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QUANDO LA NATURA METTE SOTTO SCACCO L’ORGOGLIOSA MODERNITÀ

di Enrique Dussel
traduzione di Antonino Infranca

Stiamo vivendo un evento di significato storico mondiale, del quale possibilmente non misuriamo il suo senso abissale come segno finale di un’epoca di lunga durata e inizio di un’altra nuova Età, che abbiamo denominato la Transmodernità. Il virus che attacca oggi l’umanità, per la prima volta nel suo millenario sviluppo, in un momento nel quale può aversi piena coscienza della simultaneità (in tempo reale) verificata dai nuovi mezzi elettronici, ci fa pensare nel silenzio e nell’isolamento auto-imposto a ciascun essere umano davanti a un pericolo, che mostra la vulnerabilità di un castello di carte che viviamo quotidianamente, come se fosse la consistenza di una struttura invulnerabile. Il fatto ha prodotto innumerevoli reazioni di colleghi filosofi e scienziati, perché richiama profondamente l’attenzione. Vogliamo aggiungere un granello di sabbia alla riflessione sullo spaventoso avvenimento.
L’Umanità, almeno l’homo sapiens, da circa 200.000 anni, è riuscita a svilupparsi storicamente vincendo numerosi ostacoli per ottenere la sua sopravvivenza. Si inserisce in un processo iniziato, se andiamo all’origine, con il cosiddetto Big Bang (accaduto circa 15 miliardi di anni fa), con il momento della solidificazione della Terra (5 miliardi di anni fa), con la comparsa della vita (3,5 miliardi di anni fa) cominciò a trasformarsi in Gea, cioè, modificando la corteccia terrestre, creando l’atmosfera e proteggendo la biosfera, affinché i raggi ultravioletti non potessero distruggerla. Circa 70 milioni di anni fa apparvero i primati e, infine, lo stesso homo sapiens (la noosfera di T. de Chardin o oggi denominata Antropocene o Età dell’essere umano sulla Terra).
Con il Neolitico (circa 15.000 anni fa) l’umanità cominciò a trasformarsi da nomade in urbana, creando i primi villaggi o città, possibili grazie all’organizzazione di un doppio parassitismo: vegetale (con l’agricoltura) e animale (con la pastorizia). Come viventi noi uomini dobbiamo alimentarci di vegetali per ottenere proteine e altre sostanze che solo essi producono. Cominciò così un’inevitabile entropia (il passaggio da un bene d’uso a una cosa inutile, senza possibile nuovo uso) che significò il distruggere i boschi, che producono ossigeno, per trasformarli in campi per la coltivazione agricola. Come onnivori noi umani uccidiamo e ci alimentiamo di animali non umani (fu uno dei primi tabù negare l’antropofagia). Così nacquero e crebbero le grandi civilizzazioni urbane del Neolitico in Eurasia, Africa e America.
Nel 1492, Cristoforo Colombo, un membro dell’Europa latino-germanica scopre l’Atlantico, conquista l’America latina e nasce così l’ultima Età dell’Antropocene: la Modernità, producendo inoltre una rivoluzione scientifica e tecnologica, che lasciò indietro tutte le civiltà del passato, catalogate come arretrate, sottosviluppate, artigianali. Lo denomineremo Sud globale; e questo solo cinquecento anni fa.
Questa splendida Età del Mondo inaugurata si porrebbe in relazione con la Natura metodologicamente, grazie a Francis Bacon (1562-1626) con la sua opera Novum Organum (1620) e a partire dal manifesto filosofico di René Descartes (1596-1650) Il discorso sul metodo (1637). In questo modo, l’indicata Natura è costituita come una cosa osservabile o sfruttabile, quasi infinita per le sue risorse e come oggetto manipolabile da un demiurgo umano inteso come un soggetto senza limiti di conoscenza o manipolazione di questo oggetto: la Natura. Per Descartes l’essere umano è «un’anima alla quale è indifferente avere un corpo» (res extensa); cioè, una realtà quantitativa, non avendo importanza la qualità e la vita. La interpretava come una macchina conosciuta prevalentemente dalla matematica. Questa Natura è così un oggetto conoscibile, manipolabile, sfruttabile. La fisica si trasforma nella scienza fondamentale. L’essere umano fonda il suo privilegio nell’“Io penso”, che conosce, che si pone a un livello teorico davanti agli oggetti naturali quantificabili a nostra intera disposizione.
Con questi presupposti trascorsero i secoli successivi. L’“Io europeo” produsse una rivoluzione scientifica nel XVII secolo, una rivoluzione tecnologica nel XVIII, avendo il XVI secolo inaugurato un sistema capitalista (la cui razionalità ultima è l’aumento quantitativo del tasso di profitto in qualsiasi investimento sul mercato, che si effettua grazie all’ottenimento di un plusvalore da parte dell’operaio) con un’ideologia moderna eurocentrica (come superiorità culturale, estetica, morale, politica, ecc.), coloniale (perché questa Europa era il centro del sistema-mondo grazie alla violenza conquistatrice del suo esercito che giustificava il suo diritto di dominio su altri popoli), patriarcale (perché il maschio bianco dominava la donna in Europa e le donne coloniali di colore come in Messico), e, come culmine, l’europeo si pose come sfruttatore senza limite della Natura.
In effetti, i valori positivi ineguagliabili dell’indicata Modernità, che nessuno può negare, si trovano corrotti e negati con una sistematica cecità degli effetti negativi delle loro scoperte e dei loro continui interventi nella Natura. Questo è dovuto, in parte, al disprezzo per il valore qualitativo della Natura, specialmente per la sua nota costitutiva suprema: l’essere una “cosa viva”, organica, non semplicemente meccanica; non è solo una “cosa estesa”, quantificabile. La scienza di riferimento adesso smette di essere la fisica, sostituita dalla biologia, e, come momento centrale cosmico, la neurobiologia: il cervello umano. Il cervello umano è l’organismo vivente più complesso dell’universo conosciuto. Inoltre, la Natura non è un semplice oggetto di conoscenza, bensì è il Tutto (la Totalità) dentro il quale esistiamo come esseri umani: siamo frutto dell’evoluzione della vita della Natura che si pone come nostra origine e ci porta come sua gloria, rendendoci possibili come un effetto interno (“le sue figlie e figli”) e, per questo, non metaforicamente, l’etica si fonda nel primo principio assoluto e universale: quello di affermare la Vita in generale e la vita umana come la sua gloria! Essa è condizione di possibilità assoluta e universale di tutto il resto, della civiltà, dell’esistenza quotidiana, della felicità, della scienza, della tecnologia e finanche della religione. Male potrebbe operare qualche azione o istituzione se l’Umanità fosse morta.
Oggi, la Madre natura (adesso come metafora adeguata e certa) si è ribellata; ha messo sotto scacco (come quando si dà uno “scacco matto al re” sulla scacchiera) sua figlia, l’Umanità, per mezzo di un’insignificante componente della Natura (Natura della quale è parte anche l’essere umano che condivide la realtà con il virus). Mette in questione la Modernità e lo fa mediante un organismo (il virus) immensamente più piccolo che un batterio o una cellula e infinitamente più semplice che l’essere umano che ha miliardi di cellule con complessissime e differenziate funzioni (che sono milioni). E la Natura oggi ci interroga: O mi rispetti o ti annichilisco! Si manifesta come un segno finale della Modernità e come annuncio di una nuova Età del Mondo, successiva a questa civilizzazione moderna superba che è diventata suicida. Come reclamava Walter Benjamin, si doveva applicare il freno e non l’acceleratore necrofilo in direzione all’abisso.
Si tratta, quindi, di interpretare la presente epidemia come se fosse un boomerang che la Modernità ha lanciato contro la Natura (poiché è l’effetto non intenzionale di mutazioni di germi patogeni che la stessa scienza medica e industriale farmacologica ha originato) e che ritorna contro di essa nella forma di un virus dei laboratori o della tecnologia terapeutica. L’interpretazione tentata indica che il fatto mondiale, mai sperimentato prima, nella maniera così globalizzata come lo stiamo vivendo, è qualcosa più che la generalizzazione politica dello stato di eccezione (come lo propone G. Agamben), il necessario superamento del capitalismo (nella posizione di S. Zizek), l’esigenza di mostrare il fallimento del neoliberalismo (dello “Stato minimo”, che lascia nelle mani del mercato e del capitale privato la salute del popolo) o di tante altre proposte molto interessanti. Crediamo che stiamo vivendo per la prima volta nella storia del cosmo, dell’Umanità, i segni dell’esaurimento della Modernità come ultima tappa dell’Antropocene e che permette di intravedere una nuova Età del Mondo, la Transmodernità (della quale abbiamo esposto alcuni aspetti in altri articoli e libri), nella quale l’Umanità dovrà apprendere, a partire dagli errori della Modernità, ad entrare in una Nuova Età del Mondo, dove, partendo dall’esperienza della necro-cultura degli ultimi cinque secoli, dobbiamo innanzitutto affermare la Vita sul capitale, sul colonialismo, sul patriarcalismo e su molte altre limitazioni che distruggono le condizioni universali della riproduzione di questa Vita sulla Terra. Questo dovrà essere ottenuto pazientemente lungo il XXI secolo che abbiamo solo iniziato. Nel silenzio del nostro ritiro, richiesto dai governi per non contagiarci con questo segno apocalittico…, abbiamo tempo per pensare al destino dell’Umanità in futuro.

