Laicità come principio giuridico e Costituzione
1. Una riflessione sul carattere giuridico della laicità, all’interno di una società dinamica e multiculturale qual è quella italiana, richiede di essere affrontata partendo dalle coordinate di natura costituzionale che la «categoria» in esame presuppone (libertà, uguaglianza, dignità, solidarietà, autodeterminazione) in quanto, solo la “traduzione” pratica di queste pre-ferenze – funzionale alla ricerca delle soluzioni normative poste dai problemi “pratici” del pluralismo sociale (e culturale-religioso in particolare: abbigliamento, alimentazione, luoghi di culto, simboli, festività, etc.) – consente di rinvigorire lo spazio (politico) della democrazia e di alimentare, per connessione, le «capacità inclusive» sottese al valore-significato attribuito (soprattutto dalla giurisprudenza costituzionale) alla laicità italiana.
La “ricerca” della laicità passa, perciò, innanzitutto, attraverso quella «apertura del tessuto costituzionale» (artt. 11 e 117, comma 1 Cost.), cara ad alcuni padri costituenti (Calamandrei), indirizzata all’integrazione e non all’esclusione e finalizzata (in prospettiva) alla costruzione di una «Comunità [europea] dei diritti fondamentali». All’interno di quest’«ordine» costituzionale, frutto della feconda interazione tra livelli ordinamentali diversi (dal locale al sovranazionale e viceversa), gli stati sono vincolati a rimuovere dalle rispettive legislazioni tutti gli elementi con probabilità discriminatorie dal punto di vista del pluralismo culturale, dando vita a un lessico dei diritti in grado di assicurare l’allineamento tra libertà, uguaglianza e differenza. Questa “vocazione” (sempre in bilico) alla composizione – propria delle democrazie liberal-democratiche – si nutre di parole (rectius: di valori-principi), la cui caratteristica peculiare risiede nell’essere dotate di forza “circolante” (in grado, cioè, di rinvigorire costantemente il circuito democratico) e di poter essere diversamente declinate sulla base di strumenti tecnici diversi tra loro (diritto, politica, filosofia, storia, sociologia, etc.). Laicità, dunque, come «narrazione» delle virtù trasformative del costituzionalismo – di cui la convivenza tra culture diverse rappresenta la sfida ultima più poderosa – e come «antidoto» contro tutte le verità rivelate a priori. C’è, dunque, una disposizione “responsabilizzante” che la laicità impone alle istituzioni pubbliche, la cui concreta estrinsecazione sotto il profilo normativo determina e accompagna procedure finalizzate alla effettività delle garanzie poste in essere dall’ordinamento repubblicano per “assistere” «i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità» (art. 2 Cost.).
2. Il modello costituzionale italiano, dunque, non manca certo di «robusti punti di forza» in grado di “contenere” le dinamiche del «presente cosmopolita e del futuro (inevitabilmente) interculturale della democrazia». La nostra, ricordiamolo, è una Costituzione che «invita all’azione», che esorta la Repubblica (cittadini e istituzioni insieme) ad «assicurare la pace e la giustizia» (art. 11 Cost.), a conformare «l’ordinamento giuridico alle norme di diritto internazionale» (art. 10 Cost.) e a rispettare i «vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario» [meglio: “euro-unitario”] (art. 117, comma 1° Cost.). Se opportunamente resi effettivi, questi capisaldi possono rappresentare l’intelaiatura valida di una Costituzione multiculturale, in grado di governare una società aperta e di favorire la formazione di una mente «multiculturale» quale presupposto per una «convivenza civile, pacifica e costruttiva». E se concretamente “praticati” dal diritto vivente questi presupposti sono in grado di meglio delineare, arricchendolo, il profilo della «laicità in versione italiana».
Sta di fatto che nella pratica quotidiana è facile riscontrare sintomi preoccupanti di affievolimento dei valori sanciti nella Carta, a cui bisogna prestare massima attenzione, elaborando (sul piano politico prima ancora che giuridico) programmi educativi frutto dello «specchiarsi e riconoscersi nel lessico e nel galateo costituzionale» (M. Ricca). Per fare questo bisogna avere ben chiaro un progetto di spazio pubblico quale “casa di tutti” (A.C. Jemolo), quel luogo neutro del confronto tra persone e idee, continuamente disponibile ad accogliere le opzioni culturali (dunque, anche religiose) di volta in volta proposte. Stabilire, al contrario (per convenienza politica), che quello spazio «appartiene» a qualcuno o a qualcosa, significa orientarsi in chiave escludente verso i fatti nuovi emergenti nel contesto sociale, rinunciare all’analisi delle differenze, nonché sottrarsi all’obbligo costituzionale di misurare la compatibilità legale di certe pratiche, simboli, stili di vita – aprioristicamente ritenuti incompatibili (soltanto perché pigramente non condivisi) – con la nostra tavola di valori e principi.
Ri-fondare un «ethos condiviso» (E.-W. Böckenförde), in grado di costituire la rete delle regole del pluralismo sociale, significa, allora, “recuperare” il canone della laicità in una chiave non ideologica (intollerante verso le fedi religiose), bensì come «metodo» (N. Bobbio) oppure «attitudine» dei poteri pubblici a valorizzare, nel quadro ampio della legalità costituzionale, le diverse opzioni culturali e religiose senza identificarsi con alcuna di esse.
3. In quest’opera di ri-assunzione delle coordinate normative e valoriali contenute nella Carta, un apporto rilevante è stato offerto (stante la totale inerzia del legislatore ordinario) dalla Corte costituzionale la cui produzione giurisprudenziale è servita a cogliere l’evoluzione del principio della distinzione tra ambito secolare e religioso e a comprendere che: «Le leggi, la Costituzione innanzitutto, sono e devono essere considerate come diritto dello stato, frutto di discussioni e procedure democratiche, non come manifestazione immediata di un’etica religiosa» (G. Zagrebelsky).
Nella oramai storica sentenza n. 203 del 12 aprile 1989 (relatore Casavola), la Consulta ha affermato la sussistenza nell’ambito del nostro sistema costituzionale del principio supremo di laicità. In realtà, la Corte non “scopre” nulla di nuovo. Sollecitata (tardivamente!) sul tema, essa si limita a porre in chiaro ciò che in realtà risulta essere ben presente nella trama “materiale” della Costituzione. Al contrario, la politica preferisce per molto tempo ancora non spendere parole sulla parola mancante, ritardando finanche l’introduzione di una legge generale sulla libertà religiosa (da più parti auspicata ma da molti in realtà temuta) il cui fine avrebbe dovuto essere (deve essere) quello di ricondurre su un piano di uguaglianza, le libertà di pensiero e di religione degli individui e delle organizzazioni a carattere religioso o aventi patrimoni ideali comuni. Questa inerzia da parte delle istituzioni, l’incapacità di «seguire l’evoluzione dei rapporti sociali» oltre che di «preservare l’integrità dell’ordinamento», ha determinato il persistere di uno squilibrio grave tra il c.d. “sottosistema” della disciplina costituzionale del fattore religioso con l’impianto generale dei rapporti civili e sociali disegnato nella Costituzione (artt. 19, 20, 2, 3, 8 e 7 Cost.), con gravi ripercussioni rispetto al «potenziale cognitivo e creativo racchiuso nell’ideale democratico».
In siffatto quadro – sempre più squilibrato in quanto “partigianamente” interpretato secondo gli interessi delle confessioni anziché delle libertà delle persone – la Corte ha ricercato le batterie di valore che concorrono a «strutturare il principio supremo della laicità dello stato, che è uno dei profili della forma di stato delineata nella Carta costituzionale della Repubblica» (sent. n. 203/1989, punto 4 in diritto). Dire principio supremo significa attribuire a un concetto tutta la forza giuridica scaturente da un “insieme valoriale” corrispondente – in pratica tutta la parte prima della Costituzione – qualificandolo come «indispensabile» al fine della compiuta definizione della forma di stato italiana. Da qui la sua piena inderogabilità, neppure in sede di revisione costituzionale (art. 138 Cost.), oltre che prevalenza sui contenuti del sistema normativo di relazioni bilaterali tra stato e confessioni religiose (artt. 7, comma 2° e 8, comma 3° Cost.). La laicità, dunque, in quanto principio supremo, opera come medium, «attraverso il quale il mondo dei valori entra in quello giuridico e il mondo giuridico si apre ai valori»; la sua essenza materiale serve, insomma, a “tenere in vita” il diritto, fermo restando l’impegno da parte delle istituzioni repubblicane a non abbassare la guardia, a non ritenere la laicità un valore scontato.
4. Quanto al “contenuto” della laicità, la “costante” è rappresentata – e non poteva essere diversamente all’interno di un sistema costituzionale che riconosce le “ragioni” delle istituzioni politiche e di quelle religiose – dal fattore religioso (diversamente declinato nel corso del tempo), preso in considerazione alla luce, sia delle complesse dinamiche storico-politiche che hanno caratterizzato la società italiana nei decenni precedenti la pronuncia del 1989 (riforma del Concordato del 1929, evoluzione dei comportamenti sociali, avvio della “stagione delle intese” ex art. 8, comma 3 Cost., etc.), sia delle nuove basi politiche che l’Europa ha deciso di gettare con la firma del Trattato di Maastricht sull’Unione europea (1992), che segna una nuova tappa nel processo di consolidamento della democrazia, dello stato di diritto, del rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
Secondo i giudici della Consulta, la laicità: «Implica non indifferenza dello stato dinnanzi alle religioni ma garanzia dello stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale»; infatti: «L’attitudine laica dello stato-comunità […] risponde non a postulati ideologizzati e astratti di estraneità, ostilità o confessione dello stato persona, o dei suoi gruppi dirigenti, rispetto alla religione o a un particolare credo, ma si pone a servizio di concrete istanze della coscienza civile e religiosa dei cittadini» (sent. n. 203/1989, punti 4 e 7 in diritto). La Corte, come si evince da questo importante passaggio della sentenza, offre alla società e agli interpreti una nozione ampia e articolata della laicità – sicuramente non de combat (proteggere lo stato dalla religione) – sottratta a qualunque tipo di approccio “ideologico” riguardo al fenomeno religioso, in grado di valorizzare le potenzialità della democrazia pluralista (a patto, beninteso, che le si vogliano concretamente ricercare e affermare queste potenzialità: operazione non sempre attuata in ambito politico né supportata dalla giurisprudenza ordinaria e, soprattutto, amministrativa) e di contenere i contrasti inevitabili insiti nel processo di “apertura” dello spazio pubblico.
Altre sentenze (non tantissime), successive a quella del 1989, hanno contribuito a meglio definire i confini della laicità italiana. Nuovi tasselli sono stati aggiunti ma, ulteriori «aspetti importanti necessitano ancora di un chiarimento» per meglio riempire di contenuti il disegno iniziale. Il principio, dunque, resta “sotto osservazione”, soprattutto da parte di chi ha rilevato, in alcune pronunce della Corte, un certo sbilanciamento tra rilevanza dell’elemento religioso (in senso stretto) e opzioni di coscienza, con progressiva svalutazione del primo elemento a vantaggio di istanze riconducibili ai più generali processi di individualizzazione della società italiana ed europea.
5. A distanza di più di vent’anni, è indubbio che la sentenza n. 203/1989 costituisca una vera e propria «pietra miliare» per la normativa e per gli studi in materia di rapporti tra stato e religione in Italia. Intorno a essa si sono venuti compiendo passi importanti in direzione del «soddisfacimento dei […] bisogni e interessi» religiosi (sent. n. 195/1993) dei soggetti (libertà religiosa), individuali e collettivi. Come fattore sociale positivo, all’interno di un contesto pubblico finalizzato all’inclusione delle credenze, di fede e non (il pluralismo religioso e culturale di cui la sent. n. 203/1989), nonché impegnato nella lotta contro tutte le forme di discriminazione, la giurisprudenza della Corte costituzionale (ha messo e) mette a disposizione della legislazione (e prima ancora della politica) finalizzata alla promozione della religiosità umana, argomentazioni giuridiche utili a facilitare la circolazione di quei “canali normativi” (artt. 2, 3, 19 Cost.) attraverso i quali la Costituzione si presenta come «luogo di affermazione e di equilibrato bilanciamento di valori essenziali per la vita delle istituzioni e della stessa società civile». La laicità diventa, così, precondizione e strumento basilare della democrazia. Come tale essa vincola le istituzioni pubbliche a non «ricorrere a obbligazioni di ordine religioso per rafforzare l’efficacia dei propri precetti» (sent. n. 334/1996) – una laicità, dunque, nel senso di non confessionalità e quale principio di «distinzione degli ordini», secolare e religioso – a non stabilire differenze di trattamento fra confessioni religiose sulla base del solo criterio numerico e sociologico (sentt. n. 925/1988, 440/1995, 508/2000), a riconoscere la giusta rilevanza e protezione alla piena realizzazione della libertà di coscienza di ciascuna persona, i cui elementi costitutivi coprono ambiti anche diversi da quelli propri della laicità (sentt. n. 149/1995, 334/1996, 329/1997), a non operare distinzioni e disuguaglianze di trattamento tra confessioni religiose con o senza intesa (sent. n. 195/1993), facendo ricorso all’ampio ventaglio di opzioni semantiche opportunamente individuate da un costituente lungimirante ( la “forma associata” della professione di fede religiosa di cui all’art.19; le associazioni o istituzioni a carattere ecclesiastico o con fine di religione o di culto” di cui all’art.20; le “confessioni religiose” di cui all’art.8) al fine di meglio identificare le diverse “forme collettive” di religiosità.
6. Il principio di laicità necessita, allora, di una costante opera di manutenzione che significa, praticamente, agire sui punti di forza dell’impianto costituzionale da cui esso trae linfa vitale. Se da un lato, nel nostro Paese, il principio supremo di laicità non ha mai, concretamente, messo in discussione il ruolo della religione come fatto sociale rilevante né, tanto meno, quello delle confessioni religiose (Chiesa cattolica in primis) quali attori di prima grandezza nelle dinamiche del dibattito pubblico, la persistenza di alcune norme di matrice confessionista nella legislazione vigente e l’introduzione nel tempo di disposizioni normative «indifferenti» alla laicità costituiscono un fattore di potenziale «neutralizzazione del principio», che nei fatti può risultare “alleggerito”, dunque, irrilevante dal punto di vista giuridico. Da ciò scaturisce che nello stato laico, alle affermazioni di principio sulla libertà di coscienza e di religione di tutti, i poteri pubblici (legislatore, giudici, pubblica amministrazione) devono rispondere praticando la regola aurea del pluralismo, garanzia di uguaglianza e libertà (degli individui e delle formazioni sociali a carattere religioso). Ma è in una prospettiva europea, spazio ampio di maggiore garanzia e tutela dei diritti umani, che la laicità può trovare terreno fertile utile alla sua progressiva implementazione. Siamo ancora lontani dalla enucleazione di «un livello minimo apprezzabile ed effettivo di tutela della laicità» e della stessa libertà religiosa in ambito “euro-unitario” (Unione europea, Consiglio d’Europa). Inoltre, alcuni recenti pronunciamenti della Corte europea dei diritti dell’Uomo (Strasburgo) in materia di simboli religiosi nelle scuole pubbliche (dall’esposizione del crocifisso al porto del velo: Lautsi c. Italia del 18 marzo 2011; Drogu c. Francia e Kervanci c. Francia del 4 dicembre 2008) riconoscono un discreto (troppo ampio) “margine di apprezzamento” in capo ai singoli ordinamenti giuridici. Ci troviamo, perciò, di fronte a un processo il cui linguaggio (quello, appunto, dei diritti) necessita di essere maggiormente “affinato” per colmare le trincee delle identità nazionali – per andare “oltre” il «dogma della sovranità nazionale» (G. Napolitano) – modificare antichi istituti e tradizioni, mobilitare, come già detto, le virtù trasformative del costituzionalismo europeo.
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