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“Basta che c’è la salute…” (In uno stato di polizia)
di Giovanni Magrì
- “Dittatura” e “Stato di polizia” sono parole che urtano il nostro orecchio ben educato di cittadini democratici. Eppure, appartengono al “vocabolario delle istituzioni” (non solo) europee, e vi appartengono tuttora. Non come “parolacce”, né come termini di gergo. Forse, come reperti linguistici di un’epoca passata; tuttavia ancora utili per capire noi stessi, e non solo per rispondere alla classica domanda filosofica «da dove veniamo?», ma anche per interrogarci su «dove vogliamo andare?», quando la strada si fa meno dritta e sorgono degli imprevisti. Come in questi giorni.
Di dittatura parlerò dopo. Il concetto è in parte equivoco, perché la sua definizione politica può mettere in ombra quella giuridica, che pure si può dare. E tuttavia, in generale crediamo di sapere cosa intendiamo, quando usiamo la parola “dittatura”. Un po’ meno, quando sentiamo parlare di “Stato di polizia”. Perciò, su quest’altro concetto vale la pena di spendere subito due parole.
In questi giorni, le nostre strade sono presidiate dalle forze dall’ordine, in misura e con una visibilità – una presenza fisica, direi – non abituali. Ma questo è solo un indizio, non l’essenza del concetto: non è la presenza fisica più o meno invadente degli agenti di polizia e dei loro mezzi a fare, di per sé, lo Stato (che poi è anche uno stato, con la minuscola) di polizia.
Se poi – ipotesi di scuola – un gruppetto di idealisti più o meno connessi con la realtà, magari senza un vero intento provocatorio (non conscio, per lo meno), decide di manifestare in strada proprio in questi giorni per ribadire l’attualità di certi ideali e di certi eventi di “liberazione”, e viene fermato dalla polizia perché starebbe violando il divieto di assembramento, e tra le altre lamentele “di repertorio” grida allo Stato di polizia, ecco, già ci avviciniamo un po’ di più all’essenziale del concetto, ma senza coglierlo ancora, a questa distanza. Del resto, allo Stato di polizia si è sempre gridato, ad intermittenza, nell’Italia repubblicana, almeno da quando al Viminale c’era Scelba e gli agenti di pubblica sicurezza si chiamavano “questurini”. Eppure, il regime fascista era caduto da pochi anni, e non si poteva non notare la differenza…
In verità, le radici del concetto sono molto più risalenti, e in un certo senso più “nobili”.
La parola, anzitutto – “polizia”, dico – è ovviamente di origine greca: è la stessa “politèia” che si trova in Aristotele e che abitualmente si traduce con “costituzione” o “forma di governo”, che poi attraverso le lingue latine è penetrata in quelle germaniche, per esempio nell’inglese, ulteriormente ampliando la sua già vasta area di significati e però generando due parole distinte, “polity” (l’ente politico determinato, tipicamente lo Stato, ma non solo) e “policy” (la politica come linea di direzione amministrativa, tipicamente al plurale: “le politiche per l’impiego”, “le politiche abitative”, “le politiche europee in tema di immigrazione”, etc.). Ecco, direi che affine all’inglese “policy” sia da considerare l’area semantica del tedesco “polizei”. Che c’entra il tedesco, si chiederà il lettore? C’entra.
Perché – ecco una seconda radice “nobile” – se dovessi dare una definizione attendibile del concetto, non troverei di meglio, in prima battuta, che citare Voltaire: «Tout pour le peuple, rien par le peuple». Oppure (appunto: in tedesco) Giuseppe II d’Asburgo-Lorena: «Alles für das Volk, nichts durch das Volk». Sia in francese, sia in tedesco, il gioco di parole fondato sull’assonanza riesce. E, a quanto pare, l’idea è stata concepita in francese (da Voltaire, appunto), ma proclamata in tedesco (che la primogenitura sia di Giuseppe II o di Maria Teresa d’Austria o di Federico II di Prussia, sta di fatto che sia gli Asburgo sia gli Hohenzollern erano più inclini dei Borbone di Francia ad ascoltare i filosofi illuministi). Questo è quel che troverete in qualsiasi buon libro di storia, alla voce “dispotismo illuminato”. E lo Stato di polizia, anzi, il Polizei-Staat, è la forma di governo che corrisponde al modello del cosiddetto dispotismo illuminato.
Ora, cerco di organizzare le idee. Nella locuzione “Stato di polizia”, per “polizia” s’intende il complesso degli agenti e dei mezzi al servizio del potere di governo: non solo, quindi, l’attuale “polizia giudiziaria” (alle dipendenze funzionali della magistratura inquirente per reprimere i reati e perseguire i loro autori), né solo il complesso delle cd. forze dell’ordine che svolgono compiti di pubblica sicurezza, ma (in senso proprio) ogni funzione amministrativa pubblica e (per metonimia) tutti coloro che vi sono addetti e tutti i mezzi che vi sono impiegati. La polizia, in questa accezione, c’è da quando c’è una funzione pubblica, da quando, cioè, determinati compiti, non solo di sicurezza, ma anche di benessere, sono affidati non alle cure dei privati (ognuno per sé) ma ad una organizzazione pubblica, e a maggior ragione da quando quell’organizzazione fa capo allo Stato e l’assolvimento di quei compiti è parte degli obblighi assunti col cd. contratto sociale. Ciò che però caratterizza la polizia nello Stato di polizia (e distingue quest’ultimo dallo Stato di diritto) è che il governo cura l’assolvimento dei compiti di polizia non attraverso la legge e nel rispetto della legge, ma sovvenendo direttamente ed immediatamente ad esigenze particolari e concrete e prescindendo dalle previsioni generali e astratte della legge (che in tanto può prevenire, limitare e controllare l’esercizio del potere di governo, in quanto è adottata da un potere distinto, tipicamente dal Parlamento, organo rappresentativo del popolo, qui in quanto insieme dei “governati”).
E qual è il presupposto “ideologico” di un tal modo di agire? È evidente: che i governanti (i sovrani) hanno a cuore il bene dei governati (i sudditi), anche perché, dopo Hobbes e a metà tra la decapitazione di Carlo I Stuart e quella di Luigi XVI, hanno imparato (chi meglio, chi peggio) che il loro potere si fonda non solo e non tanto sull’elezione divina e sulla legittimità dinastica, quanto soprattutto sull’obbedienza volontaria dei sudditi stessi (per svariati motivi: non solo la paura, ma anche la convenienza, per esempio); e proprio per questo, si estendono i compiti di polizia (non ancora sanità, istruzione e previdenza sociale, magari; ma, oltre alla repressione dei reati e alla garanzia della proprietà, anche le opere di pubblica utilità: strade, ponti, ricoveri…). Tuttavia, a sapere quale sia il bene pubblico sono solo i governanti (magari consigliati dagli esperti…) e non i governati, i quali, bene informati (l’inciso è fondamentale), possano essere consultati e magari decidere per sé e su di sé (diventando, così, da sudditi che erano, cittadini); e ciò perché, in ultima analisi, la cura della sicurezza, ma anche del benessere, dei sudditi è, come si usava dire appunto nel XVIII secolo, una “graziosa concessione” del sovrano, non (ancora) un diritto dei cittadini cui corrisponda, da parte dei governanti, un vero e proprio obbligo e una posizione di “servizio”, accompagnata da un potere solo funzionale, così come sarà dalla metà del XIX secolo, con lo Stato di diritto e il parlamentarismo borghese.
