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Il futuro della Chiesa nelle relazioni internazionali e il ruolo delle religioni nella società in tempi di grandi cambiamenti

Gianfranco Macrì

1. Le note di commento che seguono riguardano quello che, in prima battuta, potremmo definire un piccolo trattato sui principi che hanno regolato l’ordine internazionale nel corso del ‘900 e sul modo come questi dovranno essere rielaborati di fronte alle sfide del nuovo secolo. Sullo sfondo permangono antiche e nuove piaghe: la guerra, la diffusione di pestilenze, la povertà, le disuguaglianze; tutto questo mette in allarme l’umanità, sollecita soluzioni all’altezza della complessità globale, invoca l’azione di nuovi attori in grado di comprendere lo scenario e di proporre alternative di governance efficaci e risolutive.

C’è ancora bisogno del ruolo delle organizzazioni internazionali? Come, questi apparati costruiti dopo la II guerra mondiale – e finalizzati a garantire la pace e la cooperazione in campo politico, sociale ed economico – riescono a garantire gli equilibri geopolitici di fronte all’avanzare di nuove emergenze (specie migratorie e sanitarie)? Gli attori in scena cambiano volto, e nuove soggettività, dai tratti non più soltanto statualistici, si impongono in modo marcato, rivendicando visibilità e potere. Che fare?  

Il quesito investe certamente la politica e la storia (e poi l’economia, l’antropologia, etc.) ma anche il diritto e la sua funzione di “scienza pratica”, perché le istituzioni politiche in diverse parti del mondo sono sotto pressione, subiscono l’aggressione di fattori “concorrenziali” (fondamentalismi religiosi, gruppi di interesse, ideologie nazionaliste, etc.) che hanno ricadute sulla tenuta del principio democratico (come principio equilibratore).  L’esempio più calzante, perché storicamente più noto, riguarda proprio l’incapacità da parte degli organismi internazionali di governare lo strumento della guerra, praticando, in diverse circostanze, la politica dell’affidamento alla “super potenza” di turno[1].

Qualcuno, a ragione, osserva che la trama dei diritti umani non ha saputo innervare allo stesso modo i diversi poli del pianeta; le crisi umanitarie sarebbero, perciò, crisi determinate anche dal cattivo funzionamento del circuito della legalità internazionale. Certamente sono mutati i criteri e i metodi di rappresentazione degli scenari – perché sono cambiati gli assetti di governance di un tempo. Il Novecento (qualcuno dirà) è finalmente alle nostre spalle, ma il suo fascino persiste, anche nelle declinazioni più nocive. Si tratta, allora, di verificare quali saranno gli effetti di una crisi mai così lunga e penetrante (adesso accresciuta sul fronte sanitario) che dal 2008 si dispiega a livello mondiale seguendo tracciati diversi, continuando a “mordere” in modo trasversale anche quegli spazi ritenuti meglio attrezzati in termini di diritti e di garanzie (l’Unione europa, giusto per fare un esempio di “prodotto” meglio riuscito del Novecento post-seconda guerra mondiale).

Quello, dunque, del “veccho modello” di gestione delle emergenze (concepito secondo una logica piramidale, con in cima pochi attori “padroni del sistema”) rappresenta un “capitale” concettuale e operativo praticamente mai dismesso – sebbene declinato in modo diverso a seconda del momento e dei protagonisti coinvolti – dunque affidabile (intendo dal punto di vista della “tenuta” e del controllo della società). Gli strumenti operativi possono ovviamente essere diversi, finanche l’uso “retorico” e demagogico dei diritti e delle libertà si presta al gioco: l’importante è che il sistema regga; a qualunque costo. Un esempio? “Esportare la democrazia[2] dove le tradizioni culturali sono “altre” (con tutto quello che ne è scaturito in termini di “messa in sicurezza” dei sistemi politico-istituzionali e socio-economici). Sullo sfondo è sempre necessario che si consolidi la tesi che c’è sempre qualcuno capace di affascinare, di “unire il popolo” proteggendolo dal nemico esterno, di rievocare i fasti del passato e di indicare la strada, soprattutto in tempi di “decadenza morale”, di crisi economica, di pericolo grave per la salute pubblica, di “invasioni” pericolose anche connotate in senso religioso (fondamentalismo, terrorismo, integralismo, etc.)[3]. Mai come in questo frangente della storia, la democrazia (quella di derivazione liberale, rappresentativa e costituzionale, per intenderci) è tornata ad essere al centro del dibattito politico e scientifico, a dimostrazione che non di una conquista definitiva si tratta, bensì di un processo autoriflessivo all’interno del quale vanno considerate variabili diverse e anche distanti tra loro, tutte però accomunate dalla volontà di allargare i canali della partecipazione[4].

Questo scenario, così frastagliato, che vede prevalere, a diverse latitudini (come il Mediterraneo) narrazioni politiche “egemoniche”, che affascinano sempre più leader di nazioni “minori” smaniosi di instaurare regimi politici neo-sovranisti aventi come obiettivo la critica, anche radicale, dei sistemi (e delle regole) sovrastatuali di organizzazione degli interessi, dei diritti e delle libertà (es. Unione europea in primis), riflette – come un prisma – la progressiva sofferenza in cui è precipitato quel grande principio consacrato nelle carte internazionali – fonte di pacificazione e di legalità condivisa – che è la cooperazione. Si fatica, cioè, a valorizzarne il primato, collocandolo al centro dell’agire civile dei popoli democratici.

I motivi di preoccupazione, allora, non mancano. Ben vengano, quindi, quei contributi che possono aiutarci a verificare l’eventuale presenza di fattori in grado, se non proprio di invertire la rotta, quanto meno di indicare percorsi alternativi, lungo i quali imbattersi in figure, oppure esperienze, all’altezza delle sfide in atto.

Tra i segnali di maggiore interesse che possono aiutarci a comprendere il quadro generale delle problematiche adombrate, la dimensione religiosa occupa un posto di prima grandezza. Si è parlato, non a caso, di ritorno della religione nello spazio pubblico, ma non sempre si riesce a spiegare a cosa questa espressione concretamente rinvia.

Da qui l’utilità del libro di Luigi Rossi, la cui lettura si offre quale utile strumento per capire come il fenomeno religioso (e non solo questo) ritrovi centralità nelle pieghe della geopolitica contemporanea e come alcuni protagonisti – in questo caso Papa Francesco (il protagonista dell’opera) – agiscano alla luce dei repentini cambiamenti in corso. Una cosa è certa: siamo tutti consapevoli di trovarci di fronte ad un “giro di boa” della storia mondiale, e che tutto quanto accade in qualsiasi posto del pianeta, mai come adesso, riverbera ovunque, producendo conseguenze anche dirompenti (il rimando al coronavirus- Covid-19 è ahimè automatico).

Luigi Rossi parla di «riflessione sulla spiritualità»[5]. Forse perché è finito (oppure attraversa un momento di crisi-ripensamento) il tempo del discorso centrato in massima parte sul peso politico delle organizzazioni religiose (a dispetto del sentimento religioso della persona e delle comunità) ed è iniziato quello calibrato sulla ricerca di senso di un nuovo homo viator. Certamente il discorso è più ampio. Qui, infatti, si propone – in filigrana – un nuovo modo di “convertire” l’umanità al senso di responsabilità, solidarietà, partecipazione, senza per forza passare “attraverso” le chiese (lato sensu), oppure senza che il loro imprimatur continui ad essere ritenuto decisivo per mettere in sicurezza le sorti del mondo. Quest’ultimo si governa anche con l’ausilio delle organizzazioni religiose, ma sono le persone (credenti, non credenti, diversamente credenti) che stanno a cuore a Papa Francesco. Naturalmente gli apparati più conservatori presenti sia nella Chiesa cattolica che in altre comunità religiose guardano con sospetto e apprensione a questo capovolgimento di prospettiva, perché è chiaro che la tensione temporale del potere religioso rischia di affievolirsi se sbilanciata a favore di quella “interiore” che purifica e modella il cittadino-fedele. Ma Bergoglio si muove su un sentiero diverso, quello diretto a recuperare lo “spirito delle origini” (un cristianesimo dal volto umano) e da questo far nuovamente germogliare una novella centralità ecclesiale.

2. Un argomento di grande dibattito è quello del rapporto tra Islam e democrazia (occidentale). I grandi rivolgimenti avvenuti dopo l’11 settembre[6] – fino alle “Primavere arabe” e oltre – hanno consigliato qualcuno a continuare a battere il tasto della irriducibilità tra i due fattori in campo (Islam vs. democrazia). A consolidare questo refrain si sono poi aggiunti una serie di attentati terroristici in alcuni paesi europei, dai quali in molti – specie leader di movimenti politici di estrema destra, o comunque populisti e neo-sovranisti – hanno tratto l’assunto schematico Islam = terrorismo. Quella che va sotto il nome di islamofobia non è altro che la materializzazione del teorema appena enunciato, che ostacola, attraverso vari strumenti (politici, sociali, giuridici, etc.) la costruzione di uno spazio pubblico aperto anche ai musulmani (il progetto di un Islam europeo), il cui contributo in termini culturali ed economici può anche non essere strumentalmente colto nella sua valenza positiva, ma resta invece chiaro a quanti, animati da buone intenzioni, lavorano fianco a fianco con le organizzazioni islamiche per la costruzione di una società tollerante e inclusiva.

La cosa sorprendente è che questo “grande ossimoro” (Islam vs. democrazia) continui a raccogliere ampio sostegno anche all’interno dei circuiti culturali liberal-progressisti[7]. Riecheggia, dagli Stati Uniti fino all’Europa, l’esperienza del teorema neo-conservatore americano, quel serbatoio di pensiero, imbastito da ex intellettuali di sinistra, che ha legittimato, con argomentazioni anche argute e una buona attività di lobbying posta in essere fino ai vertici della casa Bianca, la necessità di implementare (sia in ambito domestico che internazionale) scelte politiche focalizzate sul primato americano nella scena politica internazionale e, dunque, chiaramente anti-islamiche[8].

Ecco, dunque, il dilemma: come si fa a costruire un’arena internazionale aperta al contributo di tutti senza “appropriarsi” di Dio? Senza cioè declinare la religione in chiave nazionalistica (modello “religione civile” stile USA post-11 settembre) oppure come risorsa di senso avente lo scopo di onorare la memoria del passato (imbalsamandola) e orientare (ideologicamente) la storia?[9]

Una inversione di rotta così radicale (che significa capovolgere il seguente paradigma: dalla religione immersa nel linguaggio politico – che si fa istituzione e potere – alla religione come fatto sociale che si offre al mondo) può condurre a due opposti approdi.  

Per alcuni, potrebbe significare dover disperdere la religione in qualcosa di riflessivo, in qualcosa cioè che “accompagna” il discernimento ma che non si impone in modo “verticale” sull’esistenza umana (modello religioso-confessionale). Questa modalità esplicativa permetterebbe di evitare gli errori del passato, quando la religione “sorpassava” la dimensione del politico imponendo il suo dogma, erga omnes. Per altri, invece, la religione andrebbe “recuperata” innanzitutto come componente costitutiva della socialità, cioè in quanto fattore inevitabilmente “reale” (dunque anche sotto il profilo organizzativo, ma non nella versione confessionale), tenuto conto del fatto che mai come in questa fase storica il fattore religioso sembra trovare sempre più spazio «[nei] corpi, [nel]le pratiche (…) [e in] precisi luoghi sulla terra»[10]. La religione, quindi, intesa come fattore integrativo dell’esperienza umana che “accompagna” l’esistenza del soggetto-persona e lo conforta nei momenti più difficili della sua esistenza[11].

Di fronte a questo “conflitto” politico-religioso – che spazia dalla dimensione nazionale a quella internazionale e che chiama in causa soggetti diversi, afferenti non solo alla dimensione organizzata dei culti ma pure alla società nella sua declinazione orizzontale – è legittimo indagare quali sono le trasformazioni in corso sia all’interno del discorso politico che di quello religioso. Su questo secondo fronte, indubbiamente l’avvento di Papa Francesco rappresenta una delle novità più importanti. Partendo dal modo come egli si approccia alla diversità (culturale e religiosa), specie quella più esposta al rischio dell’intolleranza, è possibile raccogliere alcuni punti fermi, che lasciano intravedere la costruzione di un modello di confronto con l’alterità destinato ad integrare, più in generale, la costruenda nuova governance della cittadinanza interculturale[12]. Quella di Bergoglio, allora, sembra essere una mano tesa verso chi lavora alla costruzione di ponti e non all’innalzamento di muri. E questo non può non essere motivo di contrasto prima di tutto con il Presidente degli Stati Uniti Trump. Bergoglio [infatti] si colloca agli antipodi, innanzitutto «psicologicamente [,] rispetto all’attuale inquilino della Casa Bianca»[13] il cui «muscoloso unilateralismo»[14] non trova accoglienza all’interno del palazzo di vetro delle Nazioni Unite, né a Santa Marta.

A costruire la giusta trama discorsiva attorno alla “politica” religiosa di Bergoglio provvede l’Autore del libro, abile a muoversi tra le pieghe del mito, specie quando rinvia ai «significati concreti e simbolici»[15], contenuti in un’opere come l’Odissea, che ci aiuta a comprendere la forza devastante – in un clima sociale frammentato – che può scaturire da una distorta percezione della diversità culturale[16]. Secondo Rossi, un sentiero praticabile per costruire una “coscienza globale” potrebbe consistere nel sostenere lo stile diplomatico «di Francesco, che utilizza un nuovo linguaggio, che risponde all’indole francescana e gesuitica fatta di comunicazione diretta»[17]. A questo modus operandi del Papa, Rossi dedica una parte importante del libro (la prima). Un passaggio, tra i tanti, colpisce il lettore:

«L’unica alternativa per realizzare un equilibrio condiviso e armonioso, presuppone la pratica di una politica improntata alla strategica fiducia, in alternativa a sterili e distruttive minacce, cioè il soft power secondo la logica della diplomazia multilaterale»[18].

