Tag Archivio per: democrazia

LA DEMOCRAZIA DEL PERICLE DI TUCIDIDE

Dinanzi ai notissimi, mirabili e memorabili, Discorsi agli Ateniesi che Tucidide fa pronunciare a Pericle sulla Democrazia cittadina, colta in un certo tempo storico e attraverso modi originalmente determinati, è forse ancora non inutile cercar di circoscrivere, con tutte le cautele del caso e al di là di ogni più ricca e vasta precisazione, alcuni dei caratteri salienti e «generali» di un’esperienza storica, qual è quella delineata nel grande testo dell’acutissimo storico. Proverò qui di seguito a riassumere, secondo il mio parere, taluni di questi tratti, preceduti solo da due brevi avvertenze. La prima è che, per comodità, mi concentrerò soprattutto, ma non esclusivamente, sui capitoli centrali del secondo libro tucidideo (59-65); l’altra è che nell’esposizione terrò sempre presente la lezione di Machiavelli (seguirò più spesso la traduzione di Franco Ferrari). È noto come questi dioscuri, quello antico e quello «moderno», siano di frequente appaiati a formare, da soli, quasi l’intera sostanza di ciò che si dice «realismo politico» (una nozione che dovrebbe essere sempre ridiscussa). In particolare è la cultura tedesca tra la prima guerra mondiale e la nascita del nazismo – richiamo solo, con gli studi in proposito di Luciano Canfora, il libro del filologo classico Eduard Schwartz su Tucidide uscito già nel 1917 e ristampato dieci anni dopo – a soffermarsi spesso su Tucidide e, al tempo stesso, su Machiavelli, del resto in una sorta di larga e talora sofferta autobiografia, individuale e collettiva o nazionale.

                                                                                                                                         Il primo rilievo è che in Tucidide c’è scarso interesse per una definizione formale della democrazia. Non si tratta, come tutti sanno, di una carenza legata al tempo precoce in cui cade la riflessione tucididea. A smentire ciò basta ricordare che già in Erodoto (III 79 segg.) si trova un notissimo testo – su cui ora non mi soffermo – circa le tre principali forme di governo, attraverso la personificazione di altrettante figure-simbolo di cui una critica le posizioni delle altre. Dunque, questa scarsa cura circa la democrazia come forma di governo non è casuale. Significa forse allora che il discorso di Tucidide è generico e sfocato? Nessuno oserebbe dir questo, perché il grande storico antico tenta effettivamente di determinare la democrazia ateniese del suo tempo, ossessionato dalla ricerca della «verità», dall’acribeia, dalla precisione e dall’esattezza.

La definizione e delimitazione avviene piuttosto opponendo a «Noi» ateniesi gli altri, attraverso i caratteri differenziali che connotano l’esperienza di Atene rispetto ad altre pratiche politiche e umane. Eppure, non bisogna scambiare questa specificazione comparativa con una semplificazione dell’intero quadro. Accanto infatti al disinteresse di Tucidide per la democrazia in quanto specifica forma di governo, si deve ricordare che essa costituisce per il grande storico un fenomeno complesso e, per così dire, «globale», capace di abbracciare, nel gioco tra pubblico e privato, quasi per intero le attività umane. Escludere la specificità della forma politica vuol dire infatti includere, per il rimanente, pressoché tutte le altre sfere vitali, all’insegna della democrazia come modo o stile di vita. Si discute ancor oggi se la politica debba riferirsi solo al suo specifico e delimitato campo, con i contenziosi che ne derivano rispetto ad altre sfere, o se, per attingere sé stessa, convenga ricavarla da una considerazione à part entière dell’uomo e della sua storia, che tocchi anche ambiti in apparenza molto lontani dalle questioni politiche. Quest’ultimo è il caso di Tucidide, che tira in causa, per esempio, anche il modo degli ateniesi di fruire del «bello» e di dedicarsi al «sapere», di conquistare e usare le ricchezze, di seppellire e rendere onore ai caduti in guerra, e così via (II 40). La celebre attribuzione ad Atene di «maestra» della «scuola dell’Ellade» (II 41) si deve intendere come un insegnamento a tutto tondo, fondato sul proprio modo di agire.

La democrazia, insomma, più che una dottrina politica, si configura per Pericle come una forma di vita le cui parti si rinviano tra loro con ampiezza e coerenza. Si può pertanto anche dire che rilevanti sono nei discorsi fatti dire a Pericle non tanto le leggi quanto i costumi. E se proprio vogliamo evocare le leggi, saranno piuttosto gli agraphoi nomoi ricordati, come indefettibili regole consuetudinarie, nell’Orazione funebre di Pericle (II 34 sgg.), entro un dibattito che si era intensificato tra VI e V secolo. Queste leggi, che abbracciano – com’è noto dalla figura di Antigone e segnatamente dalla lettura datane da Hegel – cielo e terra, sono le più indicate a esprimere il carattere globale della democrazia di Pericle, cui nulla di umano è estraneo, nel pregnante coinvolgimento di privato e pubblico, gli ambiti entro cui la vita si dipana.

Una conseguenza di quanto si è appena detto sta nel fatto che non c’è nei Discorsi di Pericle nessuna volontà di dimostrare qualcosa, di giungere, partendo da premesse logiche, a prove e a conclusioni che vogliano essere necessarie e stringenti. L’unica forma di persuasione di cui il testo si occupi è l’esibizione, la plastica ostensione della vita che si conduce in Atene: «Noi facciamo così», ecco come noi qui ci comportiamo. C’è nella grande e ricca città una vita «facile» e libera, multiversa, dove, fuor dalla guerra, vige qualcosa come il goethiano precetto di vivi e lascia vivere: un’intrinseca mobilità e una disponibilità a sperimentare ciò che è particolare, insieme a quel che è universale, alle esperienze che, riguardando comuni sentimenti, toccano ciò che è giusto e di «buon senso». Da ciò che oggi diremmo «società civile» nascono, in ogni campo, manifestazioni di eccellenza che hanno un rilevante peso nella vita politica, trasferendosi direttamente e con fluidità dall’ambito civile alla specifica selezione operata dalla politica.

Se c’è un modello da paragonare alla democrazia di Pericle, a me pare che potrebbe essere quello che sarà costituito dall’Etica Nicomachea, con i suoi «per lo più» e i «presso a poco». Contingenza, precarietà e pienezza di vita convivono felicemente. Il cuore della questione è che solo i veri pensatori «realisti», come vengon detti, hanno capito, con la larghezza di vedute e la liberalità dei grandi (mentre i modesti perseguono irraggiungibili traguardi «monastici», accrescendo sempre più le loro vane pretese), che la Politica non è, né può essere una scienza; ed è perciò paradossale ma profondamente vero che proprio Tucidide, il maggior storico antico, con la sua acribeia e la sua preoccupazione per la  verità, si sia impegnato nel compito, solo all’apparenza limitato, di ricondurre i ragionamenti a più miti, fluide e dicibili pretese. Naturalmente c’è il problema prossimo della storia, ma qui ci vorranno i filosofi per appesantire e irrigidire questo campo, magari al coperto di imperiose e astratte «necessità», sostenibili solo in ambito filosofico o scientifico, ma capaci, per il resto, di essiccare ogni vivo senso della storia.

E tutto avviene, con Pericle, nella luce più sfavillante. È stato spesso avanzato il paragone tra Pericle e Cosimo de’ Medici il Vecchio circa l’eguale potenza politica dei due, priva in entrambi i casi di ogni riconoscimento formale nel governo. Ma che a Firenze ci fosse uso spregiudicato e ingannatore della complessa macchina burocratica da parte dei Medici è noto, mentre del tutto diverso è il nostro caso. All’origine si trovano i riconosciuti meriti di Pericle, esibiti alla luce del sole, a tutti visibili e da tutti, salvo che nei periodi di crisi, ammessi: qualcosa come una legittimazione originaria del suo «titolo» al potere. L’opera dell’egemon, del leader capace di «indicare la via», non si limita per altro a saper prendere le «buone» e «necessarie» decisioni, quasi agisse solo sulla subalternità del popolo e attraverso scelte calate dall’alto, ma altresì a illustrarne a tutti il senso e la direzione, dialogando tra uomini allo stesso titolo razionali. Come osserverà Machiavelli, acuendo la difficoltà, «sono molti i beni conosciuti da uno prudente, i quali non hanno in sé ragioni evidenti da poterli persuadere ad altrui» (Disc. I 11.11). Ma chi non fa questo, chi non illustra e spiega le proprie scelte, sta nella stessa condizione, dice Pericle, di chi non ha mai pensato alla cosa, o, peggio, di chi è ostile alla nostra città. Deriva da questo tacito patto tra eguali la feconda ambiguità del testo per la quale la parità è nello stesso tempo non servile differenza. E se voi aveste mai creduto, anche solo per un momento, dice ancora Pericle, che io possedessi «più di ogni altro» le qualità necessarie al comando, che fossi capace «più di ogni altro» di assolvere questo compito di guida, dovreste ora mantenervi fedeli a un simile vincolo.

Nel capitolo I 9 dei Discorsi, su Romolo, Machiavelli sembra affrontare in un punto la nostra questione, quando osserva che «se uno è atto a ordinare, non è la cosa ordinata per durare molto quando la rimanga sopra le spalle d’uno, ma sì bene quando la rimane alla cura di molti, e che a molti stia il mantenerla» (I 9.9-10). Perché non risponde alle nostre esigenze quest’equa spartizione dei compiti, per cui solo uno è «atto a ordinare», mentre solo i molti sono capaci di conservare a lungo la «cosa ordinata»? Perché solo uno, il grande legislatore, si deve rispondere, possiede straordinarie capacità virtuose, tali da configurare i molti del popolo, seppur atti a un importantissimo ed esclusivo compito di mantenimento, come subordinati all’azione del fondatore pleno iure, d’ incommensurabile prudenza e libertà. Anche in Tucidide si parla della differenza tra i pochi che sono in grado di dar inizio a una «Politica» e degli irresponsabili tentativi «populisti» che cercano, aprendo un’età di decadimento, di dare anche al basso popolo,  funzioni di governo. Il senso realistico di Tucidide/Pericle fa cominciare l’Archeologia, la prima parte dell’opera, dalle grandi migrazioni e dai problemi del nutrimento dei popoli (I 2), mentre è troppo disincantato per seguire l’originario mito greco dei legislatori, tanto superiori agli uomini comuni. Quel che ne deriva è una maggior eguaglianza tra gli uomini, sempre esposta a farsi egualitarismo, come condizione che imprime un peculiare carattere al dialogo tra il popolo e il suo leader. Per un certo aspetto Tucidide e il popolo sono veramente eguali, fino a quando riescono a tenere insieme, paradossalmente, eguaglianza e differenza. Le decisioni di Pericle vengono apertamente contestate, e, viceversa, il grande stratego sa parlare con durezza al suo popolo. Tucidide accetta il principio della «discussione» come un «buon» carattere proprio ed eccellente della democrazia, sebbene servendosene spesso con una costante vena pedagogica, e innescando con ciò una sofisticata strategia dialogica, dove l’intesa è raggiunta attraverso la disparità e l’asimmetria di ruoli.

Abbiamo ora alcuni elementi per cominciare a vedere quale sia nell’insieme lo speciale rapporto che lega Pericle al «suo» popolo. Che si potrebbe dire quasi un «rapporto d’amore», comprendendo in ciò anche i momenti di crisi e di ira improvvisa, d’insofferenza e di rottura, mai per altro tali, finché l’esperienza non è interamente consumata, da impedire rapidi ritorni indietro alla primitiva relazione consenziente. Ecco per esempio il punto cruciale in cui il popolo ateniese, adirato e gonfio di odio verso Pericle per le sventure e lo sconforto in cui si trova, relativo soprattutto ai rapporti tra privati, ma riguardante peraltro così il popolo con i suoi pochi mezzi come i potenti con le loro ricchezze, arrivò a imporgli una multa in denaro. Del resto anche in questi casi è singolare l’accusa del popolo a Pericle: quello di essere stato «convinto» a compiere certe scelte. Né la realtà è qui mascherata, ché l’eguaglianza dinanzi alla legge non comportava sostanziale parità di fortune e il problema era semmai se si sapeva o no combattere per liberarsi dal peso della povertà.

Senonché ben presto, come il popolo suole fare – è un punto presente e tematicamente contrastato in Machiavelli – lo rielessero stratego, affidandogli «tutti gli affari pubblici», tornando a considerare Pericle «adattissimo» per quanto concerneva i «bisogni attuali della città». Era noto che Pericle guidava con abilità e moderazione la città, che sotto la sua guida si mantenne sicura nei periodi di pace, divenendo «grandissima»; e quando scoppiò la guerra, anche in questo frangente il «primo cittadino» ne previde la gravità, e la sua preveggenza poté essere ben misurata dopo la sua morte. La questione saliente e non poco problematica era che non si sapeva fino a che punto il nostro stratego conduceva altri o se fosse a sua volta condotto. Ma, d’altra parte, non bisogna gridare subito al dolo: i facili detrattori di Pericle sembra che abbiano tutti sperimentato situazioni di purissima democrazia, del tutto trasparente e senza alcuna zona oscura.

Ci avviciniamo qui, in questa breve nota, a un punto che mi pare importante quanto difficile. In una densissima e ben conosciuta formula si legge che: «vi era così ad Atene una democrazia, ma di fatto un potere affidato al primo cittadino». Nello stesso senso si dice poco sopra che Pericle – pieno di «dignitas, di saggezza e prudenza, incorruttibile dal denaro – «dominava il popolo senza limitarne la libertà» (II 65. 8,9). L’oscurità di questo rapporto complesso, o di metafisica relazione tra il tutto maggiore dell’insieme delle parti – dove il comando di uno era la reale espressione e traduzione dell’eguaglianza dei tutti, o dei molti, il «dominio» su un popolo che non vedeva, in ciò, limitata la propria libertà – è così patente che stupisce la sua stessa formulazione, quasi ingenua. Era veramente altra cosa questa che non voler «lusingare il popolo» per fargli piacere, quasi che il potere di Pericle fosse stato conquistato con «mezzi illeciti»; o altra cosa che cercar di ricucire il rapporto dopo che si era fatto proprio il contrario di ciò che Pericle aveva suggerito: quando il leader cercava di ricostituire una positiva relazione, riconducendo il popolo al timore se era tracotante e risollevandolo invece se era depresso e abbattuto senza ragione. Naturalmente, tutte le difficoltà di un testo possono essere appianate e, in apparenza almeno, «sollecitandolo» appena un po’, risolte. Così, si potrebbe ricordare come queste affermazioni di Pericle non fossero del tutto nuove, rinvenibili in altri testi e spiegabili perciò senza eccessivi ostacoli, o, come nella citazione di II 65, 9, bisognerebbe tener in gran conto l’inizio che specifica l’esserci quasi solo a parole della democrazia e non nella realtà delle cose. Ma non mi soffermo ora su ciò, preferendo assumere le dense e concentratissime parole di Pericle come qualcosa di problematico, che tocca (o può toccare), in un coerente contesto, il fondo o l’essenza stessa del fenomeno democratico.

