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La fede nella ragione critica ed emancipativa nel lavoro di Stefano Petrucciani (SP).

Una riflessione di Mario Reale sul pensiero e la ricerca di Stefano Petrucciani in questi anni di attività accademica. Discorso tenuto presso il dipartimento di Filosofia della “Sapienza” in Roma il 14 novembre 2023. Il presidente di Filosofia in Movimento traccia un profilo intellettuale del filosofo e studioso romano.

 

Il primo libro di SP dal titolo Ragione e Dominio. Autocritica della razionalità occidentale in Adorno e Horkheimer, Salerno Editrice, 1984, meriterebbe senz’altro, a quarant’anni esatti dalla sua uscita, una seconda edizione. Anzitutto perché, con padronanza dei testi e della letteratura critica, vi si esamina, in una sorta di amplissimo commento a Dialettica dell’illuminismo, la prima opera a quattro mani dei due fondatori della «scuola di Francoforte», e quindi perché vi sono chiamati in causa e discussi con acutezza, molti e impegnativi autori rilevanti per il tema prescelto: da Hegel e Marx, a Schopenhauer, Nietzsche e, con particolare cura, Lukàcs. Ma, più ancora, il testo si raccomanda per la maturità e novità dell’interpretazione che, per illustrare un’originale tesi circa la critica all’illuminismo dei due autori, si serve di tutte le possibili risorse della «razionalità occidentale», nella convinzione che mai dalla ragione – né sembri una cosa ovvia – si possa uscire, e che per «ragione» debba intendersi uno strumento  critico e d’intrinseca ricchezza, come già in nuce nel pensare-dire di Aristotele in Metafisica IV, 4, quasi alle origini della tradizione del pensiero nato in occidente e che Kant riconosceva ancora necessariamente nostro. Da ogni immersione critica la ragione sembra riemergere quasi chiedendo una nuova definizione, poiché esce rafforzata ogni volta che, conoscendo il mondo, allarga altresì la sua forza e la consapevolezza di sé.

La ragione è una realtà che si mantiene, per quanto forti siano le critiche che possano esserle rivolte, e che debbono essere di necessità risolte per SP in auto-obiezione, in un movimento che va entro di sé, per uscirne più avvertito e vigoroso. Sembra ovvio e persino banale, ma non lo è. Tutti cerchiamo in un certo modo la ragione, la perenne ragione occidentale – quella stessa di Hegel, nonostante tutto, e di Marx – ma nel duro lavoro perché essa si affermi, aprendosi alle più pressanti novità (perciò nella tradizione «occidentale»), estendendosi e acuendosi, rischiamo spesso, ora più ora meno, di lasciarci travolgere da questo bisogno di critica, dalla specificità e autonomia di taluni problemi o campi del sapere, fino a smarrire la forza unitaria dello stesso soggetto di queste operazioni, o, in altri casi, fino a dichiararlo persino sistematicamente diverso e contrastante con la ragione. Al contrario, SP è, nei riguardi della ragione, come un chierico cha abbia già pronunciato da tempo i suoi voti solenni, attenendovisi poi rigorosamente e à jamais; o come il cristiano consapevole che i dubbi e l’ateismo sono ciò da cui sempre la fede deve riemergere. Semplicemente, ma in modi nient’affatto semplicistici, quasi fosse una raison illuministica vista come modesto e già segnato approdo, nella selbst-Darstellung di un suo libro, SP dice in modo piano – ed è la cifra propria di tutto il suo lavoro – di aver svolto la sua ricerca «senza nulla concedere all’irrazionalismo». Della ragionevolezza, per così dire, della ragione è ineliminabile compagna, in uno scavo che, come s’è detto, non termina mai, la sua «autocritica», che già la specificazione di «occidentale», nel suo aspro e contrastato cammino, lascia intravedere.

Questa fiducia – ma direi proprio anche fede – nella ragione, nel parler raison, è così forte, costitutiva in SP che non teme di affrontare, senza paura di perdersi, le sfide più ardue e perigliose, quando altri abbandonano il campo o lo circondano di numerosi schermi gergali e fumosi. La cosa è evidente già in questo stesso libro a proposito di Adorno. Molti direbbero che il sospettoso critico della ragione, sia il meno adatto a comprovare l’assunto di cui parliamo; ma SP è un «credente» che non si lascia smuovere né commuovere, ché anzi è disposto a iscrivere impavidamente nelle fila dell’universale ragione anche Adorno e il suo sodale Horkheimer di Dialettica dell’illuminismo, del resto molto amati, quando si tratti di ricondurre a ragione il nero, sfuggente e quotidiano campo, del «dominio». La sfida forse maggiore è consistita nel salvare Adorno dalle dure critiche che Habermas gli riservò nel Discorso filosofico della modernità, un testo d’altra parte fondamentale tra i points de repère di SP: esemplare è il modo in cui SP si pone contro l’attacco di Habermas ad Adorno, finemente riconoscendogli ragioni e un sostanziale torto.

L’altro termine del titolo, Dominio, non mi risulta essere un termine del lessico marxiano e marxista, nemmeno come Herrschaft del capitalista sull’operaio (ma con l’eccezione, almeno, di Gramsci, per il quale «dominio» è termine chiave come apparato coercitivo dello Stato novecentesco, in coppia con il diverso momento di direzione, consenso ed egemonia); con i francofortesi sta qui a significare, le forme di oppressione sugli altri uomini e su se stessi al di là, non fosse che per il trascorrere del tempo con le sue novità, delle distorsioni ormai canoniche, diagnosticate e combattute da Marx, e poste a base, da Adorno e Horkeimer, di ogni teoria critica ai fini di un’emancipazione sociale e politica: dalla famiglia e dalla riproduzione della vita, dall’«autorità» in generale, fino insomma a ciò cha accade prima e dopo la stretta sfera economica, persino del tempo libero e del divertimento. La ragione, d’altra parte, come s’é detto, se vuol essere pari a se stessa, deve poter mostrare un incessante volto critico, abbracciando e valutando ogni aspetto delle ferite e dei danni che gravano sulla nostra vita, mettendo sempre in campo, appunto, un’«autocritica». Ma con questa più vasta opera la ragione, qualificata subito come «occidentale»,  si muove entro l’unico modo di ragionare che, da Aristotele a Kant e fino a noi, si conosca; e, infatti, con movenza hegeliana, il pensiero torna indietro nello scavo intensive per andare avanti,  giungendo al suo risultato attraverso un’autocritica della ragione stessa, che mentre conosce allarga altresì la sua capacità di comprendere, riemergendo ancor più forte da ogni esercizio critico.

Cercherò ora, a partire dall’ultimo libro appena uscito di SP – La Scuola di Francoforte, Carocci 2023 – di andar dietro geneticamente, fino appunto al capostipite Ragione e Dominio, avanzando in breve qualche motivo che è caratteristico dell’intera produzione scientifica di SP. Con l’avvertenza tuttavia che si tratta di note sparse, che avrebbero bisogno di ben altro impianto e spazio, poiché così come si presentano non sono sufficienti né intensive né estensive a dar conto dell’imponente ricerca di SP in più di 40 anni di intenso lavoro. E, Francoforte essendo non un luogo fisico il cui cuore, pur avendo dato i natali a Goethe, batte al ritmo delle quotazioni in borsa, ma una sorta di categoria dello spirito, una Geistige Heimat per SP, bisogna presupporre la presenza della sua ‘Scuola’, per lode o per qualche biasimo critico, in tutto ciò che verrò dicendo, anche quando non sia apertamente nominata.

La mia prima nota riguarda, come premessa, lo stile o il bello scrivere di SP, subito in qualche tacita opposizione alla prosa di Adorno. Benedetto Croce ha scritto che solo chi pensa bene scrive bene. Forse l’affermazione è troppo perentoria, gravata da un numero eccessivo di eccezioni, ma certo è che la prosa detta in senso largo «scientifica» (ossia non d’arte) ha molti scrittori «ben pensanti» al suo attivo, in una tradizione cui esemplarmene appartiene (o ne è per altri iniziatore), secondo una storia molte volte tracciata, Galilei e in cui si iscrive lo stesso Croce in quanto, è stato scritto, costituisce il «più grande prosatore italiano dopo Manzoni» (Benjamin Crémieux). Non voglio farla lunga, ma SP s’iscrive, a suo modo certo, in questa corrente le cui caratteristiche sono la chiarezza, la concretezza, la precisione e la vicinanza il più possibile al linguaggio comune, come voleva lo stesso Galilei. La notazione non è affatto irrilevante se si pensa che nei pensatori di cui SP si occupa c’è non di rado gergo o vertigine dell’oscurità e che è suo point d’honneur sciogliere ogni pesante ostacolo linguistico nella più limpida forma possibile, tanto ch’è un vero piacere leggerlo.      Anche per questa tersità di scrittura, SP è divulgatore e mediatore tra culture di alta classe, come per esempio nella curatela della difficile Dialettica negativa adorniana, o nella laterziana Introduzione ad Adorno, che volge in buon italiano un pensiero originariamente espresso in prosa avvoltolata, capricciosa e sincopata. Adorno ha scritto un saggio per aiutare i lettori a leggere la difficile prosa hegeliana, posta sulle orme dell’antico Eraclito: ’Scoteinos, ovvero come si debba leggere uno scrittore oscuro come Hegel’ (in Tre studi su Hegel, ed. or. 1963, tr. it il Mulino 1971); ma Adorno stesso ha bisogno, per essere compreso ed esplicato, di traduttori e commentatori come SP, che assumono su di sé il difficile compito di tradurre il «traduttor d’Omero», il caliginoso Adorno. La chiarezza infine è pensata da SP quasi come un compito civile e morale verso i suoi lettori, che perciò gli dovrebbero essere riconoscenti.

La prima cosa di merito su cui ora mi soffermerò è la fedeltà di SP ai suoi temi, e dunque anche a se stesso. Questo può essere anche un limite, quando si continui a lavorare per anni un ristretto campicello; ma non c’è affatto pericolo che questo sia il caso di SP, la cui vastità d’autori e d’interessi è notevole. Ciò vorrà dire allora che non vi sono nel suo lavoro né retractationes di ciò che è stato fatto fin lì, né – refrattario SP a ogni moda, anche quando si occupi di autori alla moda come Marcuse – interruzione della continuità d’interessi in cui irrompano prospettive diverse e di segno al tutto contrario. Le vie sono classicamente segnate da SP fin da da quando era giovane, e il suo lavoro di ricerca consiste principalmente perciò in un lavoro di scavo e approfondimento, di un hegeliano tornare indietro per andare avanti. Già i due libri che abbiamo ricordati, il primo e finora l’ultimo, si occupano di una costellazione vasta di autori e problemi. E SP sa bene come allargare in mille modi questo dominio già non modesto. Penso ad esempio alle tre sillogi tematiche einaudiane che SP ha dedicato a: Modelli di filosofia politica (2003), il capostipite che io amo di più, Democrazia (2014), Politica (2020). In questi brillanti, acuti e del tutto attendibili exploits, non c’è affatto ripetizione del già noto, ma fili di domande originali che danno riperimetrazione e profondità al campo di lavoro. Ed è come fare ogni volta i conti con un intero sapere, che certo è costituito, per SP anzitutto dalla filosofia politica, in senso largo, con i suoi temi e autori, con la sua storia che giunge fino alle realtà che cominciano ad affiorare o si sono appena aperte – ma all’insegna di «novità» di cui vorrei segnalarne almeno due, riguardanti la storia e la filosofia, le due fondamentali conoscenze che Croce diceva geminae ortae.

La prima è la consapevolezza che la filosofia politica, come gli antichi fino Machiavelli ci hanno insegnato, riposa sulla storia tout court, storia come accadere di eventi in cui la politica è saldamente iscritta – attraverso i molti «accidenti» di Machiavelli o, attraverso la sua fonte polibiana, le molte lotte e fatti e peripezie (dia polllon agonon kai pragmaton) – potendo solo di qui trascorrere in idealizzazioni e persino in utopie. Per esempio, ricchi e poveri sono in Aristotele materia direttamente politica, quel che non saranno più in età moderna, quando la stessa complessità dei problemi e l’irrompere sulla scena politica di grandi masse renderanno necessario l’uso dell’astrazione con tutte le sue possibili mistificazioni, donde il limite di immediatezza in taluni dei pur notevolissimi scritti giovanili di Marx, come la Judenfrage. Il senso storico di SP è così vivo da trapassare talora, nelle sillogi di cui ho detto, direttamente nella storia generale cui a volte sono dedicate specifiche rubriche a riscontro di temi e figure filosofico-politiche; ricordo qui solo la Parte prima di Democrazia, con rubriche dedicate tutte e solo alla storia generale (v. per es. pp. 64-79).

 L’altra novità sta nel modo d’intendere il rapporto di filosofia e politica nell’endiadi o sintagma «filosofia politica». C’è qui un pericolo che troppo spesso mi pare non venir scansato, quello cioè di intendere che la filosofia in quest’ambito sia solo quella che serve ai fini di un sapere politico: non di più, e trattato allora nelle convenienti e modeste maniere. Ma non è così, non esistono filosofie solo «locali» e la filosofia è sempre una. Non so, forse era meglio la dizione di Croce, che diceva «filosofia della politica», quasi un intero che si volga ad esaminare particolarmente un ambito della realtà, non una filosofia ricavabile volta a volta dal proprio oggetto. Fatto è che SP è innanzitutto un filosofo tout court, un filosofo «puro», non a caso formato alla scuola di Gennaro Sasso, che si occupa spesso o prevalentemente di politica, mantenendo tuttavia integra e piena la sua capacità di filosofare, a qualunque oggetto si volga. La filosofia nella sua interezza non è affatto un orpello o una belluria per il pensare politico e persino per la «Scienza politica»; tutt’al contrario fornisce non solo rigore logico, ma anche criteri ermeneutici, la capacità di proporre nuove tesi e suggestioni al pensare politico.

Quel che dico riuscirebbe alquanto astruso se non indicassi subito un esempio di ciò che intendo, ricordando uno dei libri più belli di SP, anche se forse non tra i più noti, che s’intitola Etica dell’argomentazione. Ragione, scienza e prassi nel pensiero di Karl-Otto Apel, Marietti 1988 (di cui, come per Ragione e Dominio, mi sembrerebbe molto utile una seconda edizione). Come Apel non è un filosofo politico, se non indirettamente per la congiuntura che lo accostò in un certo tempo ad Habermas, egli stesso non proprio filosofo politico, così del pari SP si tiene qui a questioni squisitamente filosofiche quali la «Fondazione della razionalità e l’idea di semiotica trascendentale», o «Spiegare e comprendere», e così via. Forse è evidente già di qui, inoltre, che questo non è un libro di storia della filosofia, ma di puro esercizio di filosofia in atto. E siccome neanche questa distinzione è del tutto ovvia nel senso che vi sono esimi cultori della storia della filosofia, che non hanno alcun senso e orecchio e gusto di quel che sia veramente filosofare, mi piacerebbe, se avessi tempo, soffermarmi su qualche problema determinato per mostrare cos’è questo filosofare nel libro di SP, seguendolo in esempio circa la domanda sull’«argomento migliore», se c’è e in che consista, un tema dibattuto nella prospettiva dialogica e deliberativa.

Nel denso Prologo a Modelli di filosofia politica, la silloge che m’è più cara SP s’interroga proprio intorno a questo problema, al fatto cioè che la filosofia politica «prima che essere politica è filosofia». Con Leo Strauss si osserva che ogni domanda su ‘cos’è la filosofia politica’ ne presupponga un’altra su ‘cos’è la filosofia’, domanda necessaria per un sapere non codificato, non avente un suo indiscutibile statuto. E’ sconsigliabile ora, ché mi porterebbe via molto tempo, soffermarmi su quale sia il concetto che SP ha della filosofia – che rinvia in generale a un metodo di «argomentazione pubblica, critica e aperta», in una sorta di «ininterrotto dialogo argomentativo», in un «continuo scambio di ragioni e critiche», nella ricerca di «argomenti persuasivi». Gli «strumenti del dialogo razionale» vengono impiegati per dirimere e innanzitutto impostare i grandi problemi della filosofia.

Ma qual è ora l’indirizzo metodico generale nello studio di questi problemi? SP si occupa spesso della classica distinzione tra approccio «normativo», che lui predilige, o approccio «realistico» alla filosofia politica – me ne occupo qui a partire dalla densa e bella ‘Parte prima’ di Politica. Una introduzione filosofica, Einaudi 2020. Il quadro generale entro cui SP si iscrive (e che ha irrobustito anche un mio personale convincimento) è che in ogni seria considerazione di filosofia politica, o della sua storia, non possa mancare né il momento normativo né quello realistico. Pare un asserto ovvio, ma non lo è affatto. Le resistenze maggiori a questa  pacificazione, e dunque la permanenza in una guerra, vengono forse dai «realisti», attaccati platonicamente alle rocce, e sospettosi di ogni posizione che esuli dai cosiddetti «fatti» e dalla loro inaggirabile durezza. Ciò che soprattutto disturba questi austeri esprits forts, che, a partire dal Trasimaco e dal Gorgia di Platone, sempre affermano solo il diritto del più forte, è la presenza di un’antropologia comprensiva della capacità umana di morale e giustizia politica, in un vacuo discorso aperto, come si rimprovera loro, alle sirene dell’ideologia. Ma certo è, d’altra parte, che, sia pur non sempre sottraendosi esso stesso a configurazioni ideologiche, il realismo smaschera pigre abitudini, fa pulizia di ciò che Hegel  chiamava la «pappamolla del cuore», ed è essenziale a ogni seria considerazione della realtà.  I grandi scrittori realistici si leggono volentieri e c’è sempre da imparare da essi: da Tucidite a Machiavelli a Hobbes agli stessi Hegel e a Marx. In conclusione, SP mostra una buona dose di realismo e di critica profonda, che fanno così parte del suo bagaglio culturale, tanto da indurlo a scrivere in questa vena uno dei suoi saggi più belli dal titolo: «Democratizzare la Democrazia. E’ ancora possibile?».

Ma la sfera della morale costituisce, a sua volta, essa stessa un «fatto», una realtà dell’umano che, senza bisogno di alcun fondamento né ora di più complessi ragionamenti, si dà – es gibt, o es geht so – è qualcosa di cui nessuna teoria critica, benché sofisticata, potrebbe fare a meno, e che da parte mia risolverei, con Hobbes, nelle forme della socialità, distinte dai precetti religiosi. Del resto credo che, tra i due campioni moderni del realismo, Machiavelli e Hobbes, così come per certi versi anche in Hegel e in Marx, le cose siano più complesse. Machiavelli non può essere iscritto tout court all’ordine di un radicale e totale realismo, perché non può esser privato della volontà controfattuale di mutare il mondo e mutare se stessi (un centrale passaggio come si vede nella rigidezza dell’esser o impetuosi o rispettivi). Machiavelli fa in realtà ricorso – oltre che a realistici strumenti, come la volontà di un Principe o la ferma costruttività delle leggi repubblicane capaci di creare una seconda natura dell’uomo posta politicamente – alla risorsa morale, etica e persino profetica, dell’ultimo capitolo del Principe, o della «società bene ordinata» dei Discorsi. L’ardita costruzione di Hobbes d’altra parte, l’Hobbes’s argument, non potrebbe mantenersi senza la decisiva risorsa morale della legge di natura ai fini dell’ingresso nella politica.

Se moralità e realismo vanno sempre insieme, sospetta è allora la scelta di un criterio contro l’altro. SP, che pur potrebbe falsamente apparire, richiamandosi apertamente a questa impostazione, un deciso ed esclusivo normativista, non manca affatto di un chiara esigenza realistica, che lo distingue anche da tutti gli ingenui seguaci del solo dover-essere. Il realismo è decisivo come condizione di possibilità e al tempo stesso esito dell’intero discorso argomentativo e deliberativo. In generale a me sembra che SP ascolti con passione e interesse lo svolgersi nel mondo delle cose politiche. Solo che – oltre a considerare il piano della filosofia politica posto in un piano più alto delle mutevoli contingenze – non ama critiche che cerchino di mettere in crisi, nella loro puntualità, il suo intero apparato categoriale di riferimento, per esempio riguardo alla democrazia considerata a muovere, realisticamente, da quella  che conosciamo oggi. Per SP la democrazia, a partire dal così  come la sperimentiamo oggi, costituisce un obiettivo che, nonostante le esuberanti difficoltà del caso, si deve mantenere sempre sullo sfondo, contro le repubbliche «democratiche» solo «immaginate», come diceva Machiavelli, che mai si sono «viste né conosciute in vero essere» (Principe XV); o contro le forme antiche o di spericolate e irraggiungibili o persino sconsigliabili proposte di democrazia: una realtà che per SP si legge essenzialmente nel mondo moderno, tra liberalismo e (eventuale) socialismo (o altrimenti come consapevole e diretto prodotto «engelsiano» del movimento operaio con il modello da altri imitato del suo grande partito socialdemocratico di massa). Le grandi famiglie che costituiscono l’ossatura del pensiero politico moderno sono altresì il masterplan degli studi di SP.

