LUKÁCS SU HÖLDERLIN E IL TERMIDORO

di Michael Löwy (traduzione di Antonino Infranca)

Gli scritti di Georg Lukács negli anni Trenta, malgrado i loro limiti, le loro contraddizioni e i loro compromessi (con lo stalinismo) sono di grande interesse. È il caso soprattutto del suo saggio su Hölderlin del 1935, intitolato L’“Hyperion” de Hölderlin, tradotto in francese da Lucien Goldmann e incluso nel volume Goethe et son époque (1949).
Lukács è letteralmente affascinato dal poeta, che descrive come «uno dei poeti elegiaci più puri e profondi di tutti i tempi», in cui l’opera «ha un carattere profondamente rivoluzionario»[ref]G. Lukács, L’Hyperion de Hörderlin, p. 197 [“L’Iperione di Hölderlin” in Id., Goethe e il suo tempo, tr. it. A. Casalegno, in Id. Scritti sul realismo, Torino, Einaudi, 1978, p. 315[/ref] . Ma contrariamente all’opinione generale degli storici della letteratura, egli rifiuta ostinatamente di riconoscerlo come un autore romantico. Perché?
Dopo l’inizio degli anni Trenta, Lukács aveva compreso, con grande lucidità, che il romanticismo non era una semplice scuola letteraria ma una protesta culturale contro la civiltà capitalista, in nome dei valori – religiosi, etici, culturali – del passato. Era, allo stesso tempo, convinto che, per i riferimenti al passato, si trattasse di un fenomeno essenzialmente reazionario.
Il termine “anticapitalismo romantico” appare per la prima volta in un articolo di Lukács su Dostoevskij, dove lo scrittore russo è condannato come “reazionario”. Secondo questo articolo, pubblicato a Mosca, l’influenza di Dostoevskij risulta dalla sua capacità di trasformare i problemi dell’opposizione romantica al capitalismo in problemi “spirituali”; a partire da questa «opposizione intellettuale piccolo-borghese anticapitalista romantica (…) si apre una larga strada verso la destra, verso la reazione, oggi verso il fascismo e, al contrario, un sentiero stretto e difficile verso la sinistra, verso la rivoluzione»[ref]G.Lukacs, «Über den Dotsojevski Nachlass », Moskauer Rundschau, 22/3/1931[/ref] . Questo “sentiero stretto” sembra sparire, fino a quando scrive, tre anni più tardi, un saggio su “Nietzsche precursore dell’estetica fasciste”. Lukács presenta Nietzsche come un continuatore della tradizione dei critici romantici del capitalismo: come loro «egli contrappone continuamente alla mancanza di civiltà del suo tempo l’alta civiltà di periodi precapitalistici o protocapitalistici». A suo avviso, questa critica è reazionaria, e può facilmente condurre al fascismo[ref]G. Lukács, «Nietzsche als Vorläufer des faschistischen Aesthetik », pp. 41 e 53 (1934) [«Nietzsche precursore dell’estetica fascista » in Id. Contributi alla storia dell’estetica, tr. it. E. Picco, Milano, Feltrinelli, 1975, pp. 336 e 360[/ref] .
Si trova qui un sorprendente accecamento: Lukács non sembra percepire l’eterogeneità politica del romanticismo e, in particolare, l’esistenza, a fianco del romanticismo reazionario, che sogna un impossibile ritorno al passato, di un romanticismo rivoluzionario che aspira a una svolta dal passato, in direzione di un avvenire utopico. Questo rifiuto è ancor più sorprendente, perché l’opera dello stesso giovane Lukács, per esempio il suo saggio La teoria del romanzo (1916), appartiene a questo universo culturale romantico/utopico .
Questa corrente rivoluzionaria è presente nelle origini del movimento romantico. Prendiamo come esempio Le origini dell’ineguaglianza tra gli uomini di Jean-Jacques Rousseau (1755), che si può considerare come una sorta di primo manifesto del romanticismo politico: la sua feroce critica della società borghese, dell’ineguaglianza e della proprietà privata, si fa in nome di un passato più o meno immaginario, lo Stato di Natura (direttamente ispirato ai costumi liberi ed egualitari degli indigeni “Caraibi”). O contrariamente a ciò che pretendono i suoi avversari (Voltaire!), Rousseau non propone che gli uomini moderni ritornino alla foresta, ma sogna una nuova forma di eguale libertà dei “selvaggi”: la democrazia. Si trova il romanticismo utopico, sotto diverse forme, non soltanto in Francia ma anche in Inghilterra (Blake, Shelley) e anche in Germania: il giovane Schlegel non era un ardente partigiano della Rivoluzione francese? È il caso anche, ben inteso, di Hölderlin, poeta rivoluzionario, ma che, come molti dei romantici dopo Rousseau, è posseduto dalla “nostalgia dei giorni di un mondo originario” (ein Sehnen nach den Tagen der Urwelt) .
Lukács è obbligato a riconoscere, controvoglia, che si trovano «tratti romantico-anticapitalistici di Hölderlin, che quando egli scriveva non erano affatto reazionari» . Per esempio, l’autore dell’Iperione odia, anche lui, come i romantici, la divisione capitalistica del lavoro e la ristretta libertà politica borghese. «Eppure nel fondo del suo essere, Hölderlin non è romantico, benché molti tratti della sua critica del capitalismo incipiente lo siano»[ref]G. Lukács, L’Hyperion de Hörderlin, p. 313[/ref] . Si sente in queste righe che affermano una cosa e il suo contrario, l’imbarazzo di Lukács e la sua difficoltà a designare chiaramente la natura romantica rivoluzionaria del poeta. Questo perché in una prima epoca il romanticismo non aveva «tratti [… che] non erano affatto reazionari»? ciò vorrebbe dire che tutta la Frühromantik, il periodo iniziale del romanticismo, alla fine del XVIII secolo, non era reazionario? In questo caso, come si può proclamare che il romanticismo è, per sua natura, una corrente retrograda?
Nel suo tentativo, contro ogni evidenza, di dissociare Hölderlin dai romantici, Lukács menziona il fatto che il passato al quale essi si riferivano non è lo stesso: «La differenza tra la tematica di Hölderlin e quella dei romantici – Grecia contro medioevo – è dunque anche una differenza politico-ideologica» (p. 313). O, se molti romantici si riferiscono al medioevo, non è il caso di tutti: p. es. Rousseau, come si è visto, si ispira al modo di vita dei “Caraibi”, uomini liberi ed eguali. Si trovano, d’altronde, dei romantici reazionari che sognano l’Olimpo della Grecia classica. Se si tiene conto del cosiddetto “neo-romanticismo” della fine del XIX secolo – la continuazione del romanticismo sotto una nuova forma – si trovano autentici romantici rivoluzionari – il marxista libertario William Morris e l’anarchico Gustav Landauer – affascinati dal Medioevo.
Infatti, ciò che distingue il romanticismo rivoluzionario dal reazionario non è il tipo di passato al quale si riferisce, ma la dimensione utopica dell’avvenire. Lukács sembra non rendersene conto, in un altro passo del suo saggio, quando evoca la presenza, in Hölderlin, di un «sogno di una risorta età dell’oro» e dell’«utopia di una liberazione reale dell’umanità» . Egli percepisce anche, con perspicacia, la parentela tra Hölderlin e Rousseau: nei due trova «il sogno di una trasformazione della società», con la quale, quella sarà «ridiventata natura»[ref]Ivi, p.304-305[/ref] . Lukács è dunque preso dal rendere conto dell’ethos romantico rivoluzionario di Hölderlin, ma il suo pregiudizio ostinato contro il romanticismo, catalogato come “reazionario” per definizione, gli impedisce di raggiungere questa conclusione. È, secondo noi, uno dei principali limiti di questo saggio, altrimenti brillante …
L’altro limite riguarda piuttosto il giudizio storico-politico di Lukács sul giacobinismo ostinato – post-termidoriano – di Hölderlin, paragonato al “realismo” di Hegel: «Hegel si adatta ad essa [la situazione post-termidoriana], si adatta alla fine del periodo rivoluzionario borghese e costruisce la sua filosofia proprio sul riconoscimento di questa svolta nuova nella storia mondiale; Hölderlin rifiuta ogni compromesso con la realtà post-termidoriana, resta fedele all’antico ideale rivoluzionario di rinnovamento della democrazia ellenica e viene schiacciato da una realtà in cui per quell’ideale non c’era più posto, nemmeno sul piano filosofico e poetico». Mentre Hegel interpreta «la rivoluzione borghese come un processo unitario, del quale sia il Terrore che il Termidoro e Napoleone erano le fasi necessarie», «l’intransigenza di Hölderlin resta invece un tragico vicolo cieco: solitario Leonida degli ideali giacobini, egli cade sconosciuto e incompianto alle Termopili del termidorismo avanzanto»[ref]Ivi, p. 302-303[/ref] .
Riconosciamo che questo affresco storico, letterario e filosofico non manca di grandezza! Esso, però, non è meno problematico … E, soprattutto, contiene, implicitamente, un riferimento alla realtà del processo rivoluzionario sovietico, così come esisteva nel momento in cui Lukács redigeva il suo saggio.
È, in ogni caso, l’ipotesi, un po’ rischiosa, che ho tentato di difendere in un articolo apparso in inglese sotto il titolo “Lukács and Stalinism”, e incluso in un libro collettivo Western Marxism, a Critical Reader, London, New Left Books, 1977. L’ho incluso anche nel mio libro su Lukács pubblicato in francese nel 1976 e apparso, nel 1978, in Italia con il titolo Per una sociologia degli intellettuali rivoluzionari. Ecco un passo che riassume la mia ipotesi riguardo all’affresco storico schizzato da Lukács nell’articolo su Hölderlin: «Il significato di queste osservazioni in rapporto all’Urss del 1935, è chiaro; basterà ricordare che Trotsky aveva pubblicato, proprio nel febbraio 1935, un saggio in cui utilizzava per la prima volta il termine “Termidoro”, per caratterizzare l’evoluzione dell’Urss dopo il 1924 (Lo Stato operaio e la questione del Termidoro e del bonapartismo). Non vi sono dubbi che i brani citati, siano la risposta di Lukács a Trotsky, questo Leonida intransigente, tragico e solitario, che rifiuta il Termidoro ed è condannato all’impotenza … Lukács, invece, allo stesso modo di Hegel, accetta la fine del periodo rivoluzionario e costruisce la propria filosofia sulla comprensione della nuova svolta della storia universale. Notiamo, inoltre, che Lukács sembrerebbe accettare, implicitamente, la caratterizzazione trotskista del regime di Stalin, come termidoriano …»[ref]M. Löwy, Per una sociologia degli intellettuali rivoluzionari. L’evoluzione politica di Lukács 1909-1929, tr. it. R. Massari, Milano, La Salamandra, 1978, p. 236[/ref] .
Con un certo stupore, ho letto in un recente libro di Slavoj Zizek, un passo a proposito del saggio di Lukács su Hölderlin, che riprende, quasi parola per parola, la mia ipotesi, ma senza menzionare la fonte: «È evidente che l’analisi di Lukács è profondamente allegorica: essa è stata scritta qualche mese dopo che Trotsky lancia la sua tesi, secondo la quale lo stalinismo era il Termidoro della Rivoluzione d’Ottobre. Il testo di Lukács deve essere letto come una risposta a Trotsky: egli accetta la definizione del regime stalinista come “termidoriano”, ma in lui prende una svolta positiva. Piuttosto che deplorare la perdita di energia utopica, dovremmo, in una maniera eroicamente rassegnata, accettare le sue conseguenze come l’unico spazio reale del progresso sociale»[ref]S. Zizek, La révolution aux portes, Paris, Le Temps des Cerises, 2020, p.404[/ref] .
Non credo che Zizek abbia letto il mio libro su Lukács, ma egli probabilmente è venuto a conoscenza della mia analisi nell’articolo pubblicato nella raccolta, a grande circolazione, Western Marxism. Dato che Zizek scrive molto e molto velocemente, è comprensibile che non abbia sempre il tempo di citare le sue fonti …
Slavoj Zizek fa molte critiche a Lukács, nelle quali, paradossalmente, Lukács «diviene dopo gli anni Trenta il filosofo stalinista ideale che, per questa ragione precisa e a differenza di Brecht, passa dalla parte della vera grandezza dello stalinismo…»[ref]Ivi, p. 257[/ref] . Questo commento si trova in un capitolo del suo libro curiosamente intitolato “La grande interiorità dello stalinismo” – un titolo ispirato dall’argomento di Heidegger sulla “grandezza interiore del nazismo”, in cui Zizek si distanzia, negando, a giusto titolo, ogni “grandezza interiore” del nazismo.
Perché Lukács non ha colto questa “grandezza” dello stalinismo? Zizek non lo spiega, ma lascia capire che l’identificazione dello stalinismo con il Termidoro – proposta da Trotsky e implicitamente accettata da Lukács – era un errore. Per esempio, a suo avviso, «il 1928 fu una svolta travolgente, una vera seconda rivoluzione – non un tipo di “Termidoro”, piuttosto la radicalizzazione conseguente della Rivoluzione d’Ottobre». Morale della storia: si deve «cessare il ridicolo gioco consistente nell’opporre il terrore stalinista e l’“autentica” eredità leninista» – un vecchio argomento di Trotsky ripreso «dagli ultimi trotskysti, questi veri Hölderlin del marxismo attuale»[ref]Ivi, p. 250-252[/ref] .
Slavoj Zizek sarebbe, dunque, l’ultimo stalinista? È difficile rispondere, dato che la sua pensiero-mania, con un considerevole talento, usa i paradossi e le ambiguità. Cosa pensare delle sue grandiose proclamazioni sulla “grandezza interiore” dello stalinismo e del suo “potenziale utopico-emancipatore”? Mi sembra che sarebbe più giusto parlare della “mediocrità interiore” e del “potenziale distopico” del sistema stalinista … La riflessione di Lukács sul Termidoro mi sembra più pertinente, anche se esso stesso è discutibile.
Il mio commento, nell’articolo “Lukács e lo stalinismo” (e nel mio libro) concernente l’ambizioso affresco storico di Lukács, a proposito di Hölderlin, tenta di porre in questione la tesi della continuità tra Rivoluzione e Termidoro: «Questo testo di Lukács rappresenta indubbiamente uno dei tentativi più intelligenti e più sottili di giustificare lo stalinismo come una “fase necessaria”, “prosaica” ma “dichiaratamente progressista” dell’evoluzione rivoluzionaria del proletariato, vista come un processo unitario. Questa tesi – che costituiva probabilmente il ragionamento segreto di molti intellettuali o militanti più o meno seguaci dello stalinismo – conteneva un certo “nucleo razionale”, ma gli avvenimenti degli anni seguenti (i processi di Mosca, il patto russo-tedesco, ecc.), avrebbero dimostrato, anche a Lukács, che questo processo non era così “unitario”». Aggiungo in una nota a piè di pagina che il vecchio Lukács, in un’intervista del 1969 a New Left Review, ha una visione più lucida sull’Unione Sovietica: il suo potere d’attrazione straordinaria è durato dal “1917 alle grandi purghe” .
Ritornando a Zizek: le questioni che pone nel suo libro non sono unicamente storiche: esse riguardano la stessa possibilità di un progetto comunista emancipatore a partire dalle idee di Marx (e/o di Lenin). In effetti, secondo l’argomento che egli propone in uno dei passi più bizzarri del suo libro, lo stalinismo, con tutti i suoi orrori (che non nega) è stato, in ultima analisi, un male minore, in rapporto al progetto marxiano originale! In una nota a piè di pagina, Zizek spiega che la questione dello stalinismo è spesso mal posta: «Il problema non è che la visione marxista originale sia stata sovvertita dalle sue conseguenze inattese. Il problema è la questione stessa. Se il progetto comunista di Lenin – e dello stesso Marx – fosse stato pienamente realizzato secondo il suo vero nucleo, le cose sarebbero state ben peggiori che lo stalinismo – avremmo una visione di ciò che Adorno e Horkheimer chiamarono verwaltete Welt (la società amministrata), una società totalmente trasparente a se stessa, regolamentata dal general intellect reificato, dalla quale sarebbe stato bandita ogni velleità di autonomia e di libertà»[ref]Ivi, p. 419[/ref] .
Mi sembra che Slavoj Zizek sia troppo modesto. Perché nascondere in una nota a piè di pagina una tale scoperta storico-filosofica, la cui importanza politica è evidente? In effetti, gli avversari liberali, anticomunisti e reazionari del marxismo si limitano a renderlo colpevole dei crimini dello stalinismo. Zizek è, che io sappia, il primo a pretendere che se il progetto marxista originale si fosse realizzato pienamente, il risultato sarebbe stato peggiore che lo stalinismo …
Si deve prendere sul serio questa tesi, o piuttosto è meglio metterla sul conto del gusto smoderato di Slavoj Zizek per la provocazione? Non potrei rispondere a questa questione, ma penso alla seconda ipotesi. In ogni caso, ho qualche difficoltà a considerare come seria questa affermazione alquanto assurda – uno scetticismo senza dubbio condiviso da coloro – soprattutto giovani – che continuano ad interessarsi, ancora oggi, al progetto marxista originario.

Prolegomeni a un capitalismo francescano.

DI Fabio Vighi (Università di Cardiff)

1. Mitologie del Male
La conjuration des imbéciles è il titolo di un breve scritto di Jean Baudrillard pubblicato su Libération il 7 maggio 1997 [ref]https://www.liberation.fr/tribune/1997/05/07/opposer-a-le-pen-la-vituperation-morale-c-est-lui-laisser-le-privilege-de-l-insolence-la-conjuration_206413, traduzione dell’autore (qui e seguenti)[/ref]. Prendendo spunto dal successo politico conseguito in quegli anni da Le Pen padre, Baudrillard si scaglia contro il moralismo conformistico della sinistra, che vede legato a doppio filo all’ascesa del Front National. Due domande di quello scritto colpiscono al cuore del nostro presente: ‘È possibile oggi proferire anche solo qualcosa d’insolito, d’insolente, di eterodosso o paradossale senza essere automaticamente etichettati di estrema destra? […] Perché tutto ciò che è morale, conforme e conformista, e che era tradizionalmente di destra, è passato oggi a sinistra?’ Baudrillard sostiene che la sinistra, ‘spogliandosi di ogni energia politica’, si è trasformata in ‘una pura giurisdizione morale, incarnazione di valori universali, paladina del regno della Virtù e custode dei valori museali del Bene e del Vero, una giurisdizione che vuole responsabilizzare tutti senza dover rispondere a nessuno.’ In tale contesto, ‘l’energia politica repressa si cristallizza necessariamente altrove – nel campo nemico. E così la sinistra, incarnando il regno della Virtù, che è anche il regno della più grande ipocrisia, non può che alimentare il Male.’

La tesi di Baudrillard può essere utile a tastare il polso di un’epoca, la nostra, che ha sviluppato una vera e propria ossessione ideologica per il Male. Questo perché la mitopoietica del Male serve oggi a consolidare l’illusione della fondatezza morale del capitalismo globalizzato. Tale illusione è sempre più necessaria, poiché un sistema globale lastricato di valore e prossimo alla saturazione non può reggersi su sé stesso. Più la globalizzazione capitalista si ostina a liquidare chiunque non si adegui alle sue leggi, più tende all’implosione; e più diventa ostaggio di una logica perversa la cui regola madre è la costruzione del fantasma ideologico del nemico sanguinario.

Oggi il bubbone del Male emerge, per esempio, nella forma di un’oscena plebaglia populista, sovranista e fascistoide, quel ‘basket of deplorables’ (Hillary Clinton) che ammorba il nostro altrimenti sorridente villaggio globale, e che tutti noi “amiamo odiare”. A questa feccia si oppongono in massa le forze liberali e moderate del pianeta, che giustificano le loro battaglie attingendo a piene mani dall’inesauribile repertorio narrativo della favolistica (incluso quella hollywoodiana), in cui il Bene, appunto, lotta e infine trionfa contro il Male. La crociata umanitaria dei moralizzatori è talmente sentita da far loro dimenticare, però, che l’umanità per cui si battono è già stata massacrata, depredata, e nel migliore dei casi svenduta al miglior offerente proprio dai cavalieri dell’apocalisse liberale.

C’è una frase di Baudrillard che fotografa perfettamente l’ipocrisia cui faccio riferimento: ‘Le Pen viene criticato perché rifiuta e esclude gli immigrati, ma questo è nulla rispetto ai processi di esclusione sociale che avvengono dappertutto.’ Perché limitarsi a combattere il becero razzismo di chi respinge gli immigrati, quando la discriminazione sociale è ovunque, nelle forme dell’esclusione, della ghettizzazione, dello sfruttamento (semi-)schiavistico, della violenza e della guerra? Perché ostinarsi a vedere solo il muro sovranista, quando la globalizzazione stessa coincide con soprusi e divisioni sempre più laceranti? Forse la risposta è più semplice di quanto possa sembrare: puntare il dito contro il cattivo di turno ci protegge dalla nostra intima collusione con un sistema profondamente iniquo; ci protegge da quel razzismo strisciante, virale, codificato nel DNA delle democrazie liberali, su cui si fondano le nostre sacre identità e i nostri sacri privilegi. Come egregiamente dimostrato da Domenico Losurdo, le conquiste civili del mondo liberale si sono affermate in stretta simbiosi con le moderne tragedie della schiavitù, della deportazione, e del genocidio[ref]Domenico Losurdo, Controstoria del liberalismo (Roma-Bari: Laterza, 2005)[/ref]. Queste tragedie, se solo vogliamo vederle, si ripetono quotidianamente nel progetto neoliberista. Il paradosso che guida i virtuosismi moralistici della “buona politica”, promotrice di un capitalismo imperialista “dal volto umano (sebbene ora mascherato)”, era stato perfettamente compreso da Baudrillard:

‘Se Le Pen non esistesse, bisognerebbe inventarlo. È lui che ci libera dal lato malvagio di noi stessi, dalla quintessenza di tutto ciò che è peggio in noi. Per questo gli lanciamo un anatema. Ma guai a noi se lui scomparisse, perché la sua scomparsa scatenerebbe i nostri virus razzisti, sessisti e nazionalisti (li abbiamo tutti) o, semplicemente, la negatività omicida dell’essere sociale.’

E infatti Jean-Marie Le Pen non è scomparso; è stato semplicemente clonato in un variopinto carosello di mostri e mostriciattoli dati in pasto all’opinione pubblica per legittimare processi di distruzione socio-economica che spingono milioni di esseri umani nella miseria, nella disperazione, e nella lotta fratricida per la sopravvivenza. Ciò significa che la devastazione neoliberista si auto-sostiene non solo attraverso quella che Goethe chiamò ‘ignoranza attiva’, ma soprattutto grazie a un ipocrita dettato moralistico che immunizza chi lo promuove. Non essendo più in grado di generare alcun progresso, e non potendo più coalizzarsi contro il demone comunista, la nostra civiltà omologata e devitalizzata fa leva sul Male, cercando disperatamente di autoimmunizzarsi.

Riprendendo il tema centrale della filosofia di Roberto Esposito, diremmo che l’odierna ossessione per i vaccini debba essere letta, oltre che in chiave farmaceutico-speculativa, anche come metafora immunologica: il meccanismo della vaccinazione descrive perfettamente il funzionamento di un potere globale che si inocula agenti patogeni (immorali e antidemocratici) per stimolare la produzione di presunti anticorpi (“morali” e “democratici”). Da Le Pen a Trump, dalle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein al terrorismo islamico, fino al “programma nucleare” dell’Iran e alla narrazione pandemica del COVID-19, abbiamo di fronte una lunga serie di operazioni immunologiche attraverso cui si tenta di avallare un modello socio-economico palesemente (auto)distruttivo scaricandone la follia omicida sul malvagio di turno. Per questo motivo il potere è sempre più drogato di emergenzialismo.

In breve, il mondo governato dalla violenza del capitalismo senile ama lavarsi la cattiva coscienza attraverso un perverso ma consolidato meccanismo catartico: difendere l’umanità dal proprio Male, messo in scena, però, nel teatro delle crudeltà altrui. Come per il colonnello Kurtz di Apocalypse Now, l’escrescenza del Male è prodotta dal Bene, e dev’essere eliminata affinché questa ingombrante verità non venga a galla. Qui vale sempre l’immortale ammonimento di Max Horkheimer, che in piena seconda guerra mondiale scrisse: ‘Chi non vuole parlare di capitalismo non deve parlare nemmeno di fascismo. […] L’ordine totalitario non è altro che l’ordine precedente senza i suoi freni. […] Oggi combattere il fascismo richiamandosi al pensiero liberale significa appellarsi all’istanza attraverso cui il fascismo ha vinto[ref]Max Horkheimer, Gli ebrei e l’Europa, in Crisi della ragione e trasformazione dello Stato (Roma: Savelli, 1978), p. 55.[/ref]’

E invece ci hanno persuaso che Donald Trump, novello Kurtz, è personalmente responsabile di tutti gli orrori della terra, dalla schiavitù da cui sono nati gli Stati Uniti d’America all’ultimo “apocalittico” virus. E non importa se l’impero del Bene è colpevole dello stesso Male che attribuisce all’altro. Non importa se parliamo di due facce della stessa medaglia, poliziotto buono e poliziotto cattivo. In fondo, importa solo che il lato soft dell’intelligenza liberal non venga troppo disturbato, perché l’obiettivo è stare dalla parte giusta del Bene, dalla parte giusta dell’universalismo dei diritti (e delle sue bombe), ovvero dalla parte giusta dell’imperialismo turbo-capitalista.

L’ultima folle speranza di un modello socio-economico in lenta decomposizione qual è il nostro è affidarsi a una strategia proiettiva, per cui il tumore di sistema viene trasferito nelle intenzioni di truci soperchiatori. Una società che, nelle parole di Baudrillard, ‘sta morendo di inerzia e immunodeficienza’, ha terribilmente bisogno di ‘doppi negativi’, ovvero di una spettacolare proiezione esterna della propria cinica mediocrità. Ha bisogno cioè di una ‘figurazione burlesca, allucinatoria di questo stato latente, di questa silenziosa inerzia composta in egual misura da integrazione forzata ed esclusione sistematica.’ A proposito del lato burlesco del Male, Silvio Berlusconi è stato lo specchio deformante di un intero sistema sociale anemico e decadente, politicamente esaurito e impotente. Questo sistema aveva necessità di proiettare il proprio Vuoto su una grottesca maschera caricaturale da Commedia dell’Arte che, amplificando magnificamente quel Vuoto, potesse legittimare false o effimere opposizioni. Così il Cavaliere ha permesso ai media liberali, ai politici progressisti e alle moltitudini allo sbando di sprezzarlo pur apprezzandolo, di deriderlo pur imitandolo, di diffamarlo pur abbracciandolo, ottenendo infine dalla sua destituzione (per mano europea) l’agognata immunità morale, da rinnovarsi con l’arrivo del successivo “deplorabile”. Nella formula di Baudrillard: se non ci fossero, bisognerebbe inventarli.

2. Verso un capitalismo filantropico-francescano
Allo stesso tempo, però, i paladini del Bene tessono la tela di un futuro resettato, che amano definire più giusto, più sicuro, più resiliente, e ovviamente ammantato di energia green per tutti. Basta lanciare un’occhiata alle pagine del WEF (World Economic Forum) – che ogni anno, com’è noto, si riunisce nella bidonville svizzera di Davos – per capire ciò che ci attende: un mix micidiale di ‘economia delle piattaforme in grado di aprire la strada del benessere a miliardi di lavoratori’ (schiavizzati?)[ref]https://www.weforum.org/agenda/2020/11/digitalization-platform-economy-covid-recovery/[/ref], e ‘l’impegno di attivisti aziendali [corporate activists, sic!] capace di affrontare tutte le sfide del nostro tempo, dal cambiamento climatico alle discriminazioni sociali e razziali’, grazie al motto dal sapore decisamente francescano di: ‘Credi in qualcosa, anche se significa sacrificare tutto’ (milioni di vite umane?)[ref]https://www.weforum.org/agenda/2020/11/the-world-needs-corporate-activists-with-these-5-steps-you-can-become-one/[/ref] .

‘Benvenuti nel 2030. Non possiedo nulla, non ho privacy, e la vita non è mai stata migliore.’ Non è una crudele parodia, ma il titolo, anch’esso molto francescano, di un breve testo di Ida Auken (ex ministro per l’ambiente e ora membro del “Partito Social Liberale” danese) apparso l’11 novembre 2016 sul sito del WEF[ref]https://www.weforum.org/agenda/2016/11/shopping-i-can-t-really-remember-what-that-is/ (Il titolo è stato recentemente cambiato.)[/ref]. Detto sommariamente, la Auken, anima vivace della sinistra neo-futurista, ci racconta del “comunismo” che verrà[ref]https://www.weforum.org/agenda/2016/11/shopping-i-can-t-really-remember-what-that-is/[/ref] . A breve abiteremo in città modello in cui ‘non possederemo nulla – né casa, né auto, né elettrodomestici’. La nostra proprietà privata sarà dunque realmente abolita. E ne saremo felici, perché nella città dei servizi digitalizzati, affrancata da traffico e smog, ‘avremo liberamente accesso a ogni cosa’. Nessun bisogno di ‘pagare l’affitto’, perché quando saremo fuori a girare in bicicletta o a raccogliere margherite ‘qualcun’altro utilizzerà il nostro spazio’ (comunismo vero!). Lo shopping sarà un lontano ricordo, perché ‘un algoritmo sceglierà le cose da comprare’, visto che ‘conoscerà i miei gusti meglio di me’. Anche il lavoro muterà in qualcosa di piacevole: ‘tempo per pensare, tempo creativo, tempo per la formazione’. E nonostante la Auken si dica ‘preoccupata per tutte le persone che avranno deciso di non vivere in questa città’ e che ‘si saranno perse per strada’, magari ostinandosi a occupare ‘case abbandonate di paesini del diciannovesimo secolo’, o a formare ‘piccole comunità autogestite’; e per quanto, scrive, ‘di tanto in tanto troverò fastidioso non avere alcuno spazio privato’ sapendo che ‘tutto quel faccio, penso o sogno [sic!] viene registrato da qualche parte’ – nonostante queste piccole complicazioni, insomma, ‘la vita sarà senz’altro migliore’, perché avremo sconfitto ‘tutte le cose terribili che ci stavano accadendo: malattie legate al nostro stile di vita, cambiamenti climatici, crisi migratorie, degrado ambientale, città congestionate, inquinamento idrico e atmosferico, disordini sociali e disoccupazione.’

Basta un piccolo sforzo dell’immaginazione per capire che questa favoletta utopistica è in realtà un perfetto controcanto distopico, per il semplice motivo che se noi non possederemo più nulla sarà perché, dopo aver “disciplinato” i poveri e spolpato il ceto medio, l’élite mondiale avrà in mano davvero tutto. Già ora, in piena ristrutturazione da pandemia, ai paesi a rischio default, così come ai lavoratori lasciati senza reddito, vengono “in aiuto” i grandi istituti finanziari neoliberisti (FMI, World Bank, ecc.) – gli stessi che sponsorizzano i lockdown più draconiani[ref] Si veda il secondo capitolo del ‘World Economic Outlook’ pubblicato dal FMI a ottobre 2020: https://www.imf.org/en/Publications/WEO/Issues/2020/09/30/world-economic-outlook-october-2020[/ref] – pronti a sottometterci a forza di generosi prestiti. Come scrisse Daniel Guérin nel 1936: ‘Quando la crisi economica […] si manifesta in forma particolarmente acuta, quando il tasso di profitto tende a zero, essa non vede altra via d’uscita, altro mezzo per rimettere in marcia il meccanismo del profitto, se non quello di vuotare sino all’ultimo soldo le tasche – già poco fornite – dei poveracci che costituiscono la “massa”[ref]Daniel Guérin, Fascismo e grandi capitali (Roma: Erre emme edizioni, 1994), p. 58[/ref].’ Possibile non vedere che alla base della presente ‘distruzione creativa’ (Schumpeter) da coronavirus non c’è altro che un nuovo “fascismo dei grandi capitali”, per parafrasare il titolo del libro di Guérin? L’obiettivo dello psicodramma pandemico piovutoci addosso è la devastazione di ciò che rimane dell’economia reale, finalizzata alla stipulazione di un nuovo contratto sociale leviatanico (il Great Reset) in cui la nostra sopravvivenza dipenderà dall’intervento “caritatevole” di istituti monetari sovranazionali che, come conferma appunto la Auken, ci spoglieranno di ogni bene e vigileranno persino sui nostri sogni.

In questo scenario, le imprese tecnologicamente più arretrate e meno produttive sono portate alla bancarotta e assorbite dai monopòli. I lavoratori autonomi e precari spariscono nel nulla. Nel migliore dei casi, la massa crescente di disoccupati viene “riscattata” da un reddito di base universale, miserrimo ma sufficiente a costringerla all’eterna gratitudine verso i benefattori. Qualche pezzo di debito sovrano verrà forse bonificato, in cambio però della consegna di beni pubblici agli istituti finanziari che guidano le grandi manovre. E alla fine di ogni anno ci sarà sempre il santo Natale a restituirci un vago senso di fratellanza, magari grazie al temporaneo allentamento di bizantine misure restrittive. Questa transizione verso un capitalismo totalitario servito in salsa filantropico-francescana viene fatta digerire alle masse attraverso irresistibili narrazioni catastrofico-salvifiche, strumento ideale di una propaganda securitaria che spaccia l’Armageddon sociale come atto umanitario.

La distruzione di ampi settori dell’economia reale e, insieme, la draconiana profilassi sociale contrabbandata come profilassi sanitaria, sono fenomeni interni al folle vortice espansivo del capitale, che per indole non si preoccupa di nulla, tantomeno di chi rimane schiacciato dai cambiamenti. Come Marx aveva osservato, il modo di produzione capitalistico, essendo una soggettività automatica, non ha remore a distruggere le fonti stesse del valore, ossia i lavoratori salariati da una parte, e la terra o risorse naturali dall’altra. “New normal” significa appunto rimodellare l’umanità in modo che transiti obbediente, e magari riconoscente, verso l’inferno del Capitalismo 4.0, quello della quarta rivoluzione industriale. La governance globale in materia di bio-sicurezza è oggi l’espressione più evidente di questo dispotismo assai poco illuminato, che trova nel cosiddetto stakeholder capitalism la sua perfetta incarnazione economica: nello spartirsi gli utili borsistici, manager e azionisti delle grandi multinazionali gestiscono anche un possente fronte politico-mediatico intriso di filantropia e sensibilità sociale.

Eccoci giunti al paradosso dei paradossi: lo 0,1% – i vincitori della globalizzazione, ovvero la classe più predatoria dell’intera storia umana (da Bill Gates a Warren Buffett, Bill Clinton, Mark Zuckerberg, George Soros, ecc.) – che si impegna socialmente a sostenere cause nobili come la salute e la lotta contro la fame nel mondo! Grazie a donazioni erogate dalle loro munifiche fondazioni, i profeti del filantro-capitalismo esercitano un’influenza sempre più tirannica sui governi e le loro fragili istituzioni. La stessa Chiesa di Papa Francesco, comportandosi come ha quasi sempre fatto nella sua lunga storia, promuove la causa del potere secolare, oggi cinicamente travestito da ‘capitalismo inclusivo, che non lascia indietro nessuno’[ref]https://www.inclusivecapitalism.com/ [/ref]. Si tratta di un diabolico intreccio di denaro, potere e alleanze lobbystiche che vuole ergersi a nuova morale universale, togliendo così alla politica anche le ultime briciole di autonomia, al punto che le democrazie di tutto il pianeta ormai accolgono i filantro-predatori a braccia aperte, senza nemmeno più fare domande. E se il ricatto morale funziona, ciò significa anche che l’implosione capitalista non è necessariamente esplosiva: non produce automaticamente contraddizioni e potenzialità rivoluzionarie, come ingenuamente credono ancora molti marxisti. Piuttosto, nella sua fase attuale l’implosione del capitalismo genera una subdola forma di deterrenza di stampo fascista, in cui appunto lo Stato (insieme alla Chiesa) promuove gli interessi delle élites finanziarie. Sottovalutare questa deriva è oggi l’errore più grande che si possa commettere.

Henrik Ibsen – Casa di bambola

A partire dal capolavoro di Ibsen, “Casa di bambola”, la scrittrice Antonella Nocera dialoga con due studentesse liceali sul ruolo della donna nella società borghese.

BENJAMIN, BAUDELAIRE E LA MODERNITÀ. Una voce critica nella folla.

Il 26 settembre 1940 moriva il filosofo marxista ebreo e «eretico» Walter Benjamin (1889-1940), a Port Bou, sulla costa atlantica della Spagna, in fuga dalla persecuzione nazista, e in vana attesa d’imbarcarsi per gli Stati Uniti, dove l’attendevano a New York gli amici Max Horkheimer e Theodor W. Adono, nel ricostituito il nucleo dell’Institut für Sozialforschung di Francoforte, soppresso nel 1933 dal regime nazista. Quando Benjamin si tolse la vita con un’overdose di morfina, portava con sé i manoscritti dell’ultima opera, dedicata a Baudelaire e ai Passages di Parigi. A ottant’anni dalla scomparsa, oggi il suo lascito intellettuale non cessa di suscitare interesse per l’ampiezza e la profondità di vedute su temi filosofici fondamentali, ancora oggi. In particolare, il tema della «modernità» (termine forgiato da Baudelaire), la quale, malgrado le sirene del «postmodernismo», è ancora la nostra, nei primi decenni del ventunesimo secolo.
Tra i molteplici temi affrontati da Benjamin, il maggiore è dunque senz’altro la critica della modernità capitalistica, che trova espressione letteraria nell’opera del maggiore poeta della «Parigi capitale del secolo XIX», Charles Baudelaire (1821-1867). La recente edizione degli scritti dell’ultimo Benjamin, fornita da G. Agamben, B. Chitussi e C.-C. Härle : Charles Baudelaire. Un poeta lirico nell’età del capitalismo avanzato (Vicenza, Neri Pozza, 2012) ha offerto una nuova immagine del già noto autore delle tesi Sul concetto di storia, nelle vesti di critico letterario e insieme di filosofo critico della società capitalistica degli ultimi decenni del XIX secolo. Perché Baudelaire? Anzitutto per l’attenzione che il poeta presta ai soggetti marginali della società, nei poemetti in prosa, Lo Spleen di Parigi (1864-1869), con la sensibilità rivolta alle stridenti contraddizioni sociali, più visibili che altrove, nella Ville Lumière.
Dietro il celebre énivrez-vous! di Baudelaire («Ubriacatevi! Per non sentire l’orribile fardello del Tempo che vi spezza la schiena […] ubriacatevi sempre! Di vino, di poesia o di virtù, come vi pare»), c’è la liberazione dal tempo del lavoro meccanizzato che nell’intellettuale poeta, godendo questi appunto del privilegio di avvalersi del prodotto del plusvalore liberato (il «tempo libero»), si rovescia nella noia, lo spleen legato al vuoto dell’alienazione, del meccanico ripetersi delle ore (pendant della ripetitività dei gesti lavorativi), la solitudine della folla nella grande città. Per il Baudelaire letto da Benjamin la folla «cominciava a organizzarsi come pubblico. Assurgeva al ruolo di committente e voleva ritrovarsi nel romanzo contemporaneo, come i fondatori dei quadri del Medioevo». Baudelaire è qui la voce critica nella folla, la quale sta sullo sfondo di molti suoi poemi («La sua folla è sempre quella della metropoli; la sua Parigi è sempre sovrappopolata… la massa era il velo fluttuante attraverso il quale Baudelaire vedeva Parigi»). La folla è la massa anonima della metropoli, e lo choc cui soggiace il passante (flâneur) che si lascia trascinare dal suo flusso, è la modalità nuova d’esperienza del moderno.
Choc e spleen sono i tratti comuni della società occidentale moderna nell’età del capitalismo avanzato. «A una passante» è il titolo della più suggestiva tra le poesie dei Fiori del male, che attirò l’attenzione anche di Proust (per la figura di Albertine, nella Recherche): una donna bellissima, alta, snella, velata a lutto, attraversa la folla in senso contrario a quello del flâneur, lo urta, lui ne cade perdutamente innamorato («Un lampo… poi la notte! – Fuggitiva bellezza/ il cui sguardo m’ha fatto improvvisamente rivivere, / non ti rivedrò che nell’eternità?/ Altrove, ben lontano da qui, tardi, troppo tardi, forse mai!/ Io non so dove fuggi, tu ignori dove io vada, / O te che avrei amato, o te che lo sapevi!»). Benjamin vede condensata in questa esperienza lo choc dell’incontro, della «catastrofe» che colpisce il soggetto moderno, nella società industriale, con la sua estraneazione rispetto al proprio stesso desiderare e sentire: «L’estasi del cittadino è un amore non tanto al primo, quanto all’ultimo sguardo. È un congedo per sempre che coincide, nella poesia, con l’attimo dell’incanto. Così il sonetto presenta lo schema di uno choc, anzi lo schema di una catastrofe. Ma essa ha colpito, insieme al soggetto, anche la natura del suo sentimento. Ciò che contrae convulsamente il corpo del poeta non è la beatitudine di colui che è invaso dall’eros in tutte le stanze del suo essere; ma ha piuttosto qualcosa dell’imbarazzo sessuale, come può sorprendere il solitario… Questi versi… fanno emergere le stimmate che la vita in una grande città infligge all’amore».
In questo esempio si scorge in modo esemplare la grandezza dell’opera di Benjamin, la sua preziosa eredità consegnata al nostro secolo, che sta in questa capacità di voce e di sguardo critico lanciato tra le pieghe della realtà; in una «modernità» – Baudelaire la definiva «il transitorio, il fuggitivo, il contingente, la metà dell’arte, di cui l’altra metà è l’eterno e l’immutabile» – ferita dalle «stimmate» della vita nelle grandi metropoli. La modernità capitalistica cittadina ha prodotto una nuova forma di esperienza (choc, spleen, estraneazione ecc.), che Benjamin sottopone a una critica serrata, critica della vita quotidiana dalla prospettiva di un pensiero radicale che tenne ben ferma, allora, la necessità del «freno di emergenza», il freno socialista e comunista della rivoluzione.

L’articolo è uscito in precedenza per l’ «Avanti» del 21/12/2020

Engels e il comunismo primitivo. Commento sul libro “L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato”

di Michael Löwy*

(traduzione di Antonino Infranca)

Nel novembre 2020 i socialisti del mondo intero hanno celebrato il bicentenario della nascita di Friedrich Engels. È un errore, ripetuto frequentemente, considerare Engels semplicemente come un divulgatore delle idee di Marx. Non soltanto egli ha contribuito, insieme a Marx nel 1844-48, alla formazione di una nuova visione del mondo – la filosofia della prassi o materialismo storico – ma ha sviluppato analisi su temi a cui Marx non si dedicò o non ebbe l’opportunità di studiare. Uno di questi è la questione del comunismo primitivo – che non è assente in Marx, soprattutto nei suoi Quaderni antropologici inediti

Perché la Fiat licenzia MicroMega (la fredda legge della Repubblica della fabbrica)

di Antonio Cecere

Abbiamo appreso dalla stampa che la dirigenza di «GEDI» licenzia la storia e l’esperienza intellettuale della redazione di MicroMega. La notizia arriva fulminea, ma nessuno deve rimanere stupito, perché MicroMega è il baluardo della sinistra illuminista, quella Repubblica delle lettere che sappiamo bene essere incompatibile con la Repubblica della fabbrica.

Il “dio sporco”

Con questo epiteto, non ingiurioso bensì elogiativo, Eduardo Galeano chiamava Maradona, e potremmo pensare che si riferisse alla sua faccia da cabecita negra (piccola testa negra), come vengono chiamati coloro che vivono nelle villas miserias, le baraccopoli, attorno a Buenos Aires. Anche altri calciatori latinoamericani, anzi più precisamente argentini, venuti a giocare in Italia alla fine degli anni Cinquanta, erano stati chiamati in Italia “gli angeli dalla faccia sporca”. In realtà Galeano spiegava: «Maradona è diventato una specie di Dio sporco, il più umano degli dei. Questo forse spiega la venerazione universale che ha conquistato, più di ogni altro giocatore. Un Dio sporco che ci assomiglia: donnaiolo, chiacchierone, ubriacone, divoratore, irresponsabile, bugiardo, fanfarone». Come dare torto a Galeano, alla coscienza civile dell’America latina?
In effetti Maradona è stato l’espressione più giocosa dell’essere argentino. Per questa ragione Maradona è appartenuto al popolo. Se Fichte avesse conosciuto il calcio – come capiterà ad Heidegger – avrebbe detto che Maradona era l’esempio più tipico della sua Zusammengehörigkeit (co-appartenenza). Heidegger riutilizzerà quel termine a proposito di se stesso e della sua appartenenza alle montagne bavaresi, non avrebbe potuto utilizzarlo per il calciatore che amava, il Kaiser Franz Beckenbauer, perché Beckenbauer non apparteneva a nessuno, se non a se stesso. Nessun calciatore è appartenuto al popolo, eccetto Maradona e Garrincha, entrambi hanno finito la loro vita malamente. Garrincha, addirittura, è tornato da dove era partita la sua avventura nel mondo calcistico, in una favela, Maradona lo ha evitato.
Appartenere al popolo in Argentina e in America latina significa conoscere l’esclusione, la miseria, la fame. Maradona lo ha sempre riconosciuto: lui è nato povero, anzi era orgoglioso della sua nascita in povertà. Non è un caso che è stato tifoso del Boca Juniors, la squadra dei poveri, e amato da una città italiana destinata all’esclusione: Napoli. Non poteva esserci miscela più esplosiva di un argentino, nato povero, che si trasferisce al Napoli. Ci aveva provato Omar Sivori, ma il calcio italiano degli anni Sessanta non tollerava l’idea che lo scudetto non finisse tra Milano e Torino. Con Maradona fu impossibile negargli lo scudetto, anzi ne vinse due, come al solito esagerò! Proprio per l’esclusione dal calcio dalla quale Maradona la tirò fuori, Napoli l’ha amato come il migliore dei suoi figli. Addirittura qualcuno pensò che l’esclusione fosse finita definitivamente, ma il Milan di Berlusconi riportò le cose al loro luogo “naturale”.
Maradona ha incarnato il mito argentino e latinoamericano, è stato come un dio greco, ma un dio sporco, ma a differenza degli dei greci ha creato ossimori. Un ossimoro è la categoria tipica della letteratura latinoamericana, il “realismo magico”, un ossimoro è il calcio giocato da Maradona. Nel calcio sempre più geometrico e collettivo dei tempi moderni, lui ha imposto un gioco senza alcuna razionalità, fondato su un solo schema: «Datemi la palla e ci penso io». È un ossimoro calcistico una squadra che si affida a un solo uomo, ed è una verità incontrovertibile, eccetto in un solo caso, quando giocava Maradona, testimonianza sono i Mondiali del 1986, che vinse praticamente da solo. Anche ai Mondiali italiani del 1990, per giunta infortunato ad una gamba, portò l’Argentina in finale, ma il “cerchio magico” del calcio mondiale non poteva permettere all’Argentina e a Maradona di vincere due volte di seguito il Mondiale e poi bisognava dare alla Germania neo-riunificata qualcosa da festeggiare.
Maradona non ha giocato quasi mai con compagni del suo livello, cosa che invece hanno fatto Pelé o Cruyff, che al più è stato un primus inter pares, un dio solitario. Ma, come ho appena scritto, lui bastava, anzi era anche di troppo, visto come ha terminato la sua carriera: fuggendo. Anche questo è stato molto argentino, ha vissuto quasi sempre la condizione del destierro (dello sradicamento), è stato un vagabondo, anche nella vita post-calcistica. Gli argentini si sentono prestati alla loro terra, loro discendono de los barcos (dalle navi), si sentono sempre immigrati, hanno sempre la valigia in mano, è la loro Bestimmung (destinazione o determinazione), sono sempre pronti alla Schicksalswende (la svolta del destino). Adesso Maradona ha lasciato la valigia, il suo destino non ha più svolte.

Fin qui ho scritto le mie riflessioni alla notizia della sua morte. Una ventina di anni fa, mentre vivevo a Buenos Aires, scrissi una recensione alla sua autobiografia Yo soy el Diego (Io sono il Diego) che uscì su La Rinascita. L’ho riletta e l’ho trovata ancora attuale, forse anche troppo attuale. La ripropongo con qualche leggera variazione:
Maradona è condannato al successo e non solo da calciatore. Come scrittore può vantare un successo di vendite da fare morire di invidia autori come Eco, García Marquez, Coelho, King. Nella sola prima settimana di vendite la sua autobiografia è stata acquistata in 125.000 copie in un paese come l’Argentina (36 milioni di abitanti), che raramente concede successi editoriali di questo genere. Ma il villero, cioè il nato in una villa miseria, fin dalla nascita era destinato al successo in qualsiasi attività che avesse intrapreso, ad esclusione della vita quotidiana, dove conduce una solitaria lotta alla droga. È un paradosso, ma Maradona è un personaggio paradossale, così non si direbbe invece del calciatore, sempre capace di risolvere situazioni di gioco in modo fantasioso, estroso, in una sola parola bello.
La lettura dell’autobiografia di Maradona mette di fronte alla descrizione di un carattere piuttosto che di un calciatore. Chi la leggesse per trovarvi segreti del gioco del calcio, oppure la descrizione tecnica di qualcuna delle formidabili giocate del suo autore o la narrazione aneddotica di qualche episodio di gioco rimarrà deluso. L’autobiografia di Maradona è la esatta narrazione della sua vita, cioè una lunga serie di lotte personali, che somigliano più a liti che a battaglie. Non c’è dubbio che il carattere, privo di diplomazia, ha spinto Maradona in questa interminabile serie di scontri. Un esempio lo dà quando narra della sua sfrontatezza di fronte allo stesso Papa, Giovanni Paolo II. Prima di narrare l’episodio, cita la ricchezza della Chiesa, la vicenda del Banco Ambrosiano e le parole del papa rivolte ai bambini poveri e poi rimane incantato, perché il papa gli diede un rosario dicendogli che era un dono speciale per lui. Ma una volta controllato che il suo era identico a quello che era stato offerto alla madre, ritorna e chiede al papa: «”Scusi, Sua Santità, qual è la differenza tra il mio e quello di mia madre?». Non mi ha risposto … Mi ha soltanto guardato, mi ha battuto la mano sulla spalla, ha sorriso, nient’altro! Diego, non rompere le palle e prenditelo che ho gente che mi aspetta, questo mi ha detto con la battuta sulla spalla» (p. 140). Forse Maradona avrà imparato che in certi ambienti e con certi personaggi anche Maradona non è che uno come gli altri?
Gli aspetti del carattere di Maradona, che in campo erano positivi, quali l’irriverenza mai irrispettosa verso qualsiasi avversario, la voglia di giocare sempre al livello che egli solo sapeva raggiungere, l’impegno a vincere qualsiasi partita, in una sola parola l’essere picaro nei significati sia positivi che negativi, erano certamente insopportabili fuori del campo di gioco, dove a tutti gli sportivi si chiede di tornare ad essere persone normali. È comprensibile che chi viene da Villa Fiorito, la villa miseria dove nacque Maradona 40 anni fa, e conquista il mondo correndo dietro ad una palla, o meglio facendo correre la palla dove lui voleva, finisce, poi, per credere di avere una missione speciale nel mondo. Da qui il titolo gridato: «Io sono il Diego della gente!». Il calcio è per Maradona uno strumento per la rivelazione di questa missione. È così inevitabile che il Maradona calciatore compaia nell’autobiografia sempre unito all’uomo e la sintesi non si rivela felice.
In campo incantava la gente anche per la sua correttezza del gioco, perché di solito lo si vedeva a terra a prendere calci da chi non riusciva a contenere la sua bravura, ma era sempre pronto a risollevarsi senza polemiche e a riprendere a giocare come se niente fosse. In sole due occasioni si rese protagonista di gesti aggressivi verso gli avversari, entrambe per lo stesso motivo: mancanza di rispetto alla sua eccelsa bravura. Una nella partita dei Mondiale del 1982 tra Argentina e Brasile, quando scalciò l’incolpevole Batista, perché i brasiliani passandogli la palla lo ridussero al ruolo del “torello”, come si dice in termini calcistici; l’altra nel 1984 nella finale della Copa del Rey tra Barcellona e Atletico di Madrid, per lo stesso motivo. La seconda volta furono botte da orbi tra le due squadre sotto gli occhi sbalorditi del re di Spagna. Il suo commento è molto eloquente: «Dopo ho avuto molta vergogna a causa del re. Chiaro, il re Juan Carlos stava lì, nel palco d’onore, era la sua Coppa, e noi ci stavamo ammazzando di botte. Mi ha fatto pena per lui, perché lui mi piaceva molto, mi era simpatico» (p. 82). Prima di questo scandalo, lo stesso Maradona ricorda di essere stato ricevuto al palazzo reale e di essersi fermato a parlare con il re per un’ora e mezza, invece dei soliti venti minuti del cerimoniale. Il Barcellona, dopo quello sfogo, si liberò di lui, vendendolo al Napoli, probabilmente era già nota la sua dipendenza dalla cocaina. I catalani sono freddi, razionali, cortesi, non potevano sopportare uno spirito perennemente fuori dalle righe, come il suo. Così Maradona arrivo in Italia, anzi a Napoli.
Un altro episodio da ricordare riguarda noi italiani più direttamente. La sua famosa dichiarazione alla vigilia di Italia-Argentina nel mondiale del 1990, quando dichiarò: «”Mi disgusta che adesso tutti chiedano ai napoletani che siano italiani e che sostengano la Nazionale … Napoli è stata emarginata dal resto d’Italia. L’hanno condannato al razzismo più ingiusto”. Non volevo sollevare i napoletani contro l’Italia, affatto, ma stavo dicendo la verità» (p. 181). Classica giustificazione di un adolescente mal cresciuto, che non ha il minimo senso dell’opportunità e della situazione. Molto più maturi furono proprio i napoletani che gli risposero: «Tiferemo perché vinca l’Italia, ma rispettando e applaudendo gli argentini». Lo stesso Maradona riconosce che fu la prima volta che l’inno nazionale argentino fu applaudito in quel mondiale. Ma non si chiese cosa stavano pensando gli italiani d’Argentina, i milioni di tanos, come ci chiamano in Argentina, parola che viene da napolitanos? Si era dimenticato che l’Italia in Argentina è chiamata la “segunda madrepatria”. Purtroppo nella finale di Roma, i soliti cretini accolsero l’Argentina con i fischi e a Buenos Aires altrettanti cretini posero una bomba nel consolato italiano e ci furono manifestazioni aggressive nei confronti della numerosissima colonia italiana. Sono dovuti passare dieci anni per fare dimenticare quelle stupide parole e quelle ancor più stupide conseguenze.
Il suo carattere per molti aspetti è molto simile a quello dell’argentino medio, con una mescolanza di contrasti che può essere attrattiva, ma anche scostante. Generoso e arrogante, rispettoso e insopportabile, amichevole con chi gli è devoto e astioso con chi non lo ammira, altruista ed egocentrico, coraggioso e sfrontato, privo di senso delle cose e degli uomini, in una sola parola picador (il cavaliere che molesta il toro, prima che il torero entri nell’arena). Viene da chiedersi: sarà stato un buon esempio fuori del campo per gli argentini? Se lo si confronta con Pelé come esempio di correttezza sportiva e professionale dentro e fuori del campo, perde senza dubbio il confronto, ma non lo perde dentro il campo di gioco. A proposito di Pelé il giudizio di Maradona va riportato: «Come giocatore è stato il massimo, ma non ne ha saputo approfittare per esaltare il calcio. Ha pensato politicamente, ha pensato che poteva essere il presidente dei brasiliani. E non credo che un calciatore, o un ex calciatore, debba pensare ad essere presidente di un paese. Mi sarebbe piaciuto che si fosse proposto, come ho fatto io, a presiedere un’associazione che difendesse i diritti dei giocatori, che si fosse occupato di Garrincha e non lo lasciasse morire nella miseria, che lottasse contro tutte le azioni dei potenti che ci pregiudicano. Non mi confronto con lui, l’ho sempre detto e lo ripeto. E quando dico che non mi confronto, non parlo soltanto di questioni calcistiche. Ho avuto la possibilità di incontrarmi con lui diverse volte. […] Era una questione di pelle, cozzavamo troppo; ci vedevamo e saltavano le scintille» (p. 284). Non manca un fondo di verità nelle parole di Maradona, ma molte pagine prima nel libro lui stesso ricorda che Pelé, quando era coinvolto nello scandalo della droga a Napoli, gli aveva augurato di tornare a giocare.
Sulla droga, altro motivo per cui sarà sempre ricordato, si assume tutte le personali responsabilità, ma giustamente afferma che la lotta dei governi contro la droga è blanda, per interessi complessi che inducono i governi a tollerare l’esistenza dei drogati (p. 80). Sull’impegno a difendere i diritti dei calciatori, sostiene che in fondo lo spettacolo lo fanno i giocatori e che i dirigenti ne approfittano per i loro affari. Sono verità che è difficile porre in discussione, ma incomprensibile rimane quella lunga lista di nemici, come se tutto il mondo l’avesse con lui; anche se riconosce che il mondo lo ha beneficiato, dandogli la possibilità di vivere una vita fantastica. In fondo ha sempre dovuto giocare contro qualcuno, contro qualcosa. La più bella giocata della storia del calcio la fece, ovviamente, lui e la fece contro l’Inghilterra, ai Mondiali del 1986 in Messico, che aveva umiliato la sua Argentina nella guerra delle Falklands/Malvinas, soltanto quattro anni prima. E quella giocata fu preceduta da più famoso goal della storia del calcio; famoso perché un segnato da un Dio, un Dio sporco, si tratta del goal fatto con la mano de Dios.
La sua franchezza, anche sfrontata, è in contraddizione con l’amicizia di quei potenti che nulla fanno o hanno fatto per migliorare le condizioni della gente che non ha avuto la sua fortuna. Si dichiara così amico di Menem, a cui dedica il libro, mettendolo nella dedica insieme a Fidel Castro, che ammira e a cui deve la vita: «Per il fatto di essere vivo devo ringraziare il Barba (Dio) e … il Barba (Fidel)» (p. 298). Ammirazione incondizionata dichiara di avere per Ernesto Che Guevara, che ha scoperto proprio in Italia. Il suo orgoglio di argentino è stata la molla che lo ha spinto ad ammirare il Che. Un suo giudizio su Videla e il Che è del tutto condivisibile: «Gente come Videla, che ha fatto sparire 30.000 persone, non meritano nulla. Molto meno sporcare il ricordo del trionfo di una gran massa di ragazzi … [a proposito del Mondiale del 1978] … Per questo dico: si lamentano di me, dicono che sono contraddittorio, e il nostro paese? Nel nostro paese c’è ancora gente che difende Videla e sono molti meno coloro che difendono il Che. Molti di meno! Non lo conoscono affatto. Gente come Videla hanno agito in modo tale che il nome dell’Argentina all’estero rimanga sporco; invece, quello del Che ci dovrebbe far sentire orgogliosi» (p. 36).
Forse Maradona sarebbe dovuto rimanere ancora in campo e le sue contraddizioni le si sarebbero perdonate più facilmente. Nonostante dica: «La gente deve intendere che Maradona non è una macchina che dà felicità» (p. 66), non c’è dubbio che alcune sue giocate fanno parte dell’immaginario di tanta gente in tutto il mondo, che per questo lo ringrazia ancora.

Albert Camus – Lo straniero

Incontro dedicato a “Lo straniero” di Albert Camus, con i commenti di Francesca Pesce (Liceo Benedetto da Norcia – Roma), Valentina Paloni (Liceo Benedetto da Norcia – Roma) e Luca Millozzi (Liceo Spallanzani – Tivoli). Interverrà Antonina Nocera, saggista e critica letteraria (di recente ha pubblicato “Metafisica del sottosuolo”, 2020).