

di Carlo Cappa

Ho letto con interesse Badiou, la rapida introduzione di Paolo, le risposte critiche e stimolanti di Bilotti e di Reale. Sono contributi utilissimi, in un frangente come l’attuale, rappresentando delle aperture mentre si assiste a un movimento di ripiegamento, dei tentativi di pensare la e nella epidemia; condividono, in questo, uno spirito che anima i testi di Agamben, di Terracciano, di Gervasi. 

Per molti aspetti, non è facile contestare la posizione “cartesiana” di Badiou: i rivolgimenti causati da guerre o pandemie, nel corso della storia, difficilmente hanno aperto a migliori condizioni sociali, se tali possono essere definite quelle cui, pur diversamente, oggi aspiriamo. Accentuazione delle differenze, accumulo di capitali, soprusi dei più forti: sì, il copione è già letto, gli attori cambiano, non c’è nulla di nuovo sotto il sole, ma, al contempo, e si tende a dimenticarlo, non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume. Mi è difficile tacere, infatti, che in molte analisi c’è qualcosa che lascia insoddisfatti o, quantomeno, lascia insoddisfatto chi, come me, è più affezionato ad approcci che non pretendano, in poche righe, privilegiando una visione unidimensionale, di riassumere con una sola nota di fondo tutto l’attuale o slanciarsi in perigliose profezie di mondi futuri. Servono spalle larghe per avventurarsi in imprese del genere, occorre meno nostalgia per ciò che non è più e, come sempre, sarebbe auspicabile esercitare una maggiore circospezione nel vaticinare ciò che sarà. Forse non è questo il momento più propizio per imbarcarsi in un tale sforzo erculeo che, sia detto en passant, risulterebbe – ed è risultato – di difficile compimento anche in tempi meno cupi.

Mai come ora, quindi, cercando di fare un passetto più in là delle espressioni proverbiali, se dovessi pensare a qualcosa d’attuale, suggerirei la rilettura del breve libro di Paolo Rossi, Speranze, nel quale la sua suggestione è tanto discreta quanto vitale: rifuggire da pensieri senza speranza, sottrarsi ad apologie di smisurate speranze. Non è forse questo che, restando umanisti, possiamo fare? Guardare con curiosità e partecipazione a una tragedia che non può che essere inedita, poiché avviene a noi, qui, ora, e cercare di trarne una lucidità maggiore su noi, qui, ora, per apprendere lezioni, finanche sbagliate e comunque da passare al vaglio delle prossime esperienze, per noi, ovunque saremo, domani?

E, allora, mi sembrerebbe opportuno porre in evidenza come l’oggi non sia da pensare al singolare: non c’è l’epidemia, non c’è un virus, il cui nome è così celebre che non mette conto di ripeterlo, non ci sono le solide nazioni o la sbrindellata Europa. Ci sono tante epidemie immanenti alle esperienze umane che inverano, sempre diversa e familiare, la nostra condizione umana, costringendola a una torsione che nessuno s’aspettava, che la riflessione biopolitica cerca di forzare dentro le sue categorie, sformando tanto il reale quanto i concetti per interpretarlo. Mai come in questi casi, è il singolare a reclamare i suoi diritti: ne risuona la paura nell’affidarsi a un nazionalismo folkloristico, ne emerge la fragilità nell’ascolto di qualsivoglia teoria, tanto catastrofista quanto minimizzante ma sempre consolante. 

E, quindi, se qualcosa si può fare, adesso, è ripartire dalla curiosità che, nel suo etimo, conserva la nozione di cura, per offrire quello che la nostra cultura può essere, educando nel tempo sospeso della mancanza, perché, no, non ci sono palingenesi all’orizzonte e sarebbe vile abdicare alla propria responsabilità, sperando che tragedie suppliscano alle nostre pregresse incapacità di costruire un futuro diverso. Cancelliamo dalle nostre parole anche soltanto il retrogusto del giudizio portato sulle esistenze degli altri: sarebbe profittare di una debolezza presente dopo aver scoperto, in passato, di non aver sufficiente forza per educere e movere nel tempo della quotidianità. Oltre a dimostrare una tardiva ingenuità rousseuiana per la quale l’indebolirsi della società matrigna dovrebbe resuscitare chissà quali sopiti moti più nobili dell’animo di cui, protervamente, ci si vorrebbe far corifei. Potrebbe essere scusabile in altri momenti, non oggi, quando paleserebbe poca sagacia e assenza di avvedutezza, per tacer di un pizzico di meschinità. 

Per tali ragioni, nel titolo di questa paginetta, ho ritenuto conveniente far menzione della misura: la parola può essere motore del cambiamento, è avvenuto, avverrà di nuovo, in modi e maniere sempre diverse. Nei nostri ora, però, ciò che si staglia come esigenza è la capacità di un’idea che faccia dell’intimità, del tempo dell’inazione, uno spazio della resistenza, riallacciando le trame lise dell’intreccio tra disincanto e prudenza. L’esperienza che stiamo vivendo è aspra; se ne devono vedere gli spigoli per non sbatterci e, prima che sociale, questo avviene nello specchio in cui ci guardiamo, interdetti e spaesati. La misura è il reale, la misura siamo noi: ci sarà tempo per costruire avvenire, si tratta di puntellare il presente. 

Il gesto di scoprire nella distanza dai negotia la preziosità dell’otium è, d’altronde, iscritto nella singolarità della nostra Europa; illudersi, però, che esso possa essere meccanicamente riesumato da un’assenza, piuttosto che rinnovellato dal cesello di un’educazione da cominciare sempre da capo, significherebbe non decifrare le fratture tra condizioni esistenziali tra loro incommensurabili. Non so, lo ammetto, se sia una ragionevole speranza quella di voler caparbiamente abitare il presente, per quanto doloroso possa essere; sono convinto, però, che posso sentire come adeguate misure né lo snocciolare le cifre di contagi e di decessi, né l’accavallarsi di muti futuri. Star qui, infissi nel presente, in quello che è, vuol dire cercare misure per colmare le distanze, per trovare parole che possano dire un lucido accudirsi. Il gesto del raccoglimento, per parlare agli altri, deve immaginarsi tatto, inventando un tangere che possa rimarginare fratture collocandosi in esse, senza nasconderle, senza illudersi che siano recenti e senza cedere allo sconforto di pensarle eterne. 

La Conquista de México

di Enrique Dussel

(traduzione di Antonino Infranca)

Mentre il sovranismo dilaga in tutto il mondo eurocentrico, la coscienza critica non eurocentrica si chiede se non sia il caso di ripensare i valori fondamentali del mondo occidentale. L’Occidente è nato con la Conquista dell’America e il saccheggio delle sue ricchezze ed è proprio dall’America latina, precisamente dal Messico, che è arrivata una richiesta impellente: il presidente del Messico, Andrés Manuel López Obrador, rappresentante vivente della storia e della tradizione messicana pre e post-conquista, interpella con una lettera il Re di Spagna, affinché chieda perdono e restituisca, per quanto possibile a cinquecento anni di distanza, dignità a chi è stato trattato brutalmente in nome del Dio dell’amore e della pace.

Di seguito, pubblichiamo l’articolo del filosofo argentino, Enrique Dussel, che raccoglie l’interpellazione delle vittime della Conquista

Nel 1992 si è dibattuto il problema dell’invasione dell’Amerindia (denominata eurocentricamente la Scoperta d’America) a cinquecento anni dal 1492. Sarebbe bene che in questi due anni (2019-2021) ricordassimo la problematica ancora attuale per gli effetti della sanguinosa conquista delle grandi culture della Mesoamerica (l’atzeca, la maya, la zapoteca, l’otomì, ecc.) che fu un genocidio di significato mondiale, perché qui si produsse lo scontro e la dominazione violenta dell’estremo occidente di Eurasia (Spagna) sulle culture dell’estremo oriente dell’Asia (poiché i nostri popoli originari arrivano probabilmente dall’Asia orientale attraverso lo stretto di Bering). Certamente la Spagna (per la sua occupazione militare) e Roma (per l’organizzazione della Cristianità delle Indie occidentali) sono autrici e complici di un genocidio. In effetti, il papa concede ai re di Spagna con la bolla Inter caetera del 3 maggio 1493, le terre appena scoperte con l’obbligo di evangelizzare i loro abitanti, cioè le non ben conosciute Isole del Mare Oceano ad occidente dell’allora scoperto Oceano Atlantico. Qui si trova già il primo motivo che giustifica il chiedere perdono ai popoli originari da parte del Papa. Lo stesso Bartolomé de las Casas si chiedeva con quale diritto il Papato concedeva o donava al re di Spagna terre e popoli dei quali non aveva alcuna conoscenza, possesso o dominio? Bartolomé negava al Papa questo diritto, che inoltre lo rendeva complice del crimine ingiusto e del genocidio della conquista, con i suoi massacri e con l’orribile servitù in cui aveva ridotto i popoli originari del continente. E, riguardo a Spagna e Portogallo, e specialmente ai loro re e al Consejo de Indias, furono responsabili della ferocia, della violenza, dei sanguinosi scontri con armi sconosciute agli indigeni (come cannoni, balestre, cavalli, ecc.) e di ogni tipo di vessazione che si compirono. Valgano alcune citazioni di lettere che ebbi tra le mie mani nell’Archivo de Indias di Siviglia, inviate al re, mostrando la situazione: «Molto argento che di qui si strappa e va a questi Regni, è ottenuto con il sangue degli indios e va avvolto nella loro pelle» (Lettera del vescovo di Mechoacan Don Juan de Medina y Rincon, del 13 ottobre 1583; AGI, Messico, 374). E ancora: «Saranno quattro anni che, per terminare di perdere questa terra, si scoprì una bocca dell’inferno, per la quale entra ciascun anno una gran quantità di gente, che la cupidigia degli spagnoli sacrifica al loro dio, ed è una miniera di argento che si chiama Potosì» (Lettera del vescovo Domingo di Santo Tomás, del 1 luglio 1550; AGI, Charcas 313).