Quando Bergoglio usa l’espressione “Terza Guerra Mondiale a pezzi”, ha chiaro il contributo che le religioni possono offrire «nell’attuale contesto internazionale»[19]. Il fattore “R” (come lo chiama Rossi), allora, non solo non può essere escluso dal circuito delle relazioni internazionali (perché si tratta di un attore di prima grandezza, in primis sotto il profilo storico e sociale, e perché grazie al contributo delle chiese e delle loro organizzazioni periferiche in diverse parti del mondo la fiammella della speranza resta ancora accesa), ma deve essere «trasformato in vincente strumento di soft power»[20]. Ovviamente, questo “ri-adattamento” al nuovo ordine delle cose, ha bisogno di trovare il consenso e il sostegno di tutta la struttura ecclesiastica. Si tratta, nelle intenzioni del Papa, di abbandonare il modello novecentesco delle relazioni di vertice[21] e di passare ad un sistema di presenza diffusa nelle pieghe della sofferenza, testimoniando la fede e agendo fianco a fianco alle istituzioni civili. La dimensione confessionale non può continuare ad essere ritenuta come prevalente fino a schiacciare (e anche mortificare) le tante esperienze di solidarietà orizzontale praticate su scala planetaria. Non cogliere le potenzialità di una “nuova Chiesa” significa – sulla scia di Bergoglio – tradire il patto col Vangelo, far percepire ai fedeli che la distanza con le gerarchie può rappresentare un problema nel percorso di testimonianza e marginalizzare l’opera di tutte quelle realtà attive nello spazio pubblico (le periferie del mondo) costituzionalmente riconosciute (art. 118, ult. co.).

La trama della solidarietà è l’opera più importante a cui il Papa ha deciso di dedicare la sua missione pontificale. È una sfida di grado molto elevato, che soltanto adesso inizia a raccogliere l’attenzione che merita e a trovare condivisione all’interno della Chiesa. Scoraggiare (rectius: umiliare), perciò, tutte queste energie ancora in ordine sparso che attendono di essere ricondotte ad unità, vorrebbe dire assestare un duro colpo alla Chiesa-comunità e arrecare un danno enorme alla società, non ultimo, in termini economici. Perché laddove lo Stato non riesce più ad arrivare[22] – per carenze strutturali (detto in modo sintetico) – può farcela la società civile organizzata (all’interno della quale sono comprese anche le diverse espressioni del solidarismo cattolico e delle altre organizzazioni religiose) [23].   

La trasversalità a cui ho fatto riferimento (sia orizzontale che verticale) è allora uno dei cambiamenti più significativi di fronte ai quali ci troviamo. Ma non pensiamo che sia “senza radici”, che non abbia collegamenti con nessuna esperienza del passato, che sia frutto di un “esperimento in vitro” in corso di approntamento e che richieda ancora del tempo per essere testato. Intendo dire che, se Papa Francesco ha saputo catalizzare l’attenzione su di sé, azionando una comunicazione degna di un qualsiasi grande protagonista della storia, questo non toglie che, sfogliando le pagine del passato non sia possibile trovare alcun riferimento circa il modo come le religioni sono state capaci di contribuire alla costruzione di nuovi paradigmi di governo della società (specie in posti di frontiera). Papa Francesco e la sua Chiesa sono solo gli ultimi esempi di partecipazione alla costruzione di un nuovo sistema di relazioni umane e politiche della contemporaneità. E insieme a loro, anche altri attori afferenti alla galassia religiosa[24].

Rossi, da storico, non si lascia sfuggire l’occasione per puntualizzare alcuni aspetti che possono aiutare la comprensione del fenomeno in oggetto. Chiama perciò in causa addirittura i Padri fondatori della democrazia americana[25], che sebbene in larga misura deisti o scettici:

«non hanno mai dubitato del fatto che la religione fosse una componente significativa dell’ordine sociale perché parte essenziale dell’ordine morale»[26].

L’argomento trova ampia trattazione nel secondo capitolo, dove si approfondisce il modo come le religioni, nelle diverse parti del mondo, hanno influito sulle scelte di natura politica, e il modo come il potere politico ha stabilito “rapporti” con questi importanti attori sociali. Si tratta di una parte dell’opera dove l’Autore spiega, innanzitutto, come la Chiesa ha impostato storicamente il suo ruolo nell’arena dei soggetti politici internazionali. Da qui, una meticolosa ricognizione sul metodo adottato dalla Chiesa cattolica (rectius: la diplomazia vaticana) durante il “lungo Novecento” a difesa della cristianità e della pace. Una ricognizione che prende in considerazione, tra i diversi strumenti a disposizione, alcune importanti encicliche papali inquadrate come strumenti di diffusione di pratiche di smart power[27]. E così scopriamo la Mater et Magistra di Giovanni XXIII (1961), sulla “visione planetaria della questione sociale”, la Populorum Progressio di Paolo VI (1967), sullo “sviluppo umano di tutti i popoli”, la Sollecitudo rei socialis di Giovanni Paolo II (1987) sulla solidarietà come strumento di umanità universale, fino alla Caritas in Veritate di Benedetto XVI (2009) sulle nuove prospettive dell’umanità tra mercato, verità e solidarietà. Quest’ultima enciclica, in particolare, si presta – anche per ragioni temporali – a meglio aiutarci a comprendere quanto e come, quello strumento “raffinato” rappresentato dalla fede riesca a misurarsi rispetto alle problematiche del tempo attuale. Problematiche che richiedono un approccio pragmatico, e dunque una fede sorretta da ferma ragione, per non smarrirsi nel vortice del “rapimento” fine a sé stesso. È chiaro che un criterio del genere, non solo si presta a stabilire migliori canali di interazione tra mondi diversi (scienza e fede, per esempio), ma anche ad allargare la platea dei soggetti a base religiosa desiderosi di contribuire col proprio apparato di credenze agli svolgimenti dei fatti sociali[28].

3. Non sappiamo se Papa Francesco riuscirà a condurre la Chiesa verso una «nuova Primavera»[29]; di certo, una serie di condizioni materiali sembrando indicare che questo processo è in atto, ma la Chiesa è una società complessa, e con questa “complessità” il pontefice si sta confrontando (non senza problemi), sapendo bene di godere del sostegno di buona parte del “popolo di Dio” (e dell’episcopato), ma pure di avere diversi nemici interni (ed esterni). Avendo “cura” di queste difficoltà – e dunque guidando con benevolenza e decisione il suo gregge lungo il sentiero della normalizzazione – Bergoglio prova a legare in sequenza nuove determinazioni teologico-dottrinarie (sfida complessa) e nuove interpretazioni giuridiche e liturgico-pastorali. Da quanto abbiamo appreso in questi anni di pontificato, Bergoglio vuole una Chiesa adesiva ai valori del Concilio Vaticano II. In lui è forte l’elemento della “relazione” tra la dimensione istituzionale della Chiesa e la base dei fedeli: questo significa riconoscere a tutti i credenti la possibilità di partecipare alla vita della Chiesa. Contemporaneamente immagina di riconsiderare il momento dell’autorità “al servizio” della Comunità, riconoscendo certamente la sua funzione essenziale ma all’interno di un perimetro strutturato in forma più orizzontale.

Si tratta di una prospettiva indubbiamente fascinosa, specie per chi guarda all’azione di Papa Francesco con occhio cooperativo e non si lascia impressionare dalla supremazia dell’apparato di potere della Chiesa (elemento ancora forte, specie in certi ambienti filo-curiali). Da punto di vista, poi, di chi studia le relazioni internazionali, questa evidenza si concretizza nei termini di in piano a cerchi concentrici che vedono, appunto, il Pontefice provare a mettere in sintonia quanto accade in Europa rispetto a quanto accade oltre oltreoceano (USA), in Ameria Latina, e nel Sud-est asiatico. Bergoglio teme il ritorno del dei nazionalismi al pari dell’avanzare della povertà e della concentrazione delle ricchezze nelle mani di poche persone. Si batte per la difesa delle radici cristiane in Europa, ma ritiene altrettanto importante implementare lo sforzo anche nella difesa dei diritti e delle libertà ovunque calpestati. La sua è una metodologia ad ampio raggio, che non ammette gerarchie né corsie preferenziali (intra ed extra Ecclesiam). Il primato del Vangelo è ciò che gli interessa interamente; il resto (relazioni, regole, prassi, etc.) serve solo a integrare questa premessa necessaria, che affascina anche persone e organizzazioni non religiose, perché declinata sul primato della persona e sulla funzione servente degli apparati di potere. È, il suo – in buona sintesi – un progetto di convergenza della Chiesa sulla società contemporanea, che pero richiede gesuitico discernimento. Ovviamente, la convergenza su cui Bergoglio sta lavorando rappresenta per molti cattolici non-tradizionalisti una speranza, perché significa che la Chiesa – pur attraversata da tanti problemi (alcuni dei quali anche gravi) – prova a cambiare la società, cambiando essa stessa. Da qui la sottolineatura di Luigi Rossi quando scrive che Francesco non pone “condizioni” nel suo modo di comunicare, e che «solo chi è in malafede può proporre una lettura eretica dei suoi messaggi»[30] .

3.1. Bergoglio ha deciso di immergersi nel corpo vivo di una «umanità in disfacimento»[31] che però prende per mano proponendo una “lettura” della fede per nulla “credulona” – una fede che mortifica il Tommaso contemporaneo[32] –, bensì “fiduciosa”, capace di orientare senza togliere la libertà (che è libertà di cercare la verità)[33]. Al Papa gesuita non importa (o non sembra importare) tanto il modo come la Chiesa appare dal punto di vista istituzionale (questo non è indubbiamente un profilo secondario, ma nella narrazione di Bergoglio resta più sullo sfondo), quanto piuttosto il coraggio che dimostra nel saper tenere «la porta sempre spalancata»[34], nel provare a riconciliare l’umanità nella sua diversità (l’archetipo della trinità come amore plurale che abbraccia la vita in tutte le sue forme)[35].

Si tratta di un messaggio dirompente perché alla base c’è un grande anelito verso l’unità che si contrappone alle divisioni (le verità, potremmo dire con linguaggio laico – che convergono verso un unico percorso di salvezza, per tutti).

Scrive L. Rossi, parafrasando un passo del vangelo di Luca:

«Dio non guarda al peccato, ma valuta sofferenze e bisogni (…). La storia della salvezza [realizzata da Gesù col suo sommo sacrificio] non prevede esclusioni, separazioni, respingimenti” (187). Il “Regni di Dio procede sempre per inclusioni»[36].

De resto, se il primo ad entrare nel Regno di Dio è «un uomo dalla vita sbagliata»[37] – il malfattore che sulla croce cerca lo sguardo di Gesù e lo implora dicendogli “ricordati di me” – allora capiamo quanto il messaggio di Bergoglio sia tutto concentrato sulla prospettiva di Dio, sulla «solidarietà tra Dio e l’uomo»[38], sulla fiducia, sul senso di responsabilità, sulla generosa costruzione di una quotidianità che non distoglie lo sguardo dall’umanità (dal contesto dove ciascuno di noi opera), che chiama all’impegno; dunque alla misericordia; quel sentimento di intima commozione, scrive l’Autore, che genera compassione, pietas e nello stesso tempo azione, impegno civile, studio, doveri.

La cosa sorprendente, ascoltando Papa Francesco, è vedere con quale pacatezza egli inviti tutti i credenti ad intraprendere una sorta di pellegrinaggio interiore, a meditare sul significato dell’umano in relazione con la società; una società dove sembra mancare la direzione, ma pure il progetto comune. Ed ecco allora la preoccupazione per una Chiesa che Bergoglio vuole impegnata a ritrovare la sua collocazione nel mondo (partendo dall’angolo dietro casa), a farsi povera per entrare nuovamente in sintonia con la sofferenza del genere umano, senza però smarrire il suo ruolo di “orientamento” nello spazio pubblico e nelle dinamiche internazionali; a fungere da faro, da punto di riferimento per quanti (cittadini e istituzioni) sono impegnati nella costruzione di un nuovo ordine politico democratico.

Ma l’esempio di Papa Francesco ha bisogno di testimoni coraggiosi. Perché questo è un papa difficilmente “catturabile”. Lo sanno bene i cattolici conservatori (la lobby tradizionalista, direbbe qualcuno). E il libro di Luigi Rossi non tradisce le aspettative. Rossi è concreto come Bergoglio. È consapevole sia della cultura politica latinoamericana (del suo peso nell’ecumene delle relazioni internazionali) sia del progetto politico-ecclesiastico del Papa gesuita, della sua “radicalità”. Bergoglio, scrive Rossi, vuole «ritornare alla sorgente della fede (…), liberandosi della formalità (…) che certi moralisti tartufi pretendono d’imporre»[39] e lavorare alla ricomposizione di una «Chiesa policentrica»[40], una Chiesa aperta al dialogo, che rompe gli steccati e rinnova il proprio linguaggio, che invita i battezzati a sentirsi protagonisti di questa impresa, una Chiesa che «deve riscoprire le potenzialità della propria creatività missionaria mettendo da parte il lamento sterile, generato da tentativi di autodifesa»[41].