Che vogliono dire allora i due passi di Tucidide sopra riportati? La prima impressione è quasi del tutto scoraggiante. Cosa vorrà dire che ad Atene vi era sì una democrazia, ma che di fatto governava un potere affidato al primo cittadino? o, ancor più, che Pericle «dominava il popolo senza limitarne la libertà (II 65.8,9)? Se la prima sentenza può ancora far pensare che nella democrazia ateniese vi fosse una funzione e un titolare che detenevano una sorta di potere esecutivo, il ragionamento è comprensibile: si tratterà solo di sottrarre al testo l’impressione che il primo corno del periodo contenga solo una mistificante apparenza di potere egualitario per tutti, più o meno sorretto da vane parole, ossia che la democrazia non fosse nelle cose, mentre «in realtà» il potere era detenuto tutto da un princeps, da un «primo cittadino». Tuttavia non è così: per Tucidide come c’è una reale autorità singolare di Pericle, così c’è parimenti un effettivo potere del popolo, com’è detto esplicitamente quando si ricordano decisioni prese in comune da entrambi i «contraenti»: «assieme a me decideste la guerra» (I 64.1).

Questo del comando è un potere in molti sensi «costoso» da cui tuttavia, avendone goduto i vantaggi, non si può recedere, quasi fosse divenuto un fatale destino. Certo, il comando procura molte inimicizie e non pochi fastidi, che devono però essere accettati per fierezza e fedeltà alla propria storia; e solo per infiacchimento morale, per ignavia, qualche anima bella vorrebbe ora, da «uomo onesto», sopprimere tutto il male che è connesso alla grande responsabilità di avere un Impero. Ma il punto è qui che sarebbe ridicolo pensare per Tucidide una sorta di costituzionalismo di poteri limitati, mentre in realtà pare che il problema sia piuttosto costituito dall’aggregazione delle funzioni, dal fatto cioè che esse idealmente, come per sommatoria, agiscano insieme, e si integrino contribuendo a definire un potere unitario. Ma com’è possibile allora che tutti abbiano un pari potere?

            È nell’altra citazione che il discorso diventa esplicitamente ossimorico. In che senso si potrebbe dire infatti che è possibile «dominare il popolo senza limitarne la libertà»? Che libertà, e per di più intatta, è quella di un popolo su cui si eserciti «dominio»? Si scartino anzitutto soluzioni più facili: non si tratta di una forma di servitù volontaria, né di un mero condizionamento per ragioni tradizionali. Ma già infine più complesso è un rapporto in cui Pericle fornirebbe scelte elaborate, comprensibili contenuti, indicazioni e strumenti per la pratica della democrazia, che poi il popolo vota: una consulenza esterna da sottomettere sempre, come accade in Rousseau, alla «volontà popolare», ma che potrebbe avvenire persino in un moderno partito politico che svolga alcune delle stesse funzioni dello straordinario condottiero ateniese. Pure s’avverte subito che qui la relazione si avvia a essere troppo strutturata e rigida, mancando i tratti del rapporto in cui leader e popolo prendono «insieme» le stesse decisioni, per cui il «dominio» è semmai di tutti su tutti, la limitazione divenendo essa stessa condizione di libertà, di tutta la possibile libertà.

            Questo costituisce il mysterium fidei della democrazia, entro un’aura quasi rousseauviana: là dove si pensi di dominare, non empiricamente, il popolo, là si riafferma la sua (possibile) libertà. Come in ogni buon atto linguistico, i messaggi scorrono da entrambe le parti. Gli Ateniesi, con la propria terra per la seconda volta devastata e l’infuriar della peste, mutato parere, si «misero ad accusare Pericle come colpevole di averli persuasi a fare la guerra» – al popolo non sfuggono le sue responsabilità – donde il seguito di un cumulo di sventure (II 59.1). La totalità non è mera somma delle parti: la città se è tutta prospera è più che la somma di benessere dei suoi cittadini. La limitazione di potere fa parte essa stessa della libertà, concerne una relazione in cui non si sa chi conduce e chi è condotto. L’alternativa sarebbe, in sostituzione di una «vera» politica, quale quella che Pericle dichiara di praticare, una sorta di inesausta e piatta o quantitativa affermazione di tipo liberale. Ma nel cuore e nell’enigma della democrazia lavorava ben altra complessità.

            Il problema del rapporto tra i protagonisti di questa sorta di dialogo di cui abbiamo parlato, dove tutti, anche il condottiero, hanno da imparare qualcosa dall’altro, era quello di cercar di farsi uno, essendo in realtà due. Poiché l’impero era (ed è tale) quando ai suoi utili, pur nelle immancabili differenze quantitative, partecipano tutti i cittadini, come ricondotti a formare un singolo soggetto che sfrutta le innumerevoli occasioni di arricchimento e di potere, era facile trovar l’incontro su questa base. Senza toccar ora il complesso problema se, e in che misura, l’Impero comportasse una dimensione propriamente capitalistica, come riteneva Mommsen, o se si limitasse, come è probabile in Tucidide, solo al possesso e all’accumulo di ricchezze (ancora per Polibio sono notevoli a questo proposito gli studi di Domenico Musti), è necessario tener conto di una caratteristica circostanza. Ed è l’innovazione del «soldo» concesso, su istanza di Pericle, a tutti i cittadini che partecipassero alle Assemblee o ad altre funzioni pubbliche. Questi segni del benessere e della volontà di espandere la democrazia costituivano pur sempre la base per una maggiore intesa: qui il consenso, in qualche modo favorito «istituzionalmente», non poteva mancare. Ma quando i «vantaggi», come si dice nel testo, erano «lontani», mentre vicinissime stavano le sofferenze e i disagi, la sostanziale diversità di opinione fino all’aperta ostilità tra Pericle e il popolo non poteva che farsi aperta e stridente. Lo stesso Impero era non solo fonte di molte favorevoli occasioni, ma costituiva altresì un costo, un sacrificio che si doveva calcolare e che veniva pagato per esempio dai più duri vincoli cui, come ricordano i classici, erano costrette le città dominate da una repubblica popolare. A tal proposito Tucidide forniva sia il sostegno dell’illustrazione dei vantaggi, come quello di essere gli Ateniesi signori imbattibili del mare, sia il severo ammonimento che dall’Impero non si poteva ormai più recedere, che coraggiosamente, da esprits forts, bisognava mantenerlo, rinunciando alle facili e pure dissociazioni.

Nessuno meglio del grande stratego ateniese, sapeva, come sarà pensiero costante di Machiavelli, che tutte le cose umane sono destinate alla morte: le difficoltà di detenere il potere a due, il popolo e il suo leader, era tanto vessillo di gloria, tanto indizio di prossimo disfacimento. Accumulando il loro peso, i contrassegni di crisi si ponevano come cause del declino e della fine, forse provvidenzialmente in parte oscurate e nascoste dagli ultimi eventi. La peste, che colpì lo stesso Tucidide, e da un certo tempo in poi fa da sfondo al nostro quadro storico, raffigurata com’è tra la freddezza di un referto medico e una raffinata arte narrativa (II 48-54), esprimeva nella maniera più evidente il clima di decomposizione che si manifestava da tutti i lati nella società.

Il testo di Tucidide comunica una sorta di ineluttabilità ai fatti, che si susseguono in maniera serrata, ma suggerisce pure, magari in controluce, che nella comune tendenza all’accumulo di potere e nella necessità del dominio, vi possono essere molte forme di Impero. Un’ultima parola la dedicherò a questo problema, che abbiamo già in altra forma incontrato, come governo di due o a due. Questa è la configurazione propria a Machiavelli, ed è costituita dalle due «classi», nobiltà e plebe, diverse e conflittuali, ma anche solidali tra loro, alla fine, per giungere a leggi «in favore della libertà». Sembrerebbe, astrattamente, una situazione difficile per la formazione e il mantenimento di un impero, ma in realtà una situazione «pluriclasse» e non «monoclasse» è comune, e si direbbe persimo «propizia», a una realtà imperiale: dall’antica repubblica romana all’Impero britannico. Non c’è rischio qui che le forme che fondano e sostengono la democrazia, finiscano anche per ucciderla, tanto forte è l’humus prima sociale e poi politico delle «inimicizie» tra le due grandi classi. Anche Tucidide, come Machiavelli (al fondo dei suoi pensieri) prevede una costituzione mista ma, contro la costituzione o governo misto che riposavano su tre momenti, di due soli termini, aristocratico e popolare. Come osservò Carl Schmitt, se il tre del governo misto è una sorta di pacifico numero sacro, il due è invece espressione di aspra e irriducibile conflittualità.

Nascere dal polemos vuol dire mantenere, sotto l’equilibrio garantito da ultimo dal Senato, sia conflitto che, prima della crisi finale, superamento delle lotte sociali e politiche, a condizione che nessuna classe cerchi di annientare l’altra, nessuna stravinca in un conflitto sempre rinnovantesi. Il popolo di Roma riuscì per Machiavelli a costruire, attraverso l’emersione della plebe e il conflitto con il patriziato, un immane Impero, in sostanza esempio inarrivabile, che durò molti secoli, e che dovrebbe sempre costituire, in stretta continuità temporale, un termine di paragone ex post per l’Impero greco di Tucidide: una synkrisis ricca, come al solito, di molti insegnamenti e molte sorprese. La varia natura degli Imperi, di questa antichissima forma di potere che non accenna a veder consumato il suo ruolo (anzi!), rappresenta sia una ricchezza storica che una guida politica. Se proprio, come tutto sembra indicare, non si può fare a meno di imperi, che almeno non ce ne capitino le forme più maligne. E le più malvagie sono quelle dove più sia richiesto e persino imposto ai «cittadini» l’«allineamento», in forme umilianti, dove non vi siano varchi di aria liberale che possano aprirsi.

Da ogni parte c’è da imparare e per mio conto, vicino agli imperialismi di Tucidide, comincerei col tener conto della maggior liberalità e del buon uso dell’impero che, da un certo punto di vista, era a Roma più di quanto non fosse in Atene (come più volte argomentò la storica del diritto antico Eva Cantarella). Tacito racconta a proposito della proposta di Claudio, appena imperatore, di concedere ad alcuni Galli la possibilità di diventare senatori o magistrati. Alla prevedibile opposizione dei nobili senatori, toccati nel già ridotto potere, l’imperatore rispose con un mirabile discorso di apertura, secondo il costume romano, delle cariche da tempo concesse a tutti, anche ai «figli dei nostri schiavi». Già i miti di fondazione di Roma (a cominciare dal matrimonio del migrante Enea con la figlia del re laziale e dall’asilum di Romolo), testimoniavano ciò, e quindi mostravano la capacità di trattare «nello stesso giorno, e con gli stessi popoli, ora da nemici e ora da cittadini». È questa una singolare apertura, di contro alla feroce autoctonia di Atene, nata dal seme di Efesto, che non voleva in alcun modo esser «contaminata». Basti solo pensare qui alla politica ateniese verso i meteci, numerosissimi e «produttivi» commercianti per lo più, che avevano possibilità di essere «accolti» nella città solo a condizioni iugulatorie, che prevedevano l’iscrizione di essi in un apposito registro, sotto condizione altrimenti di pesantissime pene. Un cittadino doveva garantire per il meteco, che pagava una speciale tassa, la sua uccisione valeva poco e la sua testimonianza veniva presa solo sotto tortura, come si faceva con gli schiavi. A Roma, al contrario, da sempre luogo di commistioni e integrazione, di apertura etnica e sociale, gli schiavi, diversamente dai meteci, acquistavano con la libertà anche la cittadinanza, pronti ad adottare dai vicini (si pensi solo all’orgogliosa e discrepante affermazione degli ateniesi per cui nulla essi avevano da imparare, essendo solo «modelli») i migliori costumi e le migliori leggi. Con la sua saggezza ed esperienza (oltre che con la sua passione) Machiavelli riterrà del tutto improponibile, sotto ogni aspetto, il paragone tra il modo esemplare di fare «imperio» di Roma e quello «al tutto inutile» di Spartani e Ateniesi (II 4.11-12).

Il mio Congresso mondiale di Filosofia: riflessioni dopo l’articolo di Marcello Veneziani

di Ivana Zuccarello

Non è stata una passeggiata partecipare al XXV Congresso mondiale di Filosofia a Roma dal 1 all’8 agosto sia in termini di organizzazione, sia di impegno fisico, di concentrazione, di forza di volontà e dedizione richiesti.

Ha ragione Veneziani, – e con lui molti altri -, a denunciare i disagi dovuti alla canicola romana, ai cantieri aperti con ricadute significative sul sistema trasporti, all’immondizia non ritirata, e perché non citare un grande classico, la presenza molesta dei gabbiani (ne ho visti almeno un paio stazionare fieri sulle aiuole della Sapienza)?

Di certo, un Congresso mondiale organizzato a Roma ad agosto non sembrava affatto un’idea felice, eppure vorrei raccontarvi perché ne è valsa la pena.

Ogni giorno alla Sapienza, dalle ore 9.00 alle ore 19.00, per una settimana, abbiamo avuto la possibilità di assistere e partecipare a lezioni, simposi, tavole rotonde sui più svariati temi del dibattito contemporaneo, accademico e non.

Fin dalla registrazione sono rimasta colpita dalla copiosa presenza di cinesi, giapponesi, americani, africani, indiani, forse più numerosi rispetto agli europei (ma potrebbe semplicemente trattarsi di un bias cognitivo) che già da sola bastava a comunicare l’idea di una filosofia senza confini, e perché no, “senza frontiere”. Tuttavia, è probabile che poi i cinesi siano rimasti a fare scuola fra loro e che raramente abbiano davvero interagito con gli altri.

L’interazione multietnica nel suo senso più profondo forse è mancata, eludendo, fatta eccezione per le lezioni plenarie al rettorato, dove la traduzione simultanea aiutava a superare le barriere linguistiche, la vocazione globale annunciata dal tema congressuale. Soprattutto nelle aule più periferiche del campus, infatti, in cui ci si ritrovava a discutere di micro temi o di prassi filosofiche e didattiche, -sicché più che al congresso mondiale di filosofia sembrava di stare, a volte, partecipando a un corso di aggiornamento scolastico, – era raro imbattersi in esponenti più o meno illustri delle periferie del mondo.

Il punto di debolezza del congresso, però, stando all’articolo pubblicato il 3 agosto su La Verità (forse dovremmo chiederci se intesa come epistème o come alétheia prima di andare avanti), vale a dire l’evidente assenza di grandi nomi della filosofia mondiale, ritengo sia stato, invece, proprio la cifra di fruibilità e quindi di riuscita dell’evento. Studenti, insegnanti, professori universitari, e soprattutto giovani ricercatori, vero carburante del sistema e del dibattito accademico, hanno potuto trovare uno spazio, presentare i loro papers e discuterne pubblicamente, laddove tutti noi sappiamo quanto certi spazi siano, al contrario, normalmente già occupati.

E se ho molto apprezzato la lezione sull’I.A. del prof. Mario De Caro, ascoltare Paolo D’Angelo interrogarsi sul rapporto tra ambiente e paesaggio, e ancora gli interventi della filosofa algerina Malika Bendouda sul potere delle donne in un mondo sostenibile, di Kristie Dotson sul femminismo afroamericano, sono stata soprattutto felice di aver partecipato alla tavola rotonda sull’insegnare filosofia oggi coordinata da Marco Ferrari,  di aver discusso di politica ed educazione civica col prof. e collega Andrea Suggi, di aver conosciuto il collettivo del CRIF e la loro philosophy for children e, infine,  di aver ritrovato persone amiche al topic sulle pratiche filosofiche.