Ecco: questo è lo Stato di polizia, le sue forme (puntuali atti di governo senza riserva di legge parlamentare) e i suoi fondamenti ideologici. Con un notevole tasso di semplificazione, che il lettore mi vorrà perdonare facendomi credito della sua fiducia. Sicché, tornando al nostro esempio di scuola, il nostro gruppetto di manifestanti fermato dalla polizia non avrà nulla di che lamentarsi se gli agenti potranno dimostrare di avere esercitato un potere interdittivo previsto dalla legge (e, in particolare nel secondo Novecento, anche dalla Costituzione); e se gli sarà accordata la possibilità di rivolgersi all’autorità giudiziaria per fare dichiarare, invece, che quel potere è stato esercitato, eventualmente, in modo illegittimo, per fare rimuovere l’impedimento a manifestare e fare revocare qualsiasi misura limitativa della libertà personale o di altri diritti civili. Ove mancasse una di queste condizioni, e i nostri manifestanti si trovassero in balìa della decisione puntuale del potere di governo e della sua applicazione arbitraria, unilaterale, indiscutibile da parte degli organi di polizia, allora avrebbero scoperto, loro malgrado, di vivere in uno Stato di polizia.
Ma a questo punto, almeno sulla prima “parolaccia”, ne sappiamo abbastanza per lasciare le ipotesi di scuola e venire ai casi di cronaca.
- Dunque: tutte le misure di “contenimento” o di “distanziamento sociale” adottate sul territorio nazionale italiano a partire dal 1 marzo scorso hanno comportato la limitazione di diritti riconosciuti e garantiti dalla Costituzione, anche in posizione di particolare rilievo (penso, con un occhio a numerosi casi di cronaca, soprattutto agli articoli 14 e 16: ma l’elenco dovrebbe essere assai più lungo). L’articolo 16, in particolare, è emblematico: «Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salve le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità e di sicurezza». Certo, nel nostro caso i motivi di sanità e di sicurezza ricorrono; ma non è secondario che le limitazioni ad essi legate debbano essere stabilite in via generale dalla legge.
I giuristi in questi giorni ci hanno messo più di una toppa, a maggior ragione considerato che l’ormai famoso “Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri” non è un atto tipico cui la Costituzione attribuisca forza e vigore di legge (per capirci: il decreto legge è sì un atto avente forza di legge, che può essere legittimamente emanato solo se sussiste un caso straordinario di necessità e urgenza, e che cessa di vigere dopo 60 giorni, salvo l’obbligo del Governo di presentare il decreto, il giorno stesso in cui lo emana, alle Camere per la sua conversione in legge ordinaria; ma, anche per un primo vaglio di costituzionalità, il decreto legge è emanato dal Presidente della Repubblica, non certo adottato con D.P.C.M.). Se capisco bene, si è riconosciuto molto (troppo?) facilmente al Presidente del Consiglio una sorta di potere commissariale di salute e incolumità pubblica su tutto il territorio nazionale, cui conseguirebbe il potere di emanare ordinanze “contingibili e urgenti”, analogo a quello che hanno, rispettivamente, il Sindaco e il Prefetto sui territori del Comune e della Provincia; e non si è posto un problema formale di riserva di legge e di gerarchia delle fonti. Bene: poteva anche essere il caso. Ma poiché ora la questione si ripropone con riferimento alla cd. fase 2, cioè alla graduale riapertura delle attività economiche e, correlativamente, della libera circolazione delle persone, è abbastanza interessante osservare con quali argomenti si sta sviluppando un dibattito che deve, sì, concludersi in tempi relativamente brevi, ma non è più compresso dall’urgenza di far fronte a una curva precipitosamente crescente della mortalità.
Dunque? Il Presidente del Consiglio, già affermato giurista, risolve tutto dichiarando che «al primo posto c’è e ci sarà sempre la salute degli italiani» (11 marzo) e, un mese dopo, che “abbiamo sempre messo e continuiamo a mettere la tutela della salute al primo posto» (10 aprile). Il presidente emerito della Corte costituzionale, Gustavo Zagrebelsky, in un’intervista al quotidiano “La Repubblica” del 20 marzo, si lamenta dei colleghi che “cavillano” e fanno gli “azzeccagarbugli”: quelle del Governo «per ora mi paiono misure a favore della più democratica delle libertà: libertà dalla malattia e dalla morte. […] Quale diritto è più fondamentale del diritto di tutti alla vita e alla salute?». Ma soprattutto, «nelle situazioni di emergenza lo scopo giustifica i mezzi». Soggiunge Zagrebelsky: «Ma certamente non tutti. Solo quelli che abbiano ragionevolmente quella finalità». Di che ragionevolezza, o razionalità (in uno scritto non scientifico è difficile distinguere), stiamo tuttavia parlando? Della razionalità strumentale, dell’adeguatezza “tecnica” del mezzo al fine? Ma allora la riserva dell’insigne costituzionalista è (giuridicamente) pleonastica! I mezzi sono tali proprio perché rivolti a un fine (qui non si richiede neppure che siano “i più adeguati”, “proporzionati” o “commisurati” ad esso; ma debbo ritenere che la forma-intervista abbia fatto premio sul sicuro mestiere del giudice costitituzionale). E tuttavia, l’agire giuridico si distingue dall’agire tecnico (finché se ne vuole distinguere) proprio perché in diritto lo scopo non giustifica qualsiasi mezzo, ma solo determinati mezzi possono essere giuridicamente efficaci (in quanto anzitutto validi), dal momento che solo quei mezzi soddisfano i requisiti formali che li rendono tali da contemperare i diversi interessi, valori, beni coinvolti nella fattispecie: fini molteplici, cioè, e potenzialmente o attualmente confliggenti.
In tempi non sospetti (1921) Carl Schmitt si impegnò in una definizione di dittatura dal punto di vista della forma giuridica (non del contenuto politico) e scrisse che dittatura «significa il dominio di un modo di procedere interessato unicamente a conseguire un risultato concreto, l’eliminazione del rispetto – essenziale al diritto – per la volontà opposta di un soggetto di diritto, qualora questa volontà si metta di traverso al raggiungimento del risultato; quindi [dittatura] significa anche svincolamento del fine dal diritto». Dunque: Schmitt ci dice che essenziale al diritto è il “rispetto” per una volontà soggettiva astrattamente capace (perché a sua volta giuridicamente riconosciuta) di ostacolare il raggiungimento del risultato; se essenziale è invece il raggiungimento del risultato, con qualsiasi mezzo e, quindi, possibilmente col mezzo più efficace e più efficiente, anche “mancando” di quel rispetto (che non vuol dire necessariamente accoglimento della volontà opposta), allora siamo ancora nel campo delle “tecniche” di governo, ma già un passo fuori dal diritto.
