Globalizzazione economico-finanziaria e neo-liberismo hanno determinato nelle economie avanzate l’affermazione di potentati di puro fatto, che ha messo nel nulla il nesso politica – diritto, sia a livello planetario, sia a livello interno ai singoli Stati nazionali, orientando anche la gestione delle entità sovranazionali.
di Bruno Montanari
articolo già pubblicato sulla rivista on line www.giustiziainsieme.it
La crisi
delle democrazie rappresentative è, ormai, un fatto accertato. La tendenza in
atto è verso una polarizzazione delle forze politiche, con vantaggio di quei
movimenti che istituiscono un rapporto diretto e immediato tra base popolare,
la più ampia possibile, e una forma di leadership fortemente personalizzata.
Una tale tendenza sta modificando la struttura stessa dello Stato di diritto.
Sta divenendo, infatti, evanescente l’idea di un ordinamento giuridico capace
di controllare la legittimità dell’azione politica, secondo regole di
competenza destinate a fondare un potere “funzionale”; a tale idea va
sostituendosi un pragmatismo fondato sulla negoziazione tra poteri di fatto,
anche quando questi poteri coincidono con organi o con figure istituzionali;
nel senso, cioè, che anche organi o figure istituzionali, dotati quindi un
potere funzionale, operano, in realtà, come se incarnassero un potere di puro
fatto (tornerò su questo profilo alla fine). Ciò determina una dissoluzione
dell’intero sistema e il venir meno nell’ambiente sociale, sia nei cittadini
sia anche nel personale politico, di quello che era, secondo Max Weber, il
presupposto materiale per la legittimazione del potere di governo: la “credenza
nell’ordinamento”. “Credenza”, appunto; una situazione ideale o, se si vuole,
di tipo genericamente mentale, in ogni caso sociologica e pre-giuridica,
consistente in uno stato d’animo diffusamente radicato in una collettività,
idonea a mettere in forma una società capace di esprimere, attraverso il voto,
la propria visione del governo. Globalizzazione economico-finanziaria e
neo-liberismo hanno determinato nelle economie avanzate l’affermazione di
potentati di puro fatto, che ha messo nel nulla il nesso politica – diritto,
sia a livello planetario, sia a livello interno ai singoli Stati nazionali,
orientando anche la gestione delle entità sovranazionali. Vengo ora alla
questione più specifica della crisi della rappresentanza politica. Si ritiene
che sia una questione di modelli elettorali, più o meno efficaci
nell’individuare la funzione governante. Questa opinione è certamente corretta,
a una condizione però: che esista nella mentalità comunemente diffusa quella
che ho definito “credenza nell’ordinamento”. Ancora, questa opinione è
assolutamente valida a partire dalla condizione che esistano “partiti” capaci
di costituire una mediazione tra le esigenze della base e una visione di
governo. Il nesso tra questi due profili implica l’esistenza di un tessuto
sociale sufficientemente omogeneo, nella sua parte maggiore (lo zoccolo duro),
che si forma attraverso la redistribuzione del reddito ed una sufficiente
mediazione tra le diversità culturali. Se vengono meno questi profili, la
questione della rappresentanza cambia completamente i suoi “connotati”.
Vediamo. Il votare consiste in una decisione umana; quindi, prima di ogni
modellistica, occorre vedere come si forma una qualsiasi decisione nella
“testa” di chi va a votare (o, anche, di chi decide di non andare). La
decisione si forma in base ad alcuni fattori, mescolati tra loro. Li distinguo.
Il primo è il contenuto del messaggio elettorale inviato dagli attori politici;
il secondo è rappresentato dagli strumenti comunicativi utilizzati; il terzo
dalla capacità di ascolto, comprensione ed elaborazione del messaggio,
consistente, quest’ultimo, in una osmosi tra contenuto e mezzo comunicativo.
L’esempio italiano è particolarmente significativo. Consideriamo l’espressione:
“sono cose – le “promesse” – che si dicono, perché siamo in campagna
elettorale”. Espressione che viene ripetuta, come se fosse ovvia, da qualsiasi
giornalista o commentatore politico, senza però valutarne la gravità, sul piano
della funzione elettorale. E ciò è grave per due ragioni. La prima:
perché si ritiene che il processo elettorale non serva “per
governare”, ma solo “per andare al governo”. La seconda: perché
si ritiene che la gente comune sia facilmente suggestionabile. Sotto entrambi
gli aspetti è una mancanza di rispetto per quell’elettore al quale si chiede il
consenso. Lo si tratta come un “utile idiota”. Ho detto della mancanza di una
effettiva mediazione partitica, capace di elaborare, secondo le esigenze
del governare, le istanze della base, della gente comune. Mi spiego. E’ del
tutto fisiologico che l’uomo comune guardi il mondo secondo i propri
bisogni e necessità quotidiane e su tale attitudine incide la diversa visione
spaziale e temporale del proprio ambito vitale. Incide, cioè, quella maggiore o
minore ampiezza del c.d. “orto di casa”, che esiste tra ambienti sociali di
diversa consistenza economica, di diversa educazione personale e sociale, di
istruzione e cultura. E’ una pluralità di condizioni di vita che determina una
differente propensione a trascendere le impellenze della quotidianità. Per
molti, e in certi momenti per i più, la pressione del vivere quotidiano è tale
da non consentire quella presa di distanza dalla suggestione dell’immediatezza,
che invece consente a chi, per consistenza economica e istruzione e cultura,
può avere un’attitudine al ragionamento ed alla riflessione, sì che la sua
risposta sia meno dettata dalla reattività immediata. E’ ovvio che chi
abita in una periferia disagiata non abbia la “testa”, la voglia e neppure il
tempo per riflettere su questioni che sono del tutto altre e lontane dal suo
spazio vitale; è assai diverso, invece, per colui che abita nel centro di una
città o comunque in un quartiere non periferico. Tale fenomeno trova la sua
manifestazione in nuove ed inedite, fino a poco tempo fa, divisioni sociali,
che non appaiono come dialettica tra idee o ideologie politiche, ma assumono le
sembianze di vere e proprie contrapposizioni di ambienti umani; ad esempio, tra
periferia e centro città, tra città e campagna, tra popolo ed élite, e, ancora,
tra base e establishment. I referendum e i flussi elettorali ne costituiscono,
talora, una esaltazione. E’ qui che la fine della “mediazione progettuale”
operata dai partiti del ‘900 fa sentire tutto il suo peso. Il quadro che ho
descritto mette in luce un degrado umano-culturale dell’ambiente sociale che
l’attuale modo di “fare politica” insegue ed esalta, anziché cercare di
fronteggiarlo. Questo fenomeno è prodotto dall’uso abituale di una tecnologia
comunicativa (i cosiddetti “social”), la quale è caratterizzata da due aspetti,
entrambi dagli effetti socialmente e politicamente perversi sul piano della
capacità di ascolto e comprensione dei destinatari del messaggio. Il primo: il
social è attraversato da affermazioni apodittiche, icastiche, dunque
suggestive, impressionanti; la sua efficacia è maggiore, quanto più è capace di
avere impatto sul destinatario. L’ “impatto”. Esso è ciò che destruttura la
temporalità, poiché il “tempo” dell’ascolto-comprensione-riflessione è
sostituito, e dunque, annullato dalla immediatezza a-temporale della reattività
(su questa tematica vi sono ormai ampli studi). Il secondo aspetto consiste nel
dirigersi direttamente a ciascun destinatario, nella sua assoluta ed isolata
individualità, determinando quindi una frantumazione dell’ambiente umano,
poiché ognuno agisce pensando esclusivamente alla propria condizione. Questa
operazione disabitua le persone al confronto ed al dialogo, e le attuali
formazioni partitiche fanno, come ho detto, della esaltazione delle istanze
individualistiche la propria fortuna elettorale e quindi la propria
affermazione sulla scena politica. Si potrebbe osservare che il puntare sulla
reattività umana generata dalla immediatezza emotiva dell’ ”impatto” non sia
una modalità nuova del fare politica; nella storia politica del ‘900, balconi e
piazze, con le relative adunate, perseguivano il medesimo effetto. Con qualche
differenza non trascurabile. I destinatari del messaggio propagandistico erano
“adunati”, vale a dire stavano insieme, l’uno accanto all’altro proprio al fine
di dare una risposta immediata, sì, ma unitaria. Tale condizione era possibile
poiché vi era di mezzo un balcone, una piazza, un pulpito; tutti mezzi che
creavano, da un lato, una distanza materiale tra il protagonista e gli
spettatori e consentivano, dall’altro, di far sentire ai convenuti di essere un
“insieme” socialmente unitario: un “corpo” politico. L’attuale propaganda,
attuata attraverso i social, ha quell’effetto del tutto opposto che ho
accennato: quello, cioè, di esaltare l’individualismo reattivo e con esso la
frantumazione dell’idea stessa dello stare insieme. Il fenomeno diviene ancor
più grave, quando la desuetudine alla riflessione opera nel settore del diritto
che deve reggere e controllare la funzione governante genericamente intesa. Un
esempio. La formula attualmente usata, “contratto di governo”, per
giustificare la coalizione “giallo-verde”, rappresenta una vera e propria
rottura costituzionale. Mi spiego. Il “contratto”, come è noto anche
alla gente comune, è un atto diritto privato, confezionato per soddisfare
interessi privati e i cui effetti valgono esclusivamente per i
sottoscrittori. La sua efficacia “erga omnes“, come è per
un “contratto di governo”, avrebbe avuto bisogno di una elaborazione giuridica,
quale fu quella con la quale si giustificò, con il nascere del diritto del
lavoro del dopoguerra, l’efficacia “erga omnes” della
contrattazione collettiva sindacale (ricordo 3 giuristi con altrettante
“teorie”: Francesco Santoro Passarelli, Costantino Mortati, Federico Mancini).
Che le forze di governo non si siano poste il problema di una
“giustificazione” giuridica (che andasse oltre la mera recezione legislativa
degli accordi contrattuali di governo, così come fu, invece, per l’efficacia erga
omnes giuslavoristica) non mi stupisce, ma che non se lo siano
posto il Presidente del Consiglio (che è un professore ordinario di diritto
privato) e neppure le cariche istituzionali di garanzia, e tanto meno la
stampa, è il segno di questo tempo. Di un tempo, cioè, nel quale si assiste alla
evaporazione di quella che ho definito, ricordando Weber, “credenza
dell’ordinamento”. Vi è da ricordare un altro precedente in proposito, al fine
di segnare la differenza con l’attualità della situazione. Oltre a quello
gius-lavoristico, negli anni ’70 prese corpo in Italia il fenomeno denominato
“uso alternativo del diritto”, con finalità prevalentemente di giustizia
sociale ideologicamente fondata. Ricordare quel fenomeno è importante per la
ragione specifica che esso mise in evidenza la sensibilità giuridica di quella
generazione di giuristi, che, nelle varie vesti, vi prese parte. La
denominazione è la chiave. Quei giuristi pensavano ad un uso alternativo del
diritto inteso come sistema giuridico vigente, con le sue “categorie”
riguardanti sia le fonti sia gli istituti. E proprio per questa dimensione
“culturale”, il dibattito, ed anche lo scontro, all’interno del mondo politico,
sociale e giuridico, fu assai significativo. Qui è la distanza con il tempo che
viviamo. Oggi non si fa più un “uso alternativo” del diritto, ma si confeziona
un diritto alternativo; un diritto, che può denominarsi tale solo perché
nell’uso comune si fa coincidere la forma normativa con il termine “diritto”.
Ma il diritto, anche su di un piano meramente formale, non si riduce ad una
formulazione linguistica prescrittiva (talora neppure esatta, proprio perché
chi la confeziona ignora il diritto); esso è razionalmente strutturato, e
dunque connotato, invece, da un nesso tra procedure – finalità – ambiti di
rilevanza (pubblico-privato) per quanto attiene agli effetti, che conduce
all’altro nesso, superiore, competenza – responsabilità – legittimazione per
quanto attiene ai soggetti. Alla origine della deriva pragmatico-negoziale sta
quella linea culturale, di ben altro spessore epistemologico, denominata
“funzionalistica” (à la Luhmann), che si è sviluppata nella
seconda metà del ‘900, alla quale, ma in altra sede, occorrerebbe prestare
attenzione proprio in relazione alla trasformazione del pensiero giuridico. Le
tecnologie comunicative attuali “concretizzano” quella che nel ‘900 era
solamente una linea di pensiero. Occorre aggiungere che i politici di oggi non
ne sanno, certamente, nulla! Operano mossi istintivamente da una forma
mentis, della quale non conoscono la provenienza. Con il
riferimento alla “epistemologia funzionalistica” torno alla affermazione
contenuta all’inizio di questo intervento e che, in quella sede, poteva
apparire apodittica: che lo stato di diritto si sia trasformato in una
negoziazione pragmatica tra poteri di puro fatto, anche quando questi
coincidono con organi costituzionali. Ora credo possa avere una sua propria
giustificazione. Concludo con la seguente osservazione. Poiché la realtà
quotidiana è fatta dagli uomini, qualsiasi luogo sociale occupino, occorre
guardare alla formazione delle generazioni. In altre parole, gli eventi, così
come gli atteggiamenti mentali e materiali che li producono, in una parola la
“storia” di un’epoca (di qualsiasi epoca), sono una “conseguenza
anagrafica”.