Chi ha criticato l’evento, infatti, ha trascurato, a mio avviso, il punto di forza, vale a dire la riuscita democratica del congresso: le voci di chi conta (poco o tanto in un momento di così alta popolarità della filosofia che importa!) mescolarsi in mezzo a tutte le altre, occhi che si guardano negli occhi aldilà delle cattedre, mani che si stringono fuori dalle aule, cartellini al collo senza titoli né gradi di onorificenza.

Forse senza, oltre, o attraverso i confini, ricordo che il tema scelto era “Philosophy across boundaries”, significa anche e innanzitutto questo: abbattere le gerarchie imperialistiche del pensiero e ritornare a discutere insieme facendo precedere l’ascolto alla parola.

Infine, se anche gli appuntamenti serali promossi e aperti alla cittadinanza sapevano più di estate romana che di cenacolo ad Heidelberg che male c’è? Portare la filosofia nelle strade, trasformarla in evento artistico, non è forse offrire un’alternativa al degradante spettacolo che sempre più spesso investe i luoghi storici delle nostre città profanati da kermesse di dubbio gusto?

Se qualcosa di sostanziale, invece, secondo me, è mancato e continua a mancare nel dibattito, filosofico ma non solo, quella è la dimensione puramente politica dello stesso: vale a dire un confronto autentico tra paradigmi ideologico-culturali che ridiscutano dell’idea stessa di confine e non solo delle modalità scelte per oltrepassarlo. “Per il vero filosofo, si sa, ogni terreno è patria” diceva Giordano Bruno, ma che cosa si voglia fare della “patria” sarebbe, forse, il caso di ricominciare a chiederselo e di interrogarsi sulla questione a partire dalla Scuola, vera frontiera dell’esercizio filosofico, terreno di militanza e diserzione, ricettacolo di norme e prassi non allineate, ma ancora e sempre prima bottega di formazione. Il resto, le biblioteche e gli studioli medievali andrebbero lasciati entro il limite di chi ancora crede cha la Filosofia si declini al singolare, vieppiù pensando che chi la insegna ai giovani debba limitarsi a raccontare la sua Storia.

Ivana Zuccarello

 

Riposta alla risposta di Giorgio Cesarale al mio Illuminismo su «Astérisque»

Può darsi che nel mio scritto sull’Illuminismo vi sia qualche frettolosità e qualche semplificazione circa il punto che Giorgio Cesarale – nel Commento al mio articolo Illuminismo, «Astérisque», I 1, pp. 27-38, 39-46 – più mi rimprovera: la mia polemica contro l’idea di totalità, dell’intero e le sue conseguenze. Intanto sgombererei il campo dalla previa connessione della totalità con il misticismo. Non che il nesso non vi sia, ma il mistico si dice in molti modi, alcuni dei quali sembrano persino inseparabili dal filosofare e dalla comune esperienza. Se affermo che sono e mi sento parte di un più vasto organismo, al limite dell’intero genere umano, che condiziona il mio modo di pensare e a cui interamente mi rimetto, non si vede perché questa posizione dovrebbe essere censurata. Semmai il problema nasce qui dall’interno, quando hegelianamente comincia a presentarsi nella storia un’individualità che, al modo di Antigone, esorbiti, mettendola in crisi, da una comunità fino ad allora «totalitaria». Ma questo apre, come si vede, un altro problema: dove mai lo holon sociale potrebbe essere detto senza l’interna determinazione delle soggettività? La totalità dovrebbe essere allora costituita dall’insieme, dai singoli e dalle loro relazioni. Solo che in questo modo ci incamminiamo lungo una totalità composta di parti che nell’atto stesso nega ciò che qui c’interessa: un insieme che riduca a sé tutte le interne determinazioni e differenze, dove le soggettività e le «cose» non oppongano nessuna resistenza al loro assorbimento nel tutto, nessun ostacolo all’immane potenza unificante dell’intero. Parmenide esplicitamente esclude che l’intero dello sfero possa mai esser composto di parti, ciò che implicherebbe anzitutto la discontinuità di spazio e di tempo, la presenza di determinazioni. Ma, di contro, ogni volta che una determinazione e una differenza trovano posto, che il pensare-dire sia agito dal tronco aristotelico, nominando alcunchè è negata la forza esclusiva dell’intero, la totalità come reale dominio della conoscenza. Possiamo per queste ragioni tralasciare ora una piena presa d’atto del problema del misticismo, che o è un altro modo di dire la totalità o si risolve in vario modo nell’esperienza comune del gioco tra un intero e le sue parti.

         Ma venendo ora propriamente alla «totalità», si può dire tanto che è una costante tensione, in certo modo ineliminabile dal pensiero, tanto che è un «luogo» dove il pensiero rischia di perdersi interamente, trovando un’annihilatio proprio al termine delle sue più alte prestazioni, una riconduzione a quell’oscurità da cui ci si è faticosamente distaccati. Ora, perché l’intero è legato a quelle determinazioni che pur fondano l’essenza del pensare? Un primo motivo, vien fatto di dire, è che le stesse determinazioni, nonché imporre la loro presenza, vengono, in una prospettiva dualistica, «costruite» o guadagnate, separate dalla (costruita) «totalità» che in qualche modo pur ci costituisce, attraverso le relazioni e le scissioni che affettano, a cominciare dalla corporeità e dall’affettività, la nostra soggettività. Il puro pensare deve, fino a un certo punto, liberarsi da questo peso dell’intero, non al punto però da non ritrovare nel suo cammino l’esigenza e la periodica verifica, anzitutto, di quell’insieme di mente-corpo, di cui si può fare epochè ai fini del pensare (fino a un certo punto, ripetiamo), ma che non si può mai presumere di vanificare del tutto. Anche le più trite e discutibili definizioni dell’uomo come zoon politicon, animal sociale et politicum esprimono a loro modo un «insieme», la cui traccia non si può mai lasciar cadere. Per questo aspetto dunque si deve dire che «l’intero» ci abita e che con esso, dentro di esso, lavoriamo, depurandolo e isolandolo per raggiungere la distinta chiarezza (quasi un innesto di Freud in Cartesio) delle determinazioni. Ci sono infinite cose nell’uomo e nell’atto del pensare che, oscuramente giacenti sempre al fondo dei nostri pensieri, possono talvolta ricomparire con forza all’interno e dentro la semplice e netta riflessione, una «totalità» che va ogni volta controllata e dominata, e semmai fatta giocare con la parzialità e la finitezza.

      Dal lato della conoscenza, a parte obiecti, la totalità si presenta per il fatto che la determinazione, come pensare-agire, sposta sempre in avanti il suo limite, quasi un orizzonte che appena raggiunto presenta subito, in un mondo sferico, un’ulteriore meta. Il senso dell’oltre, la dimensione umana che è al tempo stesso, come in Ulisse, segnata dalla fondamentale finitezza, ma anche dall’apertura all’infinita «totalità», fa sì che la tensione all’intero, mai del tutto debellabile, e anzi essendo anche produttiva, deve essere ricondotta e ricomposta ogni volta dalle ragioni del finito, dall’imprescindibile orizzonte di ogni conoscenza. Se  mai l’idea della totalità si attuasse per intero, prendendo corpo e dominio, risolverebbe in sé, dissolvendola, ogni soggettività, ogni pensiero e ogni teoria critica; ma al tempo stesso una «totalità» parziale, ristretta (e capricciosa), per servirsi di questi ossimori, sembra sempre aggirarsi, certo per essere fondamentalmente dominata, nelle nostre esperienze, ma anche talvolta per far da lievito, una volta ricondotta alla dimensione del finito, alle nostre più alte e significative pratiche. Lo sforzo della determinazione comporta anche costi, persino alti, di introspettiva autolimitazione, di sacrificio, sebbene ineliminabile perché si dia la sua produttività.

      Diverso è il caso di quanti problemi una determinazione abbracci, e nel tempo, o fin dove s’estenda la sua rete. Qui vi è certo differenza tra le determinazioni, a volte circoscritte e a volta di larga portata, intensive ed extensive. Non si vorrà negare questa differenza, né l’invito a non abbandonare il terreno dei grandi problemi o, come si dice con qualche sdegno delle grandi «narrazioni», per affidarsi solo a quei piccoli interventi che popperianamente si dicevano «a spizzico», o   alla «metafisica del potere», alle lotte sempre «circoscritte e locali» di Foucault, dopo l’abbandono, stimato necessario, dei «progetti globali e radicali». Ché altrimenti – come giustamente osserva Giorgio Cesarale – rinunciando a ogni più ambiziosa tensione critica, ci lasceremmo «determinare da strutture più generali di cui rischiamo di non avere né la consapevolezza, né la padronanza». Ma allora il caso consiste veramente nell’affrontare e riformulare la problematica drammaticamente difficile della totalità». proprio in questo caso si deve badare, come più facile deviazione, che i problemi più larghi e comprensivi slittino, proprio per questo, in un non ammissibile esito di «totalità».

S’innesta proprio qui, intorno alla discussione sul «difficile problema della totalità» la recensione-discussione di Giorgio Cesarale al mio articolo, fatto di apprezzamenti e critiche. Di ciò dirò solo poche parole, sia perché ognuno può leggerlo e giudicarlo da sé, sia perché la discussione sarebbe piuttosto tecnica e complessa, sia infine perché dovrebbe avvenire in absentia di Giorgio. In breve, la parte in cui siamo discordanti, come si legge nella conclusione dell’intervento di Giorgio, riguarda l’inizio del nostro filosofare, il «cominciamento» della stessa filosofia o scienza, come accade in apertura della grande Logica di Hegel. Giorgio ritiene che la filosofia giunga a verità e forza critica solo quando cominci e si mantenga nell’orizzonte dell’assoluto. Questo vuol dire che dalla filosofia debba essere esclusa ogni considerazione empirica o pragmatica, come sarebbe la dualità di essere e pensare, di io e mondo; e ciò potrebbe avvenire, come nel radicale idealismo della filosofia classica tedesca, solo se è il pensiero che pone a sé il suo stesso oggetto, scoprendosi non si sa come «essere» o anche «creatore del mondo», in concorrenza col Dio specificamente cristiano, non demiurgo ma creator ex nihilo. Questa identità parmenidea tra pensare ed essere, noein kai einai, dovrebbe ritrovare al suo interno (dedurre/causare) determinazioni e differenze, l’intera ricchezza del mondo, pur in una totalità priva di condizioni e con risultati che appaiono sempre «posti». Da parte mia ritengo invece che la filosofia può e debba nascere, più o meno in senso kantiano, solo dall’empirico e dal finito, da un dualismo originario, seppur subito rinvenibile nelle attività stesse del soggetto. Il risultato di questo così diverso inizio del filosofare è sconcertante, perché entrambi ci rimproveriamo, da due angoli diversi, la stessa cosa. Io dico che una prospettiva come quella di Giorgio che muova da una totalità che attraverso la totalità pervenga alla totalità non riuscirà mai a incontrare ed elaborare determinazioni e vita «reale»; Giorgio a sua volta mi rimprovera che sono io a non incontrare mai reali determinazioni, perché, essendo la mia prospettiva interamente empirica, le pretese determinazioni, innovazioni e differenze ripeterebbero – ma allora facendo intervenire il non congruente uso del trascendentale – senza alcuna consistenza, sempre e all’infinito, una sostanziale identità. Ora questa «bizzaria» non è suscettibile di ulteriori svolgimenti: monismo ontologico e dualismo sono entrambi presupposti infondati e infondabili, privi di dimostrazione. Forse – è la mia convinzione – è meglio abbandonare del tutto questo terreno di «filosofia prima», occupandoci di illuminismo militante e della mondana «filosofia» che esso di volta in volta genera.

Servirsi di un kantiano «pensare largo», ma al tempo stesso non rinunciando alla forza che proprio le determinazioni conferiscono alla nostra azione teorica e pratica, è il grande compito che la riflessione (in senso kantiano) deve oggi affrontare, cercando di ricondurre a ciò anche imponenti filosofie che abbiano passato questo segno. E poiché sono stato contrapposto al più forte pensiero di Foucault – un autore verso cui nutro qualche diffidenza, ma di cui si dovrebbe tornare a discutere, non fosse altro per la profluvie di scritti e discorsi che gli archivi continuano a sfornare ma anche per la sua complessa (e riduttiva) posizione verso la «filosofia politica», magari riprendendo quel confronto con Hanna Arendt cui da tempo è stato spesso associato, per similitudine o pur solo per differentiam – vorrei finire questa breve analisi con una citazione foucaultiana, con cui sono interamente d’accordo, tratta dalla conclusione di Il coraggio della verità:

«ma ciò su cui vorrei insistere, per finire, è questo: non vi è instaurazione della verità senza una posizione essenziale dell’alterità; la verità non è mai il medesimo; non può esserci verità che nella forma dell’altro mondo e della vita altra».

2)  Su dualismo e assolutismo della totalità come posizioni ultime, non fondabili

La mia discussione con Giorgio potrebbe esser detta ‘Filosofia e illuminismo’. L’I ha bisogno della filosofia? Sì, anzitutto come determinazione di un ambito, sia pur impegnativo, di storicizzazione e concettualizzazione delle singole posizioni illuministiche nell’ambito dell’I stesso, nella vicenda più  larga dell’intero I, ma senza trascendere i confini dei prodotti culturali dei fenomeni detti illuministici. Esempio insuperato di ciò resta forse la Filosofia dell’illuminismo di E. Cassirer, che si occupa di due secoli quasi pieni, il ‘600 e il ‘700, come sfondo dei temi illuministici. Chiamerò ciò Illuminismo-Filosofia (IF), che riguarda la sola filosofia richiesta dall’I. C’è poi un più vasto regno della filosofia, che potrebbe, in ipotesi, mettere a tema e smentire, al di là della storia, gli stessi risultati dell’IF. Non si può dunque abbandonare questo piano più largo sui fondamenti e le intere pretese suscitate da ciò che dirò Filosofia-Illuminismo (FI). Il problema è qui allora di capire quale filosofia possa essere omogenea alla FI e quale invece finisce per negare la stessa IF.

Qui, propriamente, nasce il dissidio tra me e GC. Se io cerco di tracciare alcuni punti di questo retroterra filosofico della FI, GC. mi sembra volto subito a far riferimento a una filosofia molto forte, qual è quella che riguarda l’assoluta totalità, che ha l’illuminismo come un sottoprodotto di cui si può parlare solo in quanto la FI ha trovato posto nell’ambito dell’intero, dell’hegeliano «ganz». Una deduzione e un compito che, mi pare di capire, ancora non hanno avuto adeguato sviluppo filosofico perché sembra che l’I possa rinascere solo quando i problemi come quello della totalità siano avviati a soluzione.

    Ho detto sopra che a parer mio iniziare (e sviluppare) la filosofia dal punto di vista dell’assoluta totalità o dalla finitezza «dualistica» non è di per sé produttivo, in quanto questi due cominciamenti sono altresì la colonne d’Ercole del filosofare, ossia che essi sono né fondati, né fondabili. Tuttavia è anche necessario che – prima di abbandonare il campo per passare, eventualmente, all’I militante – si tenga conto di un’ultima considerazione, riguardante non tanto la cosa in sé quanto piuttosto i suoi fruitori. Se la discussione si articola intorno al concetto di totalità, abbiamo a che fare con un concetto così forte da ridurre a sé ogni altra questione.