Epidemia e crisi della società umana.

di Antonino Infranca

L’articolo di Badiou mi ha convinto a uscire dal riserbo in cui gli outsider dovrebbero relegarsi. Ne esco perché mi aspettavo una qualche originale idea, degna del maestro qual è Badiou, ma questa idea non è venuta. Gli altri che prima, e meglio di me, hanno partecipato al dibattito hanno più e meglio di me messo in evidenza i limiti e la superficialità dell’articolo di Badiou e non volendo passare per chi spara sulla Croce Rossa, mi riprometto di non fare più alcun cenno alla suggestione mancata dell’articolo di Badiou; suggestione che mi aspettavo di ricevere. 

Mario Reale è stato molto incisivo nel ricordare che in fondo Badiou ha parlato solo della Francia. Per tanti altri intellettuali francesi, già parlare della Francia è parlare del mondo. Ancor più incisivo è l’accenno di Reale all’Occidente. In fondo l’epidemia di Covid-19 è diventata di attualità quando ha colpito l’Occidente, prima l’Italia e poi lentamente tutti gli altri Stati dell’Occidente, del Centro del mondo, sono stati colpiti. Fin quando era un affare di una provincia cinese, con i suoi luridi mercati e le sue incivili pratiche alimentari – come ha affermato Badiou – non aveva una grande importanza, era un fatto periferico

Proprio questa considerazione ha permesso la diffusione globale del virus, perché se è vero che ci sono state nel passato più vicino importanti epidemie, ma nessuna ha raggiunto la diffusione del Coronavirus. Vittorio Giacopini ha citato giustamente la Spagnola, ma si potrebbero aggiungere l’Asiatica nel secondo dopoguerra e risalire nel lontano passato alle epidemie di peste del 1348 e del 1630. Ma quello che adesso sconcerta è che di fronte al palese carattere globale dell’epidemie le risposte sono soltanto nazionali, malgrado che l’Organizzazione Mondiale della Sanità tenti in tutti i modi di fare capire cosa come dovrebbero reagire tutti gli Stati. Ma l’OMS è un’agenzia delle Nazioni Unite e viene trattata come l’ONU, cioè nessuno l’ascolta. 

La risposta all’epidemia di Covid-19 è rimasta nelle mani degli Stati-nazione e visto lo stato di emergenza le decisioni sono concentrate nelle mani dei capi di stato e di pochi altri responsabili politici. Qui è emerso il lato più tenebroso del capitalismo odierno e dei suoi leader politici. I capi più rappresentativi di grandi nazioni, quali Johnson in Gran Bretagna o Bolsonaro in Brasile e il leader del più potente Stato del mondo, Trump negli USA non hanno nascosto la loro concezione sociale e politica: l’epidemia non è un affare importante, essa viene da una periferia miserabile, colpisce i più deboli, gli anziani, non può colpire grandi Stati come il nostro. Questa è una concezione eugenetica della politica, perché considera gli altri, i deboli, gli esclusi, o le vittime come superflui. Non è un ignorare il problema, come hanno fatto tutti i leader delle nazioni colpite, a cominciare da Xi Jinping, è una dichiarazione di volontà di potenza! Chi si permette di esprimere questo genere di idee, si sente tanto potente da potere dire che le vittime sono superflue. Trent’anni fa molto probabilmente dichiarazioni del genere avrebbero sollevato un’ondata di indignazione che avrebbe sommerso tali dichiaranti, oggi al più si pensa che siano dichiarazioni bizzarre. La verità è chi ha fatto dichiarazioni del genere, sa che può farlo e che una parte dell’opinione pubblica del suo paese sarà con lui, come sta avvenendo in Brasile. Ma il Brasile non è la Francia e, quindi, non fa notizia. 

Giacopini ha ricordato alcune delle vittime del Coronavirus: i lavoratori precari. Ma queste erano già vittime del capitalismo del XXI secolo! Ci sono delle nuove vittime: gli anziani. Gli anziani erano, prima dell’epidemia, un pilastro delle economie stentate e sofferenti, come la nostra e il loro essere vittime avrà sicuramente conseguenze profonde. Non voglio fare previsioni, così evito di sbagliarmi, ma migliaia di anziani in meno nell’asfittica economia italiana qualche conseguenza l’avranno. Quante famiglia vivevano con il loro importante sostegno economico. Naturalmente non tralascio anche il danno umano e spirituale della loro morte, ma quello è un danno che viene solitamente gestito all’interno delle famiglie e delle cerchie degli amici. 

I governi, dietro le pressioni degli imprenditori, si stanno preoccupando di non fermare le industrie, non fermare la produzione, non ha alcuna importanza il destino dei lavoratori, come non aveva alcuna importanza prima dell’epidemia. Neanche il pensiero che una forza-lavoro decimata da un’epidemia è una forte perdita economica per una società civile fa dubitare la classe politica nella sua decisione di continuare a puntare sulla produzione. La forza-lavoro è oggi così poco specializzata, che la sua sostituzione è fattibile. Questa è la conferma che l’economia sconfigge la vita umana. 

Il confinamento della società civile, il lockdown, è accolto quasi unanimemente dalla società civile, perché è l’unico rimedio fattibile in questo momento. Ma una minoranza ampia non lo rispetta. In Italia ci sono più denunciati di non rispettare il confinamento che contagiati, quindi più imbecilli che malati. In realtà questi imbecilli sono i ribelli – quelli che erano simpatici a Hobsbawm –, coloro che stanno mettendo in crisi il consenso sociale e con esso il ruolo dello Stato. Nelle periferie italiane, cioè a Palermo e a Napoli, si stanno verificando episodi di ribellioni, perché la fame comincia a assediare le famiglie confinate senza risorse economiche. E in quelle zone se non interviene lo Stato, intervengono le organizzazioni malavitose. La vita umana si prende la rivincita sull’economia. Lo Stato non ha altri mezzi per affrontare queste rivolte che o quelli repressivi, o di venire incontro alle richieste di strati sempre più larghi della società civile, mettendo a rischio il proprio bilancio e con esso il proprio ruolo all’interno di un’Unione Europea, che rimane legata agli Stati-nazione e non vuole fare il salto di qualità verso una vera e propria federazione europea. 

Un capitalismo fondato sulla produzione e sul consumismo non può reggere molto senza consumo. Si nota che il capitalismo finanziario, il vertice del capitalismo attuale, avverte la crisi e comincia ad entrare in confusione. Adesso è il momento di investire in qualcosa di solido e, se la crisi continuerà ancora, troverà presto cosa comprare, cioè quei beni di consumo che si spera tornino a disposizione della società civile a prezzi diminuiti, perché intanto i loro proprietari saranno stati rovinati dal confinamento. Intanto, però, la crisi è in atto e il futuro è incerto. La società civile è confinata e la società politica è sparita. Quando appare manifesta sfiducia nella società civile, perché con le sue rivolte, sempre più frequenti, dimostra con i fatti la sua sfiducia nella società politica. Sono due risposte reciproche: sfiducia dai due lati della società umana. Come finirà? Non voglio sbagliare e così non faccio previsioni. Aspetto quello che Badiou ha chiamato, senza spiegarlo, il “terzo comunismo”. 