Siamo nella dittatura? Politicamente, dubito, ed anzi mi sentirei di escludere, che vi sia la deliberata volontà di violare i diritti e le garanzie liberal-democratici e, soprattutto, di farlo in modo permanente e strutturale. “Dittatura”, però, oltre che un’ingiuria politica può anche essere un istituto (para-) giuridico; lo era, per esempio, nella res publica romana, con fini (anche molto generici: rei publicae constituendae causa et legibus scribundis) e per un tempo (sei mesi) pre-assegnati dall’ordinamento giuridico. L’essenza di questo istituto è magistralmente ricordata dallo stesso Schmitt: una sospensione del diritto, allo scopo di (ricostituire le condizioni per) attuare il diritto stesso. E, ci ricorda sempre Schmitt, «il fine buono, vero o presunto, non può legittimare alcuna violazione del diritto, come la realizzazione di uno stato di cose conforme a giustizia non conferisce di per sé autorità legale». Se, interrogato sulla dittatura, un giurista non ricorda (per lo meno, anche) questo, allora come giurista non sembra avere molto altro da dire sull’argomento.
- A questo punto, comincio a capire l’uscita di Giorgio Agamben: non la prima, quella tanto criticata dello scorso 11 marzo, ma una più recente, resa pubblica sotto il titolo Una domanda il 14 aprile. Così Agamben: «Un’altra categoria che è venuta meno ai propri compiti è quella dei giuristi. Siamo da tempo abituati all’uso sconsiderato dei decreti di urgenza attraverso i quali di fatto il potere esecutivo si sostituisce a quello legislativo, abolendo quel principio della separazione dei poteri che definisce la democrazia. Ma in questo caso ogni limite è stato superato […]. È compito dei giuristi verificare che le regole della costituzione siano rispettate, ma i giuristi tacciono. Quare silete iuristae in munere vestro?». Non si tratta, per come intendo i termini della questione, di un “conflitto delle facoltà” tra costituzionalisti e virologi per stabilire chi debba “dettare la linea” nell’emergenza presente (e a maggior ragione in quella a venire, che forse non sarà emergenza sanitaria ma certamente sarà emergenza sociale); si tratta piuttosto di una “lotta per la sopravvivenza” che i giuristi sono invitati a combattere con se stessi, per decidere se preservare la loro ragione di esistenza (culturale e civile) o abdicare, in nome del “buon senso” e/o del “senso comune”, a quelle ragioni squisitamente formali che definiscono la loro disciplina, in mezzo alle altre.
Se non che, Agamben da un mese ripete essenzialmente questa tesi: «Noi di fatto viviamo in una società che ha sacrificato la libertà alle cosiddette “ragioni di sicurezza” e si è condannata per questo a vivere in un perenne stato di paura e di insicurezza». Tesi di sicura presa tra chi orecchia la filosofia, perché richiama il Freud de Il disagio della civiltà, più alla lontana il Canetti di Massa e potere o il Marcuse di Eros e civiltà ma, soprattutto, la fondazione hobbesiana dello Stato e del contrattualismo dei moderni. E tuttavia, anche davanti a questa prospettazione un giurista consapevole dovrebbe avere qualcosa da eccepire. Anzitutto perché i termini in questione – sicurezza e libertà – sono univoci solo in quanto proiezioni della psicologia di massa “catturate” dalla propaganda politica, ma sono estremamente ambigui ed esigono di essere precisati se devono essere trattati come beni giuridici o valori costituzionali tra cui scegliere: per tacere della libertà, è evidente, per esempio, che altro è la minaccia alla sicurezza della vita rappresentata dal virus, altro è la minaccia a qualsivoglia altro bene giuridico rappresentata dall’ingresso, nel territorio dello Stato, di migranti “irregolari”. Ma soprattutto – e così muovendo da Agamben ci riallacciamo agli “stili comunicativi” del presidente Conte e del professor Zagrebelsky – perché presumiamo di trovarci in regime di “legalità costituzionale”, dove varie pretese sono tutelate come “diritti fondamentali” e questi ultimi possono evidentemente entrare in conflitto tra loro; allora, il conflitto non si dirime sacrificando una volta per tutte la libertà alla sicurezza (o viceversa), né tanto meno affermando che un diritto è più fondamentale degli altri; bensì – ci è stato insegnato per circa mezzo secolo – praticando una tecnica specifica, chiamata “bilanciamento” o “ponderazione”. Essa, ci insegna il teorico del diritto, consisterebbe nella «valutazione comparativa, condotta caso per caso, di quale principio prevalga in relazione a quel singolo caso», per cui «i rapporti fra princìpi costituzionali divengono così mobili, mutevoli da caso a caso»; tenendo conto, peraltro, che, «almeno nel controllo di costituzionalità accentrato, ‘caso per caso’ non significa ‘in relazione a ogni singolo caso specifico’, ma ‘in relazione a ogni singolo caso generico’ [ad ogni fattispecie astratta, si potrebbe dire]. A differenza dei giudici ordinari, infatti, la Corte costituzionale non decide su fatti, ma su norme (generali e astratte)» (così M. Barberis, Filosofia del diritto. Un’introduzione teorica, Giappichelli, Torino 2003, pp. 241-43).
Come si vede, questa tecnica del “bilanciamento” implica un ragionamento complesso: essa esige che si definisca il significato dei due (o più) principi coinvolti, che si definisca altresì la fattispecie astratta da disciplinare (o, nel giudizio della Corte, quella già disciplinata da una legge ordinaria) e che si valuti se, nella fattispecie in esame, i principi possano essere contemperati o, dove ciò non sia possibile, quale dei due debba prevalere in quel caso; con un giudizio che, d’altra parte, non può essere improntato al criterio di gerarchia né a quello di specialità (come si farebbe con norme che assumano la veste di “regole”) e che perciò non può consistere in una mera, immediata sussunzione. Al di là dei tecnicismi giuridici: in sostanza, si tratta di un ragionamento che si muove su più livelli di astrazione, e che richiede di attribuire un diverso peso a diversi fattori di somiglianza, i quali per parte loro sono irriducibili alla quantità di note comuni tra due o più fattispecie, perché hanno a che fare invece con i significati, le intenzioni normative e le strutture di valore. È un ragionamento, dunque, che molto difficilmente può essere svolto, o anche solo “imitato”, da una macchina o comunque servendosi di un algoritmo, perché non può consistere nell’esecuzione di un “programma” interamente predefinito, e semmai si espone al rischio che «l’interprete lavori sulla base di semplici sue “intuizioni valutative”». Anche per questo, il bilanciamento trova il suo luogo elettivo in una discussione collegiale, che si svolga sul jus conditum nella camera di consiglio della Corte costituzionale, o, de jure condendo, nell’aula del Parlamento in sede legiferante. La forma dell’atto (legge ordinaria, o tutt’al più decreto legge, anziché D.P.C.M.) trova dunque una spiegazione politico-sostanziale.