Mi preme qui richiamare come l’orizzonte della totalità attiri a sé anche a parte subiecti, vale a dire che la stessa argomentazione è ricondotta al suo tema, essendo anch’essa composta di «proposizioni assolute». Anche saltando qui il problema del pensare-dire, non evitabile nemmeno aristotelicamente, resta che il discorso sulla totalità deve essere sorretto dal concetto di assolutezza, e ciò suppone che, non essendoci più totalità, unica sia la forma e il contenuto della sussunzione, esibizione (anche qui non dimostrazione) e della sua argomentazione, sorrette da una sorta di «pensiero unico».

Dalla mia prospettiva di pensiero finito e «dualistico» le cose stanno diversamente, nel senso che si danno (e si mantengono) reali possibilità di lavorare quelle che ho chiamate «determinazioni» e «differenze», senza divieti da parte della filosofia.  Per quello che ora ci riguarda, vi sarà in questa prospettiva una pluralità di possibili opzioni filosofiche, una diversità ad esempio delle concezioni circa il bene, senza quella sorta di «ricatto» che il pensiero della totalità fatalmente esercita verso gli interlocutori, forzati ad accettare tutti lo stesso pensiero ché la totalità conoscerebbe solo se stessa. C’è per la verità la tradizionale risposta a ciò della filosofia, quando distingue episteme e doxa; ma il problema è qui come possono stare insieme queste due forme, dallo statuto così diverso, con difficoltà che riguardano lo stesso tentativo di pensare anche una recta ratio (orthos logos).  Le colonne d’Ercole s’incontrano solo quando il pensare finito e «dualistico», tenta di trasporre in termini «fondanti», ontologici e metafisici, questo stesso orizzonte finito e duale, quando si ponga la durezza della «cosa in sé». Non traggo ora la necessaria conseguenza per cui come la posizione della «totalità» è incompatibile con ogni forma di empirico illuminismo, così, parimenti, la democrazia che almeno abbia qualche consistenza e consapevolezza di sé non è pensabile in questa tensione all’assoluto.  Ma prima di ciò, la posizione che parte dal finito lascia a tutti la liberale e goethiana facoltà di pensare i condizionati e i plurali modi dell’illuminismo.

 

 

La fede nella ragione critica ed emancipativa nel lavoro di Stefano Petrucciani (SP).

Una riflessione di Mario Reale sul pensiero e la ricerca di Stefano Petrucciani in questi anni di attività accademica. Discorso tenuto presso il dipartimento di Filosofia della “Sapienza” in Roma il 14 novembre 2023. Il presidente di Filosofia in Movimento traccia un profilo intellettuale del filosofo e studioso romano.

 

Il primo libro di SP dal titolo Ragione e Dominio. Autocritica della razionalità occidentale in Adorno e Horkheimer, Salerno Editrice, 1984, meriterebbe senz’altro, a quarant’anni esatti dalla sua uscita, una seconda edizione. Anzitutto perché, con padronanza dei testi e della letteratura critica, vi si esamina, in una sorta di amplissimo commento a Dialettica dell’illuminismo, la prima opera a quattro mani dei due fondatori della «scuola di Francoforte», e quindi perché vi sono chiamati in causa e discussi con acutezza, molti e impegnativi autori rilevanti per il tema prescelto: da Hegel e Marx, a Schopenhauer, Nietzsche e, con particolare cura, Lukàcs. Ma, più ancora, il testo si raccomanda per la maturità e novità dell’interpretazione che, per illustrare un’originale tesi circa la critica all’illuminismo dei due autori, si serve di tutte le possibili risorse della «razionalità occidentale», nella convinzione che mai dalla ragione – né sembri una cosa ovvia – si possa uscire, e che per «ragione» debba intendersi uno strumento  critico e d’intrinseca ricchezza, come già in nuce nel pensare-dire di Aristotele in Metafisica IV, 4, quasi alle origini della tradizione del pensiero nato in occidente e che Kant riconosceva ancora necessariamente nostro. Da ogni immersione critica la ragione sembra riemergere quasi chiedendo una nuova definizione, poiché esce rafforzata ogni volta che, conoscendo il mondo, allarga altresì la sua forza e la consapevolezza di sé.

La ragione è una realtà che si mantiene, per quanto forti siano le critiche che possano esserle rivolte, e che debbono essere di necessità risolte per SP in auto-obiezione, in un movimento che va entro di sé, per uscirne più avvertito e vigoroso. Sembra ovvio e persino banale, ma non lo è. Tutti cerchiamo in un certo modo la ragione, la perenne ragione occidentale – quella stessa di Hegel, nonostante tutto, e di Marx – ma nel duro lavoro perché essa si affermi, aprendosi alle più pressanti novità (perciò nella tradizione «occidentale»), estendendosi e acuendosi, rischiamo spesso, ora più ora meno, di lasciarci travolgere da questo bisogno di critica, dalla specificità e autonomia di taluni problemi o campi del sapere, fino a smarrire la forza unitaria dello stesso soggetto di queste operazioni, o, in altri casi, fino a dichiararlo persino sistematicamente diverso e contrastante con la ragione. Al contrario, SP è, nei riguardi della ragione, come un chierico cha abbia già pronunciato da tempo i suoi voti solenni, attenendovisi poi rigorosamente e à jamais; o come il cristiano consapevole che i dubbi e l’ateismo sono ciò da cui sempre la fede deve riemergere. Semplicemente, ma in modi nient’affatto semplicistici, quasi fosse una raison illuministica vista come modesto e già segnato approdo, nella selbst-Darstellung di un suo libro, SP dice in modo piano – ed è la cifra propria di tutto il suo lavoro – di aver svolto la sua ricerca «senza nulla concedere all’irrazionalismo». Della ragionevolezza, per così dire, della ragione è ineliminabile compagna, in uno scavo che, come s’è detto, non termina mai, la sua «autocritica», che già la specificazione di «occidentale», nel suo aspro e contrastato cammino, lascia intravedere.

Questa fiducia – ma direi proprio anche fede – nella ragione, nel parler raison, è così forte, costitutiva in SP che non teme di affrontare, senza paura di perdersi, le sfide più ardue e perigliose, quando altri abbandonano il campo o lo circondano di numerosi schermi gergali e fumosi. La cosa è evidente già in questo stesso libro a proposito di Adorno. Molti direbbero che il sospettoso critico della ragione, sia il meno adatto a comprovare l’assunto di cui parliamo; ma SP è un «credente» che non si lascia smuovere né commuovere, ché anzi è disposto a iscrivere impavidamente nelle fila dell’universale ragione anche Adorno e il suo sodale Horkheimer di Dialettica dell’illuminismo, del resto molto amati, quando si tratti di ricondurre a ragione il nero, sfuggente e quotidiano campo, del «dominio». La sfida forse maggiore è consistita nel salvare Adorno dalle dure critiche che Habermas gli riservò nel Discorso filosofico della modernità, un testo d’altra parte fondamentale tra i points de repère di SP: esemplare è il modo in cui SP si pone contro l’attacco di Habermas ad Adorno, finemente riconoscendogli ragioni e un sostanziale torto.

L’altro termine del titolo, Dominio, non mi risulta essere un termine del lessico marxiano e marxista, nemmeno come Herrschaft del capitalista sull’operaio (ma con l’eccezione, almeno, di Gramsci, per il quale «dominio» è termine chiave come apparato coercitivo dello Stato novecentesco, in coppia con il diverso momento di direzione, consenso ed egemonia); con i francofortesi sta qui a significare, le forme di oppressione sugli altri uomini e su se stessi al di là, non fosse che per il trascorrere del tempo con le sue novità, delle distorsioni ormai canoniche, diagnosticate e combattute da Marx, e poste a base, da Adorno e Horkeimer, di ogni teoria critica ai fini di un’emancipazione sociale e politica: dalla famiglia e dalla riproduzione della vita, dall’«autorità» in generale, fino insomma a ciò cha accade prima e dopo la stretta sfera economica, persino del tempo libero e del divertimento. La ragione, d’altra parte, come s’é detto, se vuol essere pari a se stessa, deve poter mostrare un incessante volto critico, abbracciando e valutando ogni aspetto delle ferite e dei danni che gravano sulla nostra vita, mettendo sempre in campo, appunto, un’«autocritica». Ma con questa più vasta opera la ragione, qualificata subito come «occidentale»,  si muove entro l’unico modo di ragionare che, da Aristotele a Kant e fino a noi, si conosca; e, infatti, con movenza hegeliana, il pensiero torna indietro nello scavo intensive per andare avanti,  giungendo al suo risultato attraverso un’autocritica della ragione stessa, che mentre conosce allarga altresì la sua capacità di comprendere, riemergendo ancor più forte da ogni esercizio critico.

Cercherò ora, a partire dall’ultimo libro appena uscito di SP – La Scuola di Francoforte, Carocci 2023 – di andar dietro geneticamente, fino appunto al capostipite Ragione e Dominio, avanzando in breve qualche motivo che è caratteristico dell’intera produzione scientifica di SP. Con l’avvertenza tuttavia che si tratta di note sparse, che avrebbero bisogno di ben altro impianto e spazio, poiché così come si presentano non sono sufficienti né intensive né estensive a dar conto dell’imponente ricerca di SP in più di 40 anni di intenso lavoro. E, Francoforte essendo non un luogo fisico il cui cuore, pur avendo dato i natali a Goethe, batte al ritmo delle quotazioni in borsa, ma una sorta di categoria dello spirito, una Geistige Heimat per SP, bisogna presupporre la presenza della sua ‘Scuola’, per lode o per qualche biasimo critico, in tutto ciò che verrò dicendo, anche quando non sia apertamente nominata.

La mia prima nota riguarda, come premessa, lo stile o il bello scrivere di SP, subito in qualche tacita opposizione alla prosa di Adorno. Benedetto Croce ha scritto che solo chi pensa bene scrive bene. Forse l’affermazione è troppo perentoria, gravata da un numero eccessivo di eccezioni, ma certo è che la prosa detta in senso largo «scientifica» (ossia non d’arte) ha molti scrittori «ben pensanti» al suo attivo, in una tradizione cui esemplarmene appartiene (o ne è per altri iniziatore), secondo una storia molte volte tracciata, Galilei e in cui si iscrive lo stesso Croce in quanto, è stato scritto, costituisce il «più grande prosatore italiano dopo Manzoni» (Benjamin Crémieux). Non voglio farla lunga, ma SP s’iscrive, a suo modo certo, in questa corrente le cui caratteristiche sono la chiarezza, la concretezza, la precisione e la vicinanza il più possibile al linguaggio comune, come voleva lo stesso Galilei. La notazione non è affatto irrilevante se si pensa che nei pensatori di cui SP si occupa c’è non di rado gergo o vertigine dell’oscurità e che è suo point d’honneur sciogliere ogni pesante ostacolo linguistico nella più limpida forma possibile, tanto ch’è un vero piacere leggerlo.      Anche per questa tersità di scrittura, SP è divulgatore e mediatore tra culture di alta classe, come per esempio nella curatela della difficile Dialettica negativa adorniana, o nella laterziana Introduzione ad Adorno, che volge in buon italiano un pensiero originariamente espresso in prosa avvoltolata, capricciosa e sincopata. Adorno ha scritto un saggio per aiutare i lettori a leggere la difficile prosa hegeliana, posta sulle orme dell’antico Eraclito: ’Scoteinos, ovvero come si debba leggere uno scrittore oscuro come Hegel’ (in Tre studi su Hegel, ed. or. 1963, tr. it il Mulino 1971); ma Adorno stesso ha bisogno, per essere compreso ed esplicato, di traduttori e commentatori come SP, che assumono su di sé il difficile compito di tradurre il «traduttor d’Omero», il caliginoso Adorno. La chiarezza infine è pensata da SP quasi come un compito civile e morale verso i suoi lettori, che perciò gli dovrebbero essere riconoscenti.

La prima cosa di merito su cui ora mi soffermerò è la fedeltà di SP ai suoi temi, e dunque anche a se stesso. Questo può essere anche un limite, quando si continui a lavorare per anni un ristretto campicello; ma non c’è affatto pericolo che questo sia il caso di SP, la cui vastità d’autori e d’interessi è notevole. Ciò vorrà dire allora che non vi sono nel suo lavoro né retractationes di ciò che è stato fatto fin lì, né – refrattario SP a ogni moda, anche quando si occupi di autori alla moda come Marcuse – interruzione della continuità d’interessi in cui irrompano prospettive diverse e di segno al tutto contrario. Le vie sono classicamente segnate da SP fin da da quando era giovane, e il suo lavoro di ricerca consiste principalmente perciò in un lavoro di scavo e approfondimento, di un hegeliano tornare indietro per andare avanti. Già i due libri che abbiamo ricordati, il primo e finora l’ultimo, si occupano di una costellazione vasta di autori e problemi. E SP sa bene come allargare in mille modi questo dominio già non modesto. Penso ad esempio alle tre sillogi tematiche einaudiane che SP ha dedicato a: Modelli di filosofia politica (2003), il capostipite che io amo di più, Democrazia (2014), Politica (2020). In questi brillanti, acuti e del tutto attendibili exploits, non c’è affatto ripetizione del già noto, ma fili di domande originali che danno riperimetrazione e profondità al campo di lavoro. Ed è come fare ogni volta i conti con un intero sapere, che certo è costituito, per SP anzitutto dalla filosofia politica, in senso largo, con i suoi temi e autori, con la sua storia che giunge fino alle realtà che cominciano ad affiorare o si sono appena aperte – ma all’insegna di «novità» di cui vorrei segnalarne almeno due, riguardanti la storia e la filosofia, le due fondamentali conoscenze che Croce diceva geminae ortae.

La prima è la consapevolezza che la filosofia politica, come gli antichi fino Machiavelli ci hanno insegnato, riposa sulla storia tout court, storia come accadere di eventi in cui la politica è saldamente iscritta – attraverso i molti «accidenti» di Machiavelli o, attraverso la sua fonte polibiana, le molte lotte e fatti e peripezie (dia polllon agonon kai pragmaton) – potendo solo di qui trascorrere in idealizzazioni e persino in utopie. Per esempio, ricchi e poveri sono in Aristotele materia direttamente politica, quel che non saranno più in età moderna, quando la stessa complessità dei problemi e l’irrompere sulla scena politica di grandi masse renderanno necessario l’uso dell’astrazione con tutte le sue possibili mistificazioni, donde il limite di immediatezza in taluni dei pur notevolissimi scritti giovanili di Marx, come la Judenfrage. Il senso storico di SP è così vivo da trapassare talora, nelle sillogi di cui ho detto, direttamente nella storia generale cui a volte sono dedicate specifiche rubriche a riscontro di temi e figure filosofico-politiche; ricordo qui solo la Parte prima di Democrazia, con rubriche dedicate tutte e solo alla storia generale (v. per es. pp. 64-79).

 L’altra novità sta nel modo d’intendere il rapporto di filosofia e politica nell’endiadi o sintagma «filosofia politica». C’è qui un pericolo che troppo spesso mi pare non venir scansato, quello cioè di intendere che la filosofia in quest’ambito sia solo quella che serve ai fini di un sapere politico: non di più, e trattato allora nelle convenienti e modeste maniere. Ma non è così, non esistono filosofie solo «locali» e la filosofia è sempre una. Non so, forse era meglio la dizione di Croce, che diceva «filosofia della politica», quasi un intero che si volga ad esaminare particolarmente un ambito della realtà, non una filosofia ricavabile volta a volta dal proprio oggetto. Fatto è che SP è innanzitutto un filosofo tout court, un filosofo «puro», non a caso formato alla scuola di Gennaro Sasso, che si occupa spesso o prevalentemente di politica, mantenendo tuttavia integra e piena la sua capacità di filosofare, a qualunque oggetto si volga. La filosofia nella sua interezza non è affatto un orpello o una belluria per il pensare politico e persino per la «Scienza politica»; tutt’al contrario fornisce non solo rigore logico, ma anche criteri ermeneutici, la capacità di proporre nuove tesi e suggestioni al pensare politico.