Ci potremmo chiedere da ultimo come la personalità di SP si trasmette nel suo lavoro di grande e infaticabile studioso. Io direi così, che c’è in SP sia un’anima profondamente liberale che un senso forte della comunità. Il tratto liberale, continuerò a chiamarlo così, consiste, nel liberalismo quale veniva definito da Adolfo Omodeo in quanto cioè formazione e natura dell’uomo moderno, critico, laico, curioso, aperto agli altri e al futuro, disposto alla parità tra gli uomini, contrario a ogni forma di retriva chiusura; un liberalismo che deriva in SP da una naturale disposizione oltre che, come suppongo, anche da educazione familiare, e che si mostra ad ogni passo della sua vita e dei suoi studi (così mi apparve quando, ormai poco meno di 50 anni fa, lo conobbi). Ma, proprio perché questo liberalismo è radicale, l’attenzione di SP è rivolta, forse di preferenza, ai limiti e alle insufficienze della democrazia liberale, a ciò che essa ha trascurato, alle molte forme di dominio che non ha combattuto. Ciò apre per SP il grande interesse per il socialismo, la forza capace di colmare questi vuoti, in cui coerentemente Marx è inteso come grande storico e critico della società, pensatore della libertà, la cui intera lezione è insostituibile e inesauribile (cfr. di SP, Marx in dieci parole, Carocci 2020). In una simile lettura, che si è intensificata negli ultimi anni, sono scansate sia le secche delle anguste e minute analisi circa il «vero Marx», con esclusione di altri volti, come ad esempio il «giovane Marx», nonché, meno che mai, le critiche che ne fanno un «cane morto» perché i suoi quarti di scientificità (secondo un rinsecchito concetto di scienza) non sono puri, o infine i tentativi di farne un autore compiuto e magari disposto a esser messo in un insegnamento dogmatico.

L’altro tema, quello della comunità, è forse già in parte mostrato dai lavori di cui parliamo. La «scuola di Francoforte» rappresenta per SP una societas, un collettivo di cui egli è studioso e custode: si veda con quanta cura ne esamina via via le sue figure, per ora fino a Jaeggi e Rosa; e soprattutto con quanta vigilanza ne difenda, al di là delle naturali diversità, una sostanziale e ancor leggibile continuità. La Scuola di Francoforte e il suo lascito sono stati da SP in ogni modo salvaguardati e seguiti attentamente con grande considerazione, ad essi dedicando, come a una grande comunità, non poca fatica e molto tempo. Ma diligenza, solerte riflessione e vigilanza di SP si rivolgono sempre, secondo la sua vocazione, alle comunità di ricerca, non ai gruppi decisamente politici o di partito. La cosa forse più evidente è il caso del Manifesto: un insieme di lavoro culturale e politico, di cui SP ha fatto parte in modo continuo, impegnato e fedele, senza però esser mai coinvolto, mi pare, sul piano strettamente politico e nei tentativi di farsi partito. Nonostante la disposizione alla communitas SP non ha mai sentito il bisogno di aderire a una comunità di partito. Credo che ci sia qui, al fondo, una difficoltà del pensiero a primaria inclinazione liberale, anche nelle persone più aperte, intelligenti e disposte a una strategia di cambiamento politico come Norberto Bobbio – di cui SP fa gran conto, cominciando dall’apprezzamento della sua civile prosa – a comprendere il partito politico, dal punto in cui la volontà generale va oltre il volere dei singoli, dando appunto vita, non potendo il tutto risolversi nel semplice gioco di maggioranza e minoranza, a una speciale comunità (donde la frequente sopravvalutazione, a parer mio, dell’opera di Robert Michels). Ma è un tema difficile e qui solo enunciabile, del quale ho avuto modo di discutere con lo stesso Bobbio nella corrispondenza che per molti anni ho intrattenuto con lui. Mi è accaduto di pensare che SP somigliasse un po’ a Frank Cunnigham, il nostro compianto e comune amico, che, come il suo maestro C.B.Macpherson, cercava di pensare gli sviluppi avanzati della democrazia, a partire dalla situazione canadese e nordamericana, prescindendo cioè quasi del tutto dai partiti politici. Ma oggi che accade, quando la realtà di un partito politico come quelli che abbiamo conosciuto fino agli anni ‘90 costituisce un’esperienza a parer mio qusi interamente consumata, in una situazione che Pietro Scoppola definì come quella del passaggio dalla «democrazia dei partiti» alla «democrazia dei (singoli) cittadini»? Oggi francamente non so se, pur con la perdita di talune esperienze, SP non abbia visto anche prima e meglio di altri quel che si doveva fare e quali ne erano i punti di riferimento.

II  Proposta sui consumi

 Quando si pensa a quel che SP ha fatto è necessario, e comunque non se ne può fare a meno, considerare anche quel che potrebbe fare nel futuro. Mi permetto qui di avanzare alla fine una modesta proposta, che mi darà l’occasione, prima, di parlare ancora dei lavori di SP già eseguiti. Il punto più nuovo e originale di La scuola di Francoforte, il testo appena uscito, sono i tre saggi su Marcuse: non solo perché, vi si affronta con ampiezza e profondità un autore che nel primo libro aveva rilievo molto modesto, né perché si riscopra un filosofo di solito superficialmente ricordato per un solo libro, unius libri, per pochi slogan o per la generica vicinanza al movimento del’68. La ragione principale è che in queste, che sono tra le pagine più belle del libro, c’è una riflessione maggiormente autonoma, libera e originale di SP che si può vedere per esempio nel capitolo sesto, e già nelle sue pagine introduttive, dove si legge cosa SP intenda per capitalismo, crescita economica, rapporto mezzi e fini, neutralità della tecnica, totalità sociale, e così via. Il testo su Marcuse non è privo di un’interessante vena biografica collettiva e forse anche autobiografica, dedicata al «complicato rapporto», pratico o ideale tra i francofortesi e il movimento del ‘68. SP ha un vero talento nell’infilarsi in argomenti scomodi, al qual proposito molti tacciono e per cui occorre libertà e coraggio, come quando fu tra i pochi che affrontarono il tema del crollo dell’URSS. Qui non era affatto facile dire felicemente in breve cosa fu il magmatico e per certi versi anche sfuggente Movimento del’68, un tema di cui bisognerà ancora occuparsi.

Tra le molte altre cose notabili in questa sezione del libro su Marcuse mi soffermerò ora su un tema in apparenza marginale e curioso, che non so fino a che punto sia tutto frutto di Adorno e Horkheimer o se non appartenga anche alla sapienza ricostruttiva di SP, che sa pensare con e oltre i suoi autori, nella direzione da essi indicata. La questione potrebbe esser posta così: nessuna generale forma di vita può dipendere dalla settecentesca imposizione di un tiranno, del soldato o del prete, dal «mero arbitrio dei gruppi dominanti», da una sorta di «follia o insensatezza collettiva». Ci interessiamo molto all’emancipazione dei «servi», ma cosa ha consentito che questa situazione di oppressione durasse secoli o millenni? Qui si parla del capitalismo che da un lato incorpora in sé l’elemento «dell’assurdo o della contraddizione» e non riesce «a superare la scarsità e la penuria se non riproducendola sempre a livelli diversi e più alti» – un’acuta osservazione  di SP circa la «società opulenta», su cui ricordo il contributo de La Rivista Trimestrale – cui si collegano tutte le altre distorsioni generate dal capitale. Ma dall’altro lato il capitalismo è pure una complessa struttura economico-sociale che riesce – si dice – oggi «imbattibile» sul piano dell’allocazione delle risorse produttive, riuscendo a «innescare l’uscita di intere aree del mondo dal cono d’ombra della scarsità e della penuria, di assicurare la soddisfazione di bisogni veri e non solo di quelli falsi e «indotti».

E’ quest’ultima capacità del capitalismo, come vediamo bene intorno a noi, che assicura sempre (se non proprio «occupazione» e «benessere» come voleva Adam Smith) beni che vanno ben oltre la proverbiale ciotola di riso al giorno per tutti i cinesi e che tengono in piedi il capitalismo opulento.  Questa opportunità di lunga vita pone in realtà problemi acutissimi a ogni tentativo di pensare il socialismo, che dovrebbe in primo luogo e necessariamente sapere ciò da cui si discosta, ciò che supera. Ad Axel Honneth mi pare che in sostanza SP dica che, pur con molti pregi, il suo ripensamento del socialismo manca di «storicità» (non tocco il punto dell’eventuale tramonto del capitalismo che somiglia alla seconda venuta del Cristo nel cristianesimo: attesa dapprima come imminente, ma quando, rinviando rinviando, non viene, costringe a ripensare interamente e faticosamente l’essere della Chiesa e dei fedeli).

Questo problema – su che si regga una società di oppressi con pochi «signori» dominanti o perché  un complesso sociale «tiene»anche quando vi sono innumerevoli «servi» – è valido, nel discorso di Horkheimer e Adorno ricostruito da SP non per il solo capitalismo, ma per un tempo sterminato, assicurando continuità alla storia per interi millenni, (v. di SP, Marx al tramonto del secolo, manifestolibri 1995, ‘L’autocritica della modernità nel pensiero di Adorno e Horkheimer’, pp. 95-114). In simili società precapitalistiche i rapporti di dominio hanno sempre avuto una duplice natura: la garanzia del privilegio, certo, ma anche la sopravvivenza e la giustificazione della riproduzione dell’intera totalità sociale. Quest’ultimo elemento, dice SP, può esser configurato come il momento di «universalità», congiunto indistricabilmente con quello della «particolarità» nel dominio. Com’è potuto accadere, si chiede Horkheimer, che «per interi periodi la subordinazione coincidesse con l’interesse dei dominati»? La prima e forse principale risposta degli autori francofortesi riposa sull’originaria penuria dei mezzi di sussistenza e sulle necessità da essa imposta: dalla formazione di un un piano preordinato, più o meno consapevole e manifesto, formulato con una qualche collaborazione dei subordinati (si può fare qui un confronto, dice SP, con il dominio e il consenso di Gramsci), cui tutti devono conformarsi per instaurare, tra l’altro, una stabile gerarchia sociale, a partire dalla distinzione tra lavoro intellettuale e manuale. E a questa risposta si devono aggiungere gli altri campi di dominio «umani e artificiali» di cui abbiamo detto. Né devono sfuggire le innovative ricerche di chi ha configurato il signore come la sola possibile umanità del servo.

Ma che tipo di rapporto c’è allora tra privilegiati e soggetti, tra dominio e consenso? Come si articola un simile problema? Anzitutto la lotta per fare autonoma la civiltà dalla mera natura, come dice bene SP, si deve ampliare nel contrasto all’artefatta instaurazione della coazione e della repressione non solo sociale ma delle più forti pulsioni individuali. Ciò è conforme alla tesi forte di SP per cui l’Illuminismo è criticato nei primi francofortesi non per troppo ma per manco di una più sviluppata teoria critica che abbracci, oltre all’arcaico dominio tecnico e scientifico sulla natura – exeundum e statu naturae, come dicevano Spinoza ed Hegel – anche le forme emancipative che si dicevano un tempo «morali»: l’oppressione degli uomini sugli altri uomini (e su se stessi), a cominciare dalla ricchezza astratta, in quanto illimitato fine a se stessa. Non è sufficiente, dice conclusivamente SP a proposito dei limiti di Marcuse, stabilire con «ingenuità» quali sono «i veri bisogni e i veri fini umani per aver risolto alla radice ogni problema di irrazionalità sociale», né meno che mai, aggiungiamo, per cominciare a risolvere praticamente il problema.

A questo proposito mi pare che ci sia uno iato o un vuoto tra la discussione delle migliori forme di vita e l’inizio della lotta per recarle praticamente, come già teoricamente, in atto, specie se si dice, non a torto a parer mio, che la formazione capitalistica è oggi, dal lato della produzione, «imbattibile» (che non vuol dire in tutto accettabile). Ma se non dalla produzione, si potrebbe forse partire dai bisogni e dal consumo – sostenuto da una forte domanda aggregata e collettiva, non affidata alla dispersione delle singole famiglie, quasi «fini» posti al capitalismo – per provare ad allentare e in parte correggere i difetti del capitalismo, in favore di una società più razionale, sociale, più giusta e, aggiungerei, anche più «bella»? Com’ è noto l’economia politica classica, Marx compreso, negano che il consumo possa mai essere reso nemmeno in parte autonomo dalla produzione. Ma sull’indipendenza dalla produzione stanno alcuni esiti irrisolti dell’economia politica classica, numerosi tentativi fatti dagli scrittori che sono stati detti «utopistici» dell’800, e anche da qualche teoria critica novecentesca. Le domande che in conclusione pongo a SP, volendo guardare avanti, e non solo ripercorrere il già fatto, sono le seguenti. Nella teoria critica francofortese c’è qualche cenno positivo al tema del consumo o i consumi sono solo tenacemente criticati nella forma attuale (consumi indotti, ecc.)? E SP, con la sua esperienza e autorevolezza, che pensa di questa via? e sennò, quali strade ritiene percorribili per cominciare a ovviare al problema che ho detto della riforma, almeno teorica, del capitalismo?

 

 

Foto di Antonio Cecere: Mario Reale e Stefano Petrucciani impegnati in una riunione del comitato scientifico di Filosofia in Movimento nel 2019. 

 

 

 

 

 

Nasce LIME- Laboratorio interculturale Mediterraneo EST

L’Europa come spazio politico è sconvolta da nuovi venti di guerra. I fatti recenti, legati all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, riaprono ferite che pensavamo sepolte sotto il mantello della storia, severa nel suo giudizio sui responsabili della Seconda Guerra Mondiale e artefice della rinascita della democrazia, grazie alla volontà di persone e gruppi disposti a rischiare tutto pur di affermare il valore della pace come cemento della solidarietà tra persone e popoli. Ma le democrazie tornano ad essere messe nuovamente in pericolo e questo dilemma ripropone la necessità di ricondurre gli sforzi ad unità per assicurare alle nuove generazioni rinnovate prospettive di unione e fratellanza. Del resto, l’Unione europea è nata con questo obiettivo fondamentale, grazie al contributo che un gruppo di paesi ha dato partendo dai valori consacrati nelle rispettive costituzioni. “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli”: così recita l’art. 11 della nostra Carta costituzionale; questo significa che la Repubblica (i cittadini e le istituzioni, insieme) dovrà compiere ogni sforzo, sia all’interno del perimetro nazionale, sia a livello esterno – dunque in cooperazione con gli altri – per far si che la pace resti il punto di riferimento ultimo, costi quel che costi; dunque anche immaginando di aiutare e sostenere chiunque si trovi nella condizione di vedere la propria esistenza messa in pericolo. Le organizzazioni internazionali, come l’ONU e l’Unione europea in testa, sono nate innanzitutto con questo scopo, affinchè il male non prenda il sopravvento. L’Italia, è chiamata a svolgere, pertanto, un ruolo fondamentale in questa prospettiva pacificatrice. Ed è chiamata a farlo non solo come paese fondatore dell’Unione europea ma anche come attore politico centrale all’interno del Mediterraneo. In questo grande spazio geopolitico, storicamente luogo di confronto, ma pure di scontri, tra culture diverse, c’è bisogno di affermare il valore del rispetto e della fratellanza. Papa Francesco e altri leader religiosi sono impegnati in questa impresa. Dall’alto del suo magistero, Bergoglio non si stanca di ripetere quanto conoscersi e rispettarsi tra “diversi” (per cultura, tradizioni, religioni, etc.) sia la premessa necessaria per non naufragare nel vortice dell’intolleranza e del conflitto perenne. Ecco allora, dunque, che anche il Mediterraneo diventa la palestra di una nuova narrazione civile, occasione continua per ridefinire i confini del dialogo in una prospettiva “sconfinata”, che abbatte barriere frutto di ignoranza e pretesa di dominio, specie verso i popoli più in difficoltà. Aprirsi alla diversità, accoglierla senza timori, costruire una cittadinanza mediterranea, dunque cosmopolita, sarà il compito che cittadini e organizzazioni dovranno mettere in campo, a qualsiasi latitudine. Come calabresi, in particolare, che abbiamo conosciuto il valore dell’ospitalità – mentre altrove si consumava il martirio della guerra – questa impresa assume un significato ancora più forte.

Gianfranco Macrì

TRA IL DIRITTO SECOLARE E LA FILOSOFIA POLITICA LAICA: COSTITUZIONALISMO E CULTURA NELLA TUNISIA ODIERNA

La Tunisia sembra destinata a rimanere per gli atlanti non molto più che una virgola di interludio tra l’Algeria e la Libia. Eppure, la sua vitalità culturale, le sue transizioni costituzionali e i suoi moti popolari, accesi e vivaci, quanto spesso sofferti e testimoniali, certificano un’importanza anche di natura geo-strategica assai superiore alle apparenze. Questa indubitabile rilevanza si traduce in una facile suggestione emotiva per l’Italia insulare: la Tunisia è più vicina alla Sardegna e alla Sicilia che alle regioni libiche e algerine non mediterranee. Terra composita, quella tunisina, politicamente portata a un’innovazione perseguita con fierezza e originalità, a far data, almeno, dai moti repubblicani del 1954-1957. E anche terra dove la tradizione, l’uso, la consuetudine e il retaggio – elementi etnologici ed elementi giuridici, elementi letterari ed elementi politico-istituzionali – non si sradicano mai con l’accetta, ma resistono, progrediscono, talvolta si incistano, più spesso si evolvono. Lo conferma il diritto di famiglia repubblicano: la Tunisia è, o perlomeno è stata, emblema di una regolamentazione non esclusivamente coranica delle relazioni inter-privatistiche, non riconducibile, però, nemmeno all’intransigenza legalista del diritto francese statuale.

In Tunisia, sin dagli anni Cinquanta, istituti di civiltà avvicinano la donna e l’uomo, innaturalmente separati da vincoli attribuiti alla religione, ma di fatto imposti dalle interpretazioni teocratiche della spiritualità collettiva. Esiste un’età minima per contrarre matrimonio, la poligamia da mettere al bando è una spinta centrifuga, e non centripeta, rispetto alla familiarità tradizionale, la sposa deve poter acconsentire (non obbedire!).

Il diritto civile tunisino, in molti campi (dalla prospettiva laburista a quella commerciale, dalla famiglia alle successioni), è stato capofila della transizione maghrebina ed è patrimonio di conquiste sociali che non meritano di concedersi ad arretramenti e ad aggressioni.

Nel 2015, il “quartetto per il dialogo nazionale tunisino” (organo composto dalle associazioni degli imprenditori, sindacalisti, attivisti e avvocati) ha conquistato il Nobel per la Pace. Lo spirito di quella concertazione ampia, improntata a un pluralismo prudente, resta nella Costituzione, ma (e ce lo segnalano i complicati lavori preparatori) la Costituzione è anche necessità di compromesso e rappresentanza di forze sociali che furono meno propense alla repubblica democratica. E di agenzie che quel cambiamento avrebbero voluto orientare a proprio uso e consumo. La rivoluzione del gelsomino, insomma, proficua infiorescenza delle primavere arabe, anche di quelle che si sono chiuse con “l’inverno del nostro scontento”, è da difendere nella sua scaturigine primigenia di presidio e difesa della libertà e della dignità umane. Valga, però, un ammonimento biblico, qui assunto nella sua furente carica figurativa e non nella sua accezione giuridico-confessionale. Anche lupi vestiti da agnelli ordiscono insidie al futuro del popolo tunisino: bisogna guardarsene.