Questa chiamata in sussidiarietà del popolo di Dio – e di tutte le soggettività operanti nello spazio pubblico – presuppone che la Chiesa-organizzazione si dichiari più vicina alle problematiche morali e sociali; e dunque: «decentramento di alcune competenze alle chiese nazionali»[42] e nuovo modo di intendere il primato petrino, declinato in senso “collegiale”, capace, cioè, «come un cantiere sempre aperto»[43], di valorizzare «gli episcopati nel discernimento di tutte le problematiche dei loro territori»[44]. Insomma, una buona “cura dimagrante” per le strutture burocratiche romane «appesantite

[scrive l’Autore]

da una prassi che determina disfunzioni e allontana i vertici della Chiesa dalla pratica di una visibile e credibile povertà, in grado di favorire la definitiva opzione per i poveri»[45]. Da qui anche l’accento che il Papa pone ad “una riforma finanziaria che non ignori l’etica”.

3.2. C’è un aspetto, poi, nel libro di Rossi – che potremmo definire di diritto pubblico-ecclesiastico – che secondo me merita di esser adeguatamente sottolineato. Mi riferisco al tema della sana cooperatio come strumento di raccordo virtuoso tra dimensioni parallele: da un lato, la società civile e le sue istituzioni pubbliche (dunque lo stato, nelle sue diverse declinazioni anche ordinamentali e dunque multilevel), dall’altro la Chiesa (anch’è essa vista come soggetto multiforme). Ebbene, l’art. 1 dell’Accordo di modificazione del Concordato lateranense (legge n. 121/1985) parla esplicitamente di «reciproca collaborazione [tra Italia e Santa Sede] per la promozione dell’uomo e il bene del paese», e Rossi sottolinea il grande auspicio di Papa Francesco affinché si venga a determinare una “convergenza” (tra sfera pubblica e sfera religiosa, apparati politici e apparati ecclesiastici) su “azioni” comuni aventi lo scopo di “trasformare la mentalità”, a partire da chi gestisce il potere (quello economico in primis). A differenza del passato, quando i due “ordini” (art. 7, comma 1 Cost.) si confrontavano (e si scontravano) quasi sempre per logiche di potere (il timore era quello di perdere consenso e “presa” sulla società), oggi, con l’avvento di Francesco, sembra possa finalmente maturare una volontà generale diretta a farsi carico delle sorti dell’umanità – e dei problemi pratici che la affliggono – cedendo, entrambi i fronti (quello civile e quello religioso) quote della propria sovranità per il bene comune[46].

Un esempio calzante ce lo offre la questione ecologica, sulla quale Papa Francesco incalza gli stati e raccoglie consensi ampi, capace com’è di proporre una rinnovata narrazione antropologica in direzione contraria rispetto alle «forme di potere condizionate dalla tecnologia»[47]. Su questo aspetto aggiungo solo che, rispetto al tempo in cui anche l’ecologia era stata sfigurata dal vortice delle ideologie, oggi, con la presa in carico del tema da parte di Papa Francesco (ma anche grazie al protagonismo di altri soggetti capaci di imporsi all’attenzione dei media e dei poteri sovrastatali) il problema del modo come «avere cura della casa comune, la Terra, nostra sorella e madre»[48] acquista una centralità politica che va al di là di ogni previsione. Anche in questo caso, Rossi ricorre allo strumento dell’enciclica sfogliando Laudato sì (2015), dove il Papa «invita a riflettere, senza innalzare steccati ideologici»[49]. Questa premessa è la forza del pensiero del Papa perché egli riesce dove altri hanno fallito: rivolgersi a tutti (credenti e non) per valorizzare la responsabilità di ciascuno. In continuità con i suoi predecessori, il pontefice utilizza questo tema sia per valorizzare la dimensione collegiale intra Ecclesiam, sia per allargare il raggio d’azione del suo pensiero costruendo una narrazione politica: la costruzione di un idem sentire aperto alla meraviglia del creato. Laudato sì è, perciò, una Enciclica assolutamente “sociale”, perché la crisi che ci investe è socio-ambientale e richiede un approccio “integrale”[50].

4. Papa Bergoglio è un autentico figlio dell’altro Occidente perché incarna al meglio la radicalità carismatica verso «le creature e le cose»[51], che è un tratto tipico della cultura latino-americana. Questo lo spinge a non trascurare un fattore determinante di quella tradizione: l’amore per la natura che si sposa con la società e le sue complesse articolazioni. Questa sensibilità antropologica verso il creato, lo mette automaticamente più in sintonia con quei sistemi politico-istituzionali che hanno “costituzionalizzato” la dimensione del buen vivir – l’idea di una forma di vita in armonia con la natura –(es. Ecuador e Bolivia) che, collegata al principio di relazionalità «portano inevitabilmente all’affermazione di nuove forme di partecipazione popolare e[a] nuove forme di governo e così [ad un] nuevo constitucionalismo»[52]. Correttamente Rossi parla di «intima relazione fra i poveri e la fragilità del pianeta»[53]. Una relazione ontologica incentrata sulla “ricerca del senso”, dunque, intrinsecamente solidaristica[54].

Questa ampiezza di visione, il Pontefice la radica nella «sacralità della natura»[55] per poi indirizzarla verso la condanna esplicita di qualsiasi logica di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, e del capitalismo finanziario che non garantisce uguali opportunità perché provoca disuguaglianze e ingiustizie[56]. Siamo al cospetto di una trama che si dispiega lentamente ma inesorabilmente, perché ha chiaro l’obiettivo e gli strumenti d’azione. Una trama all’interno della quale uno dei nodi principali è il destino della Chiesa che il Papa vuole, per un verso, de-clericarizzata – meno attenta a soddisfare l’ego dei singoli chierici – e nello stesso tempo fortemente impegnata a dismettere l’antica pratica di “scambiarsi la veste” col potere politico per finalità esclusivamente egemoniche. A seguire vengono i giovani: la categoria sociale più a rischio perchè più facilmente condizionabile dal fascino del denaro. Per Bergoglio, scrive Rossi, ai giovani bisogna insegnare

«a pensare criticamente, superando i localismi e affrontando i problemi mondiali con la consapevolezza di essere cittadini del mondo, in grado quindi di specchiarsi negli altri con simpatetica predisposizione»[57].

E infine, il ruolo dei laici nella chiesa del nuovo secolo. Bergoglio vorrebbe una società all’interno della quale il laicato diventi protagonista attento e attivo (fare politica è importante), anche a costo di mettersi contro una certa «egemonia clericale»[58]; una “Chiesa in uscita”, capace cioè di rompere con le vecchie logiche centralistiche e aperta al mondo, con le sue contraddizioni e le sue speranze. Rossi scrive che «non bisogna aver paura della propensione a una radicale revisione teologico-canonica»[59] e aggiunge che questa profonda rigenerazione si inquadra nell’originale approccio di Francesco alla geopolitica, riassumibile nella trama relazionale del messaggio evangelico, irriducibile alle posizioni apicali e convergente sul bene dell’umanità.

Nessuno, allora, dovrà sentirsi “lo scarto del mondo” perché tutti sono necessari per costruire quel progetto “armonico” che già Paolo VI riteneva essenziale. Il carisma di Bergoglio non sfugge certamente a Rossi, che parla del Papa come del «primo nunzio della Santa Sede»[60], enumerando alcune tra le più delicate vertenze internazionali verso le quali il Papa ha già indirizzato l’attenzione; questo «anche a costo d’incomprensioni da parte di chiese locali gelose della vita interna e attente a privilegiare lo spazio clericale o specifiche concezioni etnico-politiche»[61].

A tutto questo, l’Autore aggiunge l’attenzione del Pontefice verso le problematiche del sud del mondo, verso le tensioni che attraversano la non ancora completa unità politica dell’Europa, verso il metodo del dialogo interreligioso (unico antidoto al radicalismo falsamente ammantato dalla fede) e in direzione dei rapporti con la Cina, gli Stati Uniti, la Turchia, l’Egitto e la Russia (per citare gli attori più rilevanti). Tutti fronti complessi, in buona parte in via di svolgimento.

Siamo nel pieno di una navigazione che non riesce ancora a scrutare l’approdo finale. Ma forse Francesco ha ben in mente dove e come arrivare. Di certo la sua missione terrena continuerà a offrirci occasioni preziose da cogliere se vogliamo provare a cambiare le sorti dell’umanità e con esse quelle delle comunità. Se c’è una cosa che il Papa argentino non è disposto a lasciare in secondo piano questa è rinvigorire «la fecondità della cattolicità romana»[62] nello spazio scalpitante (e sofferente) della globalizzazione. E gli stati farebbero bene a condividere alcune delle sue politiche, tenuto conto del fallimento definitivo di vecchi modelli di governance delle relazioni internazionali.


[1] Sullo sfondo si posiziona la posizione di alcuni critici del sistema-ONU. Ricordo in particolare la tesi di C. Rocca (oggi direttore de Il Foglio), Contro l’ONU. Il fallimento delle Nazioni Unite e la formidabile idea di un’alleanza tra le democrazie, Torino, 2005, secondo cui l’alternativa a questo “fallimento” consisterebbe nel progettare un’alleanza tra le democrazie avente il «compito di rimuovere gli ostacoli che i regimi dittatoriali frappongono alla democrazia e al rispetto dei diritti umani».

[2] Tra i primi a sostenere la tesi, certamente F. Fukuyama, Esportare la democrazia. State-building e ordine mondiale nel XXI secolo, Torino, 2005.

[3] La politica c.d. dei respingimenti (v. il caso italiano), i provvedimenti di natura giuridica aventi ad oggetto la messa in sicurezza dei confini nazionali messi in pericolo dalle “invasioni” di immigrati clandestini (in violazione della normativa internazionale, come specificato da recente giurisprudenza), la comunicazione politica costruita ad arte “a ridosso” di questa tipologia particolare di messaggio (c.d. sovran-populista), etc. rappresentano il tentativo di replicare, su scala nazionale, la logica egemonica diffusa ad ampio raggio da vecchi e nuovi protagonisti della scena planetaria (es.: il sogno di un nuovo “califfato”, la grande madre Russia, il motto “America first”, etc.).

[4] D. della Porta, Democrazie, Bologna, 2011.

[5] L. Rossi, La geopolitica di Francesco. Missione per l’ecumene cristiano, Francesco D’Amato editore, 2019, p. 65.

[6] A. Benazzo, Il dibattito su terrorismo, democrazia ed emergenza dopo l’11 settembre, in Percorsi Costituzionali, 1/2008, pp. 127-136. Alla luce dei recenti fatti legati alla diffusione del virus Covid-19 si impone una riflessione più ampia attorno alla categoria della sicurezza che includa anche le tematiche ambientali, di salute pubblica e del “nuovo” ordine pubblico ad esse conseguenziali.

[7] Molte realtà del nord-Europa, certamente non di destra, si sono lasciate infatuare dal ragionamento sovranista, della necessità cioè di non poter più essere (ridotto all’osso!) “tolleranti con gli intolleranti”. Mai come nel caso dei musulmani gli schematismi funzionano bene, purtroppo … e producono disastri! Da qui, l’affermazione, anche importante, di molte opere letterarie, aventi come nucleo centrale del ragionamento la “presa del potere” da parte di partiti politici di ispirazione islamica con i quali dover scendere a patti per non mettere a rischio la civiltà europea. Ha fatto scalpore il romando di M. Houellebecq, Sottomissione, Milano, 2015. Sul modo invece come la sinistra europea guarda verso la tematica islamica, si rinvia, tra i tanti, a O. Roy, L’Europa è ancora cristiana? Cosa resta delle nostre radici religiose, Milano, 2019.

[8] Fra i tanti, F. Felice, Prospettiva “neocon”. Capitalismo, democrazia, valori nel mondo unipolare, Soveria Mannelli, 2005.

[9] Prendo in prestito la frase dal libro di E. Gentile, La democrazia di Dio. La religione americana nell’era dell’impero e del terrore, Roma-Bari, 2006, p. 185, tra i migliori a saper descrivere il ruolo della religione negli Stati Uniti dopo l’11 settembre.

[10] J.S. Jensen, Che cosa è la religione?, Roma, 2018, p. 236 (il corsivo è dell’Autore).

[11] In questa ipotesi, religione e spiritualità è come se viaggiassero sullo stesso treno; pur avendo parti costitutive diverse, entrambe agiscono “a supporto” della ricerca di senso da parte dell’uomo. Una società, in grado di procedere per assemblaggi virtuosi tra le diverse realtà che la compongono, ne guadagnerebbe in termini di tenuta generale. Ovviamente, all’interno dei diversi contesti geografici e politico-sociali, il modello può facilmente trovare resistenze da parte delle organizzazioni religiose (o delle tradizioni spirituali) di più antico radicamento, che si vedono accomunate ad altre esperienze (non autoctone) a dispetto di una “memoria” che per loro “deve” conservare la stessa matrice.  Sul modo come le religioni storiche reagiscono di fronte al tentativo da parte dell’Unione europea di considerare tutti i sistemi di credenza equiparati dal punto di visto giuridico, mi permetto di rinviare a G. Macrì, M. Parisi, V. Tozzi, Diritto civile e religioni, Roma-Bari, 2013, p. 87.

[12] Icasticamente, L. Rossi, op. cit., p. 28, scrive: «Che fare dello straniero?» (mio il corsivo).

[13] L. Rossi, op. cit., pp. 239-240.

[14] L. Rossi, op. cit., p. 271.

[15] L. Rossi, op. cit., p. 8.