Ma, di tanta complessità, nel dibattito attuale v’è (troppo) scarsa traccia. Non traspare la consapevolezza che il primato della tutela della salute possa essere semmai, e legittimamente, un risultato del bilanciamento, non la sua premessa (ché, altrimenti, nessun vero bilanciamento avrebbe luogo). Né che il diritto possa e debba giudicare i mezzi impiegati (compresa la forma degli atti), non per la loro adeguatezza a un fine unico, ma per il loro rispetto di fini molteplici (o, forse meglio, plurali). Né che “sicurezza” (e, a dirla tutta, anche “libertà”) si dicano in molti modi, cioè possano significare molte cose diverse per diverse persone e diversi gruppi in tempi e condizioni diversi, e non si bilancino, né si scambino, mai una volta per tutte. In generale, l’impressione è che i giuristi non trovino il coraggio di dimostrare ai loro interlocutori che risposte come “sì e no”, “dipende”, “non è così semplice” o addirittura “non lo so” non sempre sono “cavilli” da “azzeccagarbugli”, ma (per lo meno: talvolta) esprimono senso della complessità, disponibilità al dialogo e, in ultima analisi, rispetto per l’alterità (tema, questo, caro da sempre a Bruno Montanari). Che cosa ci è successo? E che cosa è successo alla società civile, per cui i nostri discorsi non vengono più compresi?
- A queste domande sarà il caso di rispondere e io stesso mi riprometto di farlo, in altra sede. Qui tengo solo a precisarne lo spirito. Come ho già accennato, non ho inteso sostenere che in atto vi sia nel nostro Paese la volontà politica di instaurare uno Stato di polizia o una dittatura. Ve n’è, però – e di questa segnalazione mi assumo la responsabilità – la possibilità giuridica, accompagnata dall’assordante silenzio di alcuni tra coloro che sarebbero attrezzati per riconoscerne da lontano i contorni: i giuristi (non tutti ovviamente silenti, e tra i molti che hanno levato la voce mi limito a segnalare gli interventi, equilibrati e precisi, di Sabino Cassese e di Giovanni Pitruzzella). Ora, il diritto – questo lo sa chi lo pratica, e forse è difficile da cogliere dall’esterno, ma vi prego di rifletterci – non serve per distinguere i “buoni” dai “cattivi” e, in questo caso, per dubitare della “buona fede” del Governo (sulla quale metterei la mano sul fuoco, a titolo personale; ma questo non ha davvero nessuna importanza), bensì per essere relativamente garantiti che chiunque, animato da ottime o da pessime intenzioni, tuttavia non possa nuocere più di tanto ai beni fondamentali della convivenza. In quest’ottica, diventa fondamentale il fattore-tempo: se l’emergenza ha imposto una de-formazione delle forme giuridiche di garanzia, ebbene, questa deformazione deve durare il meno possibile e, in ogni caso, solo fin tanto che i tempi dell’emergenza non ricadano sotto la capacità di previsione e di gestione delle forme ordinarie. Salvo che non si voglia prendere atto – per restare nelle varianti semantiche derivate dalla parola “forma” – che la “deformazione” è stata l’annuncio di una “trasformazione”, sempre possibile e talora necessaria, ma bisognosa di una nuova legittimazione.
Se i virologi, gli immunologi, gli infettivologi, gli epidemiologi sono – a buon diritto – rigorosi e, auspicabilmente, anche trasparenti nel comunicare i loro parametri di valutazione del rischio e i loro protocolli di contenimento dell’infezione, i giuristi mancherebbero al loro dovere di studiosi e di cittadini se fossero omertosi nel comunicare un punto: non tanto che siamo in uno Stato di polizia, ma, piuttosto, che c’è una decisione grave da prendere (molte, in verità, che girano intorno a un paio di dilemmi etici da chiarificare); che non ne sappiamo abbastanza per eludere il rischio e la responsabilità della decisione; che la “tecnologia” per condividere la responsabilità delle decisioni in condizioni di incertezza esiste in Occidente da almeno duemilacinquecento anni, e si chiama “politica”.
La quale, ovviamente, quanto più si dispone ad affrontare (insieme) il novum, tanto più si giova di conoscenze acquisite: delle conoscenze sperimentali bio-mediche, così come del deposito di esperienza storico-sociale e istituzionale rinvenibile ad esempio nella Costituzione, ma più in generale nella cultura giuridica. Tutte queste conoscenze sono preziose per immaginare (rectius: rappresentarci) ciò che non sperimentiamo direttamente, e così definire sempre meglio ciò su cui si deve decidere. Ma, per quanto auspicabilmente sempre più ridotto, lo spazio della decisione, cioè dell’incertezza, del rischio e della responsabilità, non può essere logicamente assorbito nello spazio dell’informazione. Ha detto, in questi giorni, il “vegliardo” Habermas, in un’intervista rilasciata a Le Monde e tradotta per La Repubblica: «Da un punto di vista filosofico, mi colpisce che la pandemia oggi costringa tutti a riflettere su qualcosa che prima era noto ai soli esperti. Oggi, tutti i cittadini stanno imparando come i loro governi debbano prendere decisioni ben sapendo i limiti delle conoscenze degli stessi virologi consultati. Raramente, il terreno per l’azione in condizioni di incertezza è stato illuminato in modo così vivido. Forse questa esperienza insolita lascerà il segno nella coscienza della sfera pubblica». Per un verso, sarebbe ovvio che fosse così. Per un altro verso, non sembra una descrizione verosimile del modo in cui la “coscienza della sfera pubblica” sta evolvendo, sotto i nostri occhi, in Italia e in molti altri paesi occidentali. Ma se Habermas, dal suo osservatorio tedesco, sperimenta, e ci racconta, un altro modo di comunicare il sapere scientifico e di condividere la decisione politica, ebbene, anche questo vale per noi come minimale esercizio di utopia razionale.
LA NECESSITÀ DELLA PARTECIP-AZIONE
Si devono affrontare le sfide del proprio tempo come una novità radicale (e non mi riferisco certo al loro contenuto, assai spesso simile, bensì al problema che pongono hic et nunc) poiché altrimenti non sarà mai possibile giungere ad alcuna proposta in grado di soddisfare le necessità di volta in volta avvertite. È dunque l’atteggiamento e il pensiero vivo, euforico, volenteroso, che deve rinascere, e certo non si potrà accusare questo tentativo di esser stato vuoto. Semmai troppo “pieno”.
Moneta, consumi e risparmi ai tempi del coronavirus
di Maurizio Caserta
Quello che segue è un piccolo diario della crisi e delle sue fondamentali implicazioni economiche, via via che le questioni si sono presentate all’interesse di ciascuno di noi. Si alternano le preoccupazioni immediate con quelle di prospettiva. Poi sintetizzate nella riflessione finale. Non ci sono valutazioni politiche, ma solo questioni ‘contabili’
Virus e Rivoluzione: pensare globalmente e agire localmente
Stato di guerra e situazione pandemica si distinguano in un punto affatto significativo: laddove la guerra implica conservazione, la pandemia necessita di una rivoluzione. Con le parole di Annamaria Testa per Internazionale : «Non è una guerra perché le guerre si combattono con lo scopo di difendere e preservare il proprio stile di vita. L’emergenza ci chiede, invece, non solo di progettare cambiamenti sostanziali, ma di ridiscutere interamente la nostra gerarchia dei valori e il nostro modo di pensare».