Epidemie, ovvero per un senso della misura

di Carlo Cappa

Ho letto con interesse Badiou, la rapida introduzione di Paolo, le risposte critiche e stimolanti di Bilotti e di Reale. Sono contributi utilissimi, in un frangente come l’attuale, rappresentando delle aperture mentre si assiste a un movimento di ripiegamento, dei tentativi di pensare la e nella epidemia; condividono, in questo, uno spirito che anima i testi di Agamben, di Terracciano, di Gervasi. 

Per molti aspetti, non è facile contestare la posizione “cartesiana” di Badiou: i rivolgimenti causati da guerre o pandemie, nel corso della storia, difficilmente hanno aperto a migliori condizioni sociali, se tali possono essere definite quelle cui, pur diversamente, oggi aspiriamo. Accentuazione delle differenze, accumulo di capitali, soprusi dei più forti: sì, il copione è già letto, gli attori cambiano, non c’è nulla di nuovo sotto il sole, ma, al contempo, e si tende a dimenticarlo, non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume. Mi è difficile tacere, infatti, che in molte analisi c’è qualcosa che lascia insoddisfatti o, quantomeno, lascia insoddisfatto chi, come me, è più affezionato ad approcci che non pretendano, in poche righe, privilegiando una visione unidimensionale, di riassumere con una sola nota di fondo tutto l’attuale o slanciarsi in perigliose profezie di mondi futuri. Servono spalle larghe per avventurarsi in imprese del genere, occorre meno nostalgia per ciò che non è più e, come sempre, sarebbe auspicabile esercitare una maggiore circospezione nel vaticinare ciò che sarà. Forse non è questo il momento più propizio per imbarcarsi in un tale sforzo erculeo che, sia detto en passant, risulterebbe – ed è risultato – di difficile compimento anche in tempi meno cupi.

Mai come ora, quindi, cercando di fare un passetto più in là delle espressioni proverbiali, se dovessi pensare a qualcosa d’attuale, suggerirei la rilettura del breve libro di Paolo Rossi, Speranze, nel quale la sua suggestione è tanto discreta quanto vitale: rifuggire da pensieri senza speranza, sottrarsi ad apologie di smisurate speranze. Non è forse questo che, restando umanisti, possiamo fare? Guardare con curiosità e partecipazione a una tragedia che non può che essere inedita, poiché avviene a noi, qui, ora, e cercare di trarne una lucidità maggiore su noi, qui, ora, per apprendere lezioni, finanche sbagliate e comunque da passare al vaglio delle prossime esperienze, per noi, ovunque saremo, domani?

E, allora, mi sembrerebbe opportuno porre in evidenza come l’oggi non sia da pensare al singolare: non c’è l’epidemia, non c’è un virus, il cui nome è così celebre che non mette conto di ripeterlo, non ci sono le solide nazioni o la sbrindellata Europa. Ci sono tante epidemie immanenti alle esperienze umane che inverano, sempre diversa e familiare, la nostra condizione umana, costringendola a una torsione che nessuno s’aspettava, che la riflessione biopolitica cerca di forzare dentro le sue categorie, sformando tanto il reale quanto i concetti per interpretarlo. Mai come in questi casi, è il singolare a reclamare i suoi diritti: ne risuona la paura nell’affidarsi a un nazionalismo folkloristico, ne emerge la fragilità nell’ascolto di qualsivoglia teoria, tanto catastrofista quanto minimizzante ma sempre consolante. 

E, quindi, se qualcosa si può fare, adesso, è ripartire dalla curiosità che, nel suo etimo, conserva la nozione di cura, per offrire quello che la nostra cultura può essere, educando nel tempo sospeso della mancanza, perché, no, non ci sono palingenesi all’orizzonte e sarebbe vile abdicare alla propria responsabilità, sperando che tragedie suppliscano alle nostre pregresse incapacità di costruire un futuro diverso. Cancelliamo dalle nostre parole anche soltanto il retrogusto del giudizio portato sulle esistenze degli altri: sarebbe profittare di una debolezza presente dopo aver scoperto, in passato, di non aver sufficiente forza per educere e movere nel tempo della quotidianità. Oltre a dimostrare una tardiva ingenuità rousseuiana per la quale l’indebolirsi della società matrigna dovrebbe resuscitare chissà quali sopiti moti più nobili dell’animo di cui, protervamente, ci si vorrebbe far corifei. Potrebbe essere scusabile in altri momenti, non oggi, quando paleserebbe poca sagacia e assenza di avvedutezza, per tacer di un pizzico di meschinità. 

Per tali ragioni, nel titolo di questa paginetta, ho ritenuto conveniente far menzione della misura: la parola può essere motore del cambiamento, è avvenuto, avverrà di nuovo, in modi e maniere sempre diverse. Nei nostri ora, però, ciò che si staglia come esigenza è la capacità di un’idea che faccia dell’intimità, del tempo dell’inazione, uno spazio della resistenza, riallacciando le trame lise dell’intreccio tra disincanto e prudenza. L’esperienza che stiamo vivendo è aspra; se ne devono vedere gli spigoli per non sbatterci e, prima che sociale, questo avviene nello specchio in cui ci guardiamo, interdetti e spaesati. La misura è il reale, la misura siamo noi: ci sarà tempo per costruire avvenire, si tratta di puntellare il presente. 

Il gesto di scoprire nella distanza dai negotia la preziosità dell’otium è, d’altronde, iscritto nella singolarità della nostra Europa; illudersi, però, che esso possa essere meccanicamente riesumato da un’assenza, piuttosto che rinnovellato dal cesello di un’educazione da cominciare sempre da capo, significherebbe non decifrare le fratture tra condizioni esistenziali tra loro incommensurabili. Non so, lo ammetto, se sia una ragionevole speranza quella di voler caparbiamente abitare il presente, per quanto doloroso possa essere; sono convinto, però, che posso sentire come adeguate misure né lo snocciolare le cifre di contagi e di decessi, né l’accavallarsi di muti futuri. Star qui, infissi nel presente, in quello che è, vuol dire cercare misure per colmare le distanze, per trovare parole che possano dire un lucido accudirsi. Il gesto del raccoglimento, per parlare agli altri, deve immaginarsi tatto, inventando un tangere che possa rimarginare fratture collocandosi in esse, senza nasconderle, senza illudersi che siano recenti e senza cedere allo sconforto di pensarle eterne. 

Progetto di “CITTADINANZA E COSTITUZIONE” nelle scuole superiori

Filosofia in movimento, insieme a Edizioni Kappabit, è lieta di presentare a tutti i docenti e gli studenti delle scuole superiori italiane il progetto “Cittadinanza e Costituzione”, che prevede ore di studio sull’omonimo manuale – a cura di Antonio Coratti e realizzato dal gruppo di ricerca interuniversitario di Fim -, ore di incontri e conferenze con i nostri autori e ore di lavoro nella produzione di contenuti video.

Progetto PCTO Cittadinanza e Costituzione

a cura della KAPPABIT S.r.l.
in collaborazione con Filosofia in movimento

Soggetto proponente:

KAPPABIT S.R.L. 
Fondata nel 2010 per offrire consulenza strategica e percorsi dinamici innovativi ad aziende e istituzioni pubbliche e private, la Kappabit S.r.l. (www.kappabit.com) si propone come interlocutore unico nell’offerta di servizi, assistenza e progettazione nei seguenti settori:

  • tecnologia dell’informazione e della comunicazione (ICT)
  • editoria testuale, audiovisiva, musicale e multimediale
  • comunicazione aziendale, politica e istituzionale
  • ricerca, monitoraggio e analisi di mercato
  • organizzazione di mostre, convegni, seminari, festival, fiere, meeting ed eventi
  • realizzazione, installazione e commercializzazione di oggetti artistici, opere d’arte, design e grafica
  • formazione e qualificazione professionale e culturale

Dal 2014 opera come Casa editrice, attraverso le Edizioni Kappabit (www.edizionikappabit.com), realizzando numerose pubblicazioni – principalmente nell’ambito dell’arte contemporanea, della Media Art, dell’intermedialità, della Realtà Virtuale, del cinema, della musica, della didattica e della saggistica in genere – e dotandole di particolari dispositivi atti a implementare un’esperienza di lettura “aumentata”, grazie all’interazione combinata e integrata di contenuti multimediali, audiovisivi e musicali.

In collaborazione con:

FILOSOFIA IN MOVIMENTO   
Filosofia in movimento (www.filosofiainmovimento.it) è un gruppo di ricerca, attivo da più di cinque anni, che si occupa di promuovere, sviluppare e diffondere la cultura filosofica nella società civile, con particolare attenzione alla formazione dei giovani. Tre anni fa l’associazione ha dato impulso al progetto Esercitare il pensiero, con l’obiettivo di entrare nei licei e coinvolgere gli studenti nei discorsi filosofici, interloquendo con università italiane ed estere, riviste culturali, istituti e fondazioni private.