Quel che dico riuscirebbe alquanto astruso se non indicassi subito un esempio di ciò che intendo, ricordando uno dei libri più belli di SP, anche se forse non tra i più noti, che s’intitola Etica dell’argomentazione. Ragione, scienza e prassi nel pensiero di Karl-Otto Apel, Marietti 1988 (di cui, come per Ragione e Dominio, mi sembrerebbe molto utile una seconda edizione). Come Apel non è un filosofo politico, se non indirettamente per la congiuntura che lo accostò in un certo tempo ad Habermas, egli stesso non proprio filosofo politico, così del pari SP si tiene qui a questioni squisitamente filosofiche quali la «Fondazione della razionalità e l’idea di semiotica trascendentale», o «Spiegare e comprendere», e così via. Forse è evidente già di qui, inoltre, che questo non è un libro di storia della filosofia, ma di puro esercizio di filosofia in atto. E siccome neanche questa distinzione è del tutto ovvia nel senso che vi sono esimi cultori della storia della filosofia, che non hanno alcun senso e orecchio e gusto di quel che sia veramente filosofare, mi piacerebbe, se avessi tempo, soffermarmi su qualche problema determinato per mostrare cos’è questo filosofare nel libro di SP, seguendolo in esempio circa la domanda sull’«argomento migliore», se c’è e in che consista, un tema dibattuto nella prospettiva dialogica e deliberativa.

Nel denso Prologo a Modelli di filosofia politica, la silloge che m’è più cara SP s’interroga proprio intorno a questo problema, al fatto cioè che la filosofia politica «prima che essere politica è filosofia». Con Leo Strauss si osserva che ogni domanda su ‘cos’è la filosofia politica’ ne presupponga un’altra su ‘cos’è la filosofia’, domanda necessaria per un sapere non codificato, non avente un suo indiscutibile statuto. E’ sconsigliabile ora, ché mi porterebbe via molto tempo, soffermarmi su quale sia il concetto che SP ha della filosofia – che rinvia in generale a un metodo di «argomentazione pubblica, critica e aperta», in una sorta di «ininterrotto dialogo argomentativo», in un «continuo scambio di ragioni e critiche», nella ricerca di «argomenti persuasivi». Gli «strumenti del dialogo razionale» vengono impiegati per dirimere e innanzitutto impostare i grandi problemi della filosofia.

Ma qual è ora l’indirizzo metodico generale nello studio di questi problemi? SP si occupa spesso della classica distinzione tra approccio «normativo», che lui predilige, o approccio «realistico» alla filosofia politica – me ne occupo qui a partire dalla densa e bella ‘Parte prima’ di Politica. Una introduzione filosofica, Einaudi 2020. Il quadro generale entro cui SP si iscrive (e che ha irrobustito anche un mio personale convincimento) è che in ogni seria considerazione di filosofia politica, o della sua storia, non possa mancare né il momento normativo né quello realistico. Pare un asserto ovvio, ma non lo è affatto. Le resistenze maggiori a questa  pacificazione, e dunque la permanenza in una guerra, vengono forse dai «realisti», attaccati platonicamente alle rocce, e sospettosi di ogni posizione che esuli dai cosiddetti «fatti» e dalla loro inaggirabile durezza. Ciò che soprattutto disturba questi austeri esprits forts, che, a partire dal Trasimaco e dal Gorgia di Platone, sempre affermano solo il diritto del più forte, è la presenza di un’antropologia comprensiva della capacità umana di morale e giustizia politica, in un vacuo discorso aperto, come si rimprovera loro, alle sirene dell’ideologia. Ma certo è, d’altra parte, che, sia pur non sempre sottraendosi esso stesso a configurazioni ideologiche, il realismo smaschera pigre abitudini, fa pulizia di ciò che Hegel  chiamava la «pappamolla del cuore», ed è essenziale a ogni seria considerazione della realtà.  I grandi scrittori realistici si leggono volentieri e c’è sempre da imparare da essi: da Tucidite a Machiavelli a Hobbes agli stessi Hegel e a Marx. In conclusione, SP mostra una buona dose di realismo e di critica profonda, che fanno così parte del suo bagaglio culturale, tanto da indurlo a scrivere in questa vena uno dei suoi saggi più belli dal titolo: «Democratizzare la Democrazia. E’ ancora possibile?».

Ma la sfera della morale costituisce, a sua volta, essa stessa un «fatto», una realtà dell’umano che, senza bisogno di alcun fondamento né ora di più complessi ragionamenti, si dà – es gibt, o es geht so – è qualcosa di cui nessuna teoria critica, benché sofisticata, potrebbe fare a meno, e che da parte mia risolverei, con Hobbes, nelle forme della socialità, distinte dai precetti religiosi. Del resto credo che, tra i due campioni moderni del realismo, Machiavelli e Hobbes, così come per certi versi anche in Hegel e in Marx, le cose siano più complesse. Machiavelli non può essere iscritto tout court all’ordine di un radicale e totale realismo, perché non può esser privato della volontà controfattuale di mutare il mondo e mutare se stessi (un centrale passaggio come si vede nella rigidezza dell’esser o impetuosi o rispettivi). Machiavelli fa in realtà ricorso – oltre che a realistici strumenti, come la volontà di un Principe o la ferma costruttività delle leggi repubblicane capaci di creare una seconda natura dell’uomo posta politicamente – alla risorsa morale, etica e persino profetica, dell’ultimo capitolo del Principe, o della «società bene ordinata» dei Discorsi. L’ardita costruzione di Hobbes d’altra parte, l’Hobbes’s argument, non potrebbe mantenersi senza la decisiva risorsa morale della legge di natura ai fini dell’ingresso nella politica.

Se moralità e realismo vanno sempre insieme, sospetta è allora la scelta di un criterio contro l’altro. SP, che pur potrebbe falsamente apparire, richiamandosi apertamente a questa impostazione, un deciso ed esclusivo normativista, non manca affatto di un chiara esigenza realistica, che lo distingue anche da tutti gli ingenui seguaci del solo dover-essere. Il realismo è decisivo come condizione di possibilità e al tempo stesso esito dell’intero discorso argomentativo e deliberativo. In generale a me sembra che SP ascolti con passione e interesse lo svolgersi nel mondo delle cose politiche. Solo che – oltre a considerare il piano della filosofia politica posto in un piano più alto delle mutevoli contingenze – non ama critiche che cerchino di mettere in crisi, nella loro puntualità, il suo intero apparato categoriale di riferimento, per esempio riguardo alla democrazia considerata a muovere, realisticamente, da quella  che conosciamo oggi. Per SP la democrazia, a partire dal così  come la sperimentiamo oggi, costituisce un obiettivo che, nonostante le esuberanti difficoltà del caso, si deve mantenere sempre sullo sfondo, contro le repubbliche «democratiche» solo «immaginate», come diceva Machiavelli, che mai si sono «viste né conosciute in vero essere» (Principe XV); o contro le forme antiche o di spericolate e irraggiungibili o persino sconsigliabili proposte di democrazia: una realtà che per SP si legge essenzialmente nel mondo moderno, tra liberalismo e (eventuale) socialismo (o altrimenti come consapevole e diretto prodotto «engelsiano» del movimento operaio con il modello da altri imitato del suo grande partito socialdemocratico di massa). Le grandi famiglie che costituiscono l’ossatura del pensiero politico moderno sono altresì il masterplan degli studi di SP.

Ci potremmo chiedere da ultimo come la personalità di SP si trasmette nel suo lavoro di grande e infaticabile studioso. Io direi così, che c’è in SP sia un’anima profondamente liberale che un senso forte della comunità. Il tratto liberale, continuerò a chiamarlo così, consiste, nel liberalismo quale veniva definito da Adolfo Omodeo in quanto cioè formazione e natura dell’uomo moderno, critico, laico, curioso, aperto agli altri e al futuro, disposto alla parità tra gli uomini, contrario a ogni forma di retriva chiusura; un liberalismo che deriva in SP da una naturale disposizione oltre che, come suppongo, anche da educazione familiare, e che si mostra ad ogni passo della sua vita e dei suoi studi (così mi apparve quando, ormai poco meno di 50 anni fa, lo conobbi). Ma, proprio perché questo liberalismo è radicale, l’attenzione di SP è rivolta, forse di preferenza, ai limiti e alle insufficienze della democrazia liberale, a ciò che essa ha trascurato, alle molte forme di dominio che non ha combattuto. Ciò apre per SP il grande interesse per il socialismo, la forza capace di colmare questi vuoti, in cui coerentemente Marx è inteso come grande storico e critico della società, pensatore della libertà, la cui intera lezione è insostituibile e inesauribile (cfr. di SP, Marx in dieci parole, Carocci 2020). In una simile lettura, che si è intensificata negli ultimi anni, sono scansate sia le secche delle anguste e minute analisi circa il «vero Marx», con esclusione di altri volti, come ad esempio il «giovane Marx», nonché, meno che mai, le critiche che ne fanno un «cane morto» perché i suoi quarti di scientificità (secondo un rinsecchito concetto di scienza) non sono puri, o infine i tentativi di farne un autore compiuto e magari disposto a esser messo in un insegnamento dogmatico.

L’altro tema, quello della comunità, è forse già in parte mostrato dai lavori di cui parliamo. La «scuola di Francoforte» rappresenta per SP una societas, un collettivo di cui egli è studioso e custode: si veda con quanta cura ne esamina via via le sue figure, per ora fino a Jaeggi e Rosa; e soprattutto con quanta vigilanza ne difenda, al di là delle naturali diversità, una sostanziale e ancor leggibile continuità. La Scuola di Francoforte e il suo lascito sono stati da SP in ogni modo salvaguardati e seguiti attentamente con grande considerazione, ad essi dedicando, come a una grande comunità, non poca fatica e molto tempo. Ma diligenza, solerte riflessione e vigilanza di SP si rivolgono sempre, secondo la sua vocazione, alle comunità di ricerca, non ai gruppi decisamente politici o di partito. La cosa forse più evidente è il caso del Manifesto: un insieme di lavoro culturale e politico, di cui SP ha fatto parte in modo continuo, impegnato e fedele, senza però esser mai coinvolto, mi pare, sul piano strettamente politico e nei tentativi di farsi partito. Nonostante la disposizione alla communitas SP non ha mai sentito il bisogno di aderire a una comunità di partito. Credo che ci sia qui, al fondo, una difficoltà del pensiero a primaria inclinazione liberale, anche nelle persone più aperte, intelligenti e disposte a una strategia di cambiamento politico come Norberto Bobbio – di cui SP fa gran conto, cominciando dall’apprezzamento della sua civile prosa – a comprendere il partito politico, dal punto in cui la volontà generale va oltre il volere dei singoli, dando appunto vita, non potendo il tutto risolversi nel semplice gioco di maggioranza e minoranza, a una speciale comunità (donde la frequente sopravvalutazione, a parer mio, dell’opera di Robert Michels). Ma è un tema difficile e qui solo enunciabile, del quale ho avuto modo di discutere con lo stesso Bobbio nella corrispondenza che per molti anni ho intrattenuto con lui. Mi è accaduto di pensare che SP somigliasse un po’ a Frank Cunnigham, il nostro compianto e comune amico, che, come il suo maestro C.B.Macpherson, cercava di pensare gli sviluppi avanzati della democrazia, a partire dalla situazione canadese e nordamericana, prescindendo cioè quasi del tutto dai partiti politici. Ma oggi che accade, quando la realtà di un partito politico come quelli che abbiamo conosciuto fino agli anni ‘90 costituisce un’esperienza a parer mio qusi interamente consumata, in una situazione che Pietro Scoppola definì come quella del passaggio dalla «democrazia dei partiti» alla «democrazia dei (singoli) cittadini»? Oggi francamente non so se, pur con la perdita di talune esperienze, SP non abbia visto anche prima e meglio di altri quel che si doveva fare e quali ne erano i punti di riferimento.

II  Proposta sui consumi

 Quando si pensa a quel che SP ha fatto è necessario, e comunque non se ne può fare a meno, considerare anche quel che potrebbe fare nel futuro. Mi permetto qui di avanzare alla fine una modesta proposta, che mi darà l’occasione, prima, di parlare ancora dei lavori di SP già eseguiti. Il punto più nuovo e originale di La scuola di Francoforte, il testo appena uscito, sono i tre saggi su Marcuse: non solo perché, vi si affronta con ampiezza e profondità un autore che nel primo libro aveva rilievo molto modesto, né perché si riscopra un filosofo di solito superficialmente ricordato per un solo libro, unius libri, per pochi slogan o per la generica vicinanza al movimento del’68. La ragione principale è che in queste, che sono tra le pagine più belle del libro, c’è una riflessione maggiormente autonoma, libera e originale di SP che si può vedere per esempio nel capitolo sesto, e già nelle sue pagine introduttive, dove si legge cosa SP intenda per capitalismo, crescita economica, rapporto mezzi e fini, neutralità della tecnica, totalità sociale, e così via. Il testo su Marcuse non è privo di un’interessante vena biografica collettiva e forse anche autobiografica, dedicata al «complicato rapporto», pratico o ideale tra i francofortesi e il movimento del ‘68. SP ha un vero talento nell’infilarsi in argomenti scomodi, al qual proposito molti tacciono e per cui occorre libertà e coraggio, come quando fu tra i pochi che affrontarono il tema del crollo dell’URSS. Qui non era affatto facile dire felicemente in breve cosa fu il magmatico e per certi versi anche sfuggente Movimento del’68, un tema di cui bisognerà ancora occuparsi.

Tra le molte altre cose notabili in questa sezione del libro su Marcuse mi soffermerò ora su un tema in apparenza marginale e curioso, che non so fino a che punto sia tutto frutto di Adorno e Horkheimer o se non appartenga anche alla sapienza ricostruttiva di SP, che sa pensare con e oltre i suoi autori, nella direzione da essi indicata. La questione potrebbe esser posta così: nessuna generale forma di vita può dipendere dalla settecentesca imposizione di un tiranno, del soldato o del prete, dal «mero arbitrio dei gruppi dominanti», da una sorta di «follia o insensatezza collettiva». Ci interessiamo molto all’emancipazione dei «servi», ma cosa ha consentito che questa situazione di oppressione durasse secoli o millenni? Qui si parla del capitalismo che da un lato incorpora in sé l’elemento «dell’assurdo o della contraddizione» e non riesce «a superare la scarsità e la penuria se non riproducendola sempre a livelli diversi e più alti» – un’acuta osservazione  di SP circa la «società opulenta», su cui ricordo il contributo de La Rivista Trimestrale – cui si collegano tutte le altre distorsioni generate dal capitale. Ma dall’altro lato il capitalismo è pure una complessa struttura economico-sociale che riesce – si dice – oggi «imbattibile» sul piano dell’allocazione delle risorse produttive, riuscendo a «innescare l’uscita di intere aree del mondo dal cono d’ombra della scarsità e della penuria, di assicurare la soddisfazione di bisogni veri e non solo di quelli falsi e «indotti».