La lezione più importante che viene dalla recente storia tunisina non ne fa, d’altra parte, capofila per il solo mondo arabo: nella storia nazionale, l’elogio della dialettica e quello della riflessione, il vissuto dell’introspezione e quello della politicità, convivono fino ad animare un preciso cotè letterario. È tunisino, Rafik Darragi, di un Paese a lungo sottoposto al giogo francese eppure in costante comunicazione con l’intellettualità del circuito accademico parigino. Darragi è sovente ritenuto il più insigne studioso di Shakespeare, il massimo poeta inglese, emblema della Gran Bretagna (non della Francia!) quanto e più della Corona in quanto tale. Un mite accademico al cospetto del Bardo inglese. Un’altra contraddizione: lo schivo studioso davanti al poeta che ha fornito l’insuperata lettura pubblica del teatro, come unità di misura del potere e luogo di lotta a quello stesso potere.

Tunisino è pure Sadri Khiari, il maggior oppositore del discusso intellettuale di riferimento del mondo arabo in Occidente, Tariq Ramadan.

Il seme della dialettica e della tensione che si unisce al dono della riflessività è espresso nella vicenda poetica e biografica dello scrittore nazionale per antonomasia, Abu l-Qasim al-Shabbi: erudito illuminato, morto a venticinque anni, precoce cantore del bisogno di una riforma antiautoritaria, sin dal periodo del protettorato francese. Ora emblema di orgoglio patrio, ieri lirico che stigmatizzava il suo popolo: additarne i vizi, incitarlo alla lotta. Parole attualissime nel loro incedere lacerante, poco meno di cent’anni dopo, nella Tunisia che freme contro il carovita e l’austerità, ma che prova a difendere il pluralismo costituzionale senza frantumare il fragile equilibrio raggiunto con controparti anche dichiaratamente ostili alla repubblica laica. Una sfida che riguarda noi tutti, non solo i poeti che passeggia

PER UNA RICONFIGURAZIONE INTERCULTURALE DELLA FILOSOFIA

Non è possibile omettere i molti contributi orientati a rivisitare interculturalmente la storia della filosofia occidentale, considerata nel suo complesso, oppure in alcuni suoi momenti dimenticati, perché se riscoperti attraverso un’adeguata metodologia storiografica, possono inaugurare percorsi ermeneutici decisamente innovativi. Nella filosofia interculturale occorre dar voce ad un processo più che a un dato, ad una vera e propria configurazione inedita della realtà che Edmund Husserl ha descritto nei termini di una «costituzione di “mondi” di qualunque tipo, partendo dal proprio flusso di vissuti, con le sue varietà apertamente infinite, fino al mondo oggettivo nei suoi diversi gradi di oggettivazione» (Husserl 2017, p. 173). La rappresentazione della coscienza umana in termini di flusso, corrente continua, che troviamo formulata da William James (stream of consciousness) sulla scorta della filosofia spiritualista francese (in particolare grazie ai contributi di Victor Egger e di Henri Bergson), consente di ricostruire dalle fondamenta il primato ontologico ed etico del cogito cartesiano, laddove non si tratta più di esibire l’autoevidenza e la trasparenza di un soggetto-substratum, bensì di dar voce all’insolito e alla differenza secondo un’istanza etica temporalmente contestualizzata. Ciò significa aprire una fase più o meno duratura di conflitto simbolico dentro e oltre la «dialettica del riconoscimento». Si tratta, detto in altri termini, di far spazio ad un’espressione (più che ad una rappresentazione) inedita della soggettività che lo scrittore e poeta francese Édouard Dujardin, in apertura del suo «romanzo-monologo» del 1887 Les lauriers sont coupés, ha così descritto:

 

Una sera di sole al tramonto, di aria lontana, di cieli profondi; e folle confuse; rumori, ombre, moltitudini; spazi estesi all’infinito; una vaga sera… E sotto il caos delle apparenze, tra le durate e i luoghi, nell’illusione delle cose che nascono e si generano, uno tra gli altri, uno come gli altri, distinto dagli altri, simile agli altri, uno stesso e uno in più, dall’infinito delle esistenze possibili, io sorgo; ed ecco che il tempo e il luogo si precisano; è l’oggi, è il qui; l’ora che suona e, attorno a me, la vita (Dujardin 2009, p. 29).

 

La soggettività così espressa – che può anche essere intesa come il risultato storico di una «lotta per il riconoscimento», il cui limite, talvolta inemendabile, resta l’alienazione – denota l’emergenza di un vissuto mobile e fluttuante che si rivela essere vincolato più alla dimensione del tempo che a quella dello spazio, un vissuto radicato in esperienze affettive ed emotive, ma che, nel contempo, non può mettere completamente fuori gioco il supporto razionale assieme alla sua funzione «regolativa», kantianamente di condizione di possibilità dell’esperienza, perché altrimenti potrebbe far regredire il soggetto a situazioni di de-culturazione, isolamento o depersonalizzazione, come è accaduto con una certa lettura del postmodernismo (Cfr. Fistetti 2008, p. XV). Sempre Husserl, laddove affronta la questione del tempo, osserva che «l’“ora” che sta appunto per sprofondare non è più il nuovo, ma ciò che viene spinto via dal nuovo» (Husserl 1981, p. 92), e rileva come in questo flusso temporale digradante nel passato si costituisca un tempo «fisso, identico, obiettivo» custodito dalla memoria (Ivi, p. 94), ovvero la base solida, il punto di appoggio della nostra identità. Ripartendo da questi assunti fenomenologici, la filosofia interculturale può valorizzare lo «slancio» verso il futuro che dovrebbe essere costitutivo di una nuova conformazione dell’umano, come mostra bene, ad esempio, il socialismo africano di Léopold Sédar Senghor (1906-2001) – lettore, tra l’altro, dell’Évolution créatrice di Bergson – il quale intende valorizzare la nozione di prospettiva e non soltanto quella di pianificazione (Bachir Diagne 2011, pp. 61-62). La filosofia interculturale intende infatti promuovere l’idea di un tempo aperto, «futuribile», prodotto dall’interconnessione dinamica delle attività umane, senza dover trascurare quanto si verifica all’interno di ciascuna cultura, giacché, come si è visto accadere nel contesto iberoamericano, l’esperienza interculturale non è «una possibilità che si dà solamente fuori dalle frontiere della propria cultura», ma è anche «un’esperienza interna o, detto in modo migliore, una frontiera che si vive all’interno di ogni cultura» (Fornet-Betancourt 2006, p. 144). Da questo fronte internazionale della ricerca viene così auspicata un’«universalità concreta che cresce dal basso e che, appunto, può crescere a partire dalle particolarità che vengono rese solidali per il comune scopo di rendere possibile la vita per tutti, in un movimento che mondializza la tolleranza e la convivenza» (Ivi, p. 146), prospettiva che trova un ulteriore riscontro nella proposta «convivialista» intesa come un «socialismo radicalizzato e universalizzato», formulata da Alain Caillé assieme ad altri autorevoli studiosi di vari paesi, partendo dall’assunto che il progetto globalizzato di neoliberismo ha prodotto una democrazia non sempre dal volto umano, e che quindi occorre guardare a modelli alternativi, più umani, di convivenza, in grado di mettere a frutto le migliori eredità storiche e culturali (Caillé 2011, p. 75). Pur nei loro differenti orientamenti teorici, questi autori considerano il pluralismo mondiale come alternativo alla globalizzazione, facendo così spazio alla cordialità, all’ospitalità, alla simpatia, e operando concretamente «a favore della mondializzazione di un universo in cui tutte le culture si sanno rispettate come soggetti ed in cui, per questo motivo, possono trasformarsi vicendevolmente senza timore di essere colonizzate» (Fornet-Betancourt 2006, p. 146). In questo quadro, la giusta insistenza – lo si è appena ricordato – sulla centralità della simpatia nelle vite dei soggetti umani non si accompagna soltanto «a una visione del tutto naturalizzata e secolarizzata della nostra cultura, ma aiuta anche a delineare alcune ipotesi su come sono andate le cose fino adesso, e su quali sono gli elementi significativi della nostra situazione nel mondo per cercare di capire come andranno» (Lecaldano 2013, p. 170). Nell’Esquisse d’une théorie des émotions Sartre scriveva non a caso che l’emozione deve essere compresa come una vera e propria «trasformazione del mondo», in particolare quando i sentieri tracciati diventano troppo difficili o quando non vediamo alcun sentiero. La transizione, non necessariamente oppositiva, dal paradigma del multiculturalismo a quello dell’interculturalità (sul tema si veda, tra gli altri, Fistetti 2008, pp. 114-115), e finanche a quello di «multiappartenenza» formulato da Jacques Attali (Attali 2008), consente dunque di mettere al centro di una futura trasformazione etica e politica il problema della conflittualità tra le culture, al fine di costruire delle unità più plurali e dinamiche. «Capire il racconto degli altri» è tanto una prassi storica che uno sforzo ermeneutico (cfr. Cacciatore 2006). Si apre a questo punto della discussione un problema temporale, il cui corollario consiste nella perdita della sovranità «territoriale» delle culture. Alludo alla crescente indisponibilità a prendersi tempo «per comprendere e apprezzare l’altro, per percepirlo come soggetto che mi interpella a partire dal suo ordinamento o dalla sua relazione con la storia, il mondo e la verità» (Fornet-Betancourt 2006, p. 68). Tale «impotenza temporale» sacrifica il dialogo ed ostacola la riconfigurazione delle nostre società in prospettiva interculturale. Partendo dalla tesi secondo cui le strutture temporali collegano il microcosmo individuale al macrocosmo sociale, il sociologo tedesco Hartmut Rosa ha recentemente evidenziato che «le società moderne sono regolate, coordinate e dominate da un rigido e severo regime temporale, che non si articola in termini etici» (Rosa 2015, p. VIII), in modo tale che il soggetto «può quindi essere descritto come condizionato in maniera minima da regole e sanzioni etiche, e quindi considerato “libero”, sebbene sia strettamente regolato, dominato e oppresso da un regime temporale per lo più invisibile, depoliticizzato, indiscusso, sottoteorizzato e inarticolato», regime che viene spiegato dalla «logica dell’accelerazione sociale» (Ibid. Si veda anche Roni 2017, pp. 152-154). Mostrando lo stretto legame che intercorre tra accelerazione del tempo e la conseguente alienazione sociale, Rosa punta il dito contro la mancanza di un «senso di connessione tra le strutture individuali del tempo e il nostro posto nel tempo storico» (Rosa 2015, p. 117), dovutamente alla pressione esercitata dalle norme temporali dominanti sulla volontà e le azioni, alla loro onnipervasività vincolante e soprattutto all’impossibilità di criticarle o combatterle (Ivi, p. 88). Credo che il problema del tempo – ovvero l’impotenza diffusa come diretta risposta alla sua accelerazione pianificata – risulti un aspetto centralissimo del dibattito interculturale, il quale ci impone di riconsiderare dalla base ogni «imperativo pragmatico». Pertanto, anche e soprattutto la riuscita del «dialogo interculturale complesso» non può non dipendere da un cambiamento radicale del modo di vivere il tempo, essendo esso una questione di comune interesse, alla base di ogni procedura dialogica (cfr. Benhabib 2005, p. 62). La risoluzione del problema temporale che investe le nostre società ci consentirebbe di metabolizzare meglio «l’aporia della resistenza concreta della differenza», e di assumere «come problema e fattore dinamico, irriducibile ed eccedente, il pluralismo e l’eterogeneità delle manifestazioni e delle espressioni culturali e politiche nelle quali si oggettivano, di volta in volta, narrazioni identitarie plurali» (Cacciatore 2017, p. 35). Poter disporre di un tempo più umano consente altresì di dar forma ad una prassi relazionale, critica e non oggettivante dell’integrazione tra culture differenti. La solidarietà, intesa come base cognitiva, etica e politica, si radica anch’essa in una concezione alternativa del tempo e dello spazio (cfr. Rodotà 2014). Eppure, malgrado i buoni propositi diffusi, la solidarietà è ancora una prassi molto debole nelle società contemporanee, la quale rischia di restare al livello di una prospettiva elitaria, auspicata soltanto da coloro che hanno un rapporto riflessivo con la propria o altrui cultura (cfr. Fornet-Betancourt 2008, p. 27). Per scagionare il rischio di una deriva «elitistica» dell’interculturalità, occorre fare i conti con le molteplici tendenze «signorili» prodotte dalle democrazie occidentali, laddove si assiste, come già preconizzavano Tocqueville e Nietzsche, ad un costante riemergere di individualismi da Occidente a Oriente (e viceversa), i quali favoriscono solo una crescita piramidale della società (cfr. Ricolfi 2014, pp. 155-163). Detto in altri termini, si sta assistendo sempre più spesso a tentativi reiterati di convertire la società orizzontale in quella verticale, regolata dalla rigida legge della competitività e del successo alimentato dalla distanza dagli altri. In questi casi non si allude più all’individualismo democratico che si sviluppa dal rapporto «transazionale» tra io e ambiente, come teorizzava Dewey (cfr. Urbinati 2009), bensì a quell’individualismo consumatore che si nutre della distanza e del respingimento del diverso, trovando nella società dei consumi agio, universo di significato e protezione. Questa società signorile di massa che sovverte ogni rigida distinzione di classe, diversamente da quanto troppo spesso si sostiene ricorrendo ad un’ideologia vittimistica e fuori dalla realtà, non genera solo masse anonime e perseguitate ma «signorini insoddisfatti», per riprendere un’espressione di Ortega. L’economia di mercato sta facilitando drammaticamente l’esportazione di questo modello individualistico signorile anche in altre culture (ad esempio in quelle eredi dirette del «socialismo reale»), nelle quali sembra attecchire facilmente. Se è vero, come si sostiene, che il proletariato mondiale, nelle sue diverse sfaccettature, non ha più lingua, né nazione – aspetto peraltro già ben chiaro allo stesso Marx – non sembra, almeno per il momento, prospettarsi alcuna prospettiva di liberazione dall’elemento signorile, se col termine «liberazione» intendiamo un’esperienza storica di riscatto etico e politico dai paradigmi «assimilazionisti». Sulla base di questo assunto, occorre sviluppare una controtendenza che sappia rimettere in gioco la diade natura/cultura su più livelli, onde poter ricostruire forme di convivenza nelle quali l’opposizione tra natura e cultura non fa più parte delle cose stesse, ma viene considerata indice di un problema prettamente «culturale» (sul tema, cfr. Giordano 2017, p. 263). Come scriveva Spengler, il tempo è una «scoperta» che facciamo solo pensando, perché appunto noi «siamo il tempo»; ma solo «sotto l’azione meccanicizzata di una “natura” e presso alla coscienza di una realtà spaziale rigorosamente regolata, misurabile, intelligibile, che la concezione del mondo delle civiltà superiori fabbrica il fantasma di un tempo, a soddisfare il suo bisogno di tutto comprendere, di tutto misurare, di tutto ordinare causalmente» (Spengler 2015, p. 193). Ancora oggi, sotto l’egida di questa spazializzazione planetaria del tempo si cela un «tormentoso enigma interiore», «enigma che si fa ancor più assillante per un intelletto ormai dominatore che da esso si sente contraddetto» (Ivi, p. 193). È lo stesso enigma, come rilevava con drammatica lucidità Nietzsche, che nelle grandi moltitudini genera nichilismi passivi, «come sintomo del fatto che i disgraziati non hanno più nessuna consolazione; che distruggono per essere distrutti; che, svincolati dalla morale, non hanno più nessuna ragione per “rassegnarsi” – che si pongono sul piano del principio opposto, e a loro volta vogliono la potenza, costringendo i potenti a essere i loro carnefici» (Nietzsche 2006, p. 17). Occorre ripartire con decisione da questi assunti nietzschiani dalla sorprendente attualità se intendiamo smontare definitivamente i modelli veicolati dalla società signorile di massa, e se auspichiamo che tale compito interculturale possa tradursi in un progetto alternativo di civiltà per le nuove generazioni, il cui orizzonte e la cui prospettiva si delineano su una scena ormai sempre più globalizzata.

 

 

 

 

 

Riferimenti bibliografici essenziali

 

– Attali 2008: Jacques Attali, Lessico per il futuro. Dizionario per il XXI secolo, Armando, Roma 2008.

– Bachir Diagne 2011: Souleymane Bachir Diagne, Bergson postcolonial, CNRS Éditions, Paris 2011.

– Benhabib 2005: Seyla Benhabib, La rivendicazione dell’identità culturale, Il Mulino, Bologna 2005.

– Cacciatore 2005: Giuseppe Cacciatore, Identità e filosofia dell’interculturalità, in «Iride», 45 (2005), pp. 235-244.

– Cacciatore 2006: Giuseppe Cacciatore, Capire il racconto degli altri, in «Reset», 97 (2006), pp. 16-19.

– Cacciatore 2017: Giuseppe Cacciatore, Prospettive di etica e filosofia interculturale nell’età delle migrazioni, in F. Gambetti, P. Mastrantonio, G. Ottaviano (a cura di), Migrazioni. Responsabilità della filosofia e sfide globali. Atti del XXXIX Congresso nazionale della Società Filosofica Italiana, Diogene Multimedia, Bologna 2017, pp. 33-43.

– Caillé 2011: Alain Caillé, Du convivialisme vu comme un socialisme radicalisé et universalisé (et réciproquement), in Id. (et al.), De la convivialité. Dialogues sur la société conviviale à venir, La Découverte, Paris 2011, pp. 73-98.

– Dujardin 2009: Édouard Dujardin, I lauri senza fronde, Asterios, Trieste 2009.

– Fistetti 2008: Francesco Fistetti, Multiculturalismo. Una mappa tra filosofia e scienze sociali, Utet, Torino 2008.

– Fornet-Betancourt 2006: Raul Fornet-Betancourt, Trasformazione interculturale della filosofia, Pardes Edizioni-Dehoniana Libri, Bologna 2006.

– Fornet-Betancourt 2008: Raul Fornet-Betancourt, Il mio cammino verso la filosofia interculturale, in G. Coccolini (a cura di), Interculturalità come sfida. Filosofi e teologi a confronto, Pardes Edizioni-Dehoniana Libri, Bologna 2008, pp. 21-28.

– Giordano 2017: Giuseppe Giordano, Natura e cultura: una differenza culturale?, in M.G. Furnari (a cura di), Identità di genere e differenza sessuale. Percorsi di studio, Rubbettino, Soveria Mannelli 2017, pp. 255-263.

– Husserl 1981: Edmund Husserl, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, a cura di A. Marini, Franco Angeli, Milano 1981.

– Husserl 2017: Edmund Husserl, Meditazioni cartesiane, a cura di A. Altobrando, Orthotes, Napoli-Salerno 2017.

– Lecaldano 2013: Eugenio Lecaldano, Simpatia, Raffaello Cortina, Milano 2013.

– Nietzsche 2006: Friedrich Nietzsche, Il nichilismo europeo, Adelphi, Milano 2006.

– Ricolfi 2014: Luca Ricolfi, L’enigma della crescita. Alla scoperta dell’equazione che governa il nostro futuro, Mondadori, Milano 2014.

– Rodotà 2014: Stefano Rodotà, Solidarietà. Un’utopia necessaria, Laterza, Roma-Bari 2014.

– Roni 2017: Riccardo Roni, Il flusso interculturale. Pragmatismo etico e peso della storia nella filosofia emergente, Mimesis, Milano 2017.

– Rosa 2015: Hartmut Rosa, Accelerazione e alienazione. Per una critica del tempo nella tarda modernità, Einaudi, Torino 2015.

– Spengler 20153: Oswald Spengler, Il tramonto dell’Occidente, Longanesi, Milano 2015.

– Urbinati 2009: Nadia Urbinati, Individualismo democratico. Emerson, Dewey e la cultura politica americana, Donzelli, Roma 2009.

– Wimmer 2004: Franz Martin Wimmer, Interkulturelle Philosophie. Eine Einführung, WUV, Wien 2004.

 

Mondo Cane

Il cane è l’amico dell’uomo per antonomasia. Eppure, l’espressione “mondo cane” non solo è entrata nel linguaggio comune, ma è stata utilizzata negli anni ’60, e dopo, quasi fino ad oggi, in alcuni documentari – “verità” per illustrare gli orrori del mondo.

Già nel 1924 Hound dava il titolo ad un racconto horror di Howard Phillips Lovercraft, pubblicato sulla rivista Weird Tales, nel quale la figura del cane (da caccia, hound appunto) era associata ad una vicenda nella quale la negromanzia svolgeva un ruolo decisivo, fino a condurre a morte i due protagonisti.

C’è allora da chiedersi come mai questo animale, domestico per eccellenza, presti però la sua immagine a rappresentare aspetti truculenti e violenti della vita umana; forse, ma è solo una timida ipotesi, perché il cane viene ricondotto ad alcune specie di canidi, come lo sciacallo, il coyote ed il lupo, che propriamente domestici non sono. In più, lo stesso cane, in altre culture, che non sono quella europea ed occidentale in generale, è oggetto di combattimenti e di sacrifici, fino a divenire cibo per gli uomini. Ma senza arrivare a questi eccessi che oggi ci sembrano “esotici”, fino a qualche tempo fa tutti avevamo presente cosa volesse dire guardarsi “in cagnesco” e cosa volesse dire, dopo una sfida perduta, ritirarsi “con la coda tra le gambe”. In generale, era del tutto ovvio constatare che il “mondo” canino, pur connotato da dimostrazioni di sensibilità e, in senso lato, di affettuosità, può diventare facilmente il simbolo di una condizione umana segnata dal disagio della lite e della sconfitta. Da qualche tempo a questa parte, tuttavia, il cane ha assunto nella società contemporanea un ruolo indiscutibilmente ed esclusivamente benigno: quello del migliore amico di cui l’uomo (è ovvio che usi il termine al di là della specificità di genere), penso a quello italiano di oggi, possa beneficiare. E da qui intendo cominciare la mia riflessione.

La società italiana contemporanea è affetta da una intensa ondata di cinofilia. Che si sia in coppia oppure singoli, donne e uomini esibiscono il loro cane, ovunque: non solo per strada, che è il luogo più ovvio e che, ora, ha anche la capacità di farne balzare agli occhi la cospicua quantità, ma a teatro, in chiesa, in autobus, in treno e in aereo, nelle trattorie e nei supermercati ecc. Per non parlare del commercio, che attorno al cane si sta sviluppando: dai negozi “dedicati”, dove la specializzazione si associa spesso alla ricercatezza nel campo della nutrizione e dell’abbigliamento (sì, proprio, “abbigliamento”), alle pubblicità che circolano sui media, alla specializzazione veterinaria, fino al contributo dello psicologo.

Insomma dire oggi “mondo cane”, significa rappresentare un mondo ove l’orrore dei documentari-verità è del tutto sostituito dal benessere e dal confort che quell’animale dispensa all’uomo. A voler essere realisti, nel mondo contemporaneo, quei documentari di denuncia dovrebbero sostituire nel titolo alla parola “cane” la parola “uomo”, anche se mentre “mondo cane” eufonicamente è accettabile, “mondo uomo” non funziona. Eppure, è proprio perché oggi esiste un “mondo uomo”, come luogo di violenza e di orrore pubblico e privato, che il cane ha il suo straordinario successo nell’ambiente umano.

Vorrei spiegarne il perché, dal mio punto di vista.

Il cane rappresenta per l’ Io l’antidoto contro il rischio dell’alterità e della differenza; meglio: dell’alterità, in quanto differenza strutturale, nel senso che “alterità” e “differenza” sono termini che identificano concetti non separabili e privi di ogni significato valutativo. Il cane, infatti, consente al suo proprietario – padrone di esprimere e manifestare quella affettività, quel bisogno di non essere solo, senza correre il rischio della non corrispondenza, e quindi della delusione. Il cane corrisponde alla richiesta di riconoscimento affettivo del padrone senza alcuna fatica per quest’ultimo; l’“alterità” canina si pone sul piano della non competizione umana e la differenza stessa, poiché anche questa non è umana, non espone al pericolo dell’ignoto. In fondo, il rapporto Io – cane si presenta come un circuito emotivo, con il quale l’ Io può manifestarsi con quella immediatezza espressiva che gli evita anche il lavorìo psicologico di rappresentarsi al mondo come un “sé”. Il cane è, quindi, un’entità vivente ma “altra”, nel senso specifico che esiste su di un piano che non è umano. Per questa ragione la sua “alterità” è innocua e, in più, emotivamente disponibile alla richieste di riconoscimento del padrone. In altre parole, esso costituisce il tramite di un percorso circolare indispensabile per ri-condurre all’Io la possibilità di dar vita, nella sua realtà quotidiana, ad un rapporto con un’entità altra, con un’“alterità” che non sia in alcun modo rischiosa. Attraverso il cane, il suo padrone non corre il rischio che l’alterità sia una sua mera immaginazione né quello di un desiderio destinato a rimanere insoddisfatto. Una alterità, infine, che evita il maggior pericolo che pervade l’ambiente sociale odierno: quello di un individualismo monadico-competitivo.

Un corollario. Il percorso circolare padrone – cane – padrone soddisfa una ulteriore esigenza: quella propria di mascherare di fronte al se stesso e al mondo la propria insicurezza e solitudine.

Questo attuale “mondo cane”, nella versione esclusivamente benigna che ho rapidamente descritto, apre una questione che va ben oltre la quotidianità canina; esso mette a nudo una dimensione antropo-psicologica che investe e conforma l’ Io nelle società contemporanee. Mette a nudo la perdita di una dimensione, che potremmo definire ontologica, dell’esistenza umana e di un’altra che propriamente è storico-culturale. La dimensione ontologica si individua nella strutturalità della relazione Io – Tu; strutturalità ontologica in quanto derivante dalla finitudine esistenziale di ciascun Io. Quella storico-culturale prende corpo e visibilità nel Noi, in quanto risoluzione storico-politica di diversi modi di concepire la vita associata, oltre l’originario Io – Tu. Dimensioni, quella ontologica e quella storico-culturale, che nella storia dell’occidente hanno formato, spesso anche in modo tensivo e dialettico, una antropologia capace di costruire un mondo umano nel quale Io – Tu – Noi sono stati i pilastri sui quali la nostra Ragione teoretica ha costruito una filosofia politica e giuridica, un pensiero sociale ed istituzionale e l’istanza etica.

La società contemporanea, un tempo definita come “post-moderna”, non credo che, oggi, sia definibile ancora così. Il post-moderno, infatti, ha segnato una stagione culturale nella quale il pensiero ha portato a compimento, dissacrazione e dissoluzione quella visione del mondo che la Ragione aveva allestito tra 700 e 800. La gran parte del‘900, nella sua esplicazione post-metafisica e post-sistematica, ne ha allestito la strada. Per fare solo un esempio, basti pensare alla torsione della teoresi intorno alla verità in quella della utilità, che include altre torsioni. Tuttavia il pensiero novecentesco ha introdotto e costruito la post-modernità usando le medesime categorie filosofiche della modernità: Nietzsche non avrebbe mai potuto dissacrare Hegel senza la categoria teoretica della “storia” hegeliana. O l’esistenzialismo non avrebbe potuto soprattutto ripensare la soggettività senza la “postilla” kierkegaardiana. E questo è stato solo l’inizio. Come potevano affermarsi una filosofia empiristica e linguistica senza discutere nel profondo la tradizione ontologico-metafisica? e così via. Dunque la post-modernità, pur con la “liquidità” dei suoi concetti e delle sue visioni umane, è stata, però, un “pensiero”, cioè un apparato di ragionamenti capace di produrre una rappresentazione del mondo sulla quale l’uomo era portato a riflettere e discutere.

La contemporaneità, invece, non solo non ha un pensiero, ma non è un pensiero, poiché sono venute meno le condizioni per le quali la mente umana possa “pensare”. Mi spiego.

Il pensare, del quale il ragionare è la sua dimensione articolata in rappresentazioni ideali e concettuali espresse dal linguaggio, sia alfabetico che iconico, implica come premessa strutturante quella costituita dalla categoria della “temporalità”. Il pensare consiste in una successione seriale di attività mentali, originate dalla esperienza materiale dell’incontro dell’uomo con il mondo. Il conoscere, che ne è un possibile esito, è poi la traduzione elaborata dall’attività della ragione dell’incontro con il mondo in rappresentazioni concettuali.

Pensare, come premessa del conoscere, e la connessa espressione linguistica, corrispondono a specifiche attività cerebrali, come spiega Lamberto Maffei in un suo libro di qualche anno fa (Elogio della leggerezza, Il Mulino, Bologna 2014), nelle quali sono impegnate le aree di Broca e Wernicke, la prima legata alla formazione del pensiero, la seconda alla comprensione del linguaggio. Queste attività cerebrali hanno come determinante e, direi, strutturante per le loro operazioni, il fattore “tempo”.

Questo è il punto-chiave. E’ su questa proprietà, infatti, della parte sinistra del nostro cervello che si determina una diversità di risposta cerebrale che determina un modo diverso di agire della persona. Si tratta della diversità tra gli effetti prodottisi a partire da eventi ricevuti in successione temporale, come avviene per la comunicazione linguistica, ed effetti derivati da stimoli visivi. “La vera rivoluzione evolutiva nel lobo sinistro – scrive Maffei – non riguarda solo il linguaggio ma anche i meccanismi nervosi che generano le stringhe di eventi legati tra loro nel tempo in maniera tale che, nella maggior parte dei casi, solo la stringa assume significato. Per questa ragione propongo di chiamare l’emisfero linguistico ‘emisfero del tempo’. Le stringhe di eventi legati tra loro sono la base del ragionamento, e contrastano ad esempio con la comunicazione visiva, dove gli eventi nervosi concernenti un’immagine non sono in serie ma in parallelo, in quanto sono trasmessi contemporaneamente, tutti insieme. Si potrebbe dire che la comunicazione visiva, al contrario di quella linguistica, è atemporale” (pp.54 – 55, il corsivo è mio).

Il fattore “tempo” dunque non è solo un’idea della mente, ma appartiene allo stesso strutturarsi e svilupparsi della funzione cerebrale; la conseguenza è decisiva per il comportamento umano prodotto dalla forma dei modelli comunicativi e dalla loro frequenza e prevalenza nell’ambito dell’agire sociale. Se al modello linguistico si sostituisce, in modo prevalente e direi abitudinario, quello visivo, si avrà una sorta di riformattazione del cervello, il quale, come quello di qualsiasi altro muscolo, modifica lo sviluppo delle sue parti, rafforzando quelle più impegnate e riducendo le potenzialità di quelle meno impegnate.

Se i modelli comunicativi sono quelli che, da sempre, mettono in forma un ambiente sociale, allora occorre chiedersi in che misura l’attuale modello comunicativo operi in base a due fattori: la sua struttura strumentale e il suo destinatario.

La struttura strumentale è quella propria di una tecnologia informatico-digitale, il cui fine è l’immediatezza degli effetti comunicativi. E’ una tecnologia il cui obiettivo è realizzare effetti in tempo reale; dove, per “tempo reale” intendo una tecnologia il sui successo sociale si fonda sulla capacità di inviare messaggi in modo da realizzare, proprio, reazioni immediate. Quasi che il fine ed il successo della comunicazione consista nell’immediatezza della reazione del destinatario, sia sotto forma di parola che di decisioni o più genericamente comportamenti.

In altre parole, quello avviato dalla attuale tecnologia è un modello comunicativo che punta sull’impatto dell’evento, prodotto dalla immediatezza a-temporale della dimensione visiva, annullando l’intervallo tutto temporale tra la comunicazione linguistica, la lettura e la riflessione; una procedura, quest’ultima, che proprio nella temporalità della successione degli eventi consente di sviluppare il pensare ed il ragionare.

Il secondo fattore riguarda il destinatario della comunicazione. Quest’ultimo è costituito dall’utente – massa, il quale è esposto in modo del tutto passivo ad una molteplicità di meccanismi comunicativi, dai social network a Whatsapp a Twitter che lo illudono di essere partecipe attivo del villaggio globale della comunicazione senza confini. L’immediatezza del “tempo reale”, allena il suo cervello a reazioni immediate, nelle quali alla riflessione razionale si sostituisce una sorta di pulsionismo emotivo. E questo accade proprio perché l’atemporalità del visivo si è sostituita alla temporalità del ragionamento.

Un tale modello comunicativo, appartenendo ormai alla abitudine mentale dell’uomo contemporaneo, invade necessariamente anche la dimensione del politico, trasformando, quest’ultimo, in una sequenza di spot capaci di produrre impatto emotivo e quindi risposte ambientali valide nella a-temporalità dell’immediato. Non deve stupire, quindi, che oggi la politica sia priva di progettazione ideale, per la ragione che il “cervello” dell’attuale classe politica ha perso la funzione delle temporalità, e quindi del pensare e ragionare, per essersi conformata a quella della atemporalità dell’impatto. La battuta: “siamo sempre in campagna elettorale” o la stessa impossibilità di operare riforme che hanno come spazio temporale il “futuro” (si pensi alla rischiosa complessità sociale che investe la vita dell’uomo contemporaneo in tutto il pianeta) hanno origine proprio nella perdita della temporalità di qualsiasi modello comunicativo destinato ad un utente – massa. E quest’ultimo viene evidentemente pensato come sensibile alla pulsione provocata da argomenti e parole che si fermano alla cosiddetta “pancia”; in altre parole l’utente-massa non ha più una testa.

Un tale tipo di comunicazione investe ogni campo della vita, non solo quella pubblica, ma anche quella privata. Un esempio per tutti: facebook, dove si realizza ad un tempo la globalizzazione della notizia, la esibizione visivo-atemporale di un se stesso, consegnato ad immagine esteriore, ed una reazione che si riduce, perché non può andare oltre, ad un immediato I like.

Un tale tipo di comunicazione, che gioca tutta la sua efficacia sulla atemporalità, priva gli utenti della soggettività della riflessione e del ragionamento e del relativo, articolato ed adeguato linguaggio destinato a veicolare il ragionamento. Così facendo, si rende sterile ogni rapporto interpersonale, rinsecchendo ogni possibilità di relazione inter-soggettiva, la quale, invece, si costituisce proprio sulla temporalità della durata. Tra il tocco di un I like e un dialogo tra due amici corre tutta la differenza strutturale che passa tra il vivere nel tempo e l’agire nell’immediatezza del momento.

Allora, perché meravigliarsi se i giovani di oggi, formatisi alla tecnologia dell’impatto, hanno perduto l’idea stessa della Storia e della sua costitutiva diacronicità e, con essa, la capacità di pensare e ragionare per un futuro? La ragione è terribilmente semplice: tale categoria è scomparsa dalla loro abitudine mentale. Perché loro, come l’uomo medio peraltro, hanno perso la capacità di relazioni intersoggettive effettive, nel senso di pensate come durevoli e non concepite come strutturalmente effimere? Per la ragione che il mondo dei messaggini riduce il linguaggio a semplice manifestazione di emozioni momentanee, non a caso adeguatamente espresse, peraltro, soprattutto dalle “faccette”.

Ecco perché il mondo che viviamo ogni giorno è diventato “mondo cane”; per lo meno i cani hanno ancora un loro modo di manifestare la durevolezza di una relazione vivente con il padrone: leccano e abbaiano.

Solidarietà e mutualismo oltre l’Europa dei mercati

Giacomo Pisani affronta la critica all’Europa dei mercati affermando l’importanza della solidarietà e della cooperazione come principi fondamentali per un nuovo processo costituente.

Il Dubbio, schermo per una fictio necessaria: la “Verità”

  1. Processo e “senso comune”

Metto subito le carte in tavola ed anche opportuni “paletti”. Mi servo di poche parole scritte da Eligio Resta in un saggio di alcuni anni fa: “Alla lunga storia [dei sistemi giuridici] si collega il ritrarsi della verità storica nella verità processuale…[quella storia] narra dunque dei dispositivi di compatibilità che il diritto ha posto in essere rispetto a qualsiasi forma di verità…”([1]). Laddove, aggiungo io, il tema della “verità”, proprio nel contesto del decidere giudiziale,

sconfina nei due profili critici del “verosimile” e dell’ “approssimativo” ([2]).

Credo che sia un inizio necessario, perché oggetto di questo lavoro è un aspetto, prima ancora che del diritto, dell’ “agire pratico” e della vita quotidiana di ciascuno di noi. Attiene, infatti, a quelle vicende di colpa e giudizio, nelle quali si può incorrere, le cui conseguenze investono la libertà della persona ([3]). Vicende, che, secondo il senso comune, vengono subite o fronteggiate, magari protestando la propria innocenza, ma, in ogni caso, invocando la “verità” del fatto. E per “verità del fatto” il senso comune intende, semplicemente, che le cose stiano effettivamente così, come il “tribunale” le ha ricostruite ([4]).

D’altronde, quando l’uomo della strada usa l’espressione “è una vicenda kafkiana”, intende riprodurre per sé quello spaesamento che aveva avvolto Josef K, mentre si addentrava nella ricostruzione di una colpa il cui fatto originante gli appariva del tutto inafferrabile e indeterminabile nella sua materialità.

Dunque, per il senso comune, la sequenza colpa – giudizio – libertà, in una parola “giustizia”, sono riflesso di un’altra parola, “verità”; e questa parola è strutturalmente affetta da un paradosso: chiarezza e ambiguità.

Solo qualche riga a questo proposito. Il nesso giustizia – verità, quando la “verità” è quella processuale, include il tema della prova scientifica, la cui disamina lascio, tuttavia, a colleghi più esperti di me([5]). Qui mi limito ad un “indice” di argomenti, da considerarsi quasi punte di un iceberg. La giustizia attiene al campo delle decisioni; la verità a quello della conoscenza. La giustizia ha il tempo determinato del decidere; la verità quello indeterminabile del conoscere. La prima si esercita nelle aule di un tribunale, la seconda nei laboratori di ricerca. La giustizia si fonda su tre pilastri: prove, sentenza, motivazioni; la verità, in quanto “conoscenza”, opera attraverso la ricerca e si consolida in “teorie” (falsificabili). Infine: i giudici non sono scienziati, anche se non sono “consumatori passivi” di conoscenza.

Un intreccio epistemologico, quindi, al cui centro vi è il “dubbio” e la sua accettabilità è intellettualmente sostenibile proprio se concepita come argine pratico nei confronti di “certezze” facilmente attraenti ed invece bisognose di maggiore e più scrupolosa indagine ([6]).

E tuttavia anche il dubbio si presta ad una ambiguità contenuta in due espressioni ugualmente utilizzabili: “non ho più dubbi” e “non ci sono più dubbi”. Entrambe sono coinvolte nelle osservazioni epistemologiche che seguono.

Ancora. La questione della “verità” a tal punto è determinante per il senso comune, che l’uomo della strada, quando pensa al “processo”, non si interroga più di tanto sul significato giuridico dei diversi gradi di giudizio né molto di più sui diversi ruoli dei magistrati: pubblico ministero o giudice. Pensa solo all’accertamento della “verità” ed alle sue contraddizioni, in qualsiasi momento l’una e le altre gli appaiano saltar fuori, dal che fa poi derivare la sua fiducia o la sua sfiducia ([7]) negli organi istituzionalmente competenti. A questo punto, il “dubbio”, da strumento della ragione per arrivare ad una “verità” meglio circostanziata, può divenire una condizione endemica di un ambiente sociale ([8]).

Messe le carte in tavola secondo quello che a me appare essere, con buona approssimazione, il “senso comune”, vediamo come “giocarle” spingendomi un po’ più in là.

La questione allora riguarda il rapporto tra verità e dubbio, così come questo si pone nella “modernità” (tralascio il mondo classico) fino al nostro tempo, stretta com’è, dal punto di vista del nesso razionale di filosofia teoretica ed epistemologia, tra le “idee chiare e distinte” di Cartesio, il principio di indeterminazione di Heisemberg e l’apporto cognitivo dei parametri offerti dalle neuroscienze. Tale questione, nei termini ora detti e nel suo interno svolgersi e complicarsi, si riflette, con le opportune mediazioni, sulla epistemologia processuale, così come essa si svolge tra due modelli storici: l’ “inquisitorio” e l’ “accusatorio”, fino a contemplare quello che potremmo definire il brocardo: “oltre ogni ragionevole dubbio” ([9]).

Vi è un punto che intendo sottolineare subito: il “dubbio” ha un suo significato teoretico, prima ancora che epistemologico, in relazione ad una, altrettanto teoretica, idea di “verità”. Il suo significato cambia in conseguenza del venir meno, proprio sotto il profilo teoretico, dell’idea di “verità” e del coincidere di quest’ultima con una possibile “rappresentazione teorica” del mondo. La chiave della questione diviene allora la sostenibilità della teoria ([10]). In quest’ultimo contesto, che è quello proprio del sapere contemporaneo, che possiamo definire di incertezza cognitiva, il dubbio è il residuo di una idea di verità, che fa riferimento ancora al paradigma cartesiano. In tale contesto, come ho già detto, il dubbio vale per l’oggi solo come antidoto pratico ad una troppo facile “certezza”, che il diritto tuttavia non può rinunciare del tutto costruire, con gli strumenti che gli sono propri – norme, procedure, interpretazione – come riferimento imprescindibile per la realizzazione di un possibile ordine sociale ([11]).

Vi sono, infatti, settori nei quali si dispiega il vivere sociale, ove è possibile tradurre l’incertezza teorica in “complessità” socio-epistemologica e sostituire il concetto razionalistico di ordine con quello pragmatico di equilibrio, rappresentato dalla nozione di governance ([12]). Sono questi i settori ove opera il diritto privato, largamente inteso e, in parte, quel che resta del diritto pubblico e costituzionale; per non parlare dell’ambito giuridico del “sovranazionale”.

Vi sono però altri settori, quali quelli che investono la libertà della persona, quelli cioè del diritto penale in genere, dove non è possibile sostituire l’ordine dei “moderni” con la governance dei “contemporanei”. In tali settori, il diritto non può non tener conto dei paradigmi cognitivi che il sapere scientifico propone, ma nello stesso tempo non può rinunciare a costruire una dimensione operativa costruita sulla “certezza”, senza della quale non è possibile la stabilità di un ambiente sociale.

Il “dubbio” allora svolge, all’interno del percorso cognitivo, una funzione eminentemente critico-pratica, in vista della costruzione di un contesto figurativo sufficientemente stabile, tale da rappresentare, per il senso comune, un quadro di affidabilità, che può essere raccontato come “reale e “certo” ([13]). E’ qui che il superamento “soggettivo” del dubbio (“non ho più dubbi”) trapassa in un “oltre” ragionevolmente oggettivo: “non ci sono più dubbi”. Lo scarto epistemologico, tuttavia, con ciò che si può definire “conoscenza scientifica”, e con la sua epistemologica ambiguità, resta intatto.

La questione essenziale è, dunque, sapere se il processo penale possa rinunciare alla “verità” come fondamento della razionalità del giudizio. Sappiamo tutti come la dottrina sia assolutamente sensibile alla questione nel suo insieme teorico e pratico. Da un lato, essa non intende ignorare lo “scarto” tra l’evento materiale e le proposizioni che lo ricostruiscono, per darne una rappresentazione possibile ([14]), giuridicamente rilevante (la fattispecie di reato). D’altro lato, la medesima dottrina non può cadere nello scetticismo o, alternativamente, nel decisionismo. In altre parole, non può cedere all’irrazionalismo.

In definitiva, la questione epistemologica ne apre una teoretica retrostante, consistente nella relazione tra “ragione” (per ora mi limito a questo termine, senza ulteriori specificazioni) e “verità”, come base del giudizio processuale; ma potremmo aggiungere: base, per un qualsiasi giudizio, attraverso il quale si attribuisce ad un soggetto una colpa e, quindi, una responsabilità.

E, allora, l’interrogativo diviene davvero inquietante se si assume come teoreticamente ineludibile la “dissolvenza” della Verità, quale fu concepita dalla “Ragione moderna”, in una rappresentazione possibile del mondo affidata al succedersi delle “teorie”, in quanto sistemi di proposizioni. E’ proprio in un tale contesto che l’espressione “oltre ogni ragionevole dubbio”, grazie proprio alla conversione di razionale in ragionevole, può assolvere una funzione che potrei definire “pratico-cautelare”. E’ come dire che una good governance della scienza è un problema di democrazia ([15]).

 

  1. La “verità” di uno sguardo

Questo a me pare essere il contesto che si pone di fronte a chi, come me, rifletta sul tema in una prospettiva filosofico-giuridica.

Alle spalle del percorso non può non esservi, in quanto emblematica, l’impostazione di ragionamento propria del “dubbio metodico” cartesiano, incastonato nella tensione tra la imperfezione umana dell’ io, cum sim res cogitans, e la perfezione di Dio ([16]). In particolare, al dubbio è ascritta la proprietà razionale di essere passaggio obbligato per eliminare quei pregiudizi che intralciano la via per la definizione di ogni certezza ([17]).

Con il cogito, espresso in prima persona, Cartesio afferma in modo decisivo ciò che per il razionalismo moderno è costitutivo dell’essere “soggetto”, in quanto quel cogito è costitutivo della emancipazione della ragione umana dalla logica deduttiva del pensiero medievale ([18]). Ma la questione acquista una luce del tutto nuova, che poi si proietterà nel tempo a venire, con la Critica kantiana. Possiamo assumere, come “chiave” impressionistica della forza speculativa del passaggio in questione, proprio la critica esplicita che Kant rivolge alla dottrina del cogito cartesiano, in una nota che si trova nella “Dialettica trascendentale”: «L’ “io penso” è, come si è detto, una proposizione empirica, e contiene in sé la proposizione: “io esisto”. Ma io non posso dire: tutto ciò che pensa, esiste…Quindi la mia esistenza non si può considerare come conseguente alla proposizione: Io penso, come la ritenne Cartesio (perché, se no, dovrebbe precedere la premessa maggiore: tutto ciò, che pensa, esiste).…»[19].

Sottolineando la differenza da Cartesio, Kant chiarisce il senso dell’ “io penso” nella prospettiva fondante della precedenza dell’esistere sul pensare; meglio, con le parole sopra ricordate, Kant stabilisce teoreticamente il radicamento esistenziale del pensiero, senza tuttavia ridurre quest’ultimo ad una dimensione meramente empirico-fenomenica: «Giacché -prosegue- bisogna notare che se io ho detto empirica la proposizione “Io penso”, con ciò non voglio dire che l’Io in questa proposizione sia una rappresentazione empirica… Ma senza una rappresentazione empirica quale che sia, che fornisce materia al pensiero, l’atto “Io penso” non potrebbe aver luogo; e l’empirico non è se non la condizione dell’applicazione o dell’uso della facoltà intellettuale pura» ([20]).

Se queste parole vengono lette ed interpretate con gli occhiali del “dopo”, esse allora possono essere assunte come la base teoretica dalla quale si diparte l’epistemologia del ‘900. Mi spiego.

In quelle parole vi è la chiara sottolineatura della finitudine della “soggettività”; finitudine della quale era ben consapevole anche Cartesio, ma dalla quale Kant trae tutte le conseguenze, in quanto limite e potenza del pensiero umano, senza alcun appello al Trascendente. Potenza, proprio in quanto prodotto di un limite che non è solo ontico-materiale, ma ontologico-esistenziale. Tale limite, infatti, contiene in sé la capacità di pensare oltre il dato empirico-fenomenico. Capacità logica (ogni “limite” implica logicamente un oltre, appunto), che a sua volta contiene la provvisorietà del risultato cognitivo, poiché ogni dato conosciuto, rientrando nell’esperienza, è solamente una possibilità del pensiero strutturalmente finito, retta dalla logica interna della pensabilità ([21]). E qui si gioca davvero la differenza della finitudine kantiana rispetto a quella cartesiana. Nel nostro contesto, la possibilità del costrutto operato dal pensiero si presenta come “teoria”; e l’oggettività altro non è che quel livello di stabilità cognitiva, che usiamo chiamare “risultato” e che, proprio perciò, può essere messo in comune. Una tale stabilità del dato svolge una funzione decisiva soprattutto quando si opera nel settore della “pratica”, come accade appunto nel campo dell’obbedienza normativa.

Vale la pena di ricordare quanto spiegava Ernst Cassirer nel suo corso invernale 1920 – ’21, presso la sua Università di Amburgo, intorno ad una questione allora impellente e di rilievo epocale. Si trattava, infatti, della riflessione filosofica originata dalla teoria della relatività generale di Einstein([22]). Voglio ricordare alcuni di quei pensieri in un contesto come questo, con uno spettro tematico ben più limitato di quello nel quale si muoveva Cassirer, perché aiutano a capire quale sia il rapporto tra risultanze cognitive e senso comune, sul quale grava una relazione fondamentale: quella tra verità dell’attività conoscitiva e rappresentazione simbolica. E’ un modo per proiettare Kant nel XX secolo.

Spiega Cassirer: «La concezione ingenua del mondo ritiene di cogliere immediatamente la realtà delle cose, della natura delle percezioni sensoriali; ma già fin dai primordi delle considerazioni scientifiche del mondo si scopre la relatività e la mutevolezza dei contenuti della percezione sensibile e si mostra con ciò che essi non possono essere attribuiti all’oggetto “stesso”»([23]). Poi Cassirer prosegue affermando che sia l’empirismo come il razionalismo filosofici si fossero trovati d’accordo nell’attribuire «le qualità primarie all’oggetto stesso; le rappresentazioni del numero, della forma, del movimento sono negli oggetti, nell’obietto così come sono “in noi”…Anche Descartes, ricordiamo, aveva poggiato la sua dimostrazione dell’esistenza del mondo dei corpi sul fatto che non le nostre rappresentazioni sensibili, ma certo quelle matematico – meccaniche debbono essere adeguate riproduzioni degli oggetti. Significherebbe fare di Dio un ingannatore, voler negare questa adeguatezza, questa perfetta concordanza delle nostre rappresentazioni…con gli oggetti esterni»([24]).

Detto questo, Cassirer mostra come la conoscenza scientifica successiva abbia voltato pagina: «Ma nello sviluppo ulteriore si vide sempre più chiaramente che la medesima relatività, che in precedenza era testimoniata dalle percezioni sensibili riguarda anche le cosiddette qualità primarie e che quindi anche queste minacciano di risolversi in mere qualità “soggettive”, in immagini che ci facciamo delle cose»([25]).

Da qui in poi Cassirer evidenzia, attraverso numerosi esempi, come la conoscenza scientifica incorpori o sconti uno “scarto” tra la verità scientifica contenuta in una formula matematica, quale quella che viene costruita da una determinata “teoria”, e la verità che proviene dalle rappresentazioni sensoriali, per la cui inaffidabilità basti pensare al ruolo che gioca la “direzione dello sguardo”: «…nella stessa osservazione, nella determinazione del suo contenuto e del suo significato non si tratta appunto mai solamente dell’accaduto passivamente, bensì anche della specifica disposizione spirituale, della specifica direzione dello sguardo. E’ questa direzione dello sguardo che distingue il procedimento del fisico da ciò che comunemente si chiama “esperienza sensibile” »([26]).

 

  1. Alle origini della fictio: la colpa

Ho ritenuto di soffermarmi a lungo dal punto di vista teoretico – epistemologico sul tema della “verità”, poiché questo conforma la questione, più specifica e lessicalmente affine, che riguarda il mio testo: quella della “verità processuale”, come oltrepassamento “ragionevole” del dubbio. Entrano in gioco, come è noto, due capisaldi del processo: la prova scientifica ed il libero convincimento del giudice ([27]). Come dire, per usare l’espressione di Cassirer, formule matematiche (lato sensu) di una possibile rappresentazione teorica dell’evento e, non uno, ma due sguardi: quello dell’investigatore e quello del giudice. Ed alla fine del percorso, la necessità del diritto: la “certezza” del giudicato, nella quale la forma processuale viene intesa come rappresentazione corrispondente ad una “sostanza accertata”.

E’ qui che prende forma la fictio terminologica, “verità”, e assume senso, esclusivamente pratico, il “dubbio”, nella sua trasmigrazione dal necessariamente soggettivo al ragionevolmente oggettivo, cui poi si lega l’ “oltre”.

La scienza giuridica ha sempre avuto contezza che operava tramite una fictio; ma che si tratta di una fictio alla quale non ha mai potuto sottrarsi ed ha aggirato il problema, per lei teorico, spostandone la risoluzione sulla qualificazione-configurazione dei soggetti processuali, che ha condotto a delineare i due modelli: l’inquisitorio e l’accusatorio.

In altre parole, la “verità” del giudizio dipende dalla legittimazione degli sguardi dei soggetti processuali. Prova ne sia, che nel tempo in cui si riteneva che la verità del giudizio non potesse essere una fictio dell’uomo, lo “sguardo” cui si ricorreva era quello di Dio (che stava dietro anche alla confessione del supposto reo). Lo mostra bene Franco Cordero, in un suo celebre testo ([28]), evocando l’origine del modello processuale che ne verrà fuori: l’ “inquisitoro”. Il suo contrappunto epistemologico è il modello “accusatorio”.

Intendo sottolineare che la differenza processuale tra i due modelli ha la sua radice proprio in un contrappunto epistemologico, legato al significato dei due termini-chiave, che danno il nome ai rispettivi modelli: la “colpa” e l’ “accusa”.

La “colpa” esige la dimostrazione della verità; l’ “accusa”, al contrario, chiede l’argomentazione logica di una possibile e plausibile ricostruzione dell’evento operata dal magistrato dell’istruzione ([29]). La “colpa”, allora, si inscrive nell’orizzonte logico del vero/falso; essa altro non è che la radice animistica originaria del concetto di “causa” di un evento, come ebbe a sottolineare Kelsen, risalendo al greco aitia, che comprendeva le due declinazioni di colpa e causa ([30]). Il modello inquisitorio è tutto raccolto in questa configurazione razionale, ed il ricorso al “Cielo”, di cui parla Cordero, ne è la testimonianza più suggestiva ed immaginifica.

Ma vediamo meglio.

Poiché l’attribuzione della colpa è, dal punto di vista razionale, un atto di verità, è necessario che un tale atto sia posto in essere da un soggetto “ontologicamente” (se così si può dire) legittimato ad esprimerla e deve essere fondato su di un dispiegamento probatorio analogo ad un esame scientifico. Nell’esperienza storico-istituzionale della “Modernità”, un tale compito appartiene allo Stato, ente sovrano, guardiano ed anche creatore della giustizia. Anzi, l’esserne la “voce”, attraverso il giudizio, e l’ “attuatore”, attraverso la sentenza, è un profilo decisivo della sovranità. Il giudizio ricostituisce l’ordine sociale turbato solo se è giusto; ed è giusto solo se è vero. Il mezzo per affermare la colpa è l’applicazione della legge tramite la sentenza, la quale qualifica come vero ciò che è stato provato come vero.

Nella sua ricostruzione storica, Cordero fa il punto: «L’atto con il quale vengono acquisite [le prove] segue nel processo inquisitorio uno stile formalmente libero:…un interesse gnoseologico ipertrofico eclissa la procedura»([31]).

In definitiva, affinché la giustizia soddisfi il suo legame con la verità, occorre che il magistrato inquirente sia un ricercatore di verità, almeno nel senso, sopra detto, di consumatore non passivo di conoscenza.

Il punto qui è il seguente e riguarda la fictio dottrinaria.

Magistrato inquirente e magistrato giudicante si presentano entrambi sulla scena processuale, in luoghi e momenti differenti, come “bocca della legge”, poiché è quest’ultima – la legge – che realizza la giustizia, declinando insieme diritto e verità.

Giustizia e verità sono termini che evocano, nel loro strettissimo legame concettuale, uno scenario teoretico-argomentativo di tipo sostanzialistico. L’attività corrispondente è attribuita ad un Ente, lo Stato, come autore supremo della Legge; tale attribuzione, per quanto esclusiva, si fonda però su di un presupposto formale, la legittimazione, e viene esercitata da soggetti, dotati anch’essi dell’investitura, ancora formale, della “competenza” dipendente dall’ essere organi dello Stato. In definitiva, la fictio consiste nel soddisfare alla domanda di verità, che è “ontologica”, attraverso una modalità argomentativa che, però, è formalistico-funzionale, fermo restante – ancora un “però” – il fine: l’affermazione della giustizia, che è un concetto, a sua volta, di ordine di nuovo sostanziale.

E’ all’interno di una tale fictio che si situa la posizione espressa da Cassirer a proposito di Cartesio, sviluppando – aggiungo io – la nota kantiana che sopra ho ricordato. Nelle parole di Cassirer, il dubbio cartesiano ha una origine assolutamente “razionalistica”, legata al convincimento del legame ontologico Ragione – Verità. Il suo successivo oltrepassamento è solo un residuo di una tale impostazione teoretica; “residuo” del tutto pragmatico, come testimonia la conversione della razionalità del “moderno” Cartesio nella ragionevolezza importata dal pragmatismo americano, che Federico Stella non manca, come ho detto, di ricordare.

 

  1. La consapevolezza della fictio: l’ “accusa”.

 

Il paradigma concettuale dell’ “accusa” è del tutto differente. “Accusare”, nella tradizione storica e nella sua struttura concettuale, individua una iniziativa di origine privata, individuale o sociale, ma comunque non pubblica, nel senso che non ha la sua origine nello Stato. Un individuo accusa un altro individuo dell’offesa ricevuta e l’offensore, a sua volta, contesta l’accusa su di un piano di parità. Una tale fenomenologia riposa sull’idea che la verità umana si manifesti in via argomentativa e dialettica. Nell’ottica del processo penale, il significato dell’aggettivo “privato” non deve essere tuttavia frainteso. Non è in questione l’investitura formale dell’ “accusatore”, che nella nostra tradizione culturale è un magistrato, cioè un soggetto ancora pubblico; né si allude ad una sorta di “disponibilità” del processo penale, come avviene per il civile. La questione è tutt’altra. Essa chiama in causa una concezione più generale del fenomeno giuridico, secondo la quale il diritto è, alla sua radice, il prodotto di una costruzione scientifico-razionale, che con le sue “categorie” supera la realtà dello Stato ed il suo volontarismo politico-normativo ([32])

In un tale contesto, l’offesa colpisce l’uomo e la società, non il “cittadino” in quanto membro dello Stato. Quest’ultimo, lo Stato, assolve ad una funzione organizzativa e strumentale. Emergono allora due caratteristiche legate al modello. La prima: nella possibile tensione tra libertà individuale e difesa sociale, di principio prevale la prima. La seconda caratteristica ha per oggetto il profilo retorico – epistemologico. Alla “verità”, sia pure nella sua accezione processuale, si sostituisce il concetto di ipotesi sostenibile, che porta con sé, a sua volta due conseguenze teoriche dagli importanti riflessi pratici. Accusa e difesa corrispondono a soggetti processuali pari ordinati, coerentemente con la premessa che il magistrato che promuove l’azione penale non attribuisce una “colpa” con le relative “prove”, ma prospetta solo una ipotesi argomentativamente sostenibile attraverso elementi di prova; e la difesa, a sua volta, potrà fornire una diversa ipotesi, attraverso altri elementi di prova.

Insomma, nel modello processuale accusatorio l’uomo sperimenta tutta la sua finitudine. Non presume di conoscere la verità, ma solo cerca, a volte drammaticamente, di inseguire una possibilità, nella quale la dimensione epistemologicamente “ipotetica” può essere corroborata solo dalla sostenibilità retorica messa alla prova attraverso il confronto tra parti, processualmente pari ([33]). Al giudice, non solo super partes, ma soggetto altro dalle parti, spetta di formarsi una “opinione”, che valga come “giudizio”. Tutto ciò significa che il confronto tra ipotesi retoricamente ed argomentativamente sostenibili si traduce, nella mente del giudice, in una rappresentazione plausibile, che dà luogo alla sentenza. E non senza significato: appellabile.

In altre parole, nel modello accusatorio prende forma la “verità” intesa, in generale, come “rappresentazione possibile dl mondo”, alla quale ho fatto riferimento nelle pagine introduttive.

In definitiva, se ci si muove all’interno di una griglia concettuale rigorosamente “accusatoria”, ci si accorge che il “ragionevole dubbio” perde una sua specifica cittadinanza epistemologica, poiché la sua funzione viene assorbita, o meglio, forse, viene metabolizzata nel concetto di rappresentazione plausibile. Nel senso che la dimensione della “ragionevolezza” (e non della razionalità) entra nella costruzione e costituzione di quella “plausibilità” della rappresentazione, che va a fondare il giudizio.

 

  1. “Ragionevole” dubbio e “credenza” nella verità

Quelli che ho descritto sono due modelli processuali puramente paradigmatici, poiché paradigmatica è l’epistemologia cui ascrivere in senso proprio i concetti di “colpa” e “accusa”.

La pratica processuale, almeno quella del nostro attuale ordinamento, non si attiene a tanta purezza epistemologica almeno per due ragioni, che mi limito solo ad accennare, poiché toccano questioni sulle quali tanto si scrive da anni ([34]). La prima: nella esperienza culturale degli “addetti ai lavori”, la differenza tra “colpa” e “accusa” non appare avvertita sul piano epistemologico, come invece dovrebbe essere. In particolare, sinteticamente, il concetto di “colpa” evoca uno scenario nel quale entra in campo quella oggettività della conoscenza razionale che assume il nome di “verità”; “accusa”, al contrario, è un concetto che resta nell’orizzonte della “soggettività”: soggettiva è la prospettazione, soggettivamente plausibile la definizione.

Non tener conto di tale differenza, ma ritenere che i due termini siano più o meno equivalenti e si differenzierebbero solo per forza espressiva, ha condotto a spostare su di un piano di politica giudiziaria ciò che andava, invece, pensato come conseguenza “logica” dell’adozione del un nuovo modello processuale post ’88.

Mi limito solo ad accennare all’aspetto più noto: il non aver risolto la questione della separazione delle carriere, ritenendo che fosse in questione l’indipendenza politica del Pubblico Ministero; quando, invece, quella separazione sarebbe stata una conseguenza logica di un differente orizzonte epistemologico. Non vado oltre.

La seconda questione riguarda il delicato problema di conciliare due istanze differenti: il rispetto del principio accusatorio con l’efficacia dello strumento processuale, quando oggetto del processo è la criminalità organizzata, soprattutto in relazione alla raccolta delle prove ed al principio di parità che dovrebbe esservi tra accusa e difesa. Segno ne è stata la necessità di introdurre “novelle” legislative sull’impianto originario della riforma e il permanere della figura del magistrato dell’accusa nell’ambito del giudice “inquisitore”. Il punto è, forse, che il medesimo rito processuale non sia efficace per ogni fattispecie criminosa e che, per alcune di esse, sarebbe stato meglio mantenere un rito inquisitorio “misto”, che non manipolare oltre misura quello accusatorio.

Mi sono permesso di svolgere queste osservazioni, in modo rapidissimo, come premessa per tornare alla questione che ha costituito il filo rosso di questo lavoro: ragionevole dubbio e verità.

L’incertezza che avvolge un modello processuale, che si traduce in incertezza nella definizione delle figure processuali, si presta a facili strumentalizzazioni politiche e genera sfiducia istituzionale nell’opinione pubblica.

Se, come ho cercato di mostrare, il modello processuale accusatorio è quello che meglio accoglie l’idea della “verità” come rappresentazione plausibile, allora la dimensione di una diffusa e stabile fiducia istituzionale è decisiva. L’epistemologia della verità come rappresentazione plausibile, infatti, ha un fondamento retorico – argomentativo e l’efficacia di un tale paradigma epistemologico si fonda sulla consonanza tra gli attori ed i destinatari del messaggio, quale che esso sia. Si fonda quindi sulla “fiducia” di un ambiente sociale ([35]).

Nei primissimi anni del ‘900 Max Weber, trattando dei tipi di legittimazione del potere, per uno di essi, quello fondato sulla razionalità dell’ordinamento, scriveva, con attenzione empirica, di “credenza [Glaube] nella legalità” ([36]). Lo stesso vale per la “verità processuale”: occorre quella fiducia sociale che genera “credenza nella verità”, senza della quale non può esservi quell’ordine sociale che consiste nell’accettazione delle sentenze.

E’ in un tale contesto, del tutto empirico – pragmatico, che la formula dell’ “oltre ogni ragionevole dubbio” svolge la sua funzione di affidabilità del giudizio e di fiducia da parte dell’opinione pubblica.

[1] La verità e il processo, in A. Mariani Marini (a cura di) Processo e verità, Plus, Pisa 2005, pp. 33-58 (in part. pp 36-37, passim: cfr anche G.Vattimo, Verità e interpretazione, ivi, pp. 11-15. A mia volta aggiungo un’ulteriore considerazione. I linguaggi con i quali diverse discipline trattano il medesimo tema riflette un diverso approccio teorico-concettuale; diversità, tuttavia, che mette in luce profili tra loro complementari per una comprensione a “tutto tondo” del tema comune prescelto.

[2] La questione del “verosimile”, unitamente all’idea di “senso comune”, cui farò cenno tra breve, rinvia al legame epistemologico tra retorica ed argomentazione; tema dalla sconfinata letteratura che attraversa i secoli, da Aristotele a Toulmin. Mi limito qui a ricordare il volume collettaneo curato da Maurizio Manzin e Paolo Sommaggio, appartenente alla collana “Acta Methodologica”, Interpretazione giuridica e retorica forense. Il problema della vaghezza del linguaggio nella ricerca della verità processuale, Giuffré, Milano 2006 e quello immediatamente precedente curato da F.Cavalla, Retorica Processo Verità, CEDAM, Padova 2005, poi, in ed. accresciuta, F.Angeli, Milano 2007. Mi sembra anche opportuno ricordare due recentissimi lavori: quello di Roberta Martina Zagarella, che, oltre ad avere il pregio di una assai ampia informazione e di un interessante sguardo ricostruttivo, sottolinea il contributo vichiano al tema in questione, proseguendo il lavoro di Alessandro Giuliani (R.M. Zagarella, La dimensione personale dell’argomentazione, Unipress, Padova 2015); l’altro, è il volume, davvero originale nell’impostazione, di A. Incampo, Metafisica del processo. Idee per una critica della ragione giuridica, Cacucci, Bari 2016, che, tra l’altro, tocca il tema logico delle proposizioni “possibilmente vere” come distinte da quelle “abbastanza vere” e guarda, attraverso la riflessione sul paradigma retorico, con l’occhiale dell’ “estetica” al ragionamento giuridico – giudiziario. Sul tema della verità come “approssimazione” cfr. L. Eusebi, Le forme della verità nel sistema penale delle fonti. Giustizia e verità come “approssimazione”, in G.Forti, G.Varraso, M.Caputo (a cura di), “Verità” del precetto e della sanzione penale alla prova del processo, Jovene, Napoli 2014, pp. 155 – 179, in part. p.167 e ss.

[3] E’ il tema che costituisce l’itinerario con il quale Federico Stella ricostruisce la “cultura democratica dei paesi europei” ed in particolare la tradizione italiana. Cfr, Giustizia e Modernità. La protezione dell’innocente e la tutela delle vittime, Giuffré, Milano 2003 (3^ ed.), pp. 116 e ss.

[4] E’ il tema dal quale muove G. Ubertis fin dalle prime pagine del suo recentissimo Profili di epistemologia giudiziaria, Giuffré, Milano 2015. Il “senso comune” apre, in ogni caso, una più generale riflessione in chiave “logica” attorno al tema della verità, della quale dà conto Franca D’Agostini nel suo saggio L’uso scettico della verità, in G.Forti – G.Varraso – M.Caputo ( a cura di) La “verità” del precetto e della sanzione penale alla prova del processo, cit., pp. 25 – 62, in part. p. 30 e ss. e pp. 49 e ss.

[5] Si veda, ad es., il ricchissimo testo M. Bertolino – G. Ubertis (a cura di), Prova scientifica Ragionamento probatorio e Decisione giudiziale (Atti del Convegno tenutosi all’Università Cattolica del Sacro Cuore il 10 e 11 ottobre 2014), Jovene, Napoli 2015. Sulla questione di un possibile modello di “verità” riferibile agli enunciati normativi cfr. ancora F.D’Agostini, cit., p.36 e ss. Alla crisi culturale del nostro tempo presta la sua attenzione anche G.Forti nella sua Introduzione al testo La “verità” del precetto…, sopra citato, pp. 3 – 23, in part. le osservazioni di p. 10 e ss,

[6] La questione è partitamente analizzata da G.Forti, in un “chapter”, in corso di redazione per un testo che avrà come ed. Sprjnger, dal titolo From scientific evidence to scientific proof: Daubert standard and medical standard care.

[7] Tornerò su queste parole nella righe finali del lavoro

[8] Una tale condizione può trovare, in senso generale, il suo antidoto proprio se il tema della “verità” venisse affrontato secondo il significato dell’antica aletheia, carico del suo vigore anti-dogmatico.

[9] Sulla funzione, direi “simbolica”, della formula in ordine alla tutela dell’innocente e sulla sua derivazione dai contesti culturali di common law cfr. Federico Stella, op.cit., in part. pp.131 e ss.; assai significative, inoltre, sono le osservazioni del medesimo A. intorno alla sua eclissi formale nella riforma del 1988 (pp. 140 e ss.)

[10] Intorno al tema della “sostenibilità della teoria” ed a quello ad esso strettamente connesso dell’ “incertezza scientifica” resta emblematica l’analisi di Federico Stella, op.cit., pp. 431 e ss.; in part. cfr. pp.447 e ss. ove si richiama un dibattito centrale per l’epistemologia scientifica contemporanea: Kuhn- Feyerabend (cfr., del primo, The Structure of Scientific Revolutions, Chicago University Press, Chicago 1962, tr. it. La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1969; e, del secondo, almeno Against Method. Outline of an Anarchistic Theory of Knowledge, London 1975, tr. it. Contro il metodo, Feltrinelli, Milano 1979). In particolare di Kuhn merita di essere sottolineato come l’affermarsi di un paradigma di “verità” (ovviamente scientifica) dipenda dalla sua “codificazione” manualistica. Quest’ultimo tema fu anticipato da Kuhn in un lungo saggio precedente al 1962 e pubblicato, insieme due lettere di Feyerabend, da Cortina nel 2000 (Dogma contro critica, Milano).

[11] Cfr. su questo tema il bel saggio di Mariachiara Tallacchini, Between uncertainty and responsability. Precaution and the complex journey towards reflexive innovation, in AA. VV., Trade, Health and the Environment: The European Union Put to the Test, Routledge, London 2014, pp. 74-88 (in part. pp. 78-81), nel quale si fa il punto, con il corredo di una amplissima bibliografia, sul tema della “incertezza scientifica” in specifico rapporto alle ricadute sociali, sul piano delle decisioni politiche e della statuizioni giuridiche.

[12] Mi permetto su questi punto di rinviare al mio Dall’ordinamento alla Governance, in “Europa e diritto privato”, n. 2/2012, pp. 397-436, ed alle riflessioni ivi espresse

[13] Anche su questo tema, peraltro legato alla fiducia / sfiducia di cui alle righe precedenti, tornerò nelle righe finali del testo; per il momento non posso non ricordare R. Alexy, Theorie der juristischen Argumentation. Die Theorie des rationalen Dioskurseswe als Theorie der iuristiscen Begrundung, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1978, tr.it. Teoria dell’argomentazione giuridica, Giuffré, Milano 1998, in part. p.141. Per quest’ultima edizione, curata da Massimo La Torre, è importante considerare la Presentazione di Luigi Mengoni.

[14] Uno specifico riferimento al “discorso possibile”, nel contesto del nesso tra verità e retorica, si trova nel lungo saggio di F.Cavalla, Retorica giudiziaria, Logica e Verità, in F, Cavalla, cit., pp. 1 – 100, in part. pp. 7 – 13.

[15] Cfr. Mc. Tallacchini, loc.cit, p. 81 e in particolare il riferimento al testo di S.Jasanoff, Science and public reason, Routledge, London-New York 2012; della stessa A., oltre al più noto, Science at the Bar. Harvard U. Press, Cambridghe 1995 (tr,it, Giuffré, Milano 2001), v. anche Designs on Nature, Princeton 2005,(tr.it. Il saggiatore, Milano 2008) ove è ripreso il tema di una “epistemoplogia civica”.

[16] Il tema è sviluppato, come è più che noto, nelle Meditations Métaphisiques, nelle due ed. il latino (1641-’42) ed in quella in francese (1647). L’espressione cit. è nella. Med. III, ma cfr. anche, in part. la II, la IV e la VI. (Flammarion, Paris 1979)

[17] “Cumque attendo me dubitare, sive esse rem incompletam et dipendentem, adeo clara et distincta idea entis indipendentis et completi, hoc est Dei, mihi occurrit” (IV, ed. cit., p.130)

[18] Per una visione d’insieme della tematizzazione del “dubbio” come ingresso nella “modernità”, cfr. C. Hermanin e L. Simonetti (a cura di) La centralità del dubbio, Olschki, Firenze 2011

[19] Critica della ragion pura, Libro II, tr.it. Laterza, Bari 1972, p.333, nota

[20] Ivi, p.334

[21] Ho trattato questo tema più ampiamente nel mio Potevo far meglio. Kant e il lavavetri. Ovvero: l’etica discussa con i ventenni, CEDAM, Padova 2008 (3^ ed.), cui mi permetto di rinviare.

[22] E.Cassirer, I problemi filosofici della relatività. Lezioni 1920-1921, tr.it a cura di R.Pettoello (con Premessa e note del traduttore-curatore editoriale), Mimesis, Milano-Udine 2015

[23] Ivi, p.57

[24] Ivi, pp. 57 – 58

[25] Ibidem

[26] Ivi, p.70.

[27] Qui basti far riferimento alle note 5 e 6 di questo testo

[28] F,Cordero, Riti e sapienza del diritto, Laterza, Bari 1981, in part. p.556 e ss.

[29] Cfr. R. Alexy, op.cit., p.171.

[30] H.Kelsen, Reine Rechtslehre, Wien 1960, tr.it. Einaudi, Torino 1966, p. 103

[31] F.Cordero, op.cit., p.556 e ss.

[32] Senza andare a scomodare la Scuola Storica, basta ricordare quanto scriveva e argomentava, più di un secolo dopo, Niklas Luhmann a proposito della insostituibile funzione che la dogmatica giuridica, con la sua elaborazione scientifica, è chiamata a svolgere nel contesto della Stato di diritto. Cfr. Rechtssystem und Rechtsdogmatik, Kohlhammer, Stuttgart 1974; tr. it., Il Mulino, Bologna 1978. Sul tema pubblico e privato nella scienza giuridica, cfr. quanto sinteticamente scriveva Sergio Cotta nel suo Il dilemma della scienza giuridica attuale, in B.Montanari (a cura di), La dottrina giuridica italiana alla fine del XX secolo, Giuffré, Milano 1998, pp. 223 – 239.

[33]In argomento, cfr., il significativo testo di P.Ferrua, Il giudizio penale: fatto e valore giuridico, in Diritto e Processo. Studi in memoria di Alessandro Giuliani, ESI, Napoli 2001, vol. III, pp. 315 – 368.

[34] A questo proposito, mi piace ricordare, con un pizzico di compiacimento quasi autobiografico, la prolusione all’anno acc. 1997 – 1998, tenuta, nella mia Università di Catania, da Enzo Zappalà, chiarissima per la sua incisività e sinteticità di concetti come il titolo stesso lascia intendere: Ancora in bilico tra sistema accusatorio e sistema inquisitorio, ora in “Diritto penale e processo”, 4/1998.

[35] Cfr. su questo tema, limitatamente alla letteratura giusfilosofica, almeno E. Resta, Le regole della fiducia, Laterza, Roma – Bari 2009 e B.Pastore, Pluralismo fiducia solidarietà. Questioni di Filosofia del diritto, Carocci, Roma 2007 e da ultimo A.Incampo, op. cit., in part. le righe di p.32.

[36] M. Weber, Wirtschaft und Gesellschaft, Mohr, Tübingen 1921, tr.it. Comunità, Milano…pp.

La disgregazione del legame sociale

I concorrenti a qualsivoglia incarico o selezione non accettano i giudizi delle commissioni; i parenti del paziente che muore sotto i ferri, immediatamente fan causa ai medici per la loro imperizia, al punto che si è sviluppata un vero e proprio ramo assicurativo, la “medicina difensiva”; chi perde una causa se la prende coll’avvocato che lo difende; i genitori dei ragazzi bocciati a scuola mettono sotto accusa i docenti; chi viene bocciato in un concorso universitario, immediatamente evoca una combine di baroni. E tutti, se possono, fanno ricorso al TAR, che spesso si mostra assai ben disposto a riconoscere le ragioni dei presunti maltrattati.

Si assiste a un sempre più endemico diffondersi di comportamenti analoghi. In passato questo comportamento non era così diffuso. Cosa è cambiato allora, in cosa la società si è modificata per dare luogo a questa micro-conflittualità così diffusa e pervasiva?

Prendiamo il caso più eclatante: una volta il paziente si affidava fiducioso alle cure del proprio medico, consapevole che questo avrebbe fatto tutto il possibile per curarlo. E quando entrava in ospedale, non pensava che i medici fossero lì riuniti per mandarlo all’altro mondo, ma che agivano al meglio delle loro possibilità, in scienza e coscienza, per rimetterlo in sesto. Certo, poteva scapparci il morto, l’operazione poteva andar male, l’imperscrutabilità del caso poteva metterci il proprio zampino. Ma questo rientrava a pieno titolo nella contingenza delle cose umane, nella imperfezione degli eventi, nella possibile fatalità delle circostanze, nell’inevitabile margine di errore che è proprio di ogni cosa posta in atto dalla normale umanità, non dai marziani. A contare di più era la consapevolezza di aver ricevuto una assistenza umana, di essere stati trattati non come pazienti affetti da un morbo da curare, ma come uomini di cui ci si prende cura nell’integralità del loro essere, avendo rispetto per i loro sentimenti, la loro personalità, con il senso di affetto che deriva da una famiglia che può in qualche modo compartecipare alla cura e dei medici che non lo vedono come un “paziente”, solo un numero su una cartella, ma un umano sofferente nella totalità del suo essere. E anche la morte, in questo caso, non si accompagna con quel senso di disperante solitudine di chi si vede abbandono in un letto, in una camera dalle pareti bianchi di un freddo, anche se efficiente ospedale.

Lo stesso avveniva nelle varie prove che si dovevano superare nel corso della vita (concorsi, esami, giudizi): si metteva in conto il raccomandato e il fatto che la commissione era fatta da persone che potavano azzeccare o sbagliare il giudizio, ma il più delle volte i bocciati non pensavano di essere i più bravi che ingiustamente erano stati scartati a favore di persone che erano tutte più asini. Il più delle volte si era consapevoli di non avercela fatta, di aver sbagliato la prova, di essere stati impari al compito o semplicemente di essere stati sfortunati. E così avveniva a scuola: il bocciato non era la vittima di una sadica pratica educativa, ma era tale perché immeritevole, perché non aveva studiato; e le famiglie non davano la colpa ai docenti, ma al proprio figlio che si era poco applicato e magari lo prendevano a ceffoni affinché si mettesse sulla giusta via.

Ma il fatto che oggi tali meccanismi non funzionino più così è il sintomo di ciò che si potrebbe definire la progressiva disintegrazione del legame sociale, ovvero il decadimento della solidarietà tra le diverse parti che funzionalmente compongono la società. In ogni sistema complesso, in ogni società, v’è una interconnessione tale per cui ciascuna sua parte si affida al funzionamento dell’insieme. Si può dire che senza questa fiducia, senza questa solida e tacita base, mai messa in discussione, non si potrebbe nemmeno articolare la vita sociale. Certo esistono i conflitti, ma questi possono avvenire solo nella misura in cui ci si affida ad altri: ai propri compagni; ai componenti del proprio gruppo, della propria famiglia, della propria comunità; e nel momento in cui scoppiano con violenza, tendono poi a ricomporre un nuovo equilibrio, una nuova forma di solidarietà. E così, per continuare nel nostro esempio, accade che il paziente ha fiducia nel medico ritenendolo portatore di una conoscenza certificata da una università in cui i docenti hanno fatto il proprio meglio per trasmettergli la capacità di utilizzare le terapie migliori. Ma quando si viene a spezzare questo legame di fiducia, si diffida della conoscenza di cui il medico è garante, si nutre un profondo discredito dell’università che gli ha conferito il titolo, non si pensa che questa raccomandi le terapie migliori. Ed ecco allora il ricorso ai guaritori, alle medicine alternative, ai centri di cura eterodossi. Lo stesso avviene negli altri campi: il proprio ragazzo è bocciato? Sono i docenti ad essere incompetenti, e l’università che li ha formati non li ha saputo preparare, perché i suoi docenti sono dei fannulloni dediti solo ad ordire trame concorsuali. E così via.

Si viene così pian piano a logorare quel reciproco inconsapevole affidarsi, che è al tempo stesso un complessivo avallo del sistema sociale e dei processi di formazione, selezione e valutazione messi in atto dall’organizzazione complessiva di uno stato e dalle sue articolazioni territoriali e istituzionali. Ciascuno diffida del proprio prossimo e della qualifica, della competenza, della moralità di cui è portatore; e alla prima occasione, appena in qualche modo ritiene di essere stato danneggiato, è pronto a fare ricorso all’autorità giudiziaria. E sempre più spesso v’è qualcuno che si ritiene danneggiato: lo sono per definizione tutti i bocciati, gli esclusi, gli emarginati. In questo clima ha una funzione di ulteriore disgregazione la martellante campagna di diffusione dell’odio sociale che si esprime continuamente in vari ambiti: immigrati contro residenti; immigrati di seconda generazione contro quelli appena arrivati; assegnatari di case popolari contro gli abusivi; cittadini stanziali contro zingari; regioni contro altre, persino juventini contro interisti. Eppure tutto ciò non porta al conflitto aperto, alla crisi che poi è foriera di un riassetto del legame sociale su nuove base, a una “lotta di classe” che permette di ristabilire diversi equilibri. No, si ha un progressivo, lento, sterile e privo di prospettive deteriorarsi del legame sociale, alla cui fine restano solo le macerie.

Non è la prima volta nella storia che accadono fenomeni simili; e ogni volta o la società ha ritrovato in sé la forza di rinsaldare il legame sociale, oppure è andata incontro a un processo di progressivo sfaldamento che non l’ha posta in grado di reggere le sfide del futuro. È stata la condizione tipica dell’impero romano nel periodo della sua decadenza, quando non bastava la moltiplicazione delle norme e dei regolamenti a rimettere in piedi un organismo in disfacimento; è stata la condizione dell’Ancien Régime, in Francia, come nella Russia zarista e poi in quella sovietica. Sembra anche la condizione dell’Europa d’oggi, nella quale un singolare ruolo di avanguardia sembra stia avendo proprio l’Italia.

La crisi europea e la sua ideologia: riflessioni a partire da Slavoj Žižek

La richiesta del potere governativo nei confronti dei cittadini diventa esplicita nei molti casi della politica di “austerity” contemporanea, ove, per fronteggiare la necessità di un debito da ripagare (nel caso dei paesi europei nei confronti dell’European Central Bank) si decide di effettuare dei tagli sulla spesa pubblica e su fondi normalmente destinati ai servizi. Prima di mettere in discussione un sistema finanziario ed una forma di economia, il filosofo di Lubiana, in tutte le sue ultime opere, rileva due qualità presenti nell’espressione mediatica di “necessità” come taglio della spesa pubblica: a) quella relativa allo stato d’emergenza in cui una nazione si trova (presentazione, dunque, di alcuni “dati di fatto”) e b) quella relativa al carattere di neutralità e terziarietà delle decisioni che i governanti prendono per reagire alla minaccia (giustificazioni logiche).

LA QUESTIONE DELLA SFERA PUBBLICA EUROPEA

di Manfredi Camici

 

L’Unione europea, a seguito del crescente successo dei movimenti euroscettici e della volontà manifestata dagli elettori britannici il 23 giugno scorso, si trova oggi a navigare in acque poco floride. Il clima di forte contestazione e insoddisfazione nei confronti delle politiche europee ha spalancato le porte a scenari di “disintegrazione”, che per la prima volta vengono presi seriamente in considerazione e messi a tema anche da illustri pensatori come Wolfgang Streeck e Jan Zielonka[1]. Se l’Unione appare inadeguata nel far fronte alle problematiche poste in essere dalla crisi economica e dalle ondate migratorie – rimanendo in tal modo un attore secondario sul piano internazionale – ciò viene spiegato attraverso l’impossibilità costitutiva di dar vita ad una politica comune e condivisa dal momento che risulta assente l’elemento sul quale le politiche stesse dovrebbero istituirsi: il dibattito scaturente da una sfera pubblica europea omogenea. In generale, ad essere messa in discussione, è la possibilità che si venga a formare un ordinamento politico democratico a livello europeo data l’irrealizzabilità di una sfera pubblica che vada oltre i confini nazionali. Conseguentemente, la prospettiva stessa di una democrazia transnazionale viene valutata negativamente vista l’assenza di un demos europeo culturalmente definito.

Ad affermare l’impraticabilità di una sfera pubblica europea vi sono sia i nazionalisti, che intendono il demos come entità fondata su un’a priori storico-culturale, sia coloro che come Dieter Grimm e Philip Schlesinger ne sottolineano unicamente degli ostacoli pragmatici come la mancanza di una lingua comune e di mezzi di comunicazione condivisi[2]. In entrambi i casi, risulta impossibile fondare una comunità della comunicazione europea. Il presupposto che unisce queste due visioni e che accomuna gran parte della letteratura sulla sfera pubblica europea è che ad ogni Stato membro corrisponda una sfera pubblica nazionale. La sfera pubblica viene intesa come auto evidente, omogenea e stabile. L’idea soggiacente a questa visione è quella di una corrispondenza tra confine, cittadinanza, linguaggio, identità nazionale e interessi condivisi.

Definizione e funzioni della Sfera pubblica.

Prima di poter procedere oltre è necessario chiarire cosa sia una sfera pubblica, evidenziandone gli elementi fondamentali – seppure non ne esista una definizione condivisa universalmente – ed evidenziare il suo stretto legame con la democrazia. In senso più ampio, la sfera pubblica è lo spazio sociale che si viene a creare quando gli individui deliberano e discutono su questioni comuni. L’idea della sfera pubblica si radica nella disposizione discorsiva sviluppata dal filosofo tedesco Jürgen Habermas[3], il quale elabora una teoria deliberativa della democrazia. Alla base di tale teoria, infatti, si pone il superamento del riconoscimento della democrazia con i principi del voto, della maggioranza e di una concezione della politica quale regno della razionalità strumentale e spazio di aggregazione tra interessi irrimediabilmente contrapposti. Sebbene anche all’interno della teoria deliberativa vi siano molteplici varianti, queste sono accomunate dall’idea che la deliberazione pubblica tra i cittadini rappresenti l’unica fonte possibile di legittimità democratica. Una decisione può considerarsi legittima solo nel momento in cui viene assunta a seguito di un processo di deliberazione – ovvero un processo discorsivo fondato sullo scambio di argomentazioni razionali – a cui possono partecipare tutti gli individui coinvolti dagli effetti della decisione stessa. Una norma è ritenuta valida allorquando è stata precedentemente discussa e vagliata, all’interno di un dibattito libero a cui tutti gli interessati hanno pari possibilità di accedervi.

Alla sfera pubblica, inoltre, spettano le funzioni di scoperta dei problemi che affliggono la comunità, ma cosa ancor più importante, questa fornisce la giustificazione politica intrinseca alla democrazia. È alla base del concetto di legittimità e di sovranità quello di includere nel processo deliberativo tutti i potenziali interessati.

Lo sviluppo della sfera pubblica ha profonde implicazioni sulla concezione della teoria deliberativa. Coloro che governano sono obbligati ad entrare nell’arena pubblica per difendere le loro decisioni e cercare consenso. La sfera pubblica è critica del potere. Non vi sono corpi esterni alla deliberazione pubblica che possano giustificare l’autorità della legge. Vi è una transizione dal discorso del potere al potere del discorso. Unicamente il dibattito pubblico in se stesso ha il potere di stabilire le norme. Per questo motivo, la democrazia è divenuta oggigiorno l’unico principio di legittimazione dei governi, fondata su un’inclusiva sfera pubblica che consente a ciascuno degli interessati di prendere parte nella deliberazione sugli affari comuni. É nella sfera pubblica che avviene il contesto della scoperta, della percezione e la tematizzazione dei problemi. Per converso, le discussioni istituzionalizzate, come quelle parlamentari, aiutano a filtrare le priorità tra le rivendicazioni provenienti dai discorsi periferici che scaturiscono spontaneamente all’interno della sfera pubblica informale. É in questa interazione tra discorso istituzionalizzato e discorso non istituzionalizzato che prende forma il processo collettivo di autogoverno, in tale processo ha posto la politica deliberativa. Il principio della sovranità popolare può essere realizzato unicamente assicurando una libera sfera pubblica ed una libera competizione tra partiti, insieme a corpi rappresentativi per la deliberazione e la decisione.

Inoltre, grazie al ruolo dei media e alla critica pubblica, i politici devono definire il loro mandato sulla continua ricerca della sfera pubblica generale. In questo modello, affinché i temi possano arrivare dalla periferia informale al centro istituzionalizzato, è necessario che i mass-media siano permeabili alle istanze che provengono dall’esterno.

Questa visione ha suscitato numerose critiche circa la reale possibilità della sfera pubblica di non venir manipolata e colonizzata dai grandi strumenti di comunicazione di massa, piuttosto che da giochi di potere più o meno nascosti. La concezione habermasiana nega però l’immagine del consumatore massmediatico come unicamente passivo e culturalmente drogato. Nondimeno, anche nel caso in cui si volesse pensare ad una sfera pubblica manipolata e dominata dai mass-media, quest’immagine potrebbe essere riferita unicamente ad una sfera pubblica in condizione di riposo. «Nel momento in cui si mobilitano, le strutture su cui poggia l’autorità d’un pubblico capace di prender posizione cominciano a entrare in vibrazione. Allora si modificano anche i rapporti di forza esistenti tra società civile e sistema politico»[4].

La concezione deliberativa si differenzia tanto dalla teoria liberale, quanto dal concetto repubblicano di autonomia. Nella concezione liberale, il processo democratico si compie esclusivamente nella forma di compromessi d’interesse; in quella repubblicana la formazione democratica della volontà si compie unicamente nella forma dell’autogoverno.

«Se pensata discorsivamente, la democrazia non parte né dal principio di autonomia, né da quello di pari rispetto degli interessi, ma da qualcosa che li precede e li include entrambi, cioè dall’idea che non vi siano alternative razionali alla ricerca cooperativa e paritaria delle istituzioni e delle soluzioni che meglio consentano l’equa soddisfazione degli interessi e delle istanze di tutte le persone».[5]

 

La necessità di una sfera pubblica europea e la sua costitutiva impossibilità: I problemi del “nazionalismo metodologico” e del deficit democratico.

 

Se, come si è visto, le decisioni democraticamente legittime sono quelle che coinvolgono tutti coloro che ne sono influenzati, nel contesto attuale, lo Stato-nazione – a causa della crescente interdipendenza globale – non sembra più in grado di connettere coloro che decidono e coloro su cui ricadono gli effetti delle disposizioni. Emerge così il problema del deficit democratico, dal momento che in un mondo sempre più interconnesso – sul piano ecologico, economico e culturale – gli Stati combaciano sempre meno, nel loro raggio sociale e territoriale, con le persone e le sfere che sono potenzialmente coinvolte dagli effetti di queste decisioni. Basta pensare a come la decisione francese di ricorrere a 58 reattori nucleari per soddisfare il proprio fabbisogno energetico possa, in caso di disgrazia, ricadere anche su altri Stati che hanno deciso di rinunciare all’energia atomica.

La globalizzazione ha svolto un ruolo determinante, compromettendo lo stato amministrativo attraverso cui le società democratiche sono in grado di autogovernarsi, in quanto si sviluppano problematiche (ad esempio le tematiche ecologiche, il buco dell’ozono, la gestione del nucleare etc.) non più controllabili all’interno del singolo quadro nazionale. Lo stesso vale per le capacità di redistribuzione dei redditi all’interno del confine statale: l’accelerata mobilità dei capitali impedisce l’intercettazione dei guadagni così come la minaccia di trasferire all’estero l’impresa o il denaro mette in scacco il potere contrattuale dello Stato nei confronti del mercato. Senza la capacità dello Stato di garantire determinate politiche di welfare, un cittadino può perdere la capacità di esercitare i suoi diritti, rimanendo in tal modo escluso dalla possibilità di prender parte al dibattito pubblico. Pertanto, nel momento in cui i presupposti sociali in grado di garantire una partecipazione politica vengono compromessi, anche le decisioni prese in maniera pur formalmente corretta perdono la loro legittimità democratica e la loro credibilità. Alla luce di tali evidenze, la tematica europea e quella della transnazionalizzazione della democrazia diventano sempre più urgenti, a maggior ragione nel momento in cui alla fine del XX secolo è cresciuta in maniera esponenziale la complessità della società mondiale.

L’UE nasce propriamente con l’obiettivo di far fronte ai nuovi problemi che sorgono sull’asse globale-locale, imponendo un ripensamento della spazializzazione della politica. Ma come può un’istituzione transnazionale colmare la problematica del deficit democratico nel momento in cui è sprovvista di un demos, di una cultura condivisa, di mezzi di comunicazione comuni e di una sfera pubblica da cui trarre legittimità? Senza queste componenti risulta infatti impensabile dar vita ad una politica democratica e la strada verso il federalismo sembra preclusa in partenza.

Posizioni minoritarie, ma illustri, sostengono che la questione della legittimità democratica costituisca un falso problema. Giandomenico Majone[6], concependo l’UE nei termini di uno Stato regolatore afferma che l’unico problema delle istituzioni europee sia una crisi di credibilità. L’UE è chiamata a svolgere solamente una funzione di problem-solving, per questa ragione non ha bisogno di essere legittimata in forma diretta da una sfera pubblica, poiché il suo obiettivo è quello di perseguire un criterio di efficienza. In questo caso, la legittimità viene sottratta al versante della deliberazione pubblica (input) e collocata sui risultati (output). L’approccio intergovernamentalista, sostenuto da Alan Milward e Andrew Moravcsik[7], supera l’empasse ritenendo i processi decisionali dell’UE legittimati indirettamente attraverso gli Stati membri. Gli intergovernamentalisti concepiscono il processo integrativo come il risultato di un compromesso strategico tra gli Stati, orientati al perseguimento dei propri interessi nazionali. A ciò corrisponde un sottodimensionamento del grado di autonomia delle istituzione comunitarie, dal momento che queste vengono ritenute, in ultima istanza, controllate dai governi nazionali. Entrambe le soluzioni non sembrano però in grado di risolvere definitivamente il problema. L’interpretazione dell’UE nella funzione di entità di problem-solving fondata sul criterio dell’output incorre in due errori. In primo luogo, risulta impossibile stabilire dei risultati che possano essere ritenuti soddisfacenti indipendentemente dalla deliberazione di coloro che vengono influenzati dalle decisioni prese a livello sovranazionale. È solo all’interno dello scambio discorsivo che si possono stabilire criteri di accettabilità delle argomentazioni e trovare criteri di efficacia, dal momento che non vi sono norme sostantive che stabiliscano a priori quali posizioni possano essere accettate o escluse dal processo argomentativo. In altre parole, è solo all’interno dello scambio comunicativo che si possono rintracciare gli scopi della deliberazione e gli obiettivi sul quale vengono valutate le politiche dello Stato. In secondo luogo, l’efficienza dei risultati risulta una fonte di legittimità troppo debole per garantire stabilità ad un ordinamento politico, dal momento che qualora non si raggiungessero degli esiti soddisfacenti quest’ultimo verrebbe meno. Allo stesso modo, la teoria intergovernamentalista non sembra in grado di descrivere l’attuale configurazione del sistema politico europeo. L’espansione dei poteri delle istituzioni comunitarie e lo sviluppo di un diritto autonomo e sovraordinato a quello degli Stati membri, rendono quest’approccio insufficiente ai fini di una spiegazione comprensiva del sistema politico europeo che viene ridotto alla semplice interazione strategica. Infine, l’intergovernamentalismo non riesce a dar conto del forte sentimento di frustrazione e malcontento che si può facilmente riscontrare circa l’attuale stato del processo integrativo. Se l’Europa è ancora un continente di Stati nazione e l’UE unicamente un’organizzazione intergovernativa, allora il perseguimento dei singoli interessi nazionali, con l’utilizzo di qualsiasi strumento, essendo rimesso a ciascun singolo organismo statale e non invece compito precipuo dell’Unione, non dovrebbe essere fonte di critica per l’Unione stessa. Sia lo Stato regolatore, sia l’intergovernamentalismo si rivelano pertanto inadeguati nel fornire tanto una giustificazione esplicativa quanto una giustificazione normativa dell’UE.

Il dilemma rimane ancora aperto e apparentemente insolubile. Il rischio è quello di rimanere invischiati in una situazione di stallo: se da un lato sembra evidente la necessità di stabilire un ordinamento politico democratico transnazionale, dall’altro non si riesce a trovarne una fonte di legittimazione. Così, sono molteplici gli autori che sanciscono l’impossibilità della democrazia al di fuori dello Stato nazione, ritenendo che la sola e parziale soluzione possibile del deficit democratico sia la riduzione dei poteri politici dell’UE. Il rafforzamento della dimensione europea non farebbe altro che aggravare ulteriormente la situazione[8] poiché – vista la ormai acclarata assenza di un demos, di una cultura, di un linguaggio e di mezzi mass-mediatici condivisi, di partiti politici e di una sfera pubblica europea – le riforme istituzionali non riuscirebbero a fornire una legittimazione diretta delle istituzioni europee. Dello stesso avviso sono Andreas Follesdal e Simon Hix[9], per i quali il deficit democratico viene ampliato dal fatto che il processo integrativo favorisce un progressivo aumento del potere degli esecutivi rispetto ai parlamenti, anche a livello nazionale. Per tutte queste ragioni, i sostenitori dello Stato-nazione ritengono che l’integrazione conduca ad un gioco a somma negativa, dal momento che il deficit delle istituzioni europee viene trasmesso agli Stati nazionali acuendone le problematiche invece di risolverle. Ci troviamo così, come afferma Vivien Schmidt[10], con “politiche” europee prive di “politica”, laddove i Paesi membri vivono di “politica” senza “politiche”. Le “politiche” vengono intese, in questo caso, come la capacità di prendere decisioni che possano essere efficienti e per “politica” la possibilità di dar vita a decisioni legittime fondate sul discorso pubblico.

Sia la visione della disintegrazione, tanto l’integovernamentalismo, quanto la teoria dello stato regolatore e la visione federale non riescono a fuoriuscire del paradigma dello Stato-nazione quale unica forma politica possibile avente come fonte di legittimazione una sfera pubblica monolitica. Secondo Ulrich Beck, queste teorie sono deviate da un vizio di forma che affligge gli attori sociali e gli scienziati politici: il “nazionalismo metodologico”. La denuncia di Beck è condivisa anche da Habermas il quale afferma che dimenticandosi di essere in se stessa un prodotto artificiale, la coscienza nazionale si rappresenta nei termini di un prodotto naturale dato a priori rispetto all’ordinamento ricavato del diritto positivo e alla costruzione dello Stato. Appellarsi alla nazione “organica” significa così cancellare la contingenza e l’arbitrarietà storica dei confini politici, trasfigurandoli con un’aura di “sostanzialità contraffatta”.

Un necessario ripensamento della sfera pubblica europea:

Coloro che incorrono nell’errore del “nazionalismo metodologico” ritengono, dunque, impossibile realizzare una sfera pubblica pan-europea. L’inattuabilità di quest’ultima deriva dal fatto che viene pensata in base alle medesime caratteristiche delle sfere pubbliche presenti a livello nazionale. Questa è chiamata a soddisfare gli stessi requisiti: omogeneità etnica, culturale e linguistica. L’equivoco fondamentale in cui ci si imbatte, attraverso quest’interpretazione, è quello di identificare la lingua con la precondizione della deliberazione e della democrazia: la comunicazione. In questo modo non si fa altro che confondere il mezzo con il fine. Grimm ritiene – come altri d’altronde – che a causa della pluralità linguistica (24 riconosciute ufficialmente) i cittadini dell’UE non siano in grado di comunicare tra loro. Inoltre, non vi potrebbe essere alcun dibattito europeo senza mezzi di comunicazione condivisi quali giornali e televisioni. Grimm sostiene che:

« […] le perplessità sorgono dalla considerazione che una società in grado di intendersi discorsivamente sulle proprie questioni esiste in effetti a livello nazionale, non però in ambito europeo. Le strutture intermedie composte da partiti, associazioni, movimenti civici, media della comunicazione, senza le quali è impensabile un processo democratico vitale, mancano infatti in Europa, così che risulta assente anche quella sfera pubblica europea la quale rappresenta la condizione imprescindibile di tutti gli Stati democratici»[11].

Viene ravvisata così nel progetto europeo una politica guidata da élites, in cui risulta assente il popolo. In tal maniera, le differenze linguistiche rappresentano un limite invalicabile alla creazione di una sfera pubblica democratica in grado di oltrepassare i confini delle frontiere nazionali. La trasformazione dell’Unione Europea verso il paradigma di uno Stato federale porterebbe alla creazione di un’istituzione ancor più lontana dalla sua base sociale. «La legittimazione che ne deriverebbe sarebbe quindi solamente fittizia. Per uno Stato costituzionale europeo i tempi non sono ancora maturi»[12].

A ben vedere però, ciò che conta per la formazione di una sfera pubblica è la comunicazione e non la lingua. Come sottolineato da Kalus Eder e Cathleen Kantner[13], affinché si possa parlare di scambio comunicativo è sufficiente che vengano (1) dibattute le stesse tematiche allo stesso tempo e con la stessa attenzione, (2) utilizzati gli stessi criteri di rilevanza e di riferimento per dibattere. Se questi sono gli elementi costitutivi della comunicazione è dunque possibile pensare ad una sfera pubblica europea, non più in termini monolitici, ma come europeizzazione delle molteplici sfere pubbliche nazionali. Non è indispensabile che si condivida la lingua o i mezzi di comunicazione, ma è sufficiente che i singoli media nazionali parlino delle questioni europee contemporaneamente attraverso una prospettiva comune e condivisa. La soluzione non sta nella costruzione di una sfera pubblica sovranazionale, ma nella europeizzazione delle sfere pubbliche nazionali esistenti. «Queste, senza dover modificare profondamente le infrastrutture in vigore, possono aprirsi l’una all’altra. I confini delle sfere pubbliche nazionali diverrebbero in tal modo i portali di vicendevoli traduzioni».[14]

Ma questi criteri sono sufficienti affinché si possa parlare di sfere pubbliche europeizzate? Le funzioni svolte dalla sfera pubblica non si limitano ad una reciproca osservazione, così dunque non può bastare che i media nazionali discutano delle stesse questioni monitorandosi vicendevolmente. Ciò che caratterizza la sfera pubblica è il dibattito e la comunicazione che è alla base della formazione delle opinioni e della volontà di un ordinamento politico democratico. Ritorna così la problematica del soggetto chiamato a deliberare: il demos. La possibilità che si vengano a formare sfere pubbliche europeizzate è strettamente correlata alla questione dell’identità europea.

Larga parte della letteratura sulle sfere pubbliche ritiene che l’identità sia una precondizione ineliminabile, per queste ragioni si sostiene che non sia possibile una sfera pubblica europea. Il “nazionalismo metodologico” parte da premesse giuste, ma arriva a conclusioni sbagliate. È vero che la questione dell’identità è strettamente correlata a quella della sfera pubblica, ma identificando la comunicazione con la lingua si ipostatizza l’elemento identitario.

In realtà la relazione che intercorre tra identità e comunicazione è meno problematica dalla prospettiva della teoria deliberativa. Habermas non tratta infatti le sfere pubbliche o le identità collettive come qualcosa di dato. Le sfere pubbliche emergono nel processo stesso in cui le persone dibattono. Nel momento in cui si crea un dibattito su questioni comuni si reifica e reinterpreta la stessa comunità politica. Questo punto segue dall’affermazione di Craig Calhoun[15], secondo il quale le identità sono ridefinite nella sfera pubblica, il che le rende aperte al cambiamento. Sulla base di un concetto d’identità non esistenzialistico, Thomas Risse ritiene che si possa osservare anche l’emergere di identità europeizzate nella pluralità delle opinioni pubbliche europee[16]. La frequente interazione tra le persone e la condivisione di problematiche, come quella della crisi economica, connesse a simili esperienze di vita, sono in grado di incrementare il senso di comunità. È a partire dalla concezione della cittadinanza e della democrazia mediata discorsivamente, che la teoria deliberativa della democrazia include l’altro nella discussione pubblica, dal momento che la crescita esponenziale delle problematiche che influenzano la vita delle persone e che sfuggono al raggio d’azione degli Stati nazionali, compromettono la stessa possibilità delle persone di auto-organizzarsi sia come individui che come società. Laddove una concezione statica e culturalista dell’identità ritiene impossibile fondare una democrazia sulla partecipazione diretta dei cittadini europei a un dibattito transnazionale, adottando una prospettiva post-nazionale, che supera l’identificazione della comunità politica con la comunità di “destino”, lo sviluppo di uno spazio discorsivo europeo può fornire la base per una cittadinanza costituita da una pluralità dei demoi. La nascita di un’identità europea può perfettamente coesistere con quella nazionale. Detto in altri termini, non esistono identità monolitiche, ci si può sentire tanto europei quanto membri del proprio Stato. La globalizzazione ha infatti inciso anche sul sostrato culturale di solidarietà civica che costituiva le fondamenta dello Stato nazionale. L’integrazione politica di una società molto estesa, dal punto di vista di attuazione del processo di autodeterminazione democratica, è senz’altro il merito migliore della forma Stato-nazione. Tuttavia, sintomi di frammentazione politica sono oggi evidenti e mettono a nudo le difficoltà di una simile concezione della cittadinanza e della solidarietà. Per un verso, in virtù degli innumerevoli flussi migratori, lo scontro di diverse forme culturali e dei diversi mondi di vita porta a un indurirsi dell’identità nazionale, ma per altro, l’assimilarsi di una cultura globale smussa gli angoli delle sfaccettature che rendono uniche le singole culture autoctone e indigene, ammorbidendo il tutto. La solidarietà è sempre “solidarietà tra estranei” e questo vale sia nel contesto nazionale che in quello europeo.

Le sfere pubbliche, dunque, non sono date una volta per tutte, non preesistono alla comunicazione, ma soltanto all’interno di essa. Una comunità della comunicazione può essere costruita, decostruita e ricostruita tramite l’interazione intersoggettiva. Ciò che risulta indispensabile alla comunicazione è la condivisione del “mondo della vita”: ovvero di quel corpo comune di significati e di esperienze necessarie per comprendersi a vicenda. Siffatte ragioni spingono Risse ad aggiungere un terzo criterio – ai due proposti da Eder e Kantner – per poter parlare di sfera pubblica europea: (3) è lecito parlare di una comunità della comunicazione transnazionale solo nel momento in cui i parlanti (i demoi nazionali e i cittadini europei) si riconoscono come legittimi partecipanti al dibattito, inquadrando determinate questioni dalla medesima prospettiva[17]. Sia chiaro, adottare una prospettiva europea non significa adottare una medesima identità – intesa in senso forte – ma avere lo stesso quadro di riferimento per valutare la situazione ed essere consapevoli delle altrui posizioni.

Una comunità della comunicazione europea? La necessità di politicizzare l’UE

Se finora si è tentato di ricostruire il dibattito sulla possibilità della formazione di sfere pubbliche europeizzate, tuttavia non si è detto ancora nulla circa la reale esistenza di un’opinione pubblica europea.

L’attuale modello della governance europea ritiene che l’UE non possa che legittimarsi in base ai risultati raggiunti. Attraverso una concezione “paternalistica” dell’ordinamento sovranazionale le élite europee considerano – ricalcando così l’errore del nazionalismo metodologico – che vista l’impossibilità di una sfera pubblica non sia possibile politicizzare le questioni europee. Autori, come Stefano Bartolini[18], ritengono che la partecipazione diretta dei molteplici demoi nazionali alle politiche europee comprometterebbe la possibilità da parte dei governi dei Paesi membri di raggiungere un accordo sugli interessi comuni, trovando così risultati soddisfacenti.

La bassissima affluenza registrata nelle elezioni europee – passata dal 62% del 1979 al 43,09% del 2014 – viene interpretata dai sostenitori dello Stato regolatore come la dimostrazione del fatto che gli elettori non siano interessati all’UE dal momento che non si sentono europei. Sebbene sia indubbio che le elezioni europee vengano percepite come elezioni nazionali di secondo grado, anche i politici spiegano il loro focus “domestico” nelle campagne elettorali europee con il disinteresse dei cittadini. Di conseguenza, politicizzare l’UE in questo momento comporterebbe l’immediato fallimento del processo integrativo nell’istante in cui le singole comunità nazionali dimostrano di non riconoscersi a vicenda quali appartenenti alla stessa comunità politica.

Questa lettura contrasta con la circostanza che molti studi attestano come la maggior parte dei votanti voglia sapere di più sull’UE. L’assunto di fondo è che la crescita del sentimento anti-europeo sia legato alla mancanza del suo opposto. In quest’ottica, aprire alla politicizzazione vorrebbe dire incorrere nel rischio di una ri-nazionalizzazione, come dimostrerebbe emblematicamente anche il caso della Brexit.

Ad essere completamente rimossa è la possibilità che vi sia una crescente europeizzazione delle identità nazionali e che i cittadini possano giudicare le politiche dell’UE sul merito. Al contrario, la costante denuncia dell’esistenza di un deficit democratico a livello europeo, secondo Hans-Jörg Trenz e Eder[19], starebbe a testimoniare la nascita di una emergente comunità della comunicazione. Il deficit democratico non consiste nell’appropriazione da parte dell’UE delle competenze degli Stati membri, quanto nel non fornirne un degno sostituto a livello europeo. L’esito di questo processo è l’espropriazione della capacità di influenzare le “politiche” da parte della sfera pubblica informale. Il riferimento è rivolto alle scarsissime competenze legislative attribuite al Parlamento europeo dalla procedura di codecisione. Come se non bastasse, la crisi dell’euro ha contribuito ad aumentare la discrasia esistente tra le sfere pubbliche informali europeizzate, volte a politicizzare il discorso europeo e il centro amministrativo-istituzionale. Appare infatti emblematico il distacco tra i discorsi provenienti dalla Commissione europea, che hanno lo scopo di consentire la formazione di politiche sovranazionali senza “politica” e la contestazione emergente nella sfera pubblica. Il deficit democratico che ne risulta non è dovuto all’assenza del demos europeo, ma all’incongruenza esistente tra il luogo dove le decisioni vengono prese e quello dove queste agiscono. Tale contrasto ha fatto sì che le sfere pubbliche si risvegliassero assediando il centro istituzionalizzato, imponendo il loro dissenso vincolante al consenso permissivo che ha sinora guidato il processo d’integrazione europeo. Emerge così l’impreparazione dell’assetto istituzionale europeo ad affrontare la politicizzazione degli affari dell’UE. Le élite temevano che la politicizzazione dell’UE potesse condurre ad uno stallo politico, invero paradossalmente sta accadendo l’opposto: è la mancata politicizzazione del processo d’integrazione europeo a condurre verso il blocco dello stesso. La lezione che l’élite europea ha imparato dal proprio fallimento è stata quella di silenziare il dibattito pubblico, ma questi sforzi volti alla depoliticizzazione sono stati pagati a caro prezzo. Le questioni dell’UE sono rimaste visibili data la loro importanza. Temi come il cambiamento climatico, la politica monetaria, l’immigrazione, le politiche sociali, la sicurezza, gli interventi militari e l’ingresso della Turchia sono argomenti politici scottanti nella maggior parte degli Stati membri.

L’equivoco di base sta nel credere che sfere pubbliche europeizzate coincidano con il supporto verso l’Unione. La tesi che si vorrebbe provare a sostenere può apparire a prima vista inverosimile. Vale a dire, sottolineare il paradosso che individuerebbe nella crescita esponenziale dei movimenti euroscettici la nascita di un dibattito pubblico sulle questioni europee. Per questo, benché pericolosa, la politicizzazione è necessaria alla creazione dell’identità politica. Infatti, le persone sebbene non apprezzino le politiche europee, si identificano sempre più con l’UE. La fiducia nelle istituzioni europee non è mai stata così bassa, ma i livelli di riconoscimento sono cresciuti. Dibattere le questioni europee in quanto europei serve a costituire una comunità della comunicazione. Questo non significa consenso. D’altronde se per euroscetticismo si intende l’insieme di critiche volte all’UE allora euroscetticismo e politicizzazione sono la medesima cosa poiché ogni divergenza invoca un certo grado di disaccordo sulle politiche dell’UE. Il progressivo dissenso verso l’UE non fa che attestare la percezione che i cittadini hanno circa la rilevanza dell’ordinamento politico.

Dal punto di vista della teoria deliberativa e normativa della democrazia la politicizzazione è fondamentale. Controversie e discussioni sono ingredienti necessari per una sfera pubblica vivace e per un centro istituzionalizzato capace di trasformare gli impulsi provenienti dai processi comunicativi, posti alla periferia, in decisioni vincolanti. In questo modo, i dibattiti relativi alle questioni del processo integrativo e dell’identità europea, costituiscono il cardine di un’istanza di democratizzazione da parte della sfera pubblica. Il pubblico silente, attraverso il dibattito, si trasforma in pubblico capace di esprimere consenso o dissenso nei confronti delle politiche europee.

Comprensibilmente non è sufficiente che ci sia agonismo tra le parti, ma è necessario dar vita a politiche deliberative fondate sulla discussione e sul confronto. Il disaccordo è un presupposto necessario, ma non sufficiente alla nascita di un confronto discorsivo. Se il disaccordo non si articola in modo discorsivo rimane “contrapposizione” irriducibile e irrimediabile. Occorre, come si è detto, il riconoscimento dell’altro come appartenente alla medesima comunità politica. Ma esiste una simile agnizione tra le pluralità delle sfere pubbliche?

In questa prospettiva si può osservare la nascita di posizioni chiaramente europeizzate tra le diverse comunità della comunicazione. Il referendum greco, così come quello britannico hanno testimoniato come vi fosse una netta politicizzazione europea all’interno di ciascun Paese membro. Benché i quesiti fossero nazionali, le tematiche referendarie sono state dibattute all’interno delle molteplici sfere pubbliche informali come qualcosa che le coinvolgesse direttamente. In casi come questi, secondo Ruud Koopmans e Jessica Erbe[20], si può parlare di europeizzazione orizzontale. Laddove quest’ultima indica l’apertura di un pubblico nazionale verso gli altri, l’europeizzazione verticale sottolinea il rapporto che intercorre tra le sfere pubbliche europeizzate e l’UE. Un esempio può essere la tematica dell’austerity che viene posta in termini e prospettive comuni, proponendo una contrapposizione tra Stati debitori e Stati creditori che si riconoscono vicendevolmente come membri della medesima comunità politica. Allo stesso modo, si può individuare un nazionalismo cristiano e europeo contrario all’ingresso della Turchia. I movimenti “No-Euro” che sono sorti nell’eurozona avanzano delle istanze condivise e si riconoscono vicendevolmente come membri della stessa comunità e in quanto tali legittimati a prender parte al dibattito pubblico. Ciò viene attestato dal fatto che le posizioni espresse dalle singole sfere pubbliche, nei confronti di quelle degli altri Stati membri, non vengono più considerate ingerenze esterne. Appare dunque evidente la politicizzazione di queste linee di conflitto secondo prospettive europee. L’affiorare dell’opposizione alle “politiche” dell’UE implica necessariamente l’affermarsi di un soggetto in grado di muovere delle critiche: le sfere pubbliche europeizzate. Le rivendicazioni avanzate dall’euroscetticismo chiamano il centro istituzionale a giustificare le proprie decisioni nell’arena pubblica.

La discussione su quale Europa si vuole non può essere sottratta a coloro che ne fanno parte e ne subiscono passivamente le decisioni. Occorre prendere atto dalla politicizzazione – con la consapevolezza che è qui per rimanere – evitando che la prima decisione realmente deliberata dalle sfere pubbliche europeizzate possa essere quella di rinunciare all’Unione. I centri istituzionali hanno il compito di aprirsi alle istanze provenienti dalle sfere pubbliche europeizzate, dopodiché se ai cittadini informati non piace quello che vedono nell’UE, questo dovrebbe essere accettato come un normale e legittimo risultato espresso da un ordinamento democratico. Le élite sono chiamate a sostenere la loro visione dell’Europa all’interno del dibattito pubblico senza difendere l’UE al di là della forma politica assunta. Con il manifestarsi di sfere pubbliche europeizzate, l’era del consenso permissivo è probabilmente giunta al suo termine.

[1] Per approfondire la tematica della disintegrazione Cfr. W. Streeck , Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico, Milano, Feltrinelli Editore, 2013. e J. Zielonka , Disintegrazione. Come salvare l’Europa dall’Unione Europea, Bari, Editori Laterza, 2015.

[2] Cfr P. Schlesinger, Europeanisation and the Media: National Identity and the Public Sphere, in Arena 7 working paper, 1995. e D. Grimm, ‘Does Europe Need a Constitution?’, European Law Journal 1(3): pp. 282–302, 1995.

[3] Cfr. J. Habermas, Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, Bari, Editori Laterza, 2013.

[4] J. Habermas, Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, Bari, Editori Laterza, 2013, p. 425.

[5] S. Petrucciani, Democrazia, Torino, Einaudi editore, 2014, pp. 126-127

[6] Cfr. G. Majone , ‘The Credibility Crisis of Community Regulation’. Journal of Common Market Studies, Vol. 38, No. 2, 2000, pp. 273–302. eThe European Commission: The Limits of Centralization and the Perils of Parliamentarization’. Governance, Vol. 15, No. 3, 2002, pp. 375–92.

[7] Cfr. A. Moravcsik, ‘In Defense of the “Democratic Deficit”: Reassessing the Legitimacy of the European Union’. Journal of Common Market Studies, Vol. 40, No. 4, 2002, pp. 603–34. e A. Milward, ‘The European Rescue of the Nation State, Routledge, 2005.

[8] Cfr. R. Bellamy , D. Castiglione , Legitimizing the Euro-“Polity” and its “Regime”: the Normative Turn in EU Studies, « European Journal of Political Theory», 2, 2003: pp. 7-34.

[9] Cfr. A. Follesdal, S. Hix, Why There is a Democratic Deficit in the EU: A Response to Majone and Moravcsik, Eurogov Paper, N. 05, 2005.

[10] V. A. Schmidt. Democracy in Europe: The EU and National Polities, Oxford University Press, 2006.

[11] D. Grimm, Il significato della stesura di un catalogo europeo dei diritti fondamentali nell’ottica della critica dell’ipotesi di una Costituzione europea in, Diritti e Costituzione nell’Unione Europea , a cura di G. Zagrebelsky, Roma-Bari, Editori Laterza, 2005, p. 20.

[12] Ivi, p. 21.

[13] Cfr. K. Eder , C. Kantner, Transnationale Resonanzstrukturen in Europa. In Die Europaisierung nationaler Gesellschaften, edited by Maurizio Bach, Wiesbaden: Westdeutscher Verlag, 2000.

[14] J. Habermas , La democrazia ha anche una dimensione epistemica? Ricerca empirica e teoria normativa, in Il ruolo dell’intellettuale e la causa dell’Europa, Roma-Bari, Editori Laterza, 2011, p. 106. Per approfondire la tematica relativa all’apertura delle sfere pubbliche nazionali cfr. J. Habermas , Perché l’Europa ha bisogno di una costituzione?, in Tempi di passaggi, Milano, Feltrinelli Editore, 2004, pp. 57-80.

[15] Cfr. C. Calhoun, Habermas and the Public Sphere, Cambridge, Mass.: MIT, 1992.

[16] Cfr. T. Risse., European Public Spheres. Politics Is Back, Cambridge University Press, 2014.

[17] T. Risse., A Community of Europeans? Transnational Identities and Public Spheres, Ithaca, NY: Cornell University Press., 2010, p. 156.

[18] Cfr. S. Bartolini, S. Hix, Should the Union be ‘politicised’ ? Prospects and Risks in Politics: The Right or the Wrong Sort of Medicine for the EU?, Notre Europe Policy Paper; 2006/19.

[19] Cfr. K. Eder , H. Trenz, The Democratizing Dynamics of a European Public Sphere: Towards a Theory of Democratic Functionalism, in European Journal of Social Theory 7, no. 1, 2004, pp. 5-25.

[20] Cfr. R. Koopmans , J. Erbe, The Transformation of Political Mobilization and Communication in European Public Sphere. Integrated Report: Cross-National, Cross-Issue, Cross-Time. Berlin: Europub.com, 2004.