Tra la Kappabit e Filosofia in movimento (FiM) esiste un rapporto di partenariato, sancito da un protocollo d’intesa ratificato sin dall’avvio dell’attività dell’Associazione e operativo ormai da anni in vari ambiti di attività.

Contenuti e obiettivi generali del progetto PCTO

Al fine di sensibilizzare gli studenti al valore dei principi fondamentali della Costituzione italiana, Kappabit ha recentemente pubblicato il volume “Cittadinanza e Costituzione. Ripensare la comunità” (ISBN 9788894361834). Il libro, a cura di Antonio Coratti e con contributi di autorevoli filosofi e giuristi, si presenta come un manuale multimediale che ai contenuti testuali affianca video di approfondimento e si divide in due parti: la prima illustra la storia del concetto di cittadino dall’antica Roma all’Unione Europea, la seconda raccoglie i commenti di Gianfranco Macrì ai primi dodici articoli della Costituzione.

Il progetto mira a sollecitare lo spirito critico degli studenti, in particolare attraverso l’elaborazione di percorsi e la realizzazione di lavori che evidenzino il legame tra l’evoluzione storica del concetto di cittadinanza e il l’attualità che la definizione di tale concetto trova nella nostra Carta costituzionale. 

Quadro normativo

A partire dalla Legge del 30 ottobre 2008, n. 169, il Miur ha disposto percorsi di «sperimentazione nazionale» e «attività di formazione e sensibilizzazione del personale» finalizzati a sviluppare e a rafforzare i processi educativi nel campo delle competenze di «cittadinanza attiva». Come specificato anche dalla Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio dell’Unione Europea del 18 dicembre del 2006, le «competenze civiche» – che rientrano a pieno titolo nelle «competenze chiave per l’apprendimento permanente» – si fondano «sulla conoscenza dei concetti di democrazia, giustizia, uguaglianza, cittadinanza e diritti civili» e sono finalizzate a valorizzare i principi di responsabilità, legalità, partecipazione e solidarietà.

Fasi del progetto

Il progetto si articola in tre momenti fondamentali che prevedono l’attivazione di differenti modalità di partecipazione e d’interazione per studenti e docenti:

  1.  Studio dei percorsi sulla storia della cittadinanza in Europa e sui principi fondamentali della Costituzione italiana pubblicati in Cittadinanza e Costituzione. Ripensare la comunità (Edizioni Kappabit, 2019), manuale in cui i saggi prodotti dagli autori del gruppo di ricerca di Filosofia in movimento sono stati rielaborati espressamente per un proficuo uso didattico. I contenuti multimediali, che costituiscono parte integrante del testo, possono essere fruiti attraverso l’utilizzo della tecnologia QR-code, consentendo agli studenti di accedere direttamente dal proprio smartphone ai saggi integrali da cui sono stati tratti i percorsi di lettura e alle video-lezioni di approfondimento.
  2. Produzione di elaborati (relazioni, recensioni, presentazioni) che mettano in evidenza il l’evoluzione del concetto di cittadinanza fino a giungere all’attuale formulazione degli articoli fondamentali della nostra Costituzione. A tal fine, i docenti potranno essere supportati dalla redazione di Filosofia in movimento per quanto attiene a idee e suggerimenti, nonché per organizzare degli incontri di approfondimento con gli autori del libro presso l’istituto scolastico.
  3. Produzione di brevi documenti audiovisivi nei quali gli studenti intervisteranno i docenti della propria scuola sui dodici articoli fondamentali della Costituzione italiana. Kappabit supporterà gli studenti nella realizzazione di tali contenuti. I migliori video saranno pubblicati sul sito dell’associazione Filosofia in movimento (www.filosofiainmovimento.it).

L’ultimo Lukàcs e la lotta per un nuovo socialismo

di Guido Liguori

A partire dal recente volume “Lukàcs parla. Interviste (1963-1971)” a cura di Antonino Infranca – Edizioni Punto Rosso, Milano, 2019 – , Guido Liguori mette a fuoco alcuni dei punti fondamentali del pensiero politico dell’ultimo Lukàcs, con annotazioni riguardanti anche esponenti di spicco della politica italiana, come Togliatti e Gramsci

Il compito che il Lukács maturo si era proposto mi pare fosse soprattutto quello di ricostruire le basi teorico-politiche per una ripresa del socialismo dopo la devastazione dell’idea stessa di socialismo operata dal periodo staliniano. Il volume uscito di recente – Lukács parla. Interviste (1963-1971), cura e introduzione di Antonino Infranca, Milano, Edizioni Punto Rosso, 2019, pp. 200 – documenta bene la tensione del grande filosofo marxista ungherese verso questo obiettivo. Si tratta di una raccolta di dieci interviste rilasciate nel periodo indicato, alcune mai tradotte prima in italiano. Tra esse spicca la lunga Intervista sconosciuta del 1968, destinata non alla pubblicazione ma a essere discussa dagli appartenenti al Comitato centrale di quel partito in cui il filosofo era rientrato da appena un anno, dopo il trauma del 1956.

Vista la forma stessa degli scritti raccolti, gli argomenti affrontati sono molti – da quelli estetici a quelli etici, da quelli teorici a quelli politici, a quelli autobiografici. Il centro, o almeno uno dei punti focali del libro, a me sembra essere quello dei possibili sviluppi dei sistemi socialisti esistenti in relazione alla storia, teorica e fattuale, del movimento comunista mondiale. Un tema eminentemente politico, dunque.

Lukács, come egli stesso ricorda nel libro, non era mai stato un dirigente politico, se non nel decennio 1919-1929, e poi nel 1956. Si tratta di tre date significative. Nel 1919 aveva avuto responsabilità di primo piano (commissario all’istruzione, commissario politico nell’esercito) nella Repubblica ungherese dei Soviet guidata da Béla Khun. Sconfitto il tentativo rivoluzionario, continuò a svolgere dall’esilio prima viennese e poi moscovita, accanto a una più nota attività di ricerca teorica, un ruolo di direzione nel partito comunista ungherese, che lo portò nel 1929 a scontrarsi con Béla Khun e con l’Internazionale: a fronte della sconfitta degli anni Venti, Lukács si era pronunciato infatti per il ripiegamento del movimento comunista ungherese verso obiettivi democratici, mentre i seguaci di Stalin vaneggiavano su una rivoluzione imminente. Lukács, di nuovo sconfitto, sia pure all’interno del “campo” che resterà comunque sempre il suo, da allora in poi si dedicherà soprattutto alla ricerca teorica, filosofica ed estetica. Nel 1956 però accettò di partecipare come Ministro della cultura al legittimo governo comunista ungherese guidato da Imre Nagy, che fu stroncato dall’invasione dell’Ungheria da parte dei paesi del Patto di Varsavia guidati dall’Urss. Lukács e gli altri componenti del governo furono deportati in Romania. Il filosofo rifiutò di criticare Nagy e i suoi più stretti collaboratori, con cui pure era in dissenso su molte questioni. La sua notorietà gli rese salva la vita, mentre Nagy e altri furono condannati a morte.

La critica lukacciana al “socialismo reale” (come lo avrebbe poi definito Brežnev) non abbraccia solo il periodo staliniano: per lui il XX Congresso del Pcus non aveva comportato una reale autocritica e una vera correzione di rotta, come sarebbe stato necessario. Tuttavia i compiti appaiono al filosofo chiari: «dobbiamo dimostrare al mondo ciò che differenzia il marxismo dallo stalinismo», perché il marxismo deformato da Stalin non poteva dare alcuna risposta ai problemi del tempo, al contrario di quanto poteva tentare di fare il vero marxismo (p. 36). «Con questo marxismo che abbiamo non conquisteremo mai l’egemonia», afferma il filosofo, «perché questo marxismo è la peggior specie di manipolazione delle cose. Dovrebbe essere chiaro che dobbiamo tornare al vero marxismo, e con l’aiuto di questo rinnovamento, sarà realizzata, anche qui, l’egemonia» (p. 72).