L’ultimo Lukàcs e la lotta per un nuovo socialismo
di Guido Liguori
A partire dal recente volume “Lukàcs parla. Interviste (1963-1971)” a cura di Antonino Infranca – Edizioni Punto Rosso, Milano, 2019 – , Guido Liguori mette a fuoco alcuni dei punti fondamentali del pensiero politico dell’ultimo Lukàcs, con annotazioni riguardanti anche esponenti di spicco della politica italiana, come Togliatti e Gramsci
Il compito che il Lukács maturo si era proposto mi pare fosse soprattutto quello di ricostruire le basi teorico-politiche per una ripresa del socialismo dopo la devastazione dell’idea stessa di socialismo operata dal periodo staliniano. Il volume uscito di recente – Lukács parla. Interviste (1963-1971), cura e introduzione di Antonino Infranca, Milano, Edizioni Punto Rosso, 2019, pp. 200 – documenta bene la tensione del grande filosofo marxista ungherese verso questo obiettivo. Si tratta di una raccolta di dieci interviste rilasciate nel periodo indicato, alcune mai tradotte prima in italiano. Tra esse spicca la lunga Intervista sconosciuta del 1968, destinata non alla pubblicazione ma a essere discussa dagli appartenenti al Comitato centrale di quel partito in cui il filosofo era rientrato da appena un anno, dopo il trauma del 1956.
Vista la forma stessa degli scritti raccolti, gli argomenti affrontati sono molti – da quelli estetici a quelli etici, da quelli teorici a quelli politici, a quelli autobiografici. Il centro, o almeno uno dei punti focali del libro, a me sembra essere quello dei possibili sviluppi dei sistemi socialisti esistenti in relazione alla storia, teorica e fattuale, del movimento comunista mondiale. Un tema eminentemente politico, dunque.
Lukács, come egli stesso ricorda nel libro, non era mai stato un dirigente politico, se non nel decennio 1919-1929, e poi nel 1956. Si tratta di tre date significative. Nel 1919 aveva avuto responsabilità di primo piano (commissario all’istruzione, commissario politico nell’esercito) nella Repubblica ungherese dei Soviet guidata da Béla Khun. Sconfitto il tentativo rivoluzionario, continuò a svolgere dall’esilio prima viennese e poi moscovita, accanto a una più nota attività di ricerca teorica, un ruolo di direzione nel partito comunista ungherese, che lo portò nel 1929 a scontrarsi con Béla Khun e con l’Internazionale: a fronte della sconfitta degli anni Venti, Lukács si era pronunciato infatti per il ripiegamento del movimento comunista ungherese verso obiettivi democratici, mentre i seguaci di Stalin vaneggiavano su una rivoluzione imminente. Lukács, di nuovo sconfitto, sia pure all’interno del “campo” che resterà comunque sempre il suo, da allora in poi si dedicherà soprattutto alla ricerca teorica, filosofica ed estetica. Nel 1956 però accettò di partecipare come Ministro della cultura al legittimo governo comunista ungherese guidato da Imre Nagy, che fu stroncato dall’invasione dell’Ungheria da parte dei paesi del Patto di Varsavia guidati dall’Urss. Lukács e gli altri componenti del governo furono deportati in Romania. Il filosofo rifiutò di criticare Nagy e i suoi più stretti collaboratori, con cui pure era in dissenso su molte questioni. La sua notorietà gli rese salva la vita, mentre Nagy e altri furono condannati a morte.
La critica lukacciana al “socialismo reale” (come lo avrebbe poi definito Brežnev) non abbraccia solo il periodo staliniano: per lui il XX Congresso del Pcus non aveva comportato una reale autocritica e una vera correzione di rotta, come sarebbe stato necessario. Tuttavia i compiti appaiono al filosofo chiari: «dobbiamo dimostrare al mondo ciò che differenzia il marxismo dallo stalinismo», perché il marxismo deformato da Stalin non poteva dare alcuna risposta ai problemi del tempo, al contrario di quanto poteva tentare di fare il vero marxismo (p. 36). «Con questo marxismo che abbiamo non conquisteremo mai l’egemonia», afferma il filosofo, «perché questo marxismo è la peggior specie di manipolazione delle cose. Dovrebbe essere chiaro che dobbiamo tornare al vero marxismo, e con l’aiuto di questo rinnovamento, sarà realizzata, anche qui, l’egemonia» (p. 72).
In questa ricerca delle basi di un nuovo socialismo, non sorprende che Lukács incontri il comunismo italiano. Di Togliatti è noto il giudizio (riduttivo, in fondo critico) di grande tattico: «un uomo di eccezionale capacità politica, con una visione puntuale sulla peculiarità di ogni situazione, che è in continua ricerca e non ragiona schematicamente su nessuna questione […] nella nostra epoca è stata indubbiamente una delle personalità politiche più grandi. Poi si deve aggiungere – e ciò non ne diminuisce l’importanza – che nonostante Togliatti sia la personalità politica più grande di questa epoca, purtroppo, condivide largamente i fondamentali errori dell’ambito marxista […] la tattica sostituisce completamente l’analisi teorica del fondamento. Togliatti, anche se affronta molto meglio di tutti i suoi contemporanei la questione, non va fino alle conclusioni teoriche conseguenti» (pp. 56-57).
Più lusinghiero il giudizio su Gramsci: «Indubbiamente si sono prodotte novità negli anni Venti, in rapporto alla teoria di Lenin. E indubbiamente ce ne sono in Korsch, in Gramsci e nelle mie opere di quel tempo. Quelle tendenze furono stroncate dal Comintern dell’epoca, soprattutto per quanto riguarda Korsch e me; invece l’enorme vantaggio del movimento italiano fu che Gramsci non cadde in contrapposizione con l’Internazionale, quindi quello che vi era di positivo in Gramsci, e vi era molto di positivo in lui, poté essere investito nei problemi del movimento italiano» (p. 58). Tuttavia, «se pensassimo di risolvere i nostri problemi di oggi tornando ai teorici critici degli anni Venti, secondo me questo è un errore, anche nel caso di Gramsci» (p. 59). Lukács qui sottovaluta il lascito del marxista sardo, anche perché probabilmente non ha mai letto interamente i Quaderni. Per quel che concerne Berlinguer, rimando al carteggio Lukács-Berlinguer, pubblicato alcuni decenni fa da Critica marxista a cura di Lelio La Porta, che di recente lo ha riproposto con una nuova introduzione nel sito filosofia in movimento.it. Nel corso dello scambio epistolare Lukács scrive tra l’altro: «mi fa piacere è aver potuto partecipare ad un’azione comune con il vostro partito, nei confronti del quale nutro una simpatia che viene da lontano».