[16] Rinvio a M. Ricca, Polifemo. La cecità dello straniero, Palermo, 2011, p. 18, che ci guida a “scoprire” l’alterità e le modalità attraverso le quali si è chiamati a organizzare l’incontro con l’altro. «L’Odissea [scrive l’Autore] è una gigantesca grammatica dell’incontro con l’estraneo (…). Come una profezia, la parabola delle avventure di Ulisse potrebbe mostrarci l’esito di un relazionarsi con l’Alterità che ci fa divenire estranei a noi stessi (…). Nell’episodio di Polifemo [in particolare], narrato nel IX libro del poema, è racchiusa però la chiave narrativa di tutta l’epopea. È quello, l’antro del Ciclope, il luogo immaginario dove Omero orchestra il lato oscuro dell’essere ospite, la tragedia e il terrore dell’inaccoglienza, del trovarsi indifesi e vulnerabili in terra straniera».

[17] L. Rossi, op. cit., p. 286.

[18] L. Rossi, op. cit., pp. 58-59.

[19] L. Rossi, op. cit., p. 69.

[20] L. Rossi, op. cit., p. 71. Si rinvia, per alcuni aspetti più recenti legati al modo come Papa Francesco lavora per costruire una nuova diplomazia della pace e del dialogo a M. Ventura, Il destino della libertà religiosa, in La Lettura – “Corriere della Sera”, 1° marzo 2020, pp. 8-9.

[21] G. Zagrebelsky, Scambiarsi la veste. Stato e Chiesa al governo dell’uomo, Roma-Bari, 2010.

[22] Pensiamo ai costi dei diritti sociali, elevatissimi (e agli scarsi investimenti). La parabola della crisi economica (2008 in poi) ha assestato un duro colpo a questa peculiare categoria di diritti. Oggi, mentre scriviamo questo testo, si aggiunge l’emergenza “Coronavirus”, destinata a far ripiombare il mondo nella paura e nell’incertezza. Servirà un grande sforzo collettivo, passata l’emergenza, per riannodare i fili della solidarietà e questo momento chiamerà in gioco sicuramente le organizzazioni internazionali e gli Stati, ma pure le tante comunità religiose (a-religiose), spirituali e filosofiche ovunque sparse. Il papa, ha già puntato l’obiettivo sul futuro e non sembra affatto intenzionato ad abbandonare la presa. Con questa “caparbietà bergogliana” dovranno confrontarsi (e scendere a patti) sia gli stati, sia le strutture del potere ecclesiastico.

[23] È importante sottolineare il contributo di tante chiese e comunità religiose, cristiane e non, nel complesso spazio della società globale e multiculturale. Il fronte della solidarietà non è più “sotto il controllo” esclusivo delle organizzazioni cattoliche, ma spazia all’interno di una variegata offerta che si caratterizza per essere altamente affidabile e meritevole di gratitudine. Un contributo a questo grande afflato caritatevole è stato indubbiamente offerto dallo strumento del dialogo interreligioso. Smussando antichi pregiudizi, l’incontro, nel rispetto delle diversità, fra religioni diverse, diventa fonte di conoscenza e arricchimento reciproci, ma pure esercizio di libertà e condivisione di progetti. Mai come adesso si sente forte la spinta a cooperare tra esperienze religiose diverse.

[24] Se consideriamo il lavoro sui temi della pace, del dialogo interreligioso (citato), della solidarietà, etc., i numeri sono tali da poter dire con assoluta certezza che la partecipazione è massiccia e in molti casi decisiva. Le organizzazioni che esprimo “sul campo” l’azione politica delle istituzioni religiose si rivela fondamentale e in alcuni casi risolutiva per il ripristino della normalità oppure per la messa in cantiere di percorsi di appeasement all’interno di zone ad alto grado di conflittualità.

[25] La citazione a Tocqueville è praticamente scontata. G. Buttà, The First Liberty. Politica e religione nell’età della formazione degli Stati Uniti d’America, in M. Tedeschi (a cura di), La libertà religiosa, Tomo II, Soveria Mannelli, 2002, pp. 467-468, prendendo in prestito le parole del pensatore francese, ben rimarca che: «Fin da principio, in America, la politica e la religione si trovarono d’accordo e, in seguito, non hanno mai cessato di esserlo. [Per poi aggiungere che] i Padri Pellegrini avevano stabilito nel Nuovo Mondo un Cristianesimo (…) democratico e repubblicano che coglieva la coessenzialità, quasi la complicità, della religione con la democrazia, e l’assenza in America della resistenza delle Chiese, in particolare di quella cattolica, a quel passo grande e necessario della società umana verso la democrazia, passo preparato dai disegni stessi di Dio».

[26] L. Rossi, op. cit., p. 81, nota 124.

[27] L. Rossi, op. cit., p. 132 ss. Si tratta di un materiale – quello delle encicliche – di grande valore socio-politico perché aiuta a comprendere come, in un determinato momento storico e in particolari condizioni sociali e politiche, un pontefice decide, di concerto con la sua Curia, di affrontare un tema specifico e di “offrirlo” ai credenti e non solo. Ecco perché, proprio in ragione di questo approccio ampio e trasversale, le encicliche vanno studiate per quello che riescono a dire innanzitutto al cuore delle persone, prima ancora che ai diretti interessati. Il loro afflato “politico” è dunque inestimabile. Mi permetto di rinviare a G. Macrì, I rapporti Stato-Chiesa nell’evoluzione della forma di Stato (1848-1871), Lancusi (SA), 2000, pp. 26 ss., dove ho affrontato l’uso da parte della Chiesa delle encicliche quale arma ideologica per orientare le masse contro quelle che, nei primi anni dell’800, venivano senza mezzi termini definite “nuove eresie” (democratismo, liberalismo, comunismo, etc.). Ma parliamo, appunto, di un’altra epoca.

[28] Un metodo del genere, per funzionare, a mio parere, deve partire dal presupposto che nessuna fede (o sistema di credenze) può vantare posizioni di supremazia rispetto agli altri. E dunque, per funzionare concretamente, per essere cioè “utile” alla società e contribuire al miglioramento delle relazioni pubbliche, avrà bisogno di un perimetro civile ampio e flessibile connotato in senso laico. La laicità, allora, ritorna ad essere il fulcro dello spazio politico democratico e pluralista. Una condizione necessaria, che non richiede alcun imprimatur “esterno”, solo quello della certificazione del primato della politica.  

[29] L. Rossi, op. cit., p. 151.

[30] L. Rossi, op. cit., p. 167.

[31] L. Rossi, op. cit., p. 171.

[32] Scrive L. Rossi, op. cit., p. 173: «Come discepolo Tommaso rimane vicino nonostante la distanza delle idee, ma la crocifissione e la morte costituiscono una delusione per le sue speranze, reagisce in nome della ragione contro le pretese di una fede evidentemente credulona, che ritiene reale un fatto così distante da ogni prospettiva di umana razionalità».

[33] Mi trovo in perfetta sintonia con quanto scrive M. Ventura, Creduli e credenti. Il declino di Stato e Chiesa come questione di fede, Torino, 2014, p. 21: «La vera differenza è […] un’altra. Il credente si mette al servizio della storia, ci entra dentro per misurare i propri limiti. La storia del credente è incessante superamento di sé. Inseguimento tra il soggetto e l’oggetto, che si scoprono a vicenda. Il credulo, invece, sfrutta la storia: sta fuori di essa e ne mette in tasca i pezzi di cui ha bisogno. La storia del credulo è affermazione di sé. Ansiosa ricomposizione di un racconto che gli serve per controllare il presente. E per ergersi a protagonista del futuro».

[34] L. Rossi, op. cit., p. 176.

[35] L. Rossi, op. cit., pp. 181-182.

[36] L. Rossi, op. cit., p. 187.

[37] L. Rossi, op. cit., p. 188.

[38] L. Rossi, op. cit., p. 189.

[39] L. Rossi, op. cit., p. 198.

[40] L. Rossi, op. cit., p. 202.

[41] L. Rossi, op. cit., p. 212.

[42] L. Rossi, op. cit., p. 203.

[43] L. Rossi, op. cit., p. 224.

[44] L. Rossi, op. cit., p. 203.

[45] L. Rossi, op. cit., p. 203.

[46] Sulla scia dell’art. 11 della Cost. che prevede una sovranità cooperativa, non divisiva, al fine di favorire la costituzione di organizzazioni internazionali rivolte al perseguimento della pace.

[47] L. Rossi, op. cit., p. 225.

[48] L. Rossi, op. cit., p. 225.

[49] L. Rossi, op. cit., p. 225.

[50] Card. M. Czerny S.I. – R. Czerny, COP25: preoccupate lezioni sulla crisi del clima, in La Civiltà Cattolica, 7/21 marzo 2020, p. 460.

[51] L. Rossi, op. cit., p. 227.

[52] Così E.A. Imparato, I diritti della Natura e la visione biocentrica tra l’Ecuador e la Bolivia, in DPCE on line, 2019/4, p. 2466. Si tratta di un filone del costituzionalismo (c.d. “nuevo constitucionalismo”) sconosciuto alla scienza costituzionalistica classica (Stati Uniti ed Europa) che però inizia a trovare addentellati anche all’interno delle nuove proposte politiche ambientalistiche presenti nello scenario occidentale. Da qui la collocazione della “politica” bergogliana “a cavallo” tra Europa (Occidente) e America Latina, con importanti elementi di contaminazioni destinati a dare frutti nel prossimo futuro.

[53] L. Rossi, op. cit., p. 227.

[54] Qui è chiaro il legame con le costituzioni democratiche del mondo, all’interno delle quali, il legane funzionale tra persona umana e fratellanza, trova ampio riconoscimento. D. Fares S.I., La fratellanza nell’itinerario di Papa Francesco, in La Civiltà Cattolica, 20 luglio/3 agosto 2019, p. 129, rimarca come: «La fratellanza è il primo tema al quale ha fatto riferimento papa Francesco nel giorno della sua elezione, quando ha chinato la testa davanti alla gente e, definendo la relazione vescovo-popolo come “cammino di fratellanza”, ha espresso questo desiderio: “Preghiamo sempre per noi; l’uno per l’altro. Preghiamo per tutto il mondo, perché ci sia una grande fratellanza».

[55] L. Rossi, op. cit., p. 231.

[56] Qui il rinvio corre, tra i tanti, a J. Hickel, The divide. Guida per risolvere la disuguaglianza globale, Milano, 2018, secondo cui, per risollevare le sorti delle popolazioni povere del pianeta, bisogna agire non sulla “condizione di natura” bensì sulle dinamiche all’interno del sistema di sfruttamento economico mondiale.

[57] L. Rossi, op. cit., p. 233.

[58] L. Rossi, op. cit., p. 235.

[59] L. Rossi, op. cit., p. 237.

[60] L. Rossi, op. cit., p. 239.

[61] L. Rossi, op. cit., p. 239.

[62] L. Rossi, op. cit., p. 296.

Credere da laici: sacro e laicità nell’opera di Simone Weil

di Giulia Ceci

Finché la laicità rimane subordinata alla sovranità dello Stato è ancora incompiuta, troppo debole nel rivolgersi a cattolici, protestanti, ebrei, musulmani, «come se si trattasse di piccole frazioni territoriali del paese, come se si dicesse: «Marsigliesi, lionesi, parigini, siamo tutti francesi»

A dispetto dell’antica origine etimologica, la laicità è un concetto decisamente giovane dal punto di vista storico-filosofico, nonché ancora problematico nella sua espressione attuale. Si potrebbe dire, anzi, che quanto più il mondo contemporaneo si secolarizza e perde i suoi confini nel corrente mutamento della globalizzazione, tanto più il concetto di laicità diventa concreto.

Come mostrato da Paolo Quintili in Politica e diritti tra Europa e Maghreb. Alle origini della nozione di “laicità”[1], la laicità nasce in seno all’illuminismo, attraverso un processo di portata epocale che riesce a ricostruire le fondamenta dell’istituzione sociale sui diritti dell’uomo, passando dalla verticalità dell’autorità di ispirazione divina all’orizzontalità del vivere insieme. Tale processo culmina in quella versione della laicità che oggi si conosce come la sua primaria accezione, ossia la separazione dello Stato dalla Chiesa. Così sancisce il Décret sur la libertè des cultes, il 21 febbraio 1795[2].

Tuttavia, sebbene la laicizzazione dello Stato sia parte integrante della laicità, evidentemente quest’ultima non si esaurisce nell’estromissione della religione dalle leggi dell’apparato statale. Oggi più che mai, il concetto di laicità rilancia una domanda essenziale: citando ancora Quintili, «(…) quale spazio lasciare al senso del sacro ‒ come coscienza e sensibilità privata e individuale del divino ‒ fuori di ogni discorso o di posizione ecclesiastica istituzionale?[3]

Proprio sul senso del sacro come esperienza inalienabile dell’esistenza umana e irriducibile a qualsiasi posizione istituzionale, verte la riflessione di Simone Weil in merito allo spirito laico introdotto dai Lumi. La scarsa considerazione dell’opera illuminista da parte dell’autrice francese ha indotto più di qualcuno alla facile accusa di anti-laicismo. In realtà, come per molti altri temi, anche in questo caso il pensiero weiliano risulta piuttosto controverso. Occorre chiarire subito che il punto in discussione non è la laicità in sé, ma il suo successivo adattamento, coincidente con una svalutazione di quel sentimento religioso che pure precede la religione, cioè il bisogno pre-religioso di credere, una sensibilità al mistero del sacro che trascende la fede quanto a fedeltà a una determinata dottrina. Infatti: «La religione è stata proclamata cosa privata. Secondo le attuali abitudini mentali ciò non vuol dire che risiede nel segreto dell’anima, in quel luogo profondamente nascosto dove non penetra nemmeno la coscienza di ognuno di noi. Vuol dire che è oggetto di scelta, di opinione, di gusto, quasi di fantasia, qualcosa come la scelta di un partito politico o persino come quella di una cravatta»[4].  Ciò di cui Simone Weil non si accontenta ‒ e che, anzi, prevede ‒ è una svendita della laicità a quel relativismo un po’naïf delle collettività odierne. In altre parole, seguendo Quintili che adotta il linguaggio del semiologo e filosofo Tzvetan Todorov[5],  la terza sfera della libertà di coscienza, privata e personale, deve sfuggire al dogmatismo religioso senza cadere, per questo, in una traduzione superficiale e relativistica della laicità.