In questa ricerca delle basi di un nuovo socialismo, non sorprende che Lukács incontri il comunismo italiano. Di Togliatti è noto il giudizio (riduttivo, in fondo critico) di grande tattico: «un uomo di eccezionale capacità politica, con una visione puntuale sulla peculiarità di ogni situazione, che è in continua ricerca e non ragiona schematicamente su nessuna questione […] nella nostra epoca è stata indubbiamente una delle personalità politiche più grandi. Poi si deve aggiungere – e ciò non ne diminuisce l’importanza – che nonostante Togliatti sia la personalità politica più grande di questa epoca, purtroppo, condivide largamente i fondamentali errori dell’ambito marxista […] la tattica sostituisce completamente l’analisi teorica del fondamento. Togliatti, anche se affronta molto meglio di tutti i suoi contemporanei la questione, non va fino alle conclusioni teoriche conseguenti» (pp. 56-57).

Più lusinghiero il giudizio su Gramsci: «Indubbiamente si sono prodotte novità negli anni Venti, in rapporto alla teoria di Lenin. E indubbiamente ce ne sono in Korsch, in Gramsci e nelle mie opere di quel tempo. Quelle tendenze furono stroncate dal Comintern dell’epoca, soprattutto per quanto riguarda Korsch e me; invece l’enorme vantaggio del movimento italiano fu che Gramsci non cadde in contrapposizione con l’Internazionale, quindi quello che vi era di positivo in Gramsci, e vi era molto di positivo in lui, poté essere investito nei problemi del movimento italiano» (p. 58). Tuttavia, «se pensassimo di risolvere i nostri problemi di oggi tornando ai teorici critici degli anni Venti, secondo me questo è un errore, anche nel caso di Gramsci» (p. 59). Lukács qui sottovaluta il lascito del marxista sardo, anche perché probabilmente non ha mai letto interamente i Quaderni. Per quel che concerne Berlinguer, rimando al carteggio Lukács-Berlinguer, pubblicato alcuni decenni fa da Critica marxista a cura di Lelio La Porta, che di recente lo ha riproposto con una nuova introduzione nel sito filosofia in movimento.it. Nel corso dello scambio epistolare Lukács scrive tra l’altro: «mi fa piacere è aver potuto partecipare ad un’azione comune con il vostro partito, nei confronti del quale nutro una simpatia che viene da lontano».

Tornando al libro, interessanti sono soprattutto le ripetute considerazioni che Lukács fa in merito alla via di uscita dalla impasse del movimento comunista. Essa si può riassumere in una ripresa del consiliarismo e nella parallela critica alla democrazia parlamentare (verso cui Lukács non nutre alcuna fiducia). Sono passi che risentono indubbiamente della ripresa della partecipazione politica alla fine degli anni Sessanta. Essi restano però densi di ammonimenti anche per il presente. Sia a Est (dove il soviettismo è stato quasi subito, dopo il 1917, trasformato secondo Lukács in una variante del parlamentarismo, sia pure illiberale) che a Ovest, si tratta per il filosofo ungherese di ripartire dalla democrazia dal basso: «Stalin iniziò la trasformazione dei resti, già corrotti, dei Consigli Centrali dei lavoratori (Soviet) in un parlamento […] ciò rappresentò un passo indietro, poiché il parlamentarismo è un sistema di manipolazione dall’alto [Nel] sistema dei Consigli […] la sua costruzione viene dal basso […] questo è il sistema, dal punto di vista democratico, più progressista, l’autentico socialismo» (p. 161). La difficoltà stava per Lukács nel fatto che «se fondassimo un Consiglio dei lavoratori mediante decreto, questo Consiglio sarebbe eletto nella stessa forma burocratica delle elezioni attuali per deputato. È necessario […] introdurre una democrazia di base» (p. 162).

Insomma, la ripresa del socialismo può avvenire solo dal basso, dalla costruzione di una rete di organismi partecipativi. Compito arduo ieri, nel socialismo reale di Lukács, quanto oggi, nel capitalismo spoliticizzato odierno. Eppure alcuni segnali si intravedono, come sempre sottotraccia, nello scavo della Talpa. Bisogna vedere se essi vedranno la superfice e ci permetteranno finalmente di cambiare pagina.

Non per governare, ma per andare al governo. A proposito di democrazia rappresentativa

Globalizzazione economico-finanziaria e neo-liberismo hanno determinato nelle economie avanzate l’affermazione di potentati di puro fatto, che ha messo nel nulla il nesso politica – diritto, sia a livello planetario, sia a livello interno ai singoli Stati nazionali, orientando anche la gestione delle entità sovranazionali.