Il minimo che si possa dire a chi ignori la violenza e l’ingiustizia della conquista dell’America latina, e molto specialmente del Messico, è che è ignorante e che, non avendo cattiva coscienza di un vero crimine, si rende oggi complice di quello stesso crimine, benché sia, e in maggior misura, il re di Spagna. Ho letto migliaia di Schede Reali nelle quali i re spagnoli stampavano una grande firma e che dicevano: IO IL RE, senza ulteriore indicazione (si dovrebbe verificare mediante la data del documento il nome del personaggio). I noti storici demografi, Cook-Boràh e Simpson attribuiscono al Messico una popolazione di 11 milioni di abitanti nel 1519, che decrebbe nel 1607 a 2 milioni di indigeni. È chiaro che ci furono malattie contro le quali la popolazione indigena non era protetta, ma i massacri nelle guerre narrate dal Chilan Balam[1], i maltrattamenti nelle miniere, l’assegnazione degli indios e le fattorie e la produzione di zucchero, e il lavoro domestico delle donne indigene nelle case dei bianchi (che diventavano concubine, obbligandole a lasciare i loro mariti, per essere vessate dagli spagnoli e dai creoli), la trasformazione del territorio agricolo dai più fecondi a deserto sterile (che produsse fame mortale tra tarahumaras)[2] causerà una crisi demografica gigantesca. Tutto questo ci suggerisce che è molto conveniente in Messico cominciare ad avere presente, giorno per giorno, il 500° anniversario dell’orrenda Conquista del Messico. Ci sono date emblematiche: il 18 febbraio di 500 anni fa Hernán Cortés partiva da L’Avana con 600 uomini, 16 cavalli, 10 cannoni, 32 balestre. Il prossimo 22 aprile di 500 anni fa sbarcò a Veracruz; avendo già occupato in Messico, Tenochtitlán il 30 giugno sconfigge Panfilo Narváez[3]. Il prossimo anno, il 30 giugno, si compiranno i 500 anni dell’inizio dell’assedio di Città del Messico con l’aiuto dei tlaxcaltecas e di altri popoli dominati dagli aztechi. 500 anni fa, il 13 agosto del 1521 prenderanno e distruggeranno Tenochtitlán. Devono essere date ricordate e studiate, giorno per giorno, per prendere coscienza che fummo colonia e, dopo, non abbiamo smesso di essere neocolonie, del che non si ha autocoscienza a causa dell’eurocentrismo culturale dei nostri creoli (i messicani bianchi e americani, figli di spagnoli, che dopo rimangono al potere fino ad oggi). Nel futuro, la piena decolonizzazione politica, economica e culturale è necessaria, dopo 500 anni dalla Conquista. Deve essere un proposito della Quarta Trasformazione. È tempo che il re di Spagna e il papa romano chiedano perdono, non solo per mezzo di parole bensì con atti oggettivi, ai popoli originari per il crimine della Conquista! Ma anche che chiedano perdono i creoli messicani, i bianchi e principalmente i razzisti, ai popoli originari realizzando gli Accordi di San Andrés[4] e dando piena autonomia ai nobili e colti eredi delle antiche culture millenarie centroamericane!


[1] Miscellanee maya dei XVII e XVIII secoli dove si narrano gli scontri tra i Maya e i primi spagnoli arrivati in Yucatan.

[2] Comunità indigena del nord del Messico.

[3] Conquistador spagnolo che entrò in conflitto con Cortez.

[4] Accordi tra il governo messicano e l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale per concedere diritti alle popolazioni indigene (1996).

LIBERARSI DALL’EPIDEMIA: SE NON BASTANO UN DIRITTO O UN DIO

di Domenico Bilotti

(Docente di Storia Contemporanea e di Storia delle Religioni – Università Magna Graecia di Catanzaro)

La storia della medicina e quella delle religioni convergono su un punto importante. In ogni tempo, l’essere umano ha paura di due cose: del logorio della sofferenza individuale e dell’onda montante dei cataclismi collettivi in cui, insieme a tutti, è proprio lì drammaticamente solo. Nulla di nuovo sotto il Sole della coscienza e delle regole. È avviso comune che la tragedia greca sia nata per creare un sistema giustificativo e rielaborativo intorno all’afflizione umana. In periodi storici a noi più vicini Voltaire non può fare a meno di pensare all’esistenza del male quando smentisce la razionalità dell’ottimismo cieco e ricorda il terremoto di Lisbona. E che dire della teologia giuridica e politica del Ventesimo secolo? Auschwitz e i campi di concentramento sono la cartina di tornasole per la critica del male assoluto: gli atei ne hanno tratto la conferma che Dio non esistesse e perciò non guardasse e tuttavia continuano a dirselo; i credenti ancora si chiedono come sia stato possibile che il loro stesso Dio non abbia impedito, non abbia fermato. Le ansie che ci vengono dalla pandemia appena dichiarata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità sono, in effetti, a metà strada tra l’accidente e il dolore che ci viene da un male esterno ai nostri mezzi di comprensione (come il terremoto di Lisbona) e il senso di sciagura, iniquità e ingiustizia al quale tutto sommato riusciamo a dare umana spiegazione (una guerra). E in particolare: la propagazione così invasiva e capillare, l’aggravarsi della prognosi e l’estrema duttilità aggressiva del virus sono elementi che appartengono all’imponderabile, a quel vasto quadro di casualità negative che speriamo la scienza e la medicina abbiano i codici per trasformare in causalità positive. I sistemi di gestione, i comportamenti pubblici e privati che non hanno canalizzato per tempo l’ondata del virus, le conseguenze di vita aggregata alle quali si va incontro … questi sono, invece, temi e fattori sin d’ora rimessi alla nostra applicazione cognitiva. Temi sui quali, come nelle guerre, è molto più facile sbagliare che avere ragione; sol che come nelle guerre gli errori, pur meglio scusabili e forse comprensibili, diventano invero assai più pesanti e pericolosi. Se il quadro non fosse già enormemente complesso, si potrebbe aggiungere un nuovo capitolo alla riflessione giuridica sull’emergenza: la comunicazione dell’emergenza. La rete sociale in cui siamo immersi non tollera deviazioni da quella normalissima libertà contrattuale che Marx non polemicamente inserisce all’interno del progetto capitalistico. Ecco perché è difficile far colpevolismo contro chi, soprattutto in Italia e soprattutto nelle primissime settimane, invitava più o meno bonariamente a non disperdere le abitudini e i costumi abituali: nel capitalismo in cui viviamo gli usi locali sono già costumi abituali ma ancor di più “consumi seriali”. L’aperitivo a tagliere, il volo lowcost, il lavorar fuori ma avere sempre il bisogno fisico della propria radice (una nostra nostalgia che ci consente di dimenticarla prima) … non sono solo comportamenti appresi; sono ahinoi parti inevitabili del nostro odierno agire in comune. In questa fase in cui si voleva rispondere all’alba della paura col sorriso di un drink, c’erano politici che si dichiaravano contrari a ogni chiusura e restrizione. E questo, scopriremo, ci insegna tra l’altro il coronavirus: il populismo è l’amplificazione opportunistica di ogni traccia di senso comune che intercetta. La cannibalizza e la stravolge. È venuta, poi e presto, spiazzandoci, la fase della preoccupazione seria, stimolata indubbiamente dalla progressiva trasformazione di tempi e ritmi che si davano per acquisiti e da un aumento quantitativo di decessi e contagi che forse nemmeno gli esperti del ramo avrebbero saputo calibrare in questi termini. E un’altra politica, un altro populismo, sempre lo stesso perché sempre uguale a se stesso, ha perso di nuovo la testa. Oggi che il trend è diventato “chiudete”, loro vogliono “sotterrare”, “bloccare”, “chiudere tutto”; ieri che il trend era “resistiamo”, “viviamo”, “gioiamo”, loro invece volevano resistere di più, vivere di più, gioire di più. Consumare di più. È presto per dare un giudizio, in termini di efficacia preventiva rispetto al contagio, ai tre decreti consecutivi dell’attuale Presidente del Consiglio dei Ministri. I primi due in particolare avevano non occasionali profili di contraddizione che sembravano dover rimandare addirittura a fonti interpretative di pari rango (tra gli altri: l’organizzazione degli uffici giudiziari e le modalità di funzionamento delle pubbliche amministrazioni; i limiti alla libertà di circolazione e le eccezioni a quegli stessi limiti). Oltretutto, per quanto apprezzabili nello sforzo, quei decreti affrontano purtroppo marginalmente le condizioni di sofferenza delle categorie realmente più esposte a un contagio, si è visto, che può facilmente annientare e costringere a invalidanti e distruttive fasi finali di vita: i senzacasa, lavoratrici e lavoratori d’impresa la cui opera è coessenziale al mantenimento della produzione (al punto forse di sopravanzare il loro diritto alla salute?), gli anziani, il personale di cura. Inutile, però, mettersi in cattedra. Dovendo decidere su ciò, sulle vittime di una guerra, sbagliare è facile: è questo modo di sbagliare, al più, che ci turba. Gran parte della riflessione dei giuristi, sin qui affidata ovviamente alla estemporaneità dei social, si sta concentrando sui termini dell’assembramento (cioè, quel fenomeno di pubblica concentrazione sin dal primo provvedimento preso di mira) e su quelli della libertà di culto (l’esercizio collettivo di detta libertà è garantito tanto dal diritto dello Stato quanto dal diritto delle Chiese, anche se non esistono diritti legibus et iuribus soluti). Forse però è ancora più necessario fare un passo indietro: all’emergenza. Cosa sospende la procedura democratica? Cos’è l’emergenza? Potrebbe essere forse fondato anche un modo di ragionare completamente opposto a quello che abbiamo sempre seguito finora. Siamo portati a credere che sia l’emergenza a sospendere la procedura democratica, ma non può darsi che sia la procedura democratica a sospendere l’emergenza? Non può darsi che all’emergenza si arrivi perché qualcosa nella procedura democratica non ha funzionato, che sia l’irresponsabilità dei cittadini o l’insipienza dei governanti? Non può essere allora emergenza lo speculare gemello dello stato di natura hobbesiano? Ho la sensazione sia questo il guanto di sfida che questa dannata epidemia ci sta lanciando.

Lettera alla rivista Praxis (11 aprile 1968)

Continuano ad essere pubblicati materiali finora inediti riguardanti il vecchio Lukács; materiali che arricchiscono l’immagine del filosofo ungherese quale costante oppositore dei regimi totalitari del “socialismo realizzato” e di intellettuale impegnato nella difesa dei diritti umani. Con introduzione di Antonino Infranca.

            L’11 aprile 1968 Lukács scrisse una lettera alla rivista jugoslava “Praxis” a seguito della richiesta che i due direttori della rivista, Gajo Petrovic e Rudi Supek, gli avevano indirizzato di firmare una lettera di protesta contro le manifestazioni antisemite in Polonia. Ricordo che in quegli anni Lukács era impegnato nella raccolta di firme per una richiesta di libertà nei confronti di Angela Davis, la giovane afro-americana che lottava per i diritti civili degli afro-americani e che era stata rinchiusa nelle carceri statunitensi con l’accusa di terrorismo (cfr. Vie traverse. Un confronto Lukács-Anders, a cura di A. Infranca e A. Meccariello, Trieste, Asterios, 2019). Tre anni dopo interverrà per chiedere la liberazione dal carcere ungherese di due dissidenti maoisti, Dalos e Haraszti (cfr. G. Lukács, Testamento politico, a cura di A. Infranca e M. Vedda, Milano, Punto Rosso, 2015).