Tornando al libro, interessanti sono soprattutto le ripetute considerazioni che Lukács fa in merito alla via di uscita dalla impasse del movimento comunista. Essa si può riassumere in una ripresa del consiliarismo e nella parallela critica alla democrazia parlamentare (verso cui Lukács non nutre alcuna fiducia). Sono passi che risentono indubbiamente della ripresa della partecipazione politica alla fine degli anni Sessanta. Essi restano però densi di ammonimenti anche per il presente. Sia a Est (dove il soviettismo è stato quasi subito, dopo il 1917, trasformato secondo Lukács in una variante del parlamentarismo, sia pure illiberale) che a Ovest, si tratta per il filosofo ungherese di ripartire dalla democrazia dal basso: «Stalin iniziò la trasformazione dei resti, già corrotti, dei Consigli Centrali dei lavoratori (Soviet) in un parlamento […] ciò rappresentò un passo indietro, poiché il parlamentarismo è un sistema di manipolazione dall’alto [Nel] sistema dei Consigli […] la sua costruzione viene dal basso […] questo è il sistema, dal punto di vista democratico, più progressista, l’autentico socialismo» (p. 161). La difficoltà stava per Lukács nel fatto che «se fondassimo un Consiglio dei lavoratori mediante decreto, questo Consiglio sarebbe eletto nella stessa forma burocratica delle elezioni attuali per deputato. È necessario […] introdurre una democrazia di base» (p. 162).
Insomma, la ripresa del socialismo può avvenire solo dal basso, dalla costruzione di una rete di organismi partecipativi. Compito arduo ieri, nel socialismo reale di Lukács, quanto oggi, nel capitalismo spoliticizzato odierno. Eppure alcuni segnali si intravedono, come sempre sottotraccia, nello scavo della Talpa. Bisogna vedere se essi vedranno la superfice e ci permetteranno finalmente di cambiare pagina.
Ricardo Antunes “La politica della caverna” (3 Novembre ore 11.00-13.00)
Il colpo di Stato che ha deposto Dilma Rousseff nel 2016 è stato il primo passo di un tragitto culminato nella vittoria elettorale di Bolsonaro nel 2018. È iniziata così una nuova fase di dominio in Brasile, una sorta di “controrivoluzione preventiva” che può verificarsi anche quando non vi è alcun rischio di rivoluzione. Come definire, quindi, la proposta del “nuovo governo”? Quali errori sono stati commessi perché lʼestrema destra uscisse vittoriosa dalle elezioni dopo quasi quindici anni di governo del Partido dos Trabalhadores? Cosa ci si può aspettare da questa combinazione di potere autocratico, neoliberismo e forte presenza militare? Antunes offre una lucida riflessione sulla politica di Bolsonaro, rintracciandone la genesi nella storia del Brasile dellʼultimo mezzo secolo.
Estratto
A quasi venti anni dallʼelezione di Lula, Bolsonaro si è presentato come un “perdente” e di fronte al crollo di altre candidature borghesi di centro e di destra, è diventato lʼunico in grado di opporsi al rischio che sarebbe stata la “vittoria del Pt e dei rossi”. Il “Capitano”, come viene solitamente chiamato dai suoi accoliti, è una specie di Trionfo delle caverne. Sembra essere il critico più radicale del “sistema”, ma di fatto ne è la reale manifestazione.
Ricardo Antunes
(San Paolo, 1953)
Professore Ordinario di Sociologia presso lʼUniversità di Campinas, in Brasile, e Visiting Professor presso lʼUniversità Ca’ Foscari di Venezia. Autore di numerosi libri tradotti in vari Paesi del mondo. In Italia sono già usciti: Il lavoro in trappola (2006), Il lavoro e i suoi sensi (2016) e Addio al lavoro? (2019). Collabora con il Movimento dos Trabalhadores Sem Terra, dove è Professore alla Scuola Florestan Fernandes.
Il populismo in Italia, oggi: Nazione, legalità, rappresentanza
di Domenico Bilotti
Il populismo pretende di vincere a maggioranza proprio perché si fa propaganda ergendosi a proclama di minoranze impotenti. Il suo unico scopo regolativo reale è il conseguimento di quella maggioranza, dalla quale pretende di ricavare un salvacondotto universale. Non è sostanzialismo, è strumentalismo. Le istituzioni che critica sono spesso le medesime di cui si serve per ascendere.
1-Il (non)governo populista: uno sguardo alle dinamiche storico-politiche in Italia
Il cancelliere Otto Von Bismarck, federatore degli Stati germanici e tessitore di reti diplomatiche europee, soleva dire che fosse meglio non far conoscere al popolo come venivano preparate le salsicce e scritte le leggi. Bismarck era l’alfiere di una legislazione unitaria tedesca fortemente attenta ai presupposti materiali – il consolidamento del potere – e ai suoi addentellati applicativi – la necessità di garantire l’ottemperanza. Eppure, questa massima ci restituisce l’idea di un processo decisionale pubblico che da attività di redazione, assemblaggio e selezione si fa compromesso di scarto, pastiche privo di ideali di giustizia.
Un altro fautore delle unificazioni ottocentesche, romantico più che politico, Alessandro Manzoni, mette in bocca a un mercante, nel XVI capitolo dei suoi Promessi Sposi, una spiegazione tipicamente dietrologica e complottistica dell’assalto ai forni: un vandalismo programmato come strumento di pressione politica.
Ecco probabilmente in luce due caratteristiche tipiche del fenomeno giuspolitico e storico-politologico che chiamiamo “populismo”: l’individuazione artata di un problema percepito, di cui ci si avoca l’esclusività, facendo leva sia sulla distanza tra i governanti e i governati sia sull’esistenza di una dinamica auto-conservativa di tutte le autorità. Non si tratta di strategie così inedite nella teoresi del ragionamento giuridico e dell’argomentazione. Basti ricordare che Franco Cordero, penalista di grande spessore, in una ragionata biografia dedicata a Savonarola, feroce stigmatizzatore dei mali della Chiesa e del suo tempo, faceva delle pubbliche lamentazioni un ritratto impietoso. Esse ottengono successo soprattutto quando non offrono alternative, non sono conseguenza di un dibattito interno alla minoranza sediziosa insorta, falsificando in definitiva un “nemico” che viene creato retoricamente come il massimo indice della pubblica repellenza.
Il populismo non si cura, però, di migliorarsi o di migliorare le condizioni di vita: denuncia i problemi che crea e se ne propone come unico e più immediato solutore. Non è soltanto un problema di mezzi culturali o di carente know how tecnico-legale. Giuseppe Di Vittorio, emblematico segretario generale della CGIL dal 1944 al 1957, aveva un’oratoria spiccia, talvolta poco raffinata e non sempre salva da imperfezioni grammaticali. Non veniva dalle specializzazioni di fabbrica, difendeva aulicamente il bracciantato da cui proveniva. Esprimeva, nonostante la ruvidezza del tono e la modestia dell’argomento, l’idea di un mondo che voleva elevare la propria cultura, le proprie condizioni di vita, la tutela dei propri diritti. Non era figlio di viscerale plebiscitarismo che si riteneva autosufficiente, nulla a che vedere aveva coi partiti della nazione o con la propaganda de “l’uno vale uno”.