In tal senso, l’alternativa della visione weiliana si riferisce a una “civiltà mistica”, dove il termine mistico non deve trarre in inganno; esso designa una forma di spiritualità impossibile da affiliare, radicalmente estranea alla realtà naturale in tutte le sue declinazioni politiche e religiose. D’altra parte, solo in quest’ottica l’autrice francese riesce a concepire a pieno una civiltà europea. Non basta una somma di Stati sovrani: è necessario un dialogo interreligioso. La grande svolta dei Lumi, dunque, non ha centrato l’obbiettivo, laddove il suo scopo principale sarebbe stato esclusivamente quello di assicurare l’unità dello Stato nazionale. Secondo Simone Weil, essa rappresenta un’altra tappa di quel folle “rovesciamento dei mezzi nei fini” in cui può essere inquadrata la storia occidentale, ossia un relativo ‒ lo  Stato-Nazione ‒ viene fatto assurgere ad assoluto cui si deve la stessa osservanza che si dovrebbe a un obbligo incondizionale. Finché la laicità rimane subordinata alla sovranità dello Stato è ancora incompiuta, troppo debole nel rivolgersi a cattolici, protestanti, ebrei, musulmani, «come se si trattasse di piccole frazioni territoriali del paese, come se si dicesse: «Marsigliesi, lionesi, parigini, siamo tutti francesi»»[6].


[1] Nel volume Lumi sul Mediterraneo, a cura di Antonio Coratti e Antonio Cecere, pp. 97-117, Editoriale Jouvence, Milano 2019.

[2] Ivi, p. 110.

[3] Ivi, pag. 115.

[4] S. Weil, La prima radice, pag. 118, trad. it. di F. Fortini, SE Edizioni, Milano 1990.

[5] T. Todorov, Lo spirito dell’illuminismo, trad. it. di G. Lana, Garzanti, Milano 2007.

[6] S. Weil, op.cit., pag. 119.

Note a “Self Islam” di A. Bidar, éditions du Seuil, Paris, 2006

di A. Coratti

Il ruolo fondamentale sarà giocato dalla differenza, intesa come «aspirazione» e «diritto» e non più come segno di appartenenza ad altro o al medesimo

Da Eschilo a Platone, passando per Dante e Montesquieu, il rapporto tra “Oriente” e “Occidente” ha segnato la storia della letteratura europea. In epoca moderna, come evidenziato dall’intellettuale americano di origine palestinese Edward Said, avviene un fenomeno nuovo: per giustificare le proprie «imprese colonizzatrici», l’ “Occidente” inventa il «fantasma di culture arretrate»[1]. Di colpo la Storia (quella con la s maiuscola) è annientata. La culla della civiltà, la sorgente da cui i Greci e Platone stesso traevano ispirazione per fondare la base di quella che sarebbe poi diventata la “cultura occidentale” è improvvisamente accusata di essere sede di una cultura “inferiore”. Oggi è diffusa l’idea che sia in corso uno “scontro di civiltà” tra Oriente e Occidente, tra l’integralismo religioso e fondamentalista e la modernità laica e razionale.

La testimonianza del filosofo francese Abdennour Bidar risulta a questo proposito densa di significati per sfatare pregiudizi e vere e proprie allucinazioni di massa. In Self Islam, egli, nato in Francia da madre francese convertita all’Islam, ripercorre le tappe fondamentali della sua esistenza, in cui la fede in Allah convive, non senza sentimenti contrastanti e, a volte, vere e proprie contraddizioni, con la volontà di proseguire gli studi in filosofia presso la prestigiosa e laicissima École Normale di Parigi. Contraddizioni imposte dall’esterno, dagli sguardi degli altri, dalle richieste delle istituzioni, non certo all’interno di Bidar che, fin dall’infanzia, ha sentito crescere la propria fede religiosa insieme e parallelamente allo «spirito critico moderno», tipicamente e propriamente europeo[2]. Parlare di Self Islam, di una fede del tutto interiore, aderente totalmente alla propria personale storia, presuppone, infatti, l’azione purificatrice dello spirito critico europeo che si è sbarazzato «di tutto ciò che le religioni avevano accumulato di oscurantismo, superstizione e formalismo», non distruggendo, tuttavia, la «dimensione spirituale dell’esistenza»[3]. La differenza che Bidar evidenzia tra «età della religione» ed «era spirituale» ci pare fondamentale, ancor di più considerando il fatto che l’autore accusi tanto parte del mondo islamico, quanto il governo francese di confondere i due piani, non riuscendo entrambi a cogliere la complessità e le nuove opportunità aperte dal mondo globalizzato. Da una parte, il sufismo, che rappresenta l’ala mistica e ascetica dell’Islam, cui Bidar si era legato in un periodo di forte contrasto con il mondo occidentale, è accusato di non aver riconosciuto il valore spirituale della critica moderna alle religioni, restando ancorato alle sue tradizioni medievali e, soprattutto, di celare, dietro la facciata di «pacifica spiritualità», una realtà fatta di «intransigenza», «chiusura» e «sottomissione»[4].

Dall’altra parte, anche il governo francese resta imbrigliato nell’età della religione, contraddicendo gli stessi valori fondanti la propria storia rivoluzionaria: «oggi è la stessa Francia che classifica gli individui secondo il proprio gruppo etnico, religioso, culturale, come se sia necessario prima di ogni cosa considerare ognuno attraverso questa appartenenza. Come se bisogna rispettare il musulmano, l’ebreo, il Nero, l’omosessuale, prima di tutto per questa differenza. Come se si fosse musulmano, etc, prima di essere umano»[5]. Questo atteggiamento classificatorio appare anch’esso anacronistico, legato a un’epoca in cui si cercava a tutti i costi di «fabbricare unità» fondandole su principi astratti che diventavano però socialmente e politicamente rilevanti. È il caso del destino dell’Islam dopo l’11 settembre: di colpo diventato il «Grande Nemico» dell’Occidente, andando ad occupare il posto lasciato vacante dall’ex URSS dopo la caduta del muro di Berlino. Il terrorismo e l’integralismo islamico, sebbene fenomeno limitato all’interno dell’Islam, è immediatamente assunto a «minaccia suprema per l’ordine mondiale» e il suo spauracchio genera odio e sospetto, influenzando anche scelte politiche in tutte le nazioni europee come quelle relative all’annosa questione dell’integrazione di immigrati arabi, turchi, pakistani[6].

L’Occidente comincia ad interrogarsi sulla compatibilità dell’Islam con la democrazia tout court. D’altro canto, Bidar denuncia l’irrigidimento della posizione dei “musulmani europei” che, guidati dalla voce autorevole di Tariq Ramadan, rivendicano – proprio in nome del principio democratico di “libertà religiosa” – l’intangibilità dei dogmi e delle leggi del Corano. Bidar critica aspramente la contraddittorietà di questo atteggiamento che pretenderebbe di far appello a principi democratici per costringere di fatto la democrazia stessa a «tollerare l’intollerabile per essa: lo sviluppo di una religione nella sua forma più rigida e arcaica»[7]. Ciò comporterebbe inevitabilmente, secondo Bidar, la chiusura della comunità musulmana in se stessa e il tradimento della tradizione politico-filosofica della Repubblica francese secondo cui «tutti i cittadini della nazione condividono gli stessi valori»[8]. In realtà, lo «spirito del tempo» non permetterà una rinascita dell’Islam «in quanto religione», ovvero come culto di una verità eterna, unica e immutabile. È piuttosto da recuperare la dimensione spirituale dell’Islam, proclamata espressamente da alcuni passi del Corano stesso, in cui si legge, ad esempio, che «per ognuno c’è una direzione»[9]. I segni del passaggio dalla dimensione religiosa a quella spirituale sono del resto presenti – nonostante la vulgata di un Islam quasi completamente dominato da forze integraliste e dal fanatismo – all’interno degli stessi paesi islamici, anche i più retrogradi: «ovunque, più o meno velocemente, il vecchio islam autoritario, intollerante, religioso cede spazio a una cultura musulmana molto più aperta, che ha sete di libertà e uguaglianza»[10]. A questo proposito, l’autore cita, tra gli altri, l’esempio dell’India, dove «le donne reclamano la traduzione del Corano per poterlo leggere direttamente e personalmente, contro la verità imposta dai loro mariti»[11]. La questione della traduzione dei testi sacri è fondamentale per comprendere la storia dell’Islam, comparandola, ad esempio, alla storia del Cristianesimo. Come evidenziato da molti studiosi, la Riforma protestante ha segnato la nascita dello spirito critico moderno europeo[12] e una grave crisi dell’auctoritas della Chiesa di Roma, motivate entrambe anche e, soprattutto, dalla traduzione della Bibbia in tedesco. Per l’Islam, la situazione è diversa. Da sempre – afferma Bidar – le differenze notevoli nelle tradizioni culturali e negli stili di vita all’interno del mondo musulmano (che, come noto, si estende dal Marocco all’India e alla Cina), sono relegate in secondo piano rispetto all’immagine del «“vero musulmano”, del “buon musulmano”, pio credente che vive sul modello del Profeta»; gli individui non sono ancora riusciti a rivendicare il «diritto a sentirsi musulmani a partire da altri aspetti che non siano quelli strettamente religiosi»[13]. In realtà, «sotto il pretesto che il Corano sia stato rivelato in lingua araba, gli Arabi hanno esercitato un rigido imperialismo religioso sull’islam […] considerando le traduzioni del Corano come delle copie inferiori rispetto all’originale»[14]. La richiesta delle donne musulmane indiane e pakistane di far tradurre il Corano nella loro lingua per poterne leggere direttamente il contenuto ha, dunque, un significato rivoluzionario, andando a colpire direttamente al cuore tutte quelle interpretazioni del testo sacro che, nascondendosi dietro l’incomprensibilità della lingua, non hanno fatto altro che alimentare il potere e il controllo da parte del mondo arabo e, per lo più, maschile.

La proposta del Self islam passa per l’opera di traduzione dei testi sacri che consentirà la riscoperta per ognuno del proprio, personale rapporto con Allah e in questo modo la spiritualità (e non la religiosità) potrà riconciliarsi con il nostro proprio tempo, con questo «mondo divenuto così diverso, così molteplice», in cui ognuno manifesta un così forte «desiderio […] di voler esprimere la propria singolarità»[15]. Il ruolo fondamentale sarà giocato dalla differenza, intesa come «aspirazione» e «diritto» e non più come segno di appartenenza ad altro o al medesimo.


[1] E. Said, L’Orientalisme, Seuil, Paris, 1980

[2] A. Bidar, Self Islam, Seuil, Paris, 2006, p. 121

[3] Ibidem

[4] Ivi, p. 123

[5] Ivi, p. 84

[6] Ivi, p. 156

[7] Ivi, p. 157

[8] Ivi, p. 159

[9] Ivi, pp. 161-162

[10] Ivi, p. 164

[11] Ibidem

[12] Cfr. in particolare, M. Foucault, Qu’est-ce que la critique? Critique et Aufklarung, in Bulletin de la société française de philosophie, n. 2, 1990

[13] A. Bidar, op. cit., p. 35

[14] Ivi, p. 36

[15] Ivi, p. 87

Democrazia e laicità

Tra i diritti fondamentali le moderne democrazie costituzionali non includono solo quello di manifestare le proprie idee politiche, ma anche quello di professare la propria religione. Anzi, si può dire che uno dei principi basilari del moderno Stato costituzionale sia proprio quello della laicità o neutralità religiosa dello Stato, che si è affermato nella cultura europea attraverso la sanguinosa vicenda delle guerre di religione che si scatenarono dopo la Riforma, e che è ormai patrimonio di tutte le democrazie liberali.

Cittadinanza e diritti umani

Il concetto di «cittadinanza», così come lo concepiamo ai giorni nostri, è il risultato di un lungo periplo storico razionale/irrazionale: la parola «cittadino» esisteva già da molto tempo, ma fino al termine del XVIII secolo non esisteva ancora la “qualità” della cosa, vale a dire l’universalità della cosa. Sinonimo comune di questo termine, nell’epoca in cui è stato coniato, nel XVIII secolo, è nazionalità.

Laicità e società multiculturale. Brevi considerazioni sul libro di Cinzia Sciuto, Non c’è fede che tenga. Manifesto laico contro il multiculturalismo (Feltrinelli, 2018)

Il libro si struttura all’interno di un percorso argomentativo che lascia pochi dubbi su cosa conti veramente per l’Autrice, su qual è il messaggio “politico” che lei intende lanciare: per esprimere la sua soggettività la persona umana ha bisogno di uno spazio pubblico improntato ai canoni della laicità e di una narrazione progressiva e libertaria dei diritti. Questo è il ticket attorno al quale Cinzia Sciuto costruisce il suo lavoro.

Dalla cattedrale ai non-luoghi. Soggettività globali

La libertà moderna aumenta di pari passo con la creazione di nuove forme di soggettività e queste ultime tendono, sempre più e sempre meglio, a svincolarsi dalle identità “segnate” tradizionali che non permettevano – era questa la logica “cattedralistica” premoderna – di fuoriuscire dallo spazio entro la quale esse risultavano da sempre inscritte. Nel passaggio fra il moderno e l’attuale, il processo dromologico si è radicalizzato e si è dovuto confrontare con l’emergere quasi inavvertito di una nuova entità che è diventata progressivamente sempre più autonoma rispetto all’azione dagli uomini.

Laicità, Europa, Mezzogiorno, Socialismo. A partire dall’attualità di Francesco De Martino

Quando lo storico Jacques Le Goff doveva datare il “suo” Medioevo, era sempre interdetto e approssimativo sul Sud Italia: alcune delle strutture giuridico-economiche del feudo avevano allignato nel Meridione fino al XVIII secolo; il confessionismo vissuto come pratica culturale, insieme a una visione rusticamente proprietaria del latifondo, sopravviverà fino a parte del XX. Le epoche storiche non si concludono per tutti allo stesso modo e non tutte le forme di secolarizzazione maturano, evidentemente, allo stesso modo.

Nell’Italia repubblicana, allora, quasi che si dovesse scontare il peso di un’organizzazione del potere invadente e spesso socialmente poco legittimata, fare una politica riformatrice e laica al Sud Italia apparve per lungo tempo complicato. Lo è probabilmente persino adesso, ma i problemi si sono evoluti: alle volte incancreniti, alle altre alleviati. La cultura meridionale, poi, ha sempre prediletto la discussione, il confronto, la ricerca teorica perseguita come ideale; il pragmatismo venato di accenti teologici calvinisti e protestanti non è mai stato maggioritario. Ne sia prova la grande stagione dell’Illuminismo italiano: intellettuali, che erano sudditi di corone diverse e che attività diverse svolgevano nella vita di ogni giorno, si univano intorno a una nuova e comune tavola di principi; sol che a Milano essa si nutriva di pragmatismo, di interlocuzione diretta coi poteri e con la mobilitazione immediata delle ricchezze, mentre a Napoli il sistema dell’autorità e dell’intermediazione era così complesso e stratificato da non consentire posizionamenti sempre altrettanto netti.

Il politico socialista Francesco De Martino (1907-2002), oltre a essere stato grande giurista e storico del diritto, ben conosceva queste tematiche perché alla modernizzazione del Sud Italia dedicò molto della sua attività politica. Lo fece ottenendo incarichi di primo piano nel partito nazionale, smentendo perciò, tra i primissimi, quel luogo comune che voleva il Sud preda di truppe cammellate dei partiti romani. De Martino fu segretario del Partito Socialista tre volte e in tre momenti di eccezionale gravità storica. Tra il 1963 e il 1966, quando giungeva a maturazione e in breve a senescenza l’esperienza del “centrosinistra”, da intendersi come stagione espansiva dei diritti sociali, non come coalizione odierna della politica. Tra il 1969 e il 1970, quando la strategia della tensione avvampava e la dialettica interna della Sinistra riformista sembrava esasperata ed esasperante. Tra il 1972 e il 1976, quando l’agenda legislativa si intestò il riformismo, le libertà civili e i primi lineamenti del garantismo processuale che, superati a fatica gli anni di piombo, porterà solo nel 1988 al nuovo Codice della Procedura Penale, ma già nel 1975 a una Legge Penitenziaria organica. Sta di fatto che De Martino raccoglie il suo primo segretariato da Nenni, il “padre” riconosciuto del socialismo autonomista repubblicano, e conclude il suo ultimo cedendone le insegne a Craxi, che nel Partito Socialista rappresenterà apogeo e discesa, unità e frammentazione, forza di governo e crisi della governance.

Occuparsi oggi di De Martino significa riconoscere che la battaglia per la libertà di coscienza all’interno dei partiti e a favore della democraticità della loro struttura non è finita. Il mandato imperativo usato come strumento per arginare i voltagabbana sarebbe una costrizione troppo forte per chi come De Martino aveva sempre ritenuto la democrazia interna a un partito o a un movimento espressiva della qualità della vita democratica di un Paese. Colpisce, inoltre, che tante battaglie di un tempo, che De Martino combatteva sin dal suo collegio di Chiaia-Posillipo proiettandosi fino alle vette ideali del dibattito europeo, abbiano così tanti specifici contrappunti nell’attualità delle ultime ore.

Cultore del confronto tra la sinistra italiana, divisa ed eterogenea, e quella francese, tradizionalmente più organica, al punto, quest’ultima, da non avere ancora assorbito la ascesa di un discutibile figliol prodigo come Emmanuel Macron; favorevole al voto secondo coscienza nella legislazione sui diritti civili: ieri si leggeva “aborto”, “divorzio”, “riforma del diritto di famiglia”; oggi “unioni civili”, “fine vita”, “procreazione assistita”. Favorevole a una legislazione attuativa del disposto costituzionale su partiti e sindacati, ancor non pervenuta (abbiamo maliziosa certezza che il ritardo di questa auto-riforma sia a base della frantumazione, della de-sindacalizzazione e della precarizzazione del lavoro, oltre che causa dell’insorgenza di una brutta, sbrigativa, demagogica, antipolitica). E De Martino fu pure favorevole all’unità programmatica tra i cattolici del dissenso – il vasto movimento ecclesiale che voleva una Chiesa nel secolo con la libertà ribadita e difesa dal Concilio Vaticano II, non con gli stilemi del temporalismo – e la sinistra socialista. Non sorprende se oggi tante rivendicazioni a mezzo stampa del Papa, per quanto a volte poco utili nella loro genericità o non molto attente alla libertà del confronto secolare di canalizzarsi nella propria autonomia, finiscano per diventare surrogato di un’azione rivendicativa della Sinistra, che sul fronte sociale appare indebolita, meno seguita e autorevole, meno assertiva e presente.

De Martino, socialista e libertario, visse l’ampio travaglio di tutta la sinistra che non sempre condivise la vocazione governativa del PSI e quella centralistica del PCI, dal Partito d’Azione fino alla vicinanza ai Democratici di Sinistra, tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila, quando i partiti di sinistra erano maggioranza di governo negli Stati membri della UE e in poco meno di un quinquennio dissiparono il loro consenso, il loro credito e soprattutto la loro capacità di lettura del reale.

De Martino divenne senatore a vita nel 1991, nominato da un Presidente della Repubblica, Cossiga, che era stato per decenni agli antipodi del grande romanista italiano: non garantista, non ostile al temporalismo, non pacifista. La nomina fu ovviamente giustificata per gli altissimi meriti di De Martino nel campo civile, letterario e scientifico. Le maggiori opere di De Martino guidano ancora oggi gli studi romanistici tutti, non solo giuridici; si soffermano sulla “costituzione” e sulla economia romana. La storia economica è il contesto sostanziale entro cui si muovono le relazioni tra i privati. Costituzione altro non è, ci suggerisce Calamandrei, che storia della configurazione giuridica delle istituzioni di un popolo. Patrimonio laico di ogni tempo e in ogni tempo da dover rinnovare.

Diritto, religione e politica nell’arena internazionale (a cura di G. Macrì, P. Annicchino, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2017, pp. 323)

AA.VV.

Diritto, religione e politica

Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ)

2017, pp. 325, € 16,15.

 

 

 

 

 

Il volume Diritto, religione e politica nell’arena internazionale prende le mosse dagli atti di un ciclo di seminari, tenutosi nella primavera 2016 presso l’Università degli Studi di Salerno. I temi trattati riguardano problematiche diverse: i rapporti fra religione islamica e costituzionalismo, le organizzazioni religiose e la rappresentanza degli interessi particolari, le c.d. “Primavere arabe”, il rapporto fra diritto e letteratura, la questione dei diritti umani, le vecchie e nuove forme di obiezione di coscienza nel panorama giuridico italiano, etc. Si tratta di temi “caldi”, su cui la società occidentale si interroga da prospettive differenti (giuridiche, politologiche, storiche) con l’obiettivo – problematico – di elaborare strategie e proposte di risoluzione massimamente condivise. Il volume si divide in due parti: la prima raccoglie tutti i contributi di coloro che hanno partecipato al ciclo di seminari in qualità di relatori ma anche quelli degli studiosi che pure non avendo partecipato attivamente ai seminari hanno comunque voluto “contribuire alla causa” con un loro elaborato. Nella seconda, invece, si è voluto riservare uno spazio alle riflessioni di giovani laureati componenti la redazione del blog “Law&Politics for Unisa” – un esperimento culturale inserito nel contesto accademico dell’Università degli Studi di Salerno. Quasi la totalità dei contributi presenti nel volume, pur affrontando questioni diverse, presentano come denominatore comune il tema del ruolo e dell’influenza giocato dalla religione nello spazio pubblico e la tutela di quei diritti umani che ne vengono intaccati. Non manca però anche l’analisi di questioni più di “contorno” che risultano utili ad arricchire il dibattito e a fare del lavoro uno strumento capace di sviluppare una coscienza critica che tenga conto delle mutate condizioni dei tempi e che sia capace di includere, senza stabilire premesse culturali escludenti, e di utilizzare categorie valoriali aperte. Fra queste il contributo di Bilotti e Placanica, che analizza la recente giurisprudenza sulla delibazione di sentenza ecclesiastica in Italia, quello di Lorenzo Zucca che, partendo dall’analisi dell’opera di Shakespeare “Il mercante di Venezia”, propone un parallelo con la società di oggi profondamente intrisa, come allora, da crescenti contraddizioni nel rapporto tra diritto, economia e religione, il contributo di Abu Salem e Fiorita che tratta della persecuzione di natura religiosa e della conseguente protezione internazionale, il contributo di Pasquale Annicchino sul diritto di libertà religiosa negli Stati Uniti d’America, quello di Antonio Ansalone che propone un approfondimento sulla possibile convivenza fra quanto stabilito dalla Cedu e i dogmi dell’Islam fondamentalista in particolare guardando a quanto accaduto recentemente in Turchia, il contributo di Ciani e Santoro che affronta il tema dell’arbitrato internazionale, il contributo di Paola D’Acunzo sulla sussidiarietà quale strumento di solidarietà e infine quello di Raffaella Ienco sulla tratta degli esseri umani nelle dinamiche migratorie.

Ritornando al macrotema della curatela, si cercherà ora di proporre una sua breve disamina al fine di individuarne le diverse prospettive di analisi e le altrettante chiavi di lettura proposte da ogni autore. Significativamente il volume si apre con una riflessione su: “La comunità globale è una società senza sacro (le religioni fuori dallo spazio pubblico)” redatta da Antonio Cecere che analizza la “preoccupante” tensione che si è instaurata fra la società dei diritti e il riemergere di nuove comunità confessionali, che tendono a chiudersi in vincoli dogmatici e a non voler riconoscere i nuovi valori più liberali della modernità. Secondo l’autore le cause di questa “lotta” fra individuo e comunità sono due: l’avvento, da una lato, del web e dei social network – e dunque di una comunicazione fra individui più immediata – e la nuova ondata migratoria dall’altra, la quale rispetto alle precedenti si distingue proprio per la presenza del web, che se da un lato permette a questi nuovi migranti di mantenere un legame continuo con la proprio comunità e la propria cultura, allo stesso tempo impedisce, secondo l’autore, una completa integrazione con il nuovo spazio pubblico in cui si trovano, creando inevitabilmente scontri e intolleranza. Con questa nuova ondata migratoria, inoltre, si è assistito ad un “ritorno del sacro” nello spazio pubblico con tutto il suo bagaglio di violenza, e dunque ad una deprivatizzazione della religione (fenomeno a cui i paesi democratici non erano più abituati). È a questo punto, dunque, che l’autore suggerisce quale soluzione “l’espulsione delle religioni dallo spazio pubblico per confinarle definitivamente al loro posto nello spazio privato. […] [In quanto] uno spazio pubblico limitato da sensibilità soggettive sarebbe la morte stessa dell’idea di universalità e di bene pubblico”. È chiaro che per l’autore non si può avere una doppia lettura dello spazio pubblico: o si va verso una società formata da uomini mossi da medesime necessità, o si rimarrà un aggregato di individui in costante lotta per le differenti credenze e culture. Dopotutto, conclude Cecere, “la libertà di critica è il fondamento del progresso dell’umanità, perché è sempre stato dalle voci dissenzienti che è partita la marcia verso un futuro migliore”.

Sulle medesime posizioni, se pure affrontando il tema della deprivatizzazione della religione in maniera diversa, si pone lo scritto della scrivente: “Riflessioni su alcune forme di obiezione di coscienza nel panorama giuridico italiano”. In effetti, pur incentrandosi in particolare sull’analisi delle forme di obiezione di coscienza rivendicate (servizio militare, aborto) e rivendicabili (obiezione dei farmacisti alla vendita della c.d. “pillola del giorno dopo” e degli ufficiali civili alla celebrazione delle unioni civili per le coppie omosessuali), e sulle possibili ripercussioni che queste possono avere sullo stesso istituto dell’obiezione, il contributo parte dalla constatazione che è a seguito del diffondersi del fenomeno della deprivatizzazione della religione – che come abbiamo già detto si tratta di una “teoria che vede le confessioni religiose allontanarsi sempre più dalla sfera privata per immettersi in quella pubblica e nell’arena del dialogo/contrapposizione tra politica e morale e che produce gravi conseguenza sul piano del già precario equilibrio fra istanze minoritarie e maggioritarie faticosamente raggiunti nei secoli” – che si è giunti a delle vere e proprie “guerre di coscienza”, ovvero allo scontro fra istanze di coscienza e alla configurazione dello spazio politico “aperto”. A seguito della deprivatizzazione della religione, cioè, si è assistito ad un utilizzo dello strumento dell’obiezione di coscienza (di per sé non problematico) “non più invocato dalle minoranze marginali ma da soggetti (spesso a caratterizzazione religiosa) che si fanno portatori di istanze tradizionali viste come prevalenti nella società […]”. Ciò a cui si è arrivati dunque è un “sistema di obiezione di massa” che produce la paralisi di norme poste a tutela di determinati diritti, e che viene utilizzato quale mera strategia politica nelle mani di gruppi e movimenti fortemente caratterizzati in senso religioso. L’obiezione di coscienza, cioè, perde i suoi connotati costitutivi di strumento strettamente individuale a disposizione delle istanze delle minoranze. Ciò che si auspica, in conclusione, è che si riesca a garantire il bilanciamento fra tutti i diritti in gioco (sia quelli maggioritari che quelli minoritari) e che si ponga fine, come sostenuto da Rodotà, a questa “pericolosa cultura dell’obiezione di coscienza senza confini, incurante dei diritti delle altre persone”.