di Bruno Montanari

articolo già pubblicato sulla rivista on line www.giustiziainsieme.it

La crisi delle democrazie rappresentative è, ormai, un fatto accertato. La tendenza in atto è verso una polarizzazione delle forze politiche, con vantaggio di quei movimenti che istituiscono un rapporto diretto e immediato tra base popolare, la più ampia possibile, e una forma di leadership fortemente personalizzata. Una tale tendenza sta modificando la struttura stessa dello Stato di diritto. Sta divenendo, infatti, evanescente l’idea di un ordinamento giuridico capace di controllare la legittimità dell’azione politica, secondo regole di competenza destinate a fondare un potere “funzionale”; a tale idea va sostituendosi un pragmatismo fondato sulla negoziazione tra poteri di fatto, anche quando questi poteri coincidono con organi o con figure istituzionali; nel senso, cioè, che anche organi o figure istituzionali, dotati quindi un potere funzionale, operano, in realtà, come se incarnassero un potere di puro fatto (tornerò su questo profilo alla fine). Ciò determina una dissoluzione dell’intero sistema e il venir meno nell’ambiente sociale, sia nei cittadini sia anche nel personale politico, di quello che era, secondo Max Weber, il presupposto materiale per la legittimazione del potere di governo: la “credenza nell’ordinamento”. “Credenza”, appunto; una situazione ideale o, se si vuole, di tipo genericamente mentale, in ogni caso sociologica e pre-giuridica, consistente in uno stato d’animo diffusamente radicato in una collettività, idonea a mettere in forma una società capace di esprimere, attraverso il voto, la propria visione del governo. Globalizzazione economico-finanziaria e neo-liberismo hanno determinato nelle economie avanzate l’affermazione di potentati di puro fatto, che ha messo nel nulla il nesso politica – diritto, sia a livello planetario, sia a livello interno ai singoli Stati nazionali, orientando anche la gestione delle entità sovranazionali. Vengo ora alla questione più specifica della crisi della rappresentanza politica. Si ritiene che sia una questione di modelli elettorali, più o meno efficaci nell’individuare la funzione governante. Questa opinione è certamente corretta, a una condizione però: che esista nella mentalità comunemente diffusa quella che ho definito “credenza nell’ordinamento”. Ancora, questa opinione è assolutamente valida a partire dalla condizione che esistano “partiti” capaci di costituire una mediazione tra le esigenze della base e una visione di governo. Il nesso tra questi due profili implica l’esistenza di un tessuto sociale sufficientemente omogeneo, nella sua parte maggiore (lo zoccolo duro), che si forma attraverso la redistribuzione del reddito ed una sufficiente mediazione tra le diversità culturali. Se vengono meno questi profili, la questione della rappresentanza cambia completamente i suoi “connotati”. Vediamo. Il votare consiste in una decisione umana; quindi, prima di ogni modellistica, occorre vedere come si forma una qualsiasi decisione nella “testa” di chi va a votare (o, anche, di chi decide di non andare). La decisione si forma in base ad alcuni fattori, mescolati tra loro. Li distinguo. Il primo è il contenuto del messaggio elettorale inviato dagli attori politici; il secondo è rappresentato dagli strumenti comunicativi utilizzati; il terzo dalla capacità di ascolto, comprensione ed elaborazione del messaggio, consistente, quest’ultimo, in una osmosi tra contenuto e mezzo comunicativo. L’esempio italiano è particolarmente significativo. Consideriamo l’espressione: “sono cose – le “promesse” – che si dicono, perché siamo in campagna elettorale”. Espressione che viene ripetuta, come se fosse ovvia, da qualsiasi giornalista o commentatore politico, senza però valutarne la gravità, sul piano della funzione elettorale.  E ciò è grave per due ragioni. La prima: perché si ritiene che il processo elettorale non serva “per governare”, ma solo “per andare al governo”. La seconda: perché si ritiene che la gente comune sia facilmente suggestionabile. Sotto entrambi gli aspetti è una mancanza di rispetto per quell’elettore al quale si chiede il consenso. Lo si tratta come un “utile idiota”. Ho detto della mancanza di una effettiva mediazione partitica, capace di elaborare, secondo le esigenze del governare, le istanze della base, della gente comune. Mi spiego. E’ del tutto fisiologico che l’uomo comune guardi il mondo secondo i propri bisogni e necessità quotidiane e su tale attitudine incide la diversa visione spaziale e temporale del proprio ambito vitale. Incide, cioè, quella maggiore o minore ampiezza del c.d. “orto di casa”, che esiste tra ambienti sociali di diversa consistenza economica, di diversa educazione personale e sociale, di istruzione e cultura. E’ una pluralità di condizioni di vita che determina una differente propensione a trascendere le impellenze della quotidianità. Per molti, e in certi momenti per i più, la pressione del vivere quotidiano è tale da non consentire quella presa di distanza dalla suggestione dell’immediatezza, che invece consente a chi, per consistenza economica e istruzione e cultura, può avere un’attitudine al ragionamento ed alla riflessione, sì che la sua risposta sia meno dettata dalla reattività immediata.  E’ ovvio che chi abita in una periferia disagiata non abbia la “testa”, la voglia e neppure il tempo per riflettere su questioni che sono del tutto altre e lontane dal suo spazio vitale; è assai diverso, invece, per colui che abita nel centro di una città o comunque in un quartiere non periferico. Tale fenomeno trova la sua manifestazione in nuove ed inedite, fino a poco tempo fa, divisioni sociali, che non appaiono come dialettica tra idee o ideologie politiche, ma assumono le sembianze di vere e proprie contrapposizioni di ambienti umani; ad esempio, tra periferia e centro città, tra città e campagna, tra popolo ed élite, e, ancora, tra base e establishment. I referendum e i flussi elettorali ne costituiscono, talora, una esaltazione. E’ qui che la fine della “mediazione progettuale” operata dai partiti del ‘900 fa sentire tutto il suo peso. Il quadro che ho descritto mette in luce un degrado umano-culturale dell’ambiente sociale che l’attuale modo di “fare politica” insegue ed esalta, anziché cercare di fronteggiarlo. Questo fenomeno è prodotto dall’uso abituale di una tecnologia comunicativa (i cosiddetti “social”), la quale è caratterizzata da due aspetti, entrambi dagli effetti socialmente e politicamente perversi sul piano della capacità di ascolto e comprensione dei destinatari del messaggio. Il primo: il social è attraversato da affermazioni apodittiche, icastiche, dunque suggestive, impressionanti; la sua efficacia è maggiore, quanto più è capace di avere impatto sul destinatario. L’ “impatto”. Esso è ciò che destruttura la temporalità, poiché il “tempo” dell’ascolto-comprensione-riflessione è sostituito, e dunque, annullato dalla immediatezza a-temporale della reattività (su questa tematica vi sono ormai ampli studi). Il secondo aspetto consiste nel dirigersi direttamente a ciascun destinatario, nella sua assoluta ed isolata individualità, determinando quindi una frantumazione dell’ambiente umano, poiché ognuno agisce pensando esclusivamente alla propria condizione. Questa operazione disabitua le persone al confronto ed al dialogo, e le attuali formazioni partitiche fanno, come ho detto, della esaltazione delle istanze individualistiche la propria fortuna elettorale e quindi la propria affermazione sulla scena politica. Si potrebbe osservare che il puntare sulla reattività umana generata dalla immediatezza emotiva dell’ ”impatto” non sia una modalità nuova del fare politica; nella storia politica del ‘900, balconi e piazze, con le relative adunate, perseguivano il medesimo effetto. Con qualche differenza non trascurabile. I destinatari del messaggio propagandistico erano “adunati”, vale a dire stavano insieme, l’uno accanto all’altro proprio al fine di dare una risposta immediata, sì, ma unitaria. Tale condizione era possibile poiché vi era di mezzo un balcone, una piazza, un pulpito; tutti mezzi che creavano, da un lato, una distanza materiale tra il protagonista e gli spettatori e consentivano, dall’altro, di far sentire ai convenuti di essere un “insieme” socialmente unitario: un “corpo” politico. L’attuale propaganda, attuata attraverso i social, ha quell’effetto del tutto opposto che ho accennato: quello, cioè, di esaltare l’individualismo reattivo e con esso la frantumazione dell’idea stessa dello stare insieme. Il fenomeno diviene ancor più grave, quando la desuetudine alla riflessione opera nel settore del diritto che deve reggere e controllare la funzione governante genericamente intesa. Un esempio. La formula attualmente usata, “contratto di governo”, per giustificare la coalizione “giallo-verde”, rappresenta una vera e propria rottura costituzionale. Mi spiego. Il “contratto”, come è noto anche alla gente comune, è un atto diritto privato, confezionato per soddisfare interessi privati e i cui effetti valgono esclusivamente per i sottoscrittori. La sua efficacia “erga omnes“, come è per un “contratto di governo”, avrebbe avuto bisogno di una elaborazione giuridica, quale fu quella con la quale si giustificò, con il nascere del diritto del lavoro del dopoguerra, l’efficacia “erga omnes” della contrattazione collettiva sindacale (ricordo 3 giuristi con altrettante “teorie”: Francesco Santoro Passarelli, Costantino Mortati, Federico Mancini). Che le forze di governo non si siano poste il problema di una “giustificazione” giuridica (che andasse oltre la mera recezione legislativa degli accordi contrattuali di governo, così come fu, invece, per l’efficacia erga omnes giuslavoristica) non mi stupisce, ma che non se lo siano posto il Presidente del Consiglio (che è un professore ordinario di diritto privato) e neppure le cariche istituzionali di garanzia, e tanto meno la stampa, è il segno di questo tempo. Di un tempo, cioè, nel quale si assiste alla evaporazione di quella che ho definito, ricordando Weber, “credenza dell’ordinamento”. Vi è da ricordare un altro precedente in proposito, al fine di segnare la differenza con l’attualità della situazione. Oltre a quello gius-lavoristico, negli anni ’70 prese corpo in Italia il fenomeno denominato “uso alternativo del diritto”, con finalità prevalentemente di giustizia sociale ideologicamente fondata. Ricordare quel fenomeno è importante per la ragione specifica che esso mise in evidenza la sensibilità giuridica di quella generazione di giuristi, che, nelle varie vesti, vi prese parte. La denominazione è la chiave. Quei giuristi pensavano ad un uso alternativo del diritto inteso come sistema giuridico vigente, con le sue “categorie” riguardanti sia le fonti sia gli istituti. E proprio per questa dimensione “culturale”, il dibattito, ed anche lo scontro, all’interno del mondo politico, sociale e giuridico, fu assai significativo. Qui è la distanza con il tempo che viviamo. Oggi non si fa più un “uso alternativo” del diritto, ma si confeziona un diritto alternativo; un diritto, che può denominarsi tale solo perché nell’uso comune si fa coincidere la forma normativa con il termine “diritto”. Ma il diritto, anche su di un piano meramente formale, non si riduce ad una formulazione linguistica prescrittiva (talora neppure esatta, proprio perché chi la confeziona ignora il diritto); esso è razionalmente strutturato, e dunque connotato, invece, da un nesso tra procedure – finalità – ambiti di rilevanza (pubblico-privato) per quanto attiene agli effetti, che conduce all’altro nesso, superiore, competenza – responsabilità – legittimazione per quanto attiene ai soggetti. Alla origine della deriva pragmatico-negoziale sta quella linea culturale, di ben altro spessore epistemologico, denominata “funzionalistica” (à la Luhmann), che si è sviluppata nella seconda metà del ‘900, alla quale, ma in altra sede, occorrerebbe prestare attenzione proprio in relazione alla trasformazione del pensiero giuridico. Le tecnologie comunicative attuali “concretizzano” quella che nel ‘900 era solamente una linea di pensiero. Occorre aggiungere che i politici di oggi non ne sanno, certamente, nulla! Operano mossi istintivamente da una forma mentis, della quale non conoscono la provenienza. Con il riferimento alla “epistemologia funzionalistica” torno alla affermazione contenuta all’inizio di questo intervento e che, in quella sede, poteva apparire apodittica: che lo stato di diritto si sia trasformato in una negoziazione pragmatica tra poteri di puro fatto, anche quando questi coincidono con organi costituzionali. Ora credo possa avere una sua propria giustificazione. Concludo con la seguente osservazione. Poiché la realtà quotidiana è fatta dagli uomini, qualsiasi luogo sociale occupino, occorre guardare alla formazione delle generazioni. In altre parole, gli eventi, così come gli atteggiamenti mentali e materiali che li producono, in una parola la “storia” di un’epoca (di qualsiasi epoca), sono una “conseguenza anagrafica”. 

Recensione a M. Reale, “Vivere insieme nella dignità” è un altro nome di democrazia?

in A. Cecere – A. Coratti, Lumi sul Mediterraneo, Jouvence, Milano, 2009

Nel saggio scritto in risposta a Triki, Mario Reale si chiede se il vivere-insieme teorizzato dal filosofo tunisino non sia, in fin dei conti, un altro nome di “democrazia”. Ovvero, se la democrazia non sia in fondo definibile come un vivere-insieme “istituzionalizzato” che nel corso della storia moderna (europea) si è dispiegato nell’ambito degli Stati-nazione, chiudendosi in confini spesso “inospitali”. Da una parte, Reale riconosce alla nazione il ruolo da protagonista giocato nei processi moderni di «democratizzazione primaria e fondamentale», dall’altra ne denuncia l’attuale inadeguatezza nel rappresentare il «traino della storia», ovvero nel costituire «il terreno decisivo di riferimento ideale e politico» in una dimensione globalizzata[1]. Cercare di lavorare su operazioni di mediazione continue tra dimensione nazionale e globalizzata, «senza combatterci tra lungimiranti globalisti e retrogradi sostenitori dello Stato nazione»[2], è la proposta per far fronte ai complessi rapporti economici, politici e culturali che da decenni determinano la tensione fra dimensione nazionale e globale e per costruire una via percorribile che renda il vivere-insieme un progetto politico concreto e non una nozione «abusata e quasi priva di senso, impiegata per difendere l’ideologia di una società pacificata e armonica»[3]. Ma il processo di istituzionalizzazione del vivere insieme passa necessariamente, secondo Triki, per la costituzione di una “vie sociale égalitaire” che attenui le differenze tra “nord” e “sud” del mondo e del Mediterraneo. In effetti, a dominare nel dibattito filosofico-politico degli ultimi decenni è stato lo scontro (spesso ideologico) tra “più libertà” da una parte e “più uguaglianza” dall’altra, mentre, come nota Reale, la domanda sulla fraternité, «la terza parola d’ordine della Rivoluzione francese»[4], è stata per lo più trascurata, assumendo un ruolo del tutto marginale nella tradizione politica dell’occidente. Nel Contratto sociale stesso – opera considerata da molti manifesto programmatico della più radicale forma di “collettivismo” della modernità –  Rousseau antepone chiaramente, in nome della costituzione della «grande Repubblica democratica», il «dominio della legge» alla esigenza di socialità, per lo più «messa sullo sfondo, solo implicita, se non proprio espunta»[5]. Il collettivismo in Rousseau sarebbe così fagocitato dal programma politico di porre “la loi au-dessus de l’homme”, avendo la legge come obiettivo primario quello di superare «la temibile dipendenza dell’uomo dall’altro uomo con il darsi a tutti non dandosi a nessuno», rendendo «gli uomini indipendenti e in un certo senso “solitari”»[6]. D’altra parte, è proprio in virtù dell’impersonalità, generalità e universalità, nonché della «reciprocità tra parti autonome» che la legge può farsi garante della «conservazione intatta delle individualità»[7], anche in nome della dignité che è nel titolo stesso del progetto filosofico trikiano, vivre-ensemble dans la dignité. In questo senso, vivere-insieme e dignità, comunità e individualità, rappresentano i due momenti da conciliare politicamente, allorché la tradizione democratica moderna pare privilegiare la tutela della sfera delle autonomie dei singoli. Per lo meno nella fase avanzata. Mentre la socialità emerge prorompente «nei momenti, sempre in qualche modo rivoluzionari […] che preparano l’avvento della democrazia e quindi nel vigore del suo stato nascente»[8], momenti in cui «è necessario mobilitare tutte le risorse “corali” del popolo, perché il vecchio scompaia e il nuovo sorga»[9]. Anche in questo caso, Reale propone uno scambio sinergico a partire dalla diversa storia dei popoli mediterranei e dalle diverse esperienze in corso sulle due sponde, l’una segnata dal fermento delle primavere arabe, ancora in movimento, l’altra alle prese con una storia democratica matura e ormai secolare, ma non priva, come sappiamo, di criticità.


[1] M. Reale, “Vivere insieme con dignità” è un altro nome di democrazia, in A. Cecere, A. Coratti (a cura di) Lumi sul Mediterraneo, Jouvence, Milano, 2019, p. 54

[2] Ivi, p. 58                                                                                        

[3] F. Triki, Vouloir vivre dans la dignité, tr.ita. A. Coratti, www.filosofiainmovimento.it/voler -vivere-nella-dignita/

[4] Ivi, p. 59

[5] Ibidem

[6] Anche per quanto riguarda la questione della “volontà generale”, Reale evidenzia il fatto che, «contro ogni forzatura collettivistica», essa va interpretata in quanto «frutto del “silenzio” tra i cittadini (che non devono avere “alcuna comunicazione tra loro”), ognuno dei quali nella sua intimità s’interroga, con un atto intellettivo e insieme morale, se la legge, comunque proposta dal governo, sia o no conforme alla volontà generale che è in lui» Ivi, p. 60

[7] Ivi, p. 60

[8] Ivi, p. 61

[9] Ibidem

Democrazia e laicità

Tra i diritti fondamentali le moderne democrazie costituzionali non includono solo quello di manifestare le proprie idee politiche, ma anche quello di professare la propria religione. Anzi, si può dire che uno dei principi basilari del moderno Stato costituzionale sia proprio quello della laicità o neutralità religiosa dello Stato, che si è affermato nella cultura europea attraverso la sanguinosa vicenda delle guerre di religione che si scatenarono dopo la Riforma, e che è ormai patrimonio di tutte le democrazie liberali.

S. Žižek, Benvenuti nel deserto del reale, Meltemi, Milano, 2017

In un articolo uscito per l’Espresso nel maggio del 2017 , Roberto Esposito considerava il jihadismo una potenza in grado di mettere fuori gioco il nostro stesso modo di pensare. Ai suoi occhi, un fenomeno come il terrorismo restava pressoché non indagato da uno sguardo prettamente filosofico. Il filosofo italiano si concentrava sull’immediato presente dominato dall’ISIS e dall’incubo sanguinario e violento del Califfato. Tuttavia, sappiamo tutti che, prima di ogni foreign fighter a Raqqa o Mosul, c’è stato un altrettanto grande avvenimento che ha segnato radicalmente l’ingresso dell’uomo e della Storia nel nuovo millennio: l’attacco terroristico al World Trade Center dell’11 settembre 2001. Ritornare su questo tragico episodio ci fornisce la possibilità di guardare con una lente filosofica inedita un fenomeno come il terrorismo? Davvero, come dice Esposito, i filosofi sembrano non averlo mai pensato adeguatamente? Recentemente ripubblicato da Meltemi Editore, “Benvenuti nel deserto del reale” di Slavoj Žižek rappresenta un’occasione quanto mai fertile per poterci confrontare in maniera problematica con un avvenimento con cui siamo ancora oggi, a distanza di 7 anni, costretti a fare i conti. Nonostante una produzione bibliografica sempre più fitta, l’evento storico che segna traumaticamente l’ingresso nel XXI secolo resta per Žižek incompreso. Scritto e concepito come “saggio d’occasione” (a partire da un pamphlet uscito in Germania, a sua volta derivato da un intervento apparso in Internet), “Benvenuti nel deserto del reale” è un testo allo stesso tempo compatto e estremamente coraggioso dal punto di vista speculativo per la vastità dei riferimenti filosofici e culturali che mette in gioco. Come spesso accade nella sua produzione, Žižek tenta di padroneggiare uno stile “traboccante di impennate concettuali e di riferimenti concreti, con un movimento vertiginosamente oscillatorio che va dai rimandi teorici ai dati di fatto storico-politici, dai film di massa alla psicoanalisi lacaniana, e, in genere, dai richiami alla cultura popolare […] all’impiego di raffinati strumenti di analisi filosofica” .
Nel primo capitolo del testo l’autore recupera il concetto badiouiano di “passion du réel” legandolo specificatamente all’oggetto delle sue argomentazioni: il XX secolo sarebbe caratterizzato, a differenza del precedente, dal tentativo affannoso di ricerca della cosa in sé. Invece dei vecchi progetti utopici di costruzione di una società futura, oggi siamo continuamente proiettati nel Reale colto nella sua estrema violenza, nonché costretti a pagare continuamente un prezzo per poter esportare gli strati fuorvianti che coprono la realtà. Tuttavia, proprio questo pathos porta con sé un paradosso fondamentale che lo spinge sempre di più a sfociare nel suo opposto, in un vero e proprio spettacolo teatrale dominato dall’effetto spettacolare del Reale stesso. Viceversa, la passione per l’apparenza che caratterizza la società odierna finisce al contrario per sfociare in un violento ritorno per la passione per il Reale. Se si comprende questa relazione biunivoca fra realtà e spettacolarità, si è altrettanto capaci di cogliere il legame quasi simbiontico fra Virtuale e Reale che domina la nostra società. Per Zizek, “la realtà Realtà Virtuale non fa che generalizzare questa pratica di offrire un prodotto privato delle sue proprietà. […] La Realtà Virtuale viene vissuta come realtà senza pur esserlo” . Il rischio maggiore di questo processo consisterebbe quindi nel continuare a percepire questa stessa realtà come una gigantesca entità virtuale. Non dobbiamo dimenticare, infatti, come le immagini del crollo delle Torri gemelle e della gente terrorizzata ci abbiano portato a rivedere nel Reale ciò che è stato oggetto di spettacolo in numerosissimi film catastrofici. Il richiamo alla cinematografia non è di secondaria importanza poiché, per il filosofo sloveno, il successo del film Matrix ha anticipato e, allo stesso tempo, portato all’estreme conseguenze questa logica. Nel film la realtà in cui viviamo è virtuale, generata da un computer al quale siamo tutti connessi. Quando il protagonista si sveglia nella “realtà reale” , vede un desolato paesaggio tipicamente post-apocalittico. Morpheus, il capo della resistenza, pronuncia le famose parole: “Benvenuto nel deserto del reale!”. Secondo questa prospettiva gli abitanti di New York avrebbero vissuto la medesima situazione essendo stati catapultati nella realtà più autentica mentre il resto del mondo continuava a notare parallelismi con immagini già viste sugli schermi cinematografici. Dunque, se tradizionalmente ha dominato l’interpretazione di un 11 settembre visto come ingresso della realtà in una quotidianità fatta di immaginazione mediatica, Zizek sostiene una tesi opposta: il crollo delle Torri Gemelle è stato piuttosto la realizzazione di una fantasia distruttiva alimentata da tanta cinematografia catastrofista. Questo evento ha rappresentato una materializzazione dei nostri incubi collettivi che ci risulta sempre più insopportabile poiché “non è successo che la realtà sia entrata sia entrata nella nostra immagine, ma che l’immagine sia entrata e abbia sconvolto la nostra realtà” . Sciorinato questo nodo concettuale, è possibile quindi chiedersi effettivamente quali siano stati i risvolti etico-politici di questo avvenimento. I capitoli successivi del testo si pongono questo obiettivo intrecciando, in un’argomentazione densa e serrata, l’ingresso del logos filosofico nel Reale. Zizek attacca pesantemente il multiculturalismo oggi tanto in voga smascherandone gli elementi più contraddittori: sondare tradizioni culturali differenti è il modello sbagliato per poter comprendere le dinamiche politiche che hanno condotto all’attacco dell’11 settembre. Gli argomenti di cui si fanno portavoce i cultural studies ammettono indirettamente una lotta per l’emancipazione dei popoli oppressi collocandola in una dimensione interna all’ordine capitalistico mondiale. Tuttavia, questo aspetto sottintende una dimensione conflittuale in cui verrà in ogni caso riaffermata la fiducia verso la democrazia liberale americana. L’unico modo autentico per uscire da questa impasse consiste nel considerare l’attacco dell’11 settembre perfettamente calato nel contesto dell’antagonismo al capitalismo globale. Si tratta di resistere dunque a un duplice “ricatto” :
• Se ci limitiamo a condannarlo sosteniamo la tradizionale posizione ideologica del Male Assoluto incarnato dal Grande Altro. In questo caso noi occidentali saremmo vittime innocenti della violenza del Terzo Mondo.
• Se invece facciamo uso di strumenti di analisi socio-politica dell’imperialismo occidentali degli ultimi anni finiamo per considerare vittime gli stessi esponenti dell’estremismo arabo.
Al contrario, la prospettiva da adottare consiste nell’accettare la necessità della lotta al terrorismo, riformulando e ampliando la sua stessa definizione: “la scelta tra Bush e Bin Laden non è la nostra scelta: entrambi rappresentano Loro contro Noi” . I riferimenti messi in gioco dal filosofo sloveno conducono a uno fra gli aspetti più interessanti del testo: l’analisi di una nuova figura antropologica che si è venuta a determinare all’indomani delle guerre al terrorismo. Riprendendo assunti della dialettica amico-nemico di schmittiana memoria e aspetti dell’archeologia filosofica di Agamben, l’autore mette in evidenza come stia emergendo un nuovo modello di Nemico nel dibattito pubblico. Nello specifico, non si tratta di considerare il terrorista islamico il tradizionale soldato nemico o il criminale comune ma piuttosto un combattente illegale: ciò che emerge sotto la veste del Terrorista è proprio la figura del “Nemico politico” , escluso dallo spazio politico legittimato. Questa sfumatura riformula completamente la concezione stessa di conflitto, oramai radicalmente lontano dalla tradizionale visione di uno scontro fra stati sovrani. Per Zizek, al contrario, permangono oggi due forme di forme di conflitto:
• Esiste oggi la guerra fra gruppi di homo sacer, cioè conflitti fra soggetti che, per quanto considerati essere umani, non fanno parte della comunità politica. Gli esclusi di oggi, per Zizek, non sono soltanto i terroristi ma, più in generale, tutti coloro che stanno “all’estremità finale della filiera umana” , destinatari privilegiati di una “biopolitica umanitaria” . Questi conflitti non vengono conteggiati come guerre vere e proprie e richiedono sempre più frequentemente gli aiuti umanitari dei “pacifisti” occidentali.
• Esistono anche attacchi diretti contro le potenze occidentali i cui fautori sono “combattenti illegali” che resistono in modo criminoso alle forze che tengono insieme l’ordine globale. In questo caso una delle parti assume automatica il ruolo di mediatore – non essendoci più la tradizionale lotta fra due schieramenti – che sopprime i ribelli e fornisce aiuti umanitarie alle popolazioni locali. Scrive emblematica Zizek che “forse l’immagine perfetta del trattamento della popolazione locale come homo sacer è quella dell’aereo da guerra americano che vola nei cieli dell’Afghanistan: non si sa mai che cosa lascerà cadere al suolo, se bombe o pacchi di cibo…” .
Non è possibile in questa sede sviluppare un discorso che metta in gioco le innumerevoli questioni tirate in ballo dal filosofo sloveno. Tuttavia, possiamo provare a estrapolare delle conclusioni. Il testo è un tentativo senza dubbio coraggioso di tenere aspetti filosofici molto complessi e diversi fra loro per declinarli in una inedita analisi di un fenomeno quanto mai complesso come il terrorismo. A questo proposito, la postfazione a cura di M. Senaldi riesce a fare chiarezza su alcune presupposti e riferimenti del pensiero di Zizek che, se non chiariti adeguatamente, rendono particolarmente difficoltosa la lettura proprio per via degli innumerevoli riferimenti messi in gioco dall’autore. Superate le vertiginose digressioni, è possibile esaminare quella che è la tesi finale dell’autore: la vera catastrofe dell’11 settembre vede come protagonista l’Europa che ha ceduto al ricatto ideologico degli Stati Uniti sintetizzabile nello slogan “o con noi, o contro di noi”. “L’Europa dovrebbe muoversi rapidamente per assicurarsi un ruolo autonomo in quanto forza ideologica, politica ed economica dotata di sue priorità. […] E gli abitanti di New York? Per mesi, dopo l’11 settembre, era possibile sentire dal centro di Manhattan fino alla Ventesima strada l’odore delle torri bruciate. La gente ha iniziato ad affezionarsi a quell’odore, che – avrebbe detto Lacan – ha iniziato a funzionare come sinthome di New York, simbolo concentrato dell’attaccamento libidinale del soggetto alla città, così che quando sparirà si sentirà la mancanza” .

Jacopo Francesco Mascoli