            La notizia della firma della lettera di protesta da parte di Lukács fu data da Radio Free Europe il 29 aprile. Proprio il giorno prima, il 28 aprile, il quotidiano jugoslavo “Vjesnik” dava la notizia che l’organo del Partito Operaio Socialista Ungherese, il quotidiano “Nepszabaság”, il 27 aprile, aveva pubblicato un attacco a Lukács da parte del responsabile per le questioni culturali del POSU, György Aczél. Aczél rimproverava a Lukács la sua “unilateralità” nel criticare lo stalinismo e il culto della personalità in Ungheria. Secondo Aczel, Lukács non aveva considerato i lati positivi di quel periodo della storia del socialismo e non ammetteva che si potesse tollerare alcun compromesso nella lotta ideologica. In discussioni private, Aczel cercò di far capire a Lukács che il POSU cercava di portare avanti una “politica di bilanciamento” tra la necessaria de-stalinizzazione e il controllo occhiuto dei sovietici. Lukács non accettò questa “politica di bilanciamento” e continuò imperterrito la sua condanna della continuazione dello stalinismo sotto forme nascoste (cfr. G. Lukács, Pensiero vissuto, a cura di A. Scarponi, Roma, Editori Riuniti, 1983, p. 183).

            È molto probabile che Aczel, a nome del Comitato Centrale del POSU, chiese a Lukács un’intervista per spiegare le sue posizioni politiche. L’intervista fu tenuta nel luglio 1968, quindi un mese prima dell’invasione sovietica della Cecoslovacchia. Adesso l’intervista è disponibile in italiano (cfr. G. Lukács, Lukács parla, a cura di A. Infranca, Milano, Punto Rosso, 2019). Lukács condannò fortemente l’invasione della Cecoslovacchia e la repressione della Primavera di Praga in suo scritto, Demokratisierung heute und morgen (cfr. G. Lukács, La democrazia della vita quotidiana, a cura di A. Scarponi, Roma. Il manifestolibri, 2013). Lo scritto di Lukács rimase sepolto negli archivi del POSU fino al 1985, quando nell’incipiente era gorbacioviana proprio György Aczel lo fece pubblicare in tedesco e poi tradurre in italiano. Era un modo per mostrare ai compagni russi che il vecchio Lukács aveva anticipato la perestroika e la glanost di Gorbaciov. 

            Qui traduciamo la lettera dell’11 aprile 1968, nella quale Lukács, oltre a sottoscrivere la lettera di protesta contro i rigurgiti antisemiti, prende posizione contro le possibili “misure amministrative” che sarebbero state prese, eventualmente, nei suoi confronti da parte della dirigenza comunista ungherese. Per “misure amministrative” si intendeva anche il carcere o l’espulsione dall’Ungheria. Lukács rimase fermamente legato alle sue convinzioni e il POSU non poté punire un intellettuale tanto famoso. “Il coraggio dei vecchi è libertà che si avvicina” (Seneca, Fedra).

            Budapest, 11 aprile 1968

            Cari compagni Petrovic e Supek,

in principio, vi autorizzo a includere il mio nome nella vostra lettera di protesta. Come voi stessi, anche io sono convinto che il problema del marxismo non può essere risolto con misure amministrative.

            Comunque, per esprimere con la massima efficacia le mie concezioni, che non differiscono dalle vostre concezioni, riguardanti le misure amministrative, vi prego di pubblicare le seguenti osservazioni riguardo alla mia firma:

            La rinascita del marxismo può essere realizzata soltanto mediante serie ricerche scientifiche e per mezzo di critiche espresse in libere discussioni. Nell’attuale situazione è inevitabile che differenti concezioni, riguardanti queste questioni, concezioni in conflitto, siano espresse pubblicamente. Nel far ciò si deve sapere che non sempre una concezione soggettivamente onesta sia, se considerata oggettivamente, una concezione marxista. In altre parole, ciascuno di noi ha il pieno diritto di sostenere apertamente che le concezioni espresse da particolari pensatori, riferentesi al marxismo, non siano, in realtà, concezioni marxiste. Non desidero, né posso, far passare ciò in silenzio in relazione con il caso su menzionato. Il mio radicale rifiuto di qualsiasi misura amministrativa (e delle sue ufficiali spiegazioni) non è affatto indebolita dalle riserve teoretiche su menzionate. Tutto ciò che non è marxista in una teoria o in metodo, secondo la mia opinione, può e dovrebbe essere affrontato soltanto con discussioni scientifiche.

Con cordiali saluti, Vostro

György Lukács