L’argomentazione populista nella storia recente italiana, e in particolar modo nel periodo di transizione dell’età precostituzionale, dal fascismo alla forma repubblicana, cerca di darsi toni contropotere, ma è perfettamente funzionale al potere. Le forme della propaganda mutano d’impatto, ma sempre a politiche concentrazionarie mirano. Mussolini si fece fautore di una legislazione elettorale che assegnasse un allora inedito premio di maggioranza ai partiti che avessero ottenuto almeno il 25% dei suffragi validi e lo fece anticipando alcuni punti (garanzia del funzionamento parlamentare, speditezza dell’azione dell’esecutivo) che sono stati nei decenni adottati a ogni mutamento di regolamentazione elettorale, quasi che si trattasse di innovazioni attuali, moderne e contemporanee. Gli scopi di una contrazione del potere di scelta insito nella preferenza di lista sono, invero, sempre i medesimi e puntano convergentemente a dare maggior forza ai poteri egemoni. Mussolini adottò la stessa strategia nel campo dell’editoria, espropriando dietro pingui indennizzi i mecenati liberali come Frassati e Albertini, “freddi” rispetto al progetto del Partito Nazionale Fascista, e favorendo gli Agnelli e i Crespi, che non si fecero all’opposto scrupolo a riverirne l’ascesa.
2-Il “populismo legalista”: l’invenzione del decisionismo
Il populismo quale stiamo descrivendolo ha una concezione meramente strumentale dell’ordine pubblico ed è proprio su questo campo che si misura oggi la sua maggior carica venefica. Significa in altre parole negare la virtù dei pesi e dei contrappesi, dell’incontro fecondo tra istituzioni del controllo procedurale e istanze sociali materiali: si annullano, anzi, le prime, perché si ritiene così di soddisfar meglio le seconde (quando lo scopo è proprio quello di abbatterle).
C’è qualche remora ad ammetterlo oggi, ma il programma sviluppato in Costituente dal giurista Piero Calamandrei perorava un modello largamente anglosassone, temperato da un orientamento culturale formato sulle categorie del diritto civile continentale. Calamandrei, proprio in funzione antidemagogica, esaltava le virtù di un modello federale forte, coeso nell’unità nazionale e altamente proclive al raccordo delle autonomie locali, e addirittura immaginava un ruolo presidenziale bilanciato da un aumento complessivo della qualità della partecipazione politica. L’argomentazione di Calamandrei, memorabile per autorevolezza e da saper comunque sottoporre al vaglio critico dei rischi concreti del suo impianto, era marcatamente democratica, ostile alle semplificazioni becere. Dietro qualunque modulo organizzativo della Costituzione formale di uno Stato, c’è la sovranità popolare nel prisma descritto dalla Costituzione medesima. Il populismo pretende di vincere a maggioranza proprio perché si fa propaganda ergendosi a proclama di minoranze impotenti. Il suo unico scopo regolativo reale è il conseguimento di quella maggioranza, dalla quale pretende di ricavare un salvacondotto universale. Non è sostanzialismo, è strumentalismo. Le istituzioni che critica sono spesso le medesime di cui si serve per ascendere.
Il ruolo dei corpi intermedi nell’implementazione dei diritti (civili, politici e sociali) era generalmente riconosciuto dai giuristi della stessa generazione di Calamandrei, a prescindere dalla loro appartenenza ideologica. La critica della Destra liberale ottocentesca ai partiti (cara al Minghetti) aveva ancora profili d’attualità, ma pesavano la sospensione e la soppressione delle libertà associative del Ventennio nel riprenderne i dati e le conclusioni. Il plastico tradimento dei valori repubblicani fu perfezionato dalla “repubblica dei partiti”, dal complesso quadro di spartizione di cariche e nomine che i partiti dell’arco costituzionale fomentarono: il consociativismo italiano, che poteva avere la virtù di spalmare la governance, divenne, ai suoi livelli deteriori, mera divisione di “bottini” (bottini di finanza pubblica, non solo in principio di attività illecite).
Il consenso elettorale in quanto tale non legittima la richiesta di benefici derogatori o suppletori rispetto alle norme di legge. È dalle elezioni politiche del 2006, fiaccamente vinte dal centrosinistra, che si è fatta strada l’idea per cui vincere con poco margine non legittimi l’autonoma scelta di tutte le cariche pubbliche da parte del vincitore. L’argomento ha un suo fondamento se si ritiene che debbano essere riconosciute istituzionalmente delle posizioni di “garanzia”, di “bandiera”, di “tribuna”, ai “soccombenti” della competizione elettorale. È bene ricordare, però, che all’incirca nei primi trent’anni di storia repubblicana il Partito Comunista Italiano, insospettabilmente forza di maggioranza relativa in numerose zone del Paese, non ebbe mai alcuna presidenza di camere parlamentari. E, quando finalmente questa tribuna di “pluralismo costituzionale” fu riconosciuta, il Partito Comunista non sempre seppe utilizzarla nel miglior modo possibile. Pietro Ingrao, leader di una minoranza del PCI eclettica ed eterodossa nel rapporto coi movimenti sociali ma fondamentalmente disciplinata nella burocrazia di partito, è unanimemente riconosciuto tra i migliori Presidenti della Camera nella storia del Paese. Tuttavia, fu il medesimo Presidente che negò alla Camera il dibattito durante il sequestro Moro: dietro l’ottica del “maiora premunt”, si fece strada l’idea che il bene della nazione dovesse essere preservato dall’interruzione e dalla negoziazione delle sue libertà politiche.
L’attuale inadeguatezza dei partiti a svolgere una funzione chiara nella vita associata – formazione, canalizzazione e valorizzazione di istanze – nasce in fondo dalla loro permanente pretesa auto-giustificativa. La stessa da cui sono affetti i loro attuali antagonisti. Nel 1993 il referendum contro il finanziamento pubblico ai partiti ebbe un risultato plebiscitario, probabilmente montato ad arte dall’onda lunga di Tangentopoli. La legislazione successiva in materia di rimborsi elettorali, concepita sin dai lavori preparatori come strategia dilatoria ed elusiva di attuazione di quel referendum, si è rivelata persino peggiorativa.
Il populismo in Italia ha sempre fondamentalmente preservato un’esaltazione manierata della giurisdizione: il processo come sistema di garanzie era lungaggine, il verdetto l’importante. Il fatto è che utilizzare i fenomeni di corruzione come forma di delegittimazione della sfera pubblica li alimenta, e non li arresta; fomenta, anzi, una comunicazione della vita giudiziaria del Paese inesatta, legalista per modo di dire, ma non proprio irreprensibile sul piano della tecnica legislativa.
Il contrasto alla criminalità organizzata è stato tra i primi epifenomeni a segnalare il divario tra il detto e il fatto, anche perché l’urgenza e l’impatto dei fatti più sanguinosi hanno verosimilmente facilitato le prese di posizione di comodo. Due episodi, uno del recente passato e uno della cronaca attuale, vistano questo sguardo miope e ne segnalano, con la giusta prudenza e rispettosità, i pericoli e i rischi.
Luciano Liggio, il primo “capo” dei Corleonesi a guidare la “Commissione” mafiosa, detenuto dal 1974 fino alla sua morte, certo nei suoi primi anni nelle strutture penitenziarie provò ad esercitare lo stesso ruolo simbolico e decisionale che aveva in latitanza e giudiziariamente gli si addebita la capacità di aver veicolato ordini anche ormai da ristretto. Fino all’alba degli anni Novanta venne generalmente ritenuto il capo per antonomasia, la guida scaltra nel reggere i fili, nonostante le condizioni di salute peggiorate. È ora possibile dire che si era progressivamente tramutato nella dimensione fumettistica della sua appartenenza mafiosa (l’idioletto, il sigaro, gli occhiali da sole), ma sin dagli anni Ottanta, come fu chiaro nel periodo delle stragi, i vertici organizzativi di Cosa Nostra avevano assunto altre denominazioni, nuove determinazioni e cariche diverse.