Un ulteriore contributo che analizza, pur se non direttamente, il tema della deprivatizzazione della religione è quello di Gianfranco Macrì, “Il ruolo delle organizzazioni religiose tra libertà della formazioni sociali, tutela del bene comune e rappresentanza degli interessi particolari (lobbying). Brevi considerazioni sul persistere di alcune discrepanze lesive della democrazia costituzionale”, allorché, trattando dell’attività di lobbying condotta dalla Chiesa cattolica, si segnala il 1985 come data a partire dalla quale la Chiesa, per il tramite dell’attività di pressione suddetta, rivede a rialzo la propria posizione nello spazio pubblico italiano. “Gli anni che vanno dal 1948 al 1984 sono quelli in cui la Chiesa darà prova evidente della sua capacità di «resistenza corporativa» per il mantenimento dei propri privilegi di fronte a una società che cambia repentinamente”. Seguono le vicende, più recenti, sulla tutela dei valori c.d. «non negoziabili» (ad esempio le “radici cristiane” in Europa) e le battaglie affrontate sui temi etici. Tale posizione, ovviamente, ha determinato una “distorsione grave al circuito della democrazia (degli interessi)”, in quanto ha provocato uno sbilanciamento dell’ago della bilancia tutto a favore di quelli che sono gli interessi della Chiesa cattolica, senza assicurare, dunque, a tutti i soggetti collettivi connotati religiosamente di poter avere le stesse possibilità. Nell’ultimo decennio, però, lo spazio pubblico è profondamente mutato, caratterizzandosi maggiormente in senso multiculturale e multireligioso. Questo cambiamento, secondo l’autore, ha provocato un cambiamento nella strategia della Chiesa, che non è più indirizzata ad inserirsi nello spazio pubblico quale attore monopolizzatore del dibattito politico, ma come soggetto desideroso di orientare al “bene” la società per il tramite dello strumento della sussidiarietà. Ciononostante, risulta necessario, come auspicato nel contributo, che in Italia si arrivi ad una legge generale sulla libertà religiosa, soprattutto al fine di garantire l’uguaglianza sostanziale tra tutte le organizzazioni religiose.

Interessante anche la prospettiva che si delinea nello scritto di Filomena Albano, “Religione e diritti umani: tra conflitto e prospettive di collaborazione”, nel quale si parte dalla constatazione che in una società sempre più multiculturale e multireligiosa, è difficile riuscire a trovare per i diritti umani la giusta collocazione nel tempo e nello spazio. In effetti, oggi la prospettiva garantista dei diritti dei singoli secondo cui si sono sviluppati i diritti umani, si trova ad essere contrapposta a forme associative della religiosità che sempre più spesso fanno ricorso all’attività di lobbying per far prevalere i propri interessi. Non solo, sempre più spesso, le religioni sono causa di conflitto in ambito istituzionale per la loro tendenza (anche qui) alla deprivatizzazione. Tuttavia, la prospettiva che l’autrice vuole mettere in risalto è che le religioni non sempre rappresentano un ostacolo per la tutela dei diritti umani. Sono diversi infatti gli esempi riportati di figure religiose che si sono prodigate per la difesa dei diritti in questione: Martin Luther King, Mahatma Gandhi, Shirin Ebadi, per citarne qualcuno. Dunque, secondo quanto la Albano auspica in conclusione, “piuttosto che fare delle religioni un elemento di separazione e conflitto, bisognerebbe avvalersene per raggiungere una maggiore integrazione ai fini del consolidamento e rafforzamento di taluni diritti”.

Nel contributo di Kristina Stoeckl, “Il ruolo della Chiesa ortodossa russa nell’ambito della dottrina dei diritti umani”, si fa riferimento, invece, all’attività posta in essere dalla Chiesa ortodossa russa (Cor) per la tutela dei suoi “valori tradizionali” in materia di diritti umani. In effetti, secondo la Cor, i diritti umani, cosi come garantiti dalla Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, nascono da una realtà storica e culturale occidentale che non è condivisa da essa. Ciò a cui la Cor si oppone, in particolare, è l’adeguamento dei diritti umani ai tempi che cambiano, ovvero a quel “processo di estensione dei diritti umani nel nome del principio della non discriminazione verso gruppi e temi precedentemente esclusi (bambini, omosessuali, minoranze religiose, ecc.)”. Per la Cor, ad esempio, la prima pronuncia sul caso Lautsi vs Italia della Cedu che obbligava lo Stato italiano a rimuovere i crocifissi dalle scuole, avrebbe confermato la presenza di una cospirazione laica europea contro la religione. Da qui il dibattito – in seno alla confederazione russa – sul modo come i “nuovi” diritti umani tendono a tutelare le minoranze a scapito delle maggioranze, meritevoli invece, secondo la Cor, di una maggiore protezione.

Quello del caso Lautsi è soltanto uno dei tanti esempi di pronunciamenti della Corte di Strasburgo in materia di simbologia religiosa negli spazi comuni, che rivela una diffusa tendenza sovranazionale verso l’innalzamento dell’asticella e l’avvicinamento verso uno standard comune per la tutela dei diritti di tutti i gruppi in gioco. Tale andamento, però, sembra aver avuto una battuta d’arresto a seguito della decisione della Cedu sul caso S.A.S. vs Francia, ben analizzato nel contributo di Marco Parisi, “La legislazione francese sul velo integrale alla prova del vivre ensemble. Riflessioni sui più recenti orientamenti della Corte di Strasburgo in tema di manifestazione pubblica dell’appartenenza religiosa”. In questa particolare sentenza, infatti – nella quale la richiedente, una ragazza di origini musulmana residente in Francia, si opponeva alla legislazione francese che proibisce di indossare in pubblico il velo integrale, invocando il suo diritto a farlo in quanto scelta coerente con la sua fede, la sua cultura e le sue personali convinzioni – la Corte, se in un primo momento aveva precisato che attraverso “il ricorso al burqa o al niqab, […] non avrebbe dovuto ritenersi violato il principio della parità di genere”, come sostenuto invece dal governo francese, in un secondo momento ha preferito cambiare “indirizzo” e appellarsi alla teoria del margine di apprezzamento riconosciuto agli Stati membri, in quanto, secondo la Corte, si tratta di una vicenda nella quale non è “individuabile un «consenso europeo» sul divieto oggetto del contendere”. Si tratta però di una dottrina, quella del margine di apprezzamento, che “se applicata con ampiezza, pur rispettosa delle specificità sociali e politiche dei singoli contesti territoriali, potrebbe minare alle fondamenta la tutela sovranazionale dei diritti umani”. Cosi facendo, dunque, lo sforzo della Cedu volto al raggiungimento di uno standard elevato e comune nella protezione dei diritti umani potrebbe essere vanificato, in quanto si legittimerebbero delle restrizioni importanti ai diritti fondamentali delle minoranze religiose pur di salvaguardare la libertà delle maggioranze cristiane. Perciò, come sostenuto in conclusione dall’autore, il compito della Cedu, “alla luce della tutela promossa dalla Carta convenzionale in favore di un determinato diritto, dovrebbe essere quello di vegliare se un atto o un comportamento espresso da un potere statale abbia leso quel diritto. […] Se le differenze nazionali rendono necessario il margine di apprezzamento, la supervisione europea condotta dalla Corte potrebbe sminuire le difficoltà incontrate dalla costruzione di standards europei, esercitando in modo corretto e imparziale la propria funzione di controllo giudiziale della condotta degli Stati membri”.

Il lavoro di Ciro Sbailò, “I diritti di Dio. Una sfida ai fondamenti epistemologici della secolarizzazione”, invece, analizza il rapporto tra Islam ed Occidente, in particolare in relazione al problema della riespansione delle questioni religiose sulla scena pubblica sia in ambito islamico che occidentale e relativamente a come il diritto europeo debba confrontarsi con le nuove istanze culturali che ne derivano. Secondo l’autore, le istanze di carattere identitario del mondo arabo-islamico si offrono quale alternativa ai modi occidentali di governare la politica e la convivenza civile. Il diritto occidentale, dal canto suo, fatica a trovare una soluzione affinché si riesca ad allestire uno spazio pubblico di inclusione che non vada ad indebolire il complesso di valori-principi cari al costituzionalismo europeo. La caratterizzazione in senso radicale della sfida islamica e i diversi orientamenti delle maggioranze di governo dei sistemi politici occidentali, hanno portato ad una polarizzazione dell’atteggiamento nei confronti della sfida suddetta: da una parte alcuni sistemi protendono verso un “riconoscimento tout court delle istanze identitarie e comunitaristiche provenienti dal mondo islamico […] in nome del pluralismo e di una tolleranza intesi in senso letterale; dall’altro lato, si assiste ad una politica di «imposizione» della democrazia costituzionale, tanto all’interno dei confini nazionali («assimilazionismo») quanto all’esterno di essi («esportazione della democrazia»)”. Ma, come sostenuto dall’autore, trattare l’Islam alla stregua di un qualsiasi fenomeno religioso e culturale diverso, fa chiudere la porta ad ogni comprensione della sua capacità innovativa e della sua forza espansiva.

Interessante è anche il contributo “«Dabiq» e «Inspire»: magazine jihadisti a confronto” di Paolo Maggiolini e Andrea Plebani, che ci porta a conoscenza delle nuove strategie di comunicazione e dei nuovi metodi di proselitismo utilizzati da quei gruppi di matrice islamica fondamentalista (Al-Qa’ida e Isis) al fine di aumentare il numero di affiliati alla causa jihadista. Si tratta, nello specifico, di due riviste jihadiste online in lingua inglese (scelta non casuale quella della lingua inglese che permette di avere un più ampio pubblico di lettori): “Inspire” e “Dabiq”. Queste due riviste, se pur presentano percorsi, obiettivi e un pubblico simile, mantengono elementi di specificità, dovute alle diverse formazioni di cui sono emanazione. “Inspire”, per esempio, è la rivista che fa capo ad Al-Qa’ida e il suo obiettivo principale “è quello di spingere i potenziali mujahiddin residenti in occidente a prendere parte alla lotta ingaggiata contro il nemico, senza abbandonare i territori nei quali sono nati, hanno vissuto e sono cresciuti”, ovvero cerca di fornire a qualsiasi musulmano ispirato il know-how operativo per eseguire attacchi all’Occidente. “Dabiq”, invece, è la rivista che fa capo al sedicente Stato islamico (IS) e che nasce con l’obiettivo di raccontare puntualmente l’avanzamento del suo progetto politico finalizzato alla creazione di un Califfato, portato avanti chiamando l’intera umma a prendervi parte ed a dirigersi verso i suoi territori, quasi fosse un manifesto di chiamata alle armi. Queste due riviste dimostrano chiaramente come questi movimenti radicali si adeguano al progredire della tecnologia, e laddove in un primo momento l’identificazione della causa jihadista avveniva per il tramite di strumenti maggiormente tradizionali, attraverso ad esempio le azioni di reti di reclutamento o di indottrinamento, oggi un ruolo sempre più rilevante è giocato dal web, che ha fornito a questi gruppi uno spazio ideale all’interno del quale diffondere il proprio messaggio e attirare sempre più proseliti.

Ad occuparsi della materia islamica nella seconda parte del volume, invece, troviamo il contributo di Giuseppe Luongo, “Che cosa ci lascia lo «Stato Islamico»”, nel quale si analizza il nesso fra la reazione del governo statunitense agli attacchi terroristici del settembre 2001 e la nascita del Califfato. In effetti, secondo Luongo, “il Califfato è figlio delle profonde mutazioni geopolitiche innescate dalla reazione statunitense agli attentati dell’11 settembre 2001 e della relativa politica di esportazione della democrazia”. In effetti quando nel 2011 gli ultimi soldati statunitensi lasciarono Baghdad, la capitale risultava divisa in due: da un parte i quartieri sciiti protetti dalla polizia, dall’altra la comunità sunnita esclusa dal potere, ed è in questa situazione che l’Isis si insinua e riesce ad ergersi a protettore dei sunniti iracheni e siriani: “il califfo, cioè, riesce a conquistare la fiducia delle tribù sunnite perché ha offerto ordine e stabilità in una regione afflitta da un costante senso di precarietà […], riuscendo a proporsi come un’alternativa credibile a governi ritenuti corrotti e usurpatori dalle tribù […]”. In conclusione, però, sebbene lo Stato Islamico stia vivendo la sua fase discendente, Luongo pone l’accento su un ulteriore fattore che potrebbe continuare a destabilizzare quella particolare regione, ovvero “lo scontro ideologico intraislamico sullo spazio da riservare alla religione nella vita politica e sociale, in cui gli estremisti continueranno a cercare di spuntarla, creando ragioni di divisioni tra chi opta per posizioni moderate al fine di fare proseliti”.

In ultimo, alcune considerazioni attorno al contributo di Luca Mezzetti, “Le primavere arabe: bilancio e prospettive”, all’interno del quale viene svolta una puntuale disamina di quelle che sono le differenti ragioni che queste hanno prodotto, interessando, in particolare, i paesi del Nord Africa e dell’area mediorientale. Si tratta di un tema che Luca Mezzetti ha analizzato in maniera approfondita in un libro intitolato “La libertà decapitata. Dalle primavere arabe al Califfato” (Editoriale Scientifica, Napoli 2016) del quale troviamo un’accurata recensione da parte di Giampiero di Plinio proprio nella curatela oggetto di questa mia breve analisi. Secondo Luca Mezzetti, per “Primavere arabe” devono intendersi tutti quegli “esperimenti di superamento dei regimi autocratici vigenti negli ordinamenti dei Paesi islamici”, e tra le ragioni giustificative che hanno dato luogo a questi “moti” bisogna fare menzione dei livelli di democrazia, della permanenza al potere dei leader, del PIL, dei tassi di disoccupazione, dei tassi di natalità e delle tensioni di natura etnica e settaria. Gli aspetti più “innovativi”, nonché comuni a tutte le “Primavere arabe”, sono da rinvenirsi principalmente nel “profilo dei rivoltosi”, ovvero giovani in prevalenza disoccupati e senza prospettive di lavoro, frustrati sia dalla mancanza di capacità e volontà dei governi di trovare soluzioni tali da correggere alla radice sistemi economici e meccanismi redistributivi sclerotizzati, che dalla comparazione (grazie al massiccio utilizzo del web e dei social network, che è il secondo aspetto innovativo di tali proteste e che hanno funto da strumenti di propagazione delle stesse) con le condizioni raggiunte dai propri omologhi in quei contesti attraversati da eventi simili. Tuttavia, il risultato sperato, ovvero il raggiungimento del successo del costituzionalismo liberale, si è rivelato solo parziale. Una delle cause di questo “fallimento” potrebbe essere attribuita alla minaccia dell’islamismo radicale, che ha rappresentato un ostacolo per la materializzazione di una evoluzione in senso democratico in questi paesi, ed anzi che in alcuni casi ha addirittura provocato una loro involuzione conservatrice. Ciò che si rileva, dunque, è che la religione islamica produce importanti condizionamenti nell’assetto costituzionale e politico soprattutto di quei paesi che hanno mostrato una tendenza a degenerare in forme di involuzione radicale. Secondo l’autore, dunque, “ai fini dell’avvio del processo di effettiva democratizzazione, sembra imprescindibile per gli ordinamenti islamici superare la frammentazione sociale […], l’organizzazione autoritaria […], le pratiche ritualiste […]. Si impone, a tal fine, una ridefinizione del ruolo dell’Islam in seno alla politica e una progressiva autonomizzazione della religione dalla politica e della politica dalla religione, che passi anche attraverso la individuazione della sharia quale fonte di riferimento, ma non quale fonte principale o esclusiva, nel sistema costituzionale delle fonti del diritto adottato dai singoli ordinamenti […]”.

Per concludere, ciò che si evince da tutti i contributi è che negli ultimi anni si è assistito ad una sempre più rilevante presenza della religione all’interno dello spazio pubblico aperto, che ha provocato nella maggior parte dei casi, a causa soprattutto dell’aumento delle istanze cui i governi si sono ritrovati a far fronte, uno sbilanciamento della tutela dei diritti a favore delle istanze maggioritarie, o per meglio dire “tradizionali”, a discapito, perciò, di quelle “marginali”. Tale condizione, fra l’altro, pare “sclerotizzarsi” ancora di più nei paesi islamici, dove la religione ha da sempre giocato un ruolo fondamentale sia nella politica che negli assetti costituzionali.

Dunque, tenendo conto che la società di oggi tende sempre di più a caratterizzarsi in senso multiculturale e multireligioso, tutti gli autori sembrano proporre una medesima soluzione alle questioni emerse, ovvero quella di raggiungere la più piena attuazione del principio del pluralismo, nonché di riuscire a realizzare un migliore bilanciamento dei diversi diritti in gioco e di riuscire a “riconfinare” la religione nello spazio che meglio le si addice, quello privato.

Milena Durante

 

La “rivoluzione dell’Islam” inizia dalle donne

di
Gianfranco Macrì

Parlare della situazione femminile nei paesi di cultura islamica significa scoperchiare un vaso all’interno del quale è possibile trovare tutto e il suo contrario. Nel senso che, al di là di molte riforme costituzionali, e non solo (alcune delle quali pure significative dal punto di vista della predisposizione di cataloghi di diritti e dei necessari strumenti per renderli giustiziabili) – non ultimo quelle introdotte a cavallo della c.d. “Primavera araba” – la condizione delle donne presenta ancora molte ombre. La stessa nascita del Califfato (2014), che si prefigge di ridisegnare la geografia e gli assetti politici in tutto il Medio Oriente, non “trascura” affatto il ruolo delle donne (che siano le ragazze della minoranza yazidi, oppure quelle appartenenti ad altre minoranze, cristiana o ebraica, ma pure le stesse donne sunnite, poco importa), tant’è che l’ONU ha fin’ora documentato il sequestro da parte dell’Isis di migliaia di donne “assaltate e violentate”, oppure costrette a prostituirsi nei bordelli gestiti dalla brigata femminile al-Khansa, un reparto formato “soprattutto da donne di nazionalità francese e britannica” [ref]M. Molinari, Il Califfato del terrore. Perché lo Stato islamico minaccia l’Occidente, Milano, 2015, pp. 110 ss.[/ref].

Di recente, ha fatto discutere la vicenda accaduta alla poetessa e giornalista libanese Joumana Haddad, notoriamente atea e laica, la quale, invitata in Bahrein a leggere le sue poesie, è stata presa di mira da parte di alcuni gruppi islamisti al grido di: “Nel Bahrein non sono benvenuti gli atei”, e dallo Sciecco Jalal al-Sharki che, durante un sermone del venerdì, la avrebbe minacciata di morte. Da qui l’impedimento ad entrare nel Paese, ordinato dal primo ministro Khalifa bin Salman Al Khalifa [ref]http://27esimaora.corriere.it/author/joumana-haddad/[/ref].

Quella delle donne che in diversi paesi musulmani si battono, come appunto Joumana Haddad, per l’uguaglianza tra uomo e donna, per la libertà sessuale, di parola, contro le discriminazioni di genere, l’omofobia etc., costituisce una questione non adeguatamente approfondita in occidente – attento più che altro a discutere di islam e democrazia, di equilibri geopolitici, di politiche per il contenimento delle migrazioni clandestine, di luoghi di culto (e poco di libertà religiosa) – e che invece, in alcuni paesi come Marocco, Tunisia, Algeria, risulta centrale nel dibattito pubblico animato da tante organizzazioni femminili (o femministe), grazie pure al ruolo di spicco di molte scrittrici, poetesse, giornaliste, agitatrici politiche. Appare allora utile svolgere alcune considerazioni su questo argomento, prediligendo gli aspetti giuridici (e le sue ricadute sociali) che la materia riveste.

Iniziamo col dire che la questione femminile interna all’Islam e ai paesi di cultura islamica, rappresenta da tempo un sistema complesso di materiali la cui narrazione – nella sua trasformazione temporale e tenuto conto delle variegate e complesse rappresentazioni e interpretazioni offerte dalle donne musulmane – occupa uno spazio meritevole della massima attenzione.

A chi studia i rapporti tra diritto, politica e fattore religioso, sono ben note le tante figure femminili da tempo impegnate su questo “fronte”, intendo dire: della puntuale urgenza a svelare una realtà complessa, come quella islamica, troppo sbrigativamente (e, a volte, colpevolmente) data per immobile, sia sotto il profilo “normativo” [ref]tenuto conto della “centralità” che il «teo-diritto» occupa all’interno di questa; cfr. S. Ferrari, Tra geo-diritti e teo-diritti. Riflessioni sulle religioni come centri transnazionali di identità , in «Quaderni di diritto e politica ecclesiastica», 1, 2007, pp. 2-14[/ref] sia della collocazione e del ruolo, appunto, che la donna vi occupa [ref]utile risulta la lettura del saggio di R. Pepicelli, Femminismo islamico. Corano, diritti, riforme, Carocci, Roma, 2010, che aiuta a dipanare le ombre che sul discorso ancora si addensano[/ref].

Si tratta di una tematica ricca di fascino, interessante per i suoi risvolti ermeneutici, e che consente di cogliere – e dunque “mettere in forma” – l’intera procedura discorsiva che l’attivismo di molte e variegate organizzazioni femminili hanno dispiegato e continuano a dispiegare nei diversi contesti pubblici, al fine di persuadere (soprattutto) quella ampia fetta di opinione pubblica occidentale (studiosi, gente comune, politici, etc.) incredula circa la capacità di giungere ad sovvertimento delle «narrazioni patriarcali sul ruolo della donna nell’Islam».

Ha preso così corpo una sensibilità, ancora tutta da consolidare e “orientare” all’interno di un discorso «interculturale» – basato sulla capacità-forza della tradizione dei diritti fondamentali di integrare le identità culturali come tali e vocato al bene comune della società pluralistica [ref]M. Ricca, Oltre Babele. Codici per una democrazia interculturale, Dedalo, Bari, 2008[/ref] – in grado di far comprendere (sia in ambito islamico che non islamico) che la donna può essere vista come il guardiano di una identità musulmana “profanata” da una ermeneutica coranica misogina e arcaica, divenuta dominante nel corso dei secoli e che invece i tanti movimenti femminili sono impegnati a proporre come aperta al negoziato, dialogante a livello sociale e, soprattutto, diretta a riprodurre nuove interpretazioni dei testi sacri.

L’azione intrapresa parte dal profondo del Corano e fa leva sulle “ammorsature” polisemiche presenti in esso, in grado di tenere ancorato, appunto, il “Testo al contesto”, la Tradizione, come «riappropriazione della memoria» (secondo l’approccio di Fatema Mernissi), alla realtà sociale vigente, in funzione della necessaria conciliabilità tra istanze di uguaglianza e religione.

Il tramite discorsivo possono essere una serie di casi oggetto di interpretazioni diverse: la questione del velo, il problema della separazione delle donne dagli uomini nei luoghi di preghiera (la moschea), la vexata questio della poligamia, la semplice recita di poesie in un qualsiasi spazio pubblico (come nel caso della nostra poetessa), etc. Ebbene, la re-interpretazione di questi ambiti importanti del diritto islamico (e non solo) ha rappresentato – a partire da quando l’azione dei movimenti femminili si è diffusa «sempre più capillarmente a livello geografico, culturale e politico», riaprendo la c.d. “porta dell’ijtihad” – uno dei contributi più significativi delle battaglie finalizzate al cambiamento, all’educazione e all’affermazione di una nuova «giustizia di genere». Si tratta, concretamente, di una lotta intrapresa da molte femministe islamiche contro leggi e istituti assolutamente patriarcali, da cui deriverebbe l’affermazione di una “Tradizione ufficiale”, valida per tutti e derivante da un’esegesi prodotta da una ristretta èlite di interpreti autolegittimatasi a parlare in nome dell’Islam contro l’affermazione dei diritti delle donne in chiave islamica.

Una lotta, dunque, intrapresa in nome di un’«altra Tradizione», di una nuova ermeneutica coranica, impegnata a leggere alla luce della realtà del XXI secolo il messaggio di liberazione insito nell’Islam delle origini, un messaggio [è stato scritto] «che è già nel Corano e nella storia della prima comunità di musulmani» [ref]Renata Pepicelli, Femminismo islamico, op. cit.[/ref].

Questo riferirsi, da parte delle donne musulmane, al Corano per sostenere i loro diritti, non deve assolutamente stupire l’osservatore occidentale, in quanto ci troviamo all’interno di contesti (quelli di cultura islamica) dove non si è venuta affermando una filosofia dei diritti umani che considera Dio “indifferente” all’organizzazione politica della società; al contrario, dove più dove meno, si registra il carattere irrecusabile e indiscutibile della trascendenza divina.

Ciò non ha tuttavia impedito a questa complessa e variegata «militanza femminista» di produrre in alcuni ambienti statuali riforme molto interessanti e significative nell’ordine dell’emancipazione femminile all’interno di società fortemente condizionate dalle scelte degli uomini. Un esempio paradigmatico è rappresentato dalla riforma, introdotta nel 2004 in Marocco, della Mudawwana, il Codice della famiglia, che, grazie all’attivismo di base e alla produzione esegetica di studiose come Mernissi e Lamrabet, ha profondamente innovato la disciplina della metà del 1957-1958, innovando in materia di uguaglianza e corresponsabilità tra coniugi, di limiti alla poligamia, in tema di divorzio. Il Codice è stato considerato a livello nazionale e internazionale un grande successo, tant’è che molte femministe di altri paesi lo stanno studiando per trovare spunti su come riformare le proprie leggi nel rispetto della religione.

Ci troviamo, allora, di fronte ad un «processo di transizione», che attraversa e va oltre la stessa “Primavera araba” [ref]C. Sbailò, Diritto pubblico dell’Islam mediterraneo. Linee evolutive degli ordinamenti nordafricani contemporanei: marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Egitto, Padova, 2015[/ref]. Tra mille contrasti, violenze, disperazione, si intravedono, in diversi contesti islamici, i segni dell’erosione di «ordini antichi» che però non sia sa quando soccomberanno e, soprattutto, “come” e cosa andrà ad instaurarsi al loro posto. Certamente tutto ciò avrà delle ricadute importanti sull’elemento giuridico che, pur non avendo nel mondo islamico una specificità propria, resta la posta in gioco principale nelle politiche sociali e culturali, mantenendo, innegabilmente, un ruolo privilegiato per la sua capacità di plasmare e ordinare la realtà.