E’ quest’ultima capacità del capitalismo, come vediamo bene intorno a noi, che assicura sempre (se non proprio «occupazione» e «benessere» come voleva Adam Smith) beni che vanno ben oltre la proverbiale ciotola di riso al giorno per tutti i cinesi e che tengono in piedi il capitalismo opulento.  Questa opportunità di lunga vita pone in realtà problemi acutissimi a ogni tentativo di pensare il socialismo, che dovrebbe in primo luogo e necessariamente sapere ciò da cui si discosta, ciò che supera. Ad Axel Honneth mi pare che in sostanza SP dica che, pur con molti pregi, il suo ripensamento del socialismo manca di «storicità» (non tocco il punto dell’eventuale tramonto del capitalismo che somiglia alla seconda venuta del Cristo nel cristianesimo: attesa dapprima come imminente, ma quando, rinviando rinviando, non viene, costringe a ripensare interamente e faticosamente l’essere della Chiesa e dei fedeli).

Questo problema – su che si regga una società di oppressi con pochi «signori» dominanti o perché  un complesso sociale «tiene»anche quando vi sono innumerevoli «servi» – è valido, nel discorso di Horkheimer e Adorno ricostruito da SP non per il solo capitalismo, ma per un tempo sterminato, assicurando continuità alla storia per interi millenni, (v. di SP, Marx al tramonto del secolo, manifestolibri 1995, ‘L’autocritica della modernità nel pensiero di Adorno e Horkheimer’, pp. 95-114). In simili società precapitalistiche i rapporti di dominio hanno sempre avuto una duplice natura: la garanzia del privilegio, certo, ma anche la sopravvivenza e la giustificazione della riproduzione dell’intera totalità sociale. Quest’ultimo elemento, dice SP, può esser configurato come il momento di «universalità», congiunto indistricabilmente con quello della «particolarità» nel dominio. Com’è potuto accadere, si chiede Horkheimer, che «per interi periodi la subordinazione coincidesse con l’interesse dei dominati»? La prima e forse principale risposta degli autori francofortesi riposa sull’originaria penuria dei mezzi di sussistenza e sulle necessità da essa imposta: dalla formazione di un un piano preordinato, più o meno consapevole e manifesto, formulato con una qualche collaborazione dei subordinati (si può fare qui un confronto, dice SP, con il dominio e il consenso di Gramsci), cui tutti devono conformarsi per instaurare, tra l’altro, una stabile gerarchia sociale, a partire dalla distinzione tra lavoro intellettuale e manuale. E a questa risposta si devono aggiungere gli altri campi di dominio «umani e artificiali» di cui abbiamo detto. Né devono sfuggire le innovative ricerche di chi ha configurato il signore come la sola possibile umanità del servo.

Ma che tipo di rapporto c’è allora tra privilegiati e soggetti, tra dominio e consenso? Come si articola un simile problema? Anzitutto la lotta per fare autonoma la civiltà dalla mera natura, come dice bene SP, si deve ampliare nel contrasto all’artefatta instaurazione della coazione e della repressione non solo sociale ma delle più forti pulsioni individuali. Ciò è conforme alla tesi forte di SP per cui l’Illuminismo è criticato nei primi francofortesi non per troppo ma per manco di una più sviluppata teoria critica che abbracci, oltre all’arcaico dominio tecnico e scientifico sulla natura – exeundum e statu naturae, come dicevano Spinoza ed Hegel – anche le forme emancipative che si dicevano un tempo «morali»: l’oppressione degli uomini sugli altri uomini (e su se stessi), a cominciare dalla ricchezza astratta, in quanto illimitato fine a se stessa. Non è sufficiente, dice conclusivamente SP a proposito dei limiti di Marcuse, stabilire con «ingenuità» quali sono «i veri bisogni e i veri fini umani per aver risolto alla radice ogni problema di irrazionalità sociale», né meno che mai, aggiungiamo, per cominciare a risolvere praticamente il problema.

A questo proposito mi pare che ci sia uno iato o un vuoto tra la discussione delle migliori forme di vita e l’inizio della lotta per recarle praticamente, come già teoricamente, in atto, specie se si dice, non a torto a parer mio, che la formazione capitalistica è oggi, dal lato della produzione, «imbattibile» (che non vuol dire in tutto accettabile). Ma se non dalla produzione, si potrebbe forse partire dai bisogni e dal consumo – sostenuto da una forte domanda aggregata e collettiva, non affidata alla dispersione delle singole famiglie, quasi «fini» posti al capitalismo – per provare ad allentare e in parte correggere i difetti del capitalismo, in favore di una società più razionale, sociale, più giusta e, aggiungerei, anche più «bella»? Com’ è noto l’economia politica classica, Marx compreso, negano che il consumo possa mai essere reso nemmeno in parte autonomo dalla produzione. Ma sull’indipendenza dalla produzione stanno alcuni esiti irrisolti dell’economia politica classica, numerosi tentativi fatti dagli scrittori che sono stati detti «utopistici» dell’800, e anche da qualche teoria critica novecentesca. Le domande che in conclusione pongo a SP, volendo guardare avanti, e non solo ripercorrere il già fatto, sono le seguenti. Nella teoria critica francofortese c’è qualche cenno positivo al tema del consumo o i consumi sono solo tenacemente criticati nella forma attuale (consumi indotti, ecc.)? E SP, con la sua esperienza e autorevolezza, che pensa di questa via? e sennò, quali strade ritiene percorribili per cominciare a ovviare al problema che ho detto della riforma, almeno teorica, del capitalismo?

 

 

Foto di Antonio Cecere: Mario Reale e Stefano Petrucciani impegnati in una riunione del comitato scientifico di Filosofia in Movimento nel 2019. 

 

 

 

 

 

Gianni Vattimo e Stefano Petrucciani dialogo alla fine del secolo

In una intervista per L’Unità a fine anni 90 del secolo scorso, Stefano Petrucciani discute con Gianni Vattimo di pensiero debole e della trasformazioni della  filosofia italiana al tramonto del millennio. Una testimonianza che coglie i due filosofi a riflettere intorno alle grandi tematiche che saranno al centro del dibattito nei nostri tempi. Riproponiamo l’intervista per gentile concessione di Petrucciani che con questo ricordo intende rendere omaggio all’amico, al collega e ai rapporti umani e intellettuali che hanno alimentato la fortuna del nostro movimento. Per questo pubblichiamo la foto di Petrucciani e Vattimo a Roma durante un convegno di Filosofia in Movimento per ricordare uno dei momenti più belli per tutti noi.

Intervista: 

«Io non mi sono mai sentito in senso politico e culturale remissivo o dimissionario», dice Gianni Vattimo, ironicamente risentito per il fatto che al pensiero debole sono state addebitate ogni tipo di colpe. Compresa, a suo tempo, quella di aver fatto perdere alla sinistra le elezioni. debole non vuol dire flebile; anzi, quello di Gianni Vattimo vuole essere un pensiero a ridosso del presente dei suoi mutamenti e delle sue inquietudini. Editorialista della stampa è oltretutto uno dei pochi filosofi italiani i cui libri si trovino anche a Parigi, a Londra e a Berlino. Un acuto commentatore del costume, nonché un intellettuale che non disdegna le battaglie politiche e per i diritti civili. Ecco il suo modo di raccontarsi come filosofo

La fede cattolica e la politica, le idee degli anni 60 e 70, quanto hanno contato nella formazione del filosofo Gianni Vattimo?

Le istanze degli anni 60 mi sono arrivate in un relativo ritardo, nel senso che io sono diventato

«maoista» solo nel Marzo del ’68; dal ’64 avevo già l’incarico di Estetica a Torino, e quindi sono arrivato al ’67, all’inizio del movimento studentesco, stando dalla parte sbagliata della barricata. L’atmosfera che si respirava nel mio istituto, con Pareyson, era quella di chi si sentiva molto poco solidale con il mondo moderno, borghese, ma se ne distaccava per ragioni, diciamo così, «heidggeriane».

E le sue radici cattoliche?

Io ero passato attraverso l’esperienza cattolica di Maritain, poi, di lì, ero approdato ai critici della modernità da Nietzsche ad Adorno, a Heidegger. E’ vero che ho trascorso due anni a Heidelberg, dove allora insegnava Habermas, però io, per ragioni puramente esteriori, non capivo il suo tedesco, quindi, anche se ce l’avevo a due passi non l’ho mai ascoltato. Quando sono tornato a Torino, E ho cominciato a insegnare, il mio primo approccio con il movimento degli studenti fu un po’ alla Pasolini. Mi sembravano troppo ricchi per essere dei rivoluzionari (Io ero meno ricco dei miei compagni di scuola) e tutto ciò mi teneva lontano. La fine del 67 fu per me un periodo di sofferenza, stette ma stetti male anche fisicamente e poi, mentre ero a letto convalescente per un’operazione, ho letto più intensamente Marcuse, Kostas Axelos, E mi sono reso conto che era possibile interpretare le ragioni di Heidegger contro la metafisica in modo simile alle ragioni di Marx e di Adorno contro il capitalismo e l’alienazione. I miei libri su Heidegger e su Nietzsche dei primi anni 70 sono un modo di leggere l’oltrepassamento della metafisica come oltrepassamento dell’alienazione capitalistico-reificante, che non era poi una cosa tanto inverosimile.

 

Poi, però, arriva il grande cambiamento di clima dopo la metà degli anni 70 e la svolta del «pensiero debole».

Il mio libro su Nietzsche, «Il soggetto la maschera», quello che è pubblicato da Bompiani nel ‘74, io lo pensavo come se dovesse diventare la filosofia del “Manifesto”, la sentivo come la filosofia dell’ultrasinistra, che invece se ne infischiava altamente.  A un certo punto però il nichilismo diventa la moda culturale post marxista estremistica dell’epoca. Fino al 78 io mi sforzo di pensare insieme Heidegger, il marxismo, e Nietzsche. In realtà il pensiero debole nasce in realtà come conseguenza del terrorismo.

 

Che c’entra il terrorismo?

 

In quell’epoca uccidono Casalegno, io stesso nel ‘78 divento bersaglio di minacce abbastanza serie delle Brigate Rosse, mentre milito nel Partito Radicale, che a mia insaputa mi candida alle elezioni come rappresentante del Fuori, il movimento di liberazione omosessuale, cosa che mi turba abbastanza, perché pensavo: la mia carriera accademica è finita (anche se io ero uscito a 68, come Eco scherzando mi ricorda sempre, non solo maoista ma anche professore ordinario). Il passaggio del terrorismo fu fondamentale; non nel senso che io mi sia convertito perché mi hanno minacciato per telefono, ma insomma ho cominciato a pensare che non si poteva “prendere il potere” perché se si prendeva il potere si diventava dei rivoluzionari professionisti che erano ancora peggio dei burocrati borghesi. Io avevo degli allievi che erano veramente coinvolti col terrorismo, mi sembravano così impregnati di una retorica pauperistica, per cui, tutta l’idea che non dovevamo accettare il rinvio della soddisfazione ( come insegnavano Nietzsche e Marcuse) veniva smentita. Il leninismo era una forma di ascesi drammatica…il pensiero debole allora intende la liberazione come una mossa del cavallo, come una specie di scarto che ridistingue il destino dell’anima da quello della storia. Davanti alle degenerazioni dell’imperativo della presa del potere, unica risposta è l’idea che non si può pretendere di rovesciare l’ordine storico. Si può tuttalpiù seguirlo in certe sue derive di tipo frammentativo, distorcerlo, tirarlo da una parte.

Ma che resta del discorso filosofico se con il pensiero debole lo priviamo del suo elemento argomentativo e razionale?

Pensiero debole non significa solo fine della razionalità totale, bensì anche «ontologia». Il che implica, utilizzando Heidegger che è l’essere stesso che ha questa vocazione al «darsi-sottraendosi», all’indebolimento. Pensiero debole non è solo l’apologia di una ragione non universalistica, non argomentativa. Ma è anche la teoria di un filo conduttore ontologico di indebolimento. Proprio perché l’indebolimento è ontologico, credo che nel discorso della debolezza si trovino anche dei criteri di giudizio, dei criteri etici. Del resto, sono consapevole che la fase puramente decostruttivo-ironica della critica filosofica deve essere superata. Io stesso ho pubblicato non molto tempo addietro un saggio che ho dedicato proprio alla “Ricostruzione della razionalità”.

A proposito di criteri etici, la bioetica è una bella opportunità per i filosofi oppure un grosso pericolo?

Io la vedo anche come un pericolo, perché fatalmente chi domina oggi nella bioetica sono i preti. Cioè quelli che confidano in «essenze naturali». Per esempio, a me gli stessi «diritti della vita» in quanto tale, come essenza biologica, sembrano molto dubbi. Per me il problema non è il valore della vita, e non mi interessa il sopravvivere in quanto tale; la domanda è semmai: cosa possiamo decentemente fare, con le nostre possibilità tecniche, per non doverci vergognare difronte alle persone con cui stiamo? Il riferimento è a una comunità culturale, a una comunità di discorso, come insegna l’Ermeneutica, non a una qualche essenza naturalistica o principio metafisico. Mentre ho paura che finiscano per vincere, nei dibattiti, quelli che hanno una metafisica naturalistica più forte (“l’essenza della vita”, o della riproduzione). E’ per questo che il Papa è costretto a pareggiare la masturbazione con il genocidio, perché non riesce a non ragionare in termini di “uso naturale”.

Oggi molti filosofi (anche lei nel suo ultimo libro) sperimentano forme di comunicazione più personali, narrative, come mai?

Non so. O a lungo mi sono trattenuto da questa effusione individualistica. Il mio ideale del trattato filosofico resta ancora una saggistica argomentativa più neutrale.

Per inciso, a cosa sta lavorando adesso?

Sto finendo di scrivere un libro che uscirà prima in inglese, presso la Columbia University Press, intitolato «Dopo il cristianesimo», che deriva da lezioni americane. E poi ho sempre in cantiere un grande libro che ha già cambiato tante volte titolo e che ora si chiama «Ontologia dell’attualità», il mio «testo fondamentale», che non so mai se finirò. Ma non credo che mi manterrò fedele allo stile che più personale che ho usato in «Credere per credere». Quella è stata soprattutto una scelta polemica verso chi scrive di cose religiose, per esempio Cacciari con una specie di auto-sottrazione del soggetto in prima persona, per cui non si capisce mai bene se «ci crede o no». E possibile in religione fare un discorso così oggettivo, culturale? Io ho avuto troppa storia religiosa personale per potermi accontentare di “sta roba lì”.

La filosofia italiana è sempre un po’ colonizzata e arretrata rispetto alla filosofia europea, oppure no?

Ma no, io non ci ho mai creduto tanto a questa storia; è vero che noi scriviamo in una lingua che viene letta poco, però…ricevo adesso la quarta di copertina che Rorty ha scritto per l’edizione inglese di «Oltre l’interpretazione», che mi loda sperticatamente, sono gongolante.

Ma Rorty non è la brutta copia di Vattimo?

No (ride), per carità! Ma a parte questo la recettività del pensiero italiano rispetto alle filosofie straniere è parso sempre un vantaggio. Perché qui il problema non è l’esportazione del prodotto interno lordo, ma la vivacità intellettuale. Lo sa quanto c’è voluto per tradurre in inglese i «Minima moralia» di Adorno? Più di 20 anni! Ecco, quasi quasi, direi che c’è un “un primato morale e civile degli italiani” …

Viva l’Italia?

E perché no?

 

György Lukács, la categoria della particolarità e la formazione del capitalismo periferico in America Latina

di Ranieri Carli (Universidade Federal Fluminense)

 

Questo articolo tratta dell’uso che il filosofo ungherese György Lukács fa della categoria della particolarità, richiamando l’attenzione sul suo posto all’interno del metodo di Marx. Dopo lo studio della pertinenza della particolarità nel metodo, in questo articolo vengono studiate la formazione del capitalismo periferico in America Latina e la particolarità delle sue dinamiche.

L’idea è quella di utilizzare la categoria della particolarità per descrivere brevemente la peculiarità della costituzione di una società capitalista nei paesi dell’America Latina. All’inizio, useremo il metodo di Lukács per delimitare l’importanza della categoria di particolarità; e, dopo, studieremo le idee di Ernest Mandel su alcune delle particolarità più generali del capitalismo che si è sviluppato in America Latina, senza la minima intenzione di esaurire il tema.

Nella sua Estetica del 1963, Lukács afferma correttamente che le categorie di universalità, particolarità e singolarità non possono essere ridotte a semplici “punti di vista”; sono, infatti, aspetti essenziali della realtà oggettiva, la cui conoscenza è necessaria all’uomo che intende orientarsi in questa realtà, sorpassare e sottoporla ai suoi fini. In considerazione del loro carattere oggettivo, l’uomo è in “convivialità” con tali categorie ancor prima di usarle come elementi organizzativi delle riflessioni del movimento del reale[1].

Ecco un esempio del modo in cui il metodo dialettico è in grado di catturare le categorie, specialmente quando si verifica il lavoro: abbiamo, quindi, 1) il lavorare sotto forma di una categoria universale, mediatore indispensabile della società con la natura; 2) il lavorare come un particolare, del modo capitalista di produzione come mezzo per valutare il capitale; e 3) il lavoro concreto unico di metalmeccanici, agricoltori, ceramisti, ecc.

Certo, la categoria della totalità universale è quella che comprende gli altri e il punto di vista della teoria sociale deve sempre essere la prospettiva di questa totalità universale. Come ci ricorda bene Lukács in uno dei saggi di Storia e Coscienza di Classe, è la presenza della categoria della totalità universale che differenzia Marx dalle scienze borghesi[2]. Tuttavia, la categoria della particolarità promuove un vero arricchimento tanto della totalità universale quanto della singolarità unica.

Poi, secondo Lukács, le particolarità arricchiscono la relazione tra il singolare e l’universale. Non c’è individuo singolare che sia legato all’universalità del genere senza la mediazione di innumerevoli particolarità. Un individuo, che si sia Enrico o Cecilia, sono membri unici della razza umana. Tuttavia, l’appartenenza alla generalità è mediata da aspetti particolari, come la società in cui fanno parte (capitalista, feudale, ecc.), la classe sociale (borghesi, proletari, ecc.), la nazione (Brasile, Palestina, Italia, ecc.), la generazione (bambini, adulti, anziani, ecc.) e così via potremmo continuare ad aggiungere una vasta gamma di variabili che arricchiscono il rapporto tra singolare e universale.

Continuando a pensare come Lukács, la categoria del particolare è interessante per studiare le peculiarità dello sviluppo capitalista di ogni circostanza storicamente determinata, come il modo in cui è stata elaborata in America Latina. Sappiamo che, prima di tutto, nella sua universalità, le dinamiche capitaliste implicano lo sfruttamento della forza-lavoro da parte del capitale. Tuttavia, come si verifica questa situazione nelle terre dell’America Latina? In questo caso, è possibile comprendere lo sviluppo di una società borghese in America Latina tenendo conto della categoria di particolarità, come intendeva Lukács.

Per Mandel, la formazione dell’accumulazione primitiva di capitale nei paesi periferici avviene secondo tre elementi: in primo luogo, il processo ininterrotto di accumulazione di capitale nei paesi centrali (specialmente in Europa), già sotto forma di una riproduzione ampia; in secondo luogo, gli inizi dell’accumulazione primitiva di capitale in periferia; in terzo luogo, la conseguente limitazione del processo di accumulazione che inizia in periferia da parte del processo di accumulazione in grandi fasi dei paesi centrali[3].

Il principale dei tre elementi è proprio l’ultimo: le imposizioni che il capitale europeo ha posto allo sviluppo del capitale periferico. Lukács potrebbe dire che questa è una grande caratteristica particolare che differenzia il capitalismo periferico. Secondo Mandel, «in ogni paese o su scala internazionale, il capitale mette sotto pressione, dal centro – in altre parole, i suoi luoghi di origine storici – alla periferia. Cerca continuamente di estendersi a nuovi domini, convertire semplici settori riproduttivi di beni in nuove sfere di produzione capitalista di beni, soppiantare, con la produzione di beni, i settori che fino ad allora producevano solo valori di uso. Il grado in cui questo processo continua a verificarsi ancora oggi, sotto i nostri occhi, nei paesi altamente industrializzati, è esemplificato dall’espansione, negli ultimi due decenni, di industrie che producono pasti pronti al servizio, distributori di bevande e così via”[4].

In periferia, quindi, l’arrivo del capitale internazionale apre la strada alla produzione di plusvalore con la “normalità” delle ferree leggi dell’economia capitalista.

Mandel sostiene che, in generale, il ruolo di “pathfinder” spetta al “piccolo e medio capitale”[5]. Poiché le modalità tradizionali della produzione di sussistenza non rappresentano più ostacoli, la produzione capitalista viene gradualmente imposta, vivendo insieme con le relazioni sociali della produzione tradizionale. Lo sviluppo della produzione tipicamente capitalista di materie prime tende a sottomettere le altre forme rimanenti.

L’articolazione tra paesi centrali e periferici è duplice: da un lato, la periferia importa articoli a basso costo dall’elevato grado di produttività raggiunto grazie ai macchinari sviluppati nei paesi centrali, il che implica la rovina delle forme artigianali di produzione (incapaci di raggiungere tale produttività); dall’altro, c’è la specializzazione dei paesi di capitalismo incipiente in prodotti che servivano il mercato internazionale, in particolare nei prodotti agricoli[6].

Così, ovviamente, l’articolazione tra centro e periferia avviene con la subalternità di questo nei confronti a questo. È quello che Lukács chiamerebbe sottomissione delle particolarità all’universalità. Tuttavia, il punto è che il capitalismo iniziale della periferia deve competere con il capitale internazionale, che non solo si consolida sul mercato mondiale, ma già avanza nella costituzione dei monopoli. È importante dire con Lukács che questa è una delle particolarità che segnano fortemente la vita economica nei paesi del capitalismo periferico. Il compito ingrato della borghesia nazionale periferica è quello di aumentare un tale livello di estrazione di pluslavoro che gli dia condizioni sufficienti per affrontare il capitale monopolistico che proviene dall’esterno. In effetti, l’impulso allo sviluppo dell’industria capitalista in periferia avviene con l’esportazione di capitali da parte di paesi in cui la borghesia monopolistica è diventata dominante. L’accumulo primitivo delle nazioni subalterne ha dovuto fare i conti con questa circostanza, poiché, di conseguenza, il processo di esportazione di capitali imperialisti ha soffocato lo sviluppo economico del cosiddetto “Terzo Mondo”[7].

La distinzione tra la forma classica di accumulazione primitiva (che si è verificata in Inghilterra) e quella delle nazioni del Terzo Mondo è abbastanza evidente. Il carattere decisivo di questa distinzione è che lo sviluppo capitalista del Terzo Mondo incontra la metropoli, gli interessi della borghesia dei paesi metropolitani.

Inoltre, la classica accumulazione primitiva aveva come ostacolo le forze tradizionali che resistettero allo sviluppo interno di un mercato della forza lavoro e al consumo di beni. La madrepatria inglese o francese combatté contro le stabilizzazioni delle vecchie classi in modo che, ognuno a modo suo, diventasse preponderante.

Nel caso dell’accumulo primitivo nelle nazioni periferiche, questo fenomeno non si è verificato. Ancora una volta, la categoria di particolarità è presente qui, come si rende conto Lukács. Mentre lo sviluppo capitalista veniva guidato dall’esterno, «ci fu un’alleanza sociale e politica a lungo termine tra imperialismo e oligarchie locali, che congelò le relazioni precapitalistiche della produzione sul campo»[8]. A quel tempo, non era nell’interesse della borghesia imperialista rompere con le forze locali che persistevano dominanti nelle rispettive regioni. L’esperienza storica ci dimostra che il consolidamento delle alleanze tra la borghesia straniera e l’aristocrazia regionale predominava in periodi storici come quello che raccontiamo.

Il grande servizio che la periferia forniva alla capitale metropolitana era quello di fornire materie prime. Non è casuale. La ricerca del capitale circolante (come la materia prima) si spiega con l’imperativo che il capitale contenga la caduta tendenziale del saggio di profitto.

Il problema posto al capitale imperialista era l’organizzazione precapitalistica della produzione di materie prime. Il basso grado di produttività della forma di produzione ha reso costosa la merce finale; pertanto, non c’era altra via d’uscita che organizzare la produzione di tali beni secondo le leggi dell’industria capitalista. Solo in questo modo, la produzione di materie prime sarebbe stata adeguata ai livelli di produttività del lavoro richiesti all’epoca. Quindi, Mandel osserva che «l’intervento diretto del capitale occidentale nel processo di accumulazione primitiva di capitale nei paesi sottosviluppati è stato quindi determinato, in misura considerevole, dalla pressione compulsiva su questo capitale, al fine di organizzare la produzione capitalista di materie prime su larga scala»[9].

Se, in questo modo, la capitale imperialista costringesse l’organizzazione a produrre materie prime a sua immagine e somiglianza, ciò non causava lo sviluppo di forze produttive nelle terre periferiche. Non era necessario, dato che il basso valore della forza lavoro, con i suoi piccoli costi di sostituzione, il grande esercito industriale di riserva e la relativa debolezza dell’organizzazione politica del proletariato, hanno messo a disposizione del capitale le condizioni appropriate per l’estrazione del plusvalore assoluto senza utilizzare l’aumento dei macchinari. Tuttavia, in queste circostanze, l’estrazione del plusvalore assoluto è stata la costante.

La situazione cambia a metà del XIX secolo. XX. Con il ristagno della produttività della produzione di materie prime nei paesi dipendenti e, d’altro canto, con l’aumento della produttività nello stesso settore nei paesi centrali, si è registrato un graduale inserimento della tecnologia nella produzione di materie prime in periferia. Inoltre, «il capitale monopolistico internazionale si interessò non solo alla produzione di materie prime a basso costo attraverso metodi industriali avanzati […], ma anche alla produzione, nei paesi sottosviluppati, di prodotti finiti che potevano essere venduti lì a prezzi monopolistici, invece di materie prime che erano diventate eccessivamente economiche»[10].

Va detto che l’industrializzazione della periferia non significasse il livellamento armonico del mercato mondiale, in cui ciascuno avrebbe calcolato simmetricamente la propria quota. Lo sviluppo dell’industria capitalista nei paesi periferici non ha modificato il fatto che il suo capitalismo è dipendente e subordinato alla metropoli.

Pertanto, ciò che abbiamo visto sul capitalismo periferico può essere riassunto nelle seguenti parole: Lukács ci ha dato il metodo, mentre Mandel ha riempito questo metodo di contenuto storico.

Infine, cosa si può vedere nello schizzo sopra è che la categoria della particolarità è essenziale per creare un quadro del capitalismo nei paesi periferici come quelli dell’America latina. Lukács aveva ragione quando ha richiamato l’attenzione sull’importanza metodologica della categoria. Con esso, è possibile collocare storicamente le mediazioni che hanno portato il capitalismo latinoamericano alla realtà contemporanea del modo in cui lo viviamo attualmente. Se l’universalità dell’attuale modalità di produzione è il capitalismo, all’interno di questa universalità ci sono particolarità molto precise, come quelle che riguardano la storia dell’America Latina.

 

 

 

 

[1] Cfr. Lukács György, Estetica I: la peculiaridad de lo estético, Barcelona, México, 1982, v. 3, p. 200.

[2] Cfr. LUKÁCS, György. História e consciência de classe. São Paulo: Martins Fontes, 2003, p. 105.

[3] Cfr. MANDEL, Ernest. O capitalismo tardio. Rio de Janeiro: Nova Cultural, 1982, p. 31.

[4] Cfr. MANDEL, op. cit, p. 31.

[5] Cfr. MANDEL, op. cit, p. 32.

[6] Cfr. MANDEL, op. cit, p. 35.

[7] Cfr. MANDEL, op. cit, p. 36.

[8] Cfr. MANDEL, op. cit, p. 37.

[9] Cfr. MANDEL, op. cit, p. 39.

[10] Cfr. MANDEL, op. cit, p. 43.

Il Caso Assange: dieci anni di guerra al diritto all’informazione.

Se una decisione governativa non può essere professata pubblicamente prima di essere messa in atto è ingiusta a priori e dimostra che l’operato dei rappresentanti politici è contrario ai principi che sorreggono il diritto del Patto civile.
Il fatto che Assange, nella sua qualità di giornalista, abbia pubblicato documenti che provino l’infedeltà di alcuni politici ai principi che essi stessi dovrebbero propugnare, non può in alcun modo essere visto come un atto criminale contro la sicurezza di uno stato. Al contrario è sempre necessario che la verità sia resa pubblica al fine di rendere il dibattito politico il più possibile autentico e che non vi sia scollamento tra i fatti e le opinioni dei cittadini.
ne hanno parlato Sara Chessa, Antonio Cecere e Antonio Coratti

Le religioni alla prova del dialogo. Note a Le religioni e le sfide del futuro. Per un’etica condivisa fondata sul dialogo

Per quanti operano, con ruoli diversi, all’interno della società e delle istituzioni, dunque anche all’interno dell’Università, il libro di Chiti rappresenta uno strumento di grande utilità per migliorare la comprensione di ciò che l’Autore chiama “il contributo che le religioni possono dare a un avanzamento della civiltà”. Può sembrare una frase retorica, che dice tutto e niente, ma non è così. A mio avviso, può invece diventare un monito dirompente se le religioni, a partire dai loro leader, decidono di lavorare per mettere in relazione il bene degli esseri umani con il bene del Creato.
Concordo, dunque, con Chiti sul ruolo “orientativo” delle religioni nella società globale e condivido la sua preoccupazione che la “logica della contrapposizione amico-nemico” possa prendere il sopravvento all’interno delle due sfere per antonomasia, quella della politica e quella del sacro, ma pure tra le “due sfere”, o tra i due “ordini” – per essere più affini al dettato costituzionale (art. 7, co. 1 Cost.) – quello dello Stato e delle confessioni religiose, ostacolando o finanche sbarrando la strada al dialogo, inteso (filosoficamente) come “crocevia che lascia scorrere le differenze, le fusioni di orizzonti” .
È chiaro che, per operare in un’ottica di solidarietà cooperativa verso il mondo c’è bisogno anche di “rafforzare i legami interreligiosi”, riconoscendo – come hanno scritto Papa Francesco e il Grande Imam di Al-Azhar nel Documento sulla Fratellanza umana del febbraio 2019 – che “il pluralismo è voluto da Dio”. Bene ha fatto, perciò, qualcuno a chiosare questa posizione bipartisan come “condanna alla radice di ogni visione fondamentalista” .
Chiti scrive che c’è bisogno di un “nuovo umanesimo” e individua, per esempio, nel fattore “ecologico” uno dei punti di svolta più importanti per risolvere i “problemi dell’Antropocene”, cioè “dell’epoca geologica attuale nella quale l’uomo è in grado di indirizzare e modificare tutti gli equilibri del pianeta terra” . Il Papa, dal canto suo, nella Laudato sì ha parlato chiaramente di “eccesso antropologico”, per cui l’uomo si costituisce come “dominatore assoluto”.
Un esempio di questo “antropocentrismo deviato” (Papa Francesco) è l’affermazione del presidente del Brasile Bolsonaro quando rivendica il diritto del governo brasiliano di distruggere la sua porzione di foresta amazzonica. A questa dichiarazione possiamo rispondere prendendo in prestito le parole del pontefice contenute nell’Esortazione Querida Amazonia del 12 febbraio 2020: “Alle operazioni economiche, nazionali e internazionali, che danneggiano l’Amazzonia e non rispettano il diritto dei popoli originari al territorio e alla sua demarcazione, all’autodeterminazione e al previo consenso, occorre dare il nome che a loro spetta: ingiustizia e crimine”.
Qui è come se Papa Francesco facesse propria la “prospettiva di un garantismo costituzionale” di portata sovrastatale (planetaria) , il cui nucleo risiede nella necessità/urgenza di rifondare una legalità (Papa Francesco direbbe una “relazione”) all’altezza delle emergenze globali.

Di fronte a questa sfida – parafrasando il Francesco della Laudato sì – “il divino e l’umano” non possono restare indifferenti e sono chiamati a riconnettersi in un universale non-omologante. La fraternità di Papa Francesco è l’opposto della globalizzazione vuota, è “costruzione” all’interno della quale la tensione non è dogmatica (“tecnocratica”) bensì “relazionale”, cioè “permeabile alla comunicazione” . “Non rinunciamo [dunque] a farci domande sui fini e sul senso di ogni cosa” (Laudato sì, n. 113). E poi: “Non c’è ecologia senza un’adeguata antropologia”. (Laudato sì, n. 113).
Si tratta perciò di un “movimento” – di una prospettiva di rifondazione della legalità globale – per nulla scontato (il sovranismo politico e quello mercatistico mal digeriscono i limiti e i vincoli costituzionali), che si nutre di scelte responsabili. il Documento di Abu Dhabi del 2019 (cit.) – che Chiti definisce di “portata storica” – si apre proprio con un chiaro impegno alla “responsabilità religiosa e morale”, senza la quale non sarà possibile “diffondere la cultura della tolleranza, della convivenza e della pace”, né “intervenire (…) per fermare lo spargimento di sangue innocente”, la “fine” delle “guerre” (…), “il degrado ambientale e [il] declino culturale e morale che il mondo attualmente vive”. E si tratta di un “movimento” che incontra fattori di resistenza ampi e diversificati sia all’interno del “giardino di Cesare” (citavo prima il sovranismo politico e quello mercatistico) che all’interno del “giardino di Dio” .
Su questo dilemma Chiti imbastisce la trama del suo libro analizzando con dovizia tutta una serie di questioni ad alto tasso di complessità e di interazione tra loro: il valore della laicità, il rapporto tra scienza e fede, il ruolo delle religioni come “istituzioni” e la loro azione all’interno dello spazio pubblico, il “peso” della religione e delle religioni nelle scelte individuali, le sfide della globalizzazione, l’azione missionaria delle chiese, i processi di rinnovamento all’interno delle comunità di fede (dall’interpretazione dei testi sacri alle ortoprassi nei contesti di immigrazione), il ruolo dei giovani e delle donne, la governance dei rapporti tra istituzioni pubbliche e organizzazioni religiose, la geopolitica del fattore religioso e il protagonismo dei leader, il dialogo interreligioso.
Quest’ultimo aspetto, in particolare, richiede un grande sforzo di servizio “in comune” tra soggetti religiosi (persone, leader e organizzazioni) e attori politico-istituzionali, lato sensu. Se, dal punto di vista delle religioni, “il dialogo interreligioso richiede di mettersi al servizio del dialogo di Dio con l’umanità” , dal punto di vista della politica (e del diritto) “la democrazia non può mai farsi i fatti suoi, perché i fatti sono suoi, se li consideriamo come elementi di crescita della coscienza e della consapevolezza del cittadino” . Per cui, parlare oggi di laicità, come “prefisso della libertà” , non significa limitarsi a ribadire astrattamente la “distinzione tra ordini distinti” (Corte cost. n. 334/1996) ma qualcosa di più, specie oggi che il panorama culturale e religioso si presenta molto più frastagliato e discontinuo rispetto al passato .

Si tratta, concretamente, di concepire una koinè democratica , le cui categorie di fondo (eguaglianza, libertà, pluralismo, solidarietà, laicità, etc.) devono essere sottoposte ad un lavoro di aggiornamento per essere più rispondenti alle nuove domande di cittadinanza interculturale . E questo lavoro di aggiornamento, inevitabilmente interdisciplinare, passa attraverso la conoscenza, il dialogo, l’inclusione, l’interazione, unica via (a mio avviso) per “garantire i diritti e i doveri di tutti verso tutti” . Dal modo come verrà concepito e organizzato questo sforzo capiremo quanta volontà c’è di “tenere insieme” l’umanità, come direbbe Papa Francesco .
È perciò fuori discussione che, all’interno del paradigma costituzionale – nel quale colloco la riflessione di Chiti – si imponga la necessità (se non addirittura l’urgenza) di conferire massima effettività ad una teoria integrata dei valori (perciò “interculturale”), dove tutto quanto risulta funzionale alla costruzione di una “proposta comune sui diritti” trovi massimo sostegno e diffusione, sia da parte degli apparati politici (in senso multilivello), chiamati a lavorare per accrescere il valore della cooperazione (art. 11 Cost.), sia da parte delle religioni, inquadrate innanzitutto come formazioni sociali, per essere meglio vincolate al “patto repubblicano” e, dunque, impegnate anch’esse a rimuovere gli ostacoli (nella società e nelle comunità spirituali) che impediscono il “pieno sviluppo della persona umana” (art. 3, co. 2 Cost. e l’art. 4, co. 2 Cost. dove si parla, non a caso di “progresso spirituale della società”).
Una teoria integrata (“interculturale”) dei valori costituzionali ha buone ragioni per costituire lo sfondo anche per una teoria del dialogo interreligioso, perché ciò che caratterizza la prima è la “ricerca delle comunanze, di ciò che ci rende umani”, [che] tradotto in linguaggio costituzionale [significa] l’idea[valore] del principio personalista” , declinato anche in ragione di ciò che “un individuo avvert[e] verso una realtà più grande di lui, nella quale (…) si identifica” .
Per non essere, dunque, di sola facciata, il dialogo interreligioso (come prodotto raffinato del dialogo interculturale) richiede la disponibilità (non scontata) a compiere un lavoro di ripulitura incrementale dei linguaggi specialistici (politico, giuridico, teologico, etc.). Significa avere “fiducia nella portata veritativa delle diverse tradizioni spirituali, contro il fanatismo integralista di chi ritiene che la verità sia tutta e solo la propria dottrina” e che “rischia [sottolinea Chiti] di confinare le religioni in rappresentazioni mitologiche”.
Mi pare, allora, che la versione di Chiti sul significato del dialogo interreligioso (e non solo) sia abbastanza adesiva a quanto da me appena detto, specie quando scrive che: “la collaborazione tra le religioni deve andare oltre il reciproco rispetto e mettere al bando forme di coercizione, di arroganza, la pretesa di imporre (…) un esclusivo punto di vista”. E che per dare concreta attuazione a questo intento occorre “integrare tutti in una nuova cittadinanza, che faccia delle differenze di fede e cultura una ragione di sviluppo e progresso, non di divisione”, erigendo la laicità a “valore cardine della democrazia”.

BENJAMIN, BAUDELAIRE E LA MODERNITÀ. Una voce critica nella folla.

Il 26 settembre 1940 moriva il filosofo marxista ebreo e «eretico» Walter Benjamin (1889-1940), a Port Bou, sulla costa atlantica della Spagna, in fuga dalla persecuzione nazista, e in vana attesa d’imbarcarsi per gli Stati Uniti, dove l’attendevano a New York gli amici Max Horkheimer e Theodor W. Adono, nel ricostituito il nucleo dell’Institut für Sozialforschung di Francoforte, soppresso nel 1933 dal regime nazista. Quando Benjamin si tolse la vita con un’overdose di morfina, portava con sé i manoscritti dell’ultima opera, dedicata a Baudelaire e ai Passages di Parigi. A ottant’anni dalla scomparsa, oggi il suo lascito intellettuale non cessa di suscitare interesse per l’ampiezza e la profondità di vedute su temi filosofici fondamentali, ancora oggi. In particolare, il tema della «modernità» (termine forgiato da Baudelaire), la quale, malgrado le sirene del «postmodernismo», è ancora la nostra, nei primi decenni del ventunesimo secolo.
Tra i molteplici temi affrontati da Benjamin, il maggiore è dunque senz’altro la critica della modernità capitalistica, che trova espressione letteraria nell’opera del maggiore poeta della «Parigi capitale del secolo XIX», Charles Baudelaire (1821-1867). La recente edizione degli scritti dell’ultimo Benjamin, fornita da G. Agamben, B. Chitussi e C.-C. Härle : Charles Baudelaire. Un poeta lirico nell’età del capitalismo avanzato (Vicenza, Neri Pozza, 2012) ha offerto una nuova immagine del già noto autore delle tesi Sul concetto di storia, nelle vesti di critico letterario e insieme di filosofo critico della società capitalistica degli ultimi decenni del XIX secolo. Perché Baudelaire? Anzitutto per l’attenzione che il poeta presta ai soggetti marginali della società, nei poemetti in prosa, Lo Spleen di Parigi (1864-1869), con la sensibilità rivolta alle stridenti contraddizioni sociali, più visibili che altrove, nella Ville Lumière.
Dietro il celebre énivrez-vous! di Baudelaire («Ubriacatevi! Per non sentire l’orribile fardello del Tempo che vi spezza la schiena […] ubriacatevi sempre! Di vino, di poesia o di virtù, come vi pare»), c’è la liberazione dal tempo del lavoro meccanizzato che nell’intellettuale poeta, godendo questi appunto del privilegio di avvalersi del prodotto del plusvalore liberato (il «tempo libero»), si rovescia nella noia, lo spleen legato al vuoto dell’alienazione, del meccanico ripetersi delle ore (pendant della ripetitività dei gesti lavorativi), la solitudine della folla nella grande città. Per il Baudelaire letto da Benjamin la folla «cominciava a organizzarsi come pubblico. Assurgeva al ruolo di committente e voleva ritrovarsi nel romanzo contemporaneo, come i fondatori dei quadri del Medioevo». Baudelaire è qui la voce critica nella folla, la quale sta sullo sfondo di molti suoi poemi («La sua folla è sempre quella della metropoli; la sua Parigi è sempre sovrappopolata… la massa era il velo fluttuante attraverso il quale Baudelaire vedeva Parigi»). La folla è la massa anonima della metropoli, e lo choc cui soggiace il passante (flâneur) che si lascia trascinare dal suo flusso, è la modalità nuova d’esperienza del moderno.
Choc e spleen sono i tratti comuni della società occidentale moderna nell’età del capitalismo avanzato. «A una passante» è il titolo della più suggestiva tra le poesie dei Fiori del male, che attirò l’attenzione anche di Proust (per la figura di Albertine, nella Recherche): una donna bellissima, alta, snella, velata a lutto, attraversa la folla in senso contrario a quello del flâneur, lo urta, lui ne cade perdutamente innamorato («Un lampo… poi la notte! – Fuggitiva bellezza/ il cui sguardo m’ha fatto improvvisamente rivivere, / non ti rivedrò che nell’eternità?/ Altrove, ben lontano da qui, tardi, troppo tardi, forse mai!/ Io non so dove fuggi, tu ignori dove io vada, / O te che avrei amato, o te che lo sapevi!»). Benjamin vede condensata in questa esperienza lo choc dell’incontro, della «catastrofe» che colpisce il soggetto moderno, nella società industriale, con la sua estraneazione rispetto al proprio stesso desiderare e sentire: «L’estasi del cittadino è un amore non tanto al primo, quanto all’ultimo sguardo. È un congedo per sempre che coincide, nella poesia, con l’attimo dell’incanto. Così il sonetto presenta lo schema di uno choc, anzi lo schema di una catastrofe. Ma essa ha colpito, insieme al soggetto, anche la natura del suo sentimento. Ciò che contrae convulsamente il corpo del poeta non è la beatitudine di colui che è invaso dall’eros in tutte le stanze del suo essere; ma ha piuttosto qualcosa dell’imbarazzo sessuale, come può sorprendere il solitario… Questi versi… fanno emergere le stimmate che la vita in una grande città infligge all’amore».
In questo esempio si scorge in modo esemplare la grandezza dell’opera di Benjamin, la sua preziosa eredità consegnata al nostro secolo, che sta in questa capacità di voce e di sguardo critico lanciato tra le pieghe della realtà; in una «modernità» – Baudelaire la definiva «il transitorio, il fuggitivo, il contingente, la metà dell’arte, di cui l’altra metà è l’eterno e l’immutabile» – ferita dalle «stimmate» della vita nelle grandi metropoli. La modernità capitalistica cittadina ha prodotto una nuova forma di esperienza (choc, spleen, estraneazione ecc.), che Benjamin sottopone a una critica serrata, critica della vita quotidiana dalla prospettiva di un pensiero radicale che tenne ben ferma, allora, la necessità del «freno di emergenza», il freno socialista e comunista della rivoluzione.

L’articolo è uscito in precedenza per l’ «Avanti» del 21/12/2020

Homo pandemicus: ideologia COVID e nuove frontiere del consumo.

Di Fabio Vighi
Come scrisse Ralf Dahrendorf nel lontano 1985, ‘la società centrata sul lavoro è morta, ma non sappiamo come seppellirla’ – e in effetti, aggiungiamo noi, il fetore comincia a farsi insopportabile. Rimaniamo cioè definiti dal produttivismo capitalista senza però poter più estrarre nuova ricchezza (plusvalore) da un “lavoro vivo” ormai estromesso da inarrestabili processi di automazione. Ma proprio l’individuo improduttivo e atomizzato della globalizzazione neoliberista, il soggetto “senza valore”, smarrito e infantilizzato, è oggi completamente assuefatto al dominio reale dei rapporti capitalistici. L’indole conformistica della piccola borghesia di un tempo si trasferisce oggi nell’aspirazione collettiva di appartenere a un “ceto mediocre” impegnato solo a consumare e sopravvivere, o a vivere per rimanere in vita. Solo l’essere-per-la-merce (insieme a un avvilente narcisismo fatto di palestra, addominali, tatuaggi, pilates, cardiofitness, ecc.) ci tiene uniti. Mai come ora la teologia feticistica del valore si afferma come ideologia, estendendosi a tutti i settori della vita, inclusi l’informazione, l’istruzione e la medicina.