Negli ultimi mesi, ancora, il mondo dell’informazione ha scoperto il radicamento di gruppi mafiosi autoctoni nella zona dell’Ostiense, sul litorale Sud romano. Sia chiaro: il riscontro dell’articolo 416 bis, agli indici normativi che lo fissano, senz’altro può e deve avvenire tutte le volte in cui lo si renda necessario. Non è però la spasmodica attenzione su gesti anche clamorosi (la testata inferta a un giornalista da un presunto affiliato all’organizzazione; i danneggiamenti spettacolari; le celebrazioni funebri, ecc.) che pare idonea a risolvere il problema della penetrazione criminale nel Basso Lazio, nel quale le influenze mafiose fanno data almeno agli anni Settanta. Perché il recepimento mediatico è stato così tardivo? Si deve dare ragione alla produttività della strategia antilegale dell’inabissamento, per produrre lucro illecito nel silenzio degli organi di informazione e nella relativa discontinuità di quelli di sicurezza? Vi sono state negli anni proposte di ri-regolamentazione del voto di scambio in senso quasi smodatamente espansivo (fino alla “disponibilità a soddisfare gli interessi o le esigenze dell’organizzazione”). Davanti a questa indeterminatezza, il penale da obbligatorio si fa discrezionale e da discrezionale si fa arbitrario, aprendo spazi politici enormi a chi lo cavalca soltanto in senso elettoralistico.
3-Prime conclusioni: la nazione e la nazione divisa
La tronfia retorica del populismo ha un altro elemento che merita di essere sottolineato. Nel primo paragrafo, abbiamo visto che essa parte deformando le esigenze sociali percepite e lavorando all’interno di quella percezione. Nel secondo, si è notato che per porre in essere ciò si adottano visioni strumentali del solo potere dello Stato che non può darsi senza imparzialità, neutralità e garanzia: la giurisdizione. Ora possiamo, perciò, analizzare l’ultimo punto che, normalmente negletto, è all’opposto centrale nell’argomentazione populistica: l’indifferente rimozione delle proprie posizioni pregresse, secondo mere ragioni di convenienza. Quale che voglia essere il giudizio sul governo in carica, o sulla legislazione prodotta dal Parlamento che a maggioranza conferisce a quel governo la fiducia, è indiscutibile che la Lega e il Movimento 5 Stelle partissero da due istanze organizzative fondazionali che oggi sono state superate con un silente e repentino colpo di spugna. La prima parlava addirittura di secessione e indipendenza delle regioni settentrionali (fino a una non troppo determinabile regione storica padana); i secondi rifiutavano l’accordo con le forze politiche diverse e si intestavano la programmatica avversione a tutti i partiti che erano stati espressi negli esecutivi precedenti. La realtà attuale è radicalmente diversa. La Lega ha deciso di proporsi come un partito di destra sociale nazionale, protezionista in campo economico, fautore della sovranità nazionale nelle organizzazioni tra Stati, largamente proibizionista nei diritti civili. Possiamo ritenere che questo programma politico sia stato ciò che la maggioranza degli Italiani votanti ha richiesto ai partiti in campo.
Il Movimento 5 Stelle è entrato in coalizione con uno dei più longevi partiti italiani e alla invocata orizzontalità delle sue decisioni ha sostituito un approccio di “aut aut”, per cui gli iscritti al sito correlato votano, si, ma sempre più spesso non concorrendo al processo decisionale, bensì schierandosi nel novero di posizioni già date e confezionate.
Non vi sarebbe nulla di male se questo processo transizionale interno venisse apertamente discusso tra gli elettori e i gruppi dirigenti di quei partiti; anzi, recupererebbe una vitalità partecipativa ampia se ciò fosse conseguenza di una delibazione collettiva e non delle stringatezze del marketing politico.
“Il bisogno di nazione”, per usare le parole del filosofo Roger Scruton, è ancora forte, lo è sempre di più, perché sempre più oscura appare al cittadino la FORMA del POTERE (e la FONTE del DIRITTO). Il diritto vivente si distacca dalla legge in quanto deliberazione e diventa prassi che nascondono rapporti egemonici, fonti informali eppure cogenti – se non minatorie – di burocrazie sovra-nazionali mal inquadrabili nei dettami classici della discussione pubblica. Il diritto soggettivo, ancora, diviene favore: se il diritto oggettivo è poroso, opinabile o strumentale, la posizione del singolo necessita dell’intermediazione parassitaria del privilegio. E il populismo in effetti gioca sulle ceneri dei diritti sociali; da Francesco Saverio Nitti e dalla sua incessante perorazione teorica ed economica sulle virtù di un intervento pubblico in economia, rettamente orientato, si torna a Cesare Lombroso, alla legislazione criminale redatta secondo il sospetto, come panacea delle insicurezze sociali. Il nuovo populismo dichiara di difendere la proprietà privata, singolare in un Paese sempre meno proprietario, e non si dispiace di citare a orecchio Adam Smith e la forza insita nella “mano invisibile del mercato”: il reddito di cittadinanza avvicina la domanda e l’offerta, la dismissione dei servizi sociali sgrava la spesa, la legittima difesa si dilata ma questo allargamento non ridurrà il contenzioso dei proprietari derubati, al contrario appare destinato ad aumentarlo.
Eppure non si cita Smith, che nelle stesse pagine si dice favorevole alle norme antitrust (leggasi, al tempo, al divieto degli accordi di cartello tra capitalisti). Non conviene fermare la mano invisibile, sol che la mano è visibilissima; è il braccio che la muove sempre più oscuro – il che, come detto, favorisce l’insorgenza dei populismi.
La nazione così appare sempre più necessaria e necessitata, nella sua carica accentratrice e comunque particolaristica, ma diventa anche contenitore di aspettative più che di identità dell’agire civile. Il frazionismo e il campanilismo dilagano, anche in Stati dove la “ragion di Stato” s’era assisa a religione civile (basti ricordare che in Francia, già nel 2002, all’inizio di una parabola politica che decretava le enormi fortune del frontismo nazionale, una partita di Coppa tra i Bretoni del Lorient e i Corsi del Bastia era stata interrotta dai fischi all’inno nazionale della Marsigliese).
Scruton, però, diceva chiaramente che la nazione da lui intesa era distinta dal nazionalismo aggressivo, quello che bandisce le migrazioni favorendone lo sfruttamento e non sempre incidendone la quantità (senza cooperazione internazionale, anche “aiutiamoli a casa loro” è un programma vuoto). Scruton parlava di fedeltà nazionale, di momento coesivo di appartenenza alla stessa, riconoscibile, comunità politica. È quel primo comma dell’articolo 54 della Costituzione repubblicana che a torto o a ragione ci invita, ancora una volta: tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi.