Albert Camus – Lo straniero

Incontro dedicato a “Lo straniero” di Albert Camus, con i commenti di Francesca Pesce (Liceo Benedetto da Norcia – Roma), Valentina Paloni (Liceo Benedetto da Norcia – Roma) e Luca Millozzi (Liceo Spallanzani – Tivoli). Interverrà Antonina Nocera, saggista e critica letteraria (di recente ha pubblicato “Metafisica del sottosuolo”, 2020).

 

Su “Presidenziali USA 2020: i sintomi per ora scompaiono, la crisi resta” di Giorgio Cesarale

Il breve ma come sempre acuto, informato e ben strutturato, pezzo di Giorgio Cesarale sulle recenti elezioni americane invita a una discussione, che cercherò da parte mia di tenere il più possibile nella cornice dei problemi lì indicati, per cercar di arricchire il quadro muovendo da punti di vista diversi, per approfondire qualche tema e aggiungerne pochi altri.

  1. La felice, fortunata e alla fine anche inaspettata, vittoria di Biden alle ultime elezioni americane è un esito vincente con dentro il frutto avvelenato (non dico proprio che si tratti di dona dei Danai) di un successo anche del perdente Trump, gonfio di oltre 70 milioni di elettori, in una competizione – non è un fatto irrilevante – che ha visto un numero straordinariamente alto di votanti. Chi ha vinto, chi ha perso, e come, che si deve fare oggi? La vittoria, dice GC, è del «centro liberale», da Clinton a Obama (tra i quali senza rovesciare il giudizio porrei qualche distinzione) che sarebbe riuscito nel vecchio gioco di tagliare le ali estreme dello schieramento politico, e perciò sia l’inqualificabile Trump che la sinistra, la quale, priva di apertura a nuovi corsi e di velleità riformistiche, fosse pur solo da anni ‘60, sarebbe stata confinata in quel recinto delle compatibilità di sistema che sta a guardia di Wall Street. Se Biden ha mostrato qualche sensibilità sociale in più rispetto alla Clinton, nella sostanza è, contro facili illusioni, un politico per cui «nothing would fundamentally change». La rincorsa a destra sarebbe stata impedita solo dalla teratologia trumpiana, messa per altro a nudo, dalle sue scelte a favore dei ricchi, dai suoi inopinati ritorni a Reagan e dalla disastrosa gestione della pandemia.
  2.    Un discorso ricco di spunti, ben connesso e coerente, di classica ispirazione. La conventio ad escludentum è un gioco così classico e implacabile da non poter essere a sua volta escluso dal nostro caso. E «nondimanco», è possibile forse anche ragionare diversamente, chiamare in causa altri sensi, non di necessità in tutto contrapposti a questi. Una prima lezione del nostro evento, si potrebbe argomentare, non è forse proprio la scomparsa politica del «centro»? Le tradizionali istanze moderate della liberaldemocrazia, le diversità politiche in campo repubblicano e le classiche distinzioni dei democratici tra destra e sinistra sono state messe in crisi dalla natura stessa dell’amministrazione trumpista. Il «centro liberale» avrà cercato di fare i suoi giochi, ma non sarebbe mai riuscito da solo ad abbattere o ferire gravemente un animale politico (un cinghialone?) come Trump. Ciò è tanto vero che la sconfitta del presidente in carica ha richiesto una fattuale alleanza del centro piuttosto conservatore, cui Biden certamente appartiene (apparteneva? apparterrà?), e la sinistra che, giustamente, piace a GC, quella del movimento «Black Lives Matter».  Non risulta che vi siano state, come accadde in altri tempi, consistenti defezioni a Biden da parte della sinistra di qualunque colore, né che i rappresentanti eletti abbiano tutti un medesimo colore grigiastro. Se – è il dato di fondo – Trump ha digerito, col suo gran corpo, l’intero partito repubblicano (i dissidenti del giorno dopo sono ora patetici), i democratici non potevano assolutamente mantenere in vita quelle tattiche frantumazioni con cui oggi avrebbero sicuramente perso. Il mutamento così radicale di un avversario condiziona in tutto l’altro. La novità allora di quest’elezione, sotto la spinta del ciclone Trump, è che ha costretto i democratici, volere o no, a un fronte unitario, conformato almeno un po’ al suo antagonista. Tra gennaio e febbraio di quest’anno era facile previsione che Trump avrebbe rivinto, a meno che non avesse sbattuto contro il muro della pandemia, che si fosse creata una certa unità tra i democratici e che  a guidarla ci fosse una figura moderata. Forse Bernie Sanders, che è trattato troppo male da GC (un vecchio amore «reprobato» ?), ha capito delle cose. E cioè: che da una catastrofe come quella di Trump si poteva uscire solo da «destra», che la «sua» sinistra avrebbe, con ottime probabilità, perso, che bisognava dare una mano al futuro, tenendosi anche pronto, senza tatticismi, a un eventuale ritorno delle proprie forze sulla scena politica. Certo Biden è quello che è (anche se i suoi programmi dovrebbero essere letti con più attenzione); ma questa disponibile debolezza, questo cedimento al buon senso (non di necessità centrista) era l’unica via per sbarazzarsi di Trump e può oggi persino costituire una paradossale chance della debolezza e della necessità.
  3.      Accade che in GC, che è sempre molto stimolante, si diano a volte due vie, che forse preludono a nuove sistemazioni concettuali. L’una è, direi, sistemica e classica, dispiegata a partire da nette «idées mères»; l’altra invece esprime un senso vivo e anche appassionato per la politica che si dà, per i fenomeni e i mutamenti che inesorabilmente nel tempo accadono e che si lasciano a fatica subito ricondurre a una trama già stabilita e collaudata. Questo riguarda, naturalmente, soprattutto, il discorso sul che fare oggi? Dopo aver interpretato, in maniera convincente, la natura del BLM, perché è cresciuto e quali effetti ha avuto, GC si trova ad affrontare il presente: la necessità di fare i conti, non solo al Senato, con i repubblicani, e, aggiungerei per mio conto, la nuova forma-partito che, volere o no, i democratici, pur nel classico modello americano, sono costretti a darsi, per far posto sia ai democratici moderati che ai vivaci democratico-socialisti. Ma certo, si osserva a ragione, ciò non basterebbe a ricostruire un paese. Con forza si denuncia l’assenza di una credibile ipotesi strategica che, aprendo nuovi spazi per una ricomposizione ricca del partito, nell’immediato prema a sinistra su Biden e nel tempo lungo possa aspirare, come si diceva un tempo, a un’alternativa che con sia solo mera alternanza. Qui si possono porre poco più che domande. GG insiste, e a ragione, sull’importanza di nuove forme organizzative del partito e del sindacato. Da parte mia aggiungerei anche la classica questione dei contenuti o delle istanze teorico-politiche che occorre darsi. Certo, taluni passi sono necessari e comuni anche all’America: si tratta di rafforzare o introdurre quelle misure di Welfare, in particolare riguardo alla sanità e alla scuola, che, utili e razionali, devono far parte del concetto stesso di cittadinanza democratica. Ma la sinistra è sicura che le sue tradizionali ricette, a cominciare da una qualche statalizzazione, o persino pubblicizzazione, dei mezzi di produzione, siano ancora sufficienti a vincere, specie in paesi di così forti spiriti animali come l’America, che non inducano a prevedibili sconfitte?; che basti il ritorno a Keynes, per affrontare l’oggi; che una sorta di vago sentore di economia di guerra non aleggi ancora nel suo immaginario? Non sarà un nuovo New deal, ma a suo modo, affannosamente e pescando idee da ogni parte, Roosevelt pure esprimeva novità, un senso del tempo. Qualcosa di diverso certo, eppur di analogo si richiederebbe anche oggi, quando la pandemia, soprattutto per iniziativa dei giovani e delle donne, potrebbe pur sempre costituire un’occasione, e persino una «disposizione grandissima» al mutamento.

Lettera ai miei docenti

di Anna – Studentessa liceale

9/03/2020, data fondamentale da ricordare poiché l’istituzione scolastica italiana si è fermata a causa dell’emergenza sanitaria più problematica del ventunesimo secolo.
Siamo stati tutti catapultati in una situazione di indubbio disagio, in cui nessuno sapeva come comportarsi e come sfruttare al meglio i molteplici (forse troppi) strumenti telematici che ci erano prospettati. Timore e totale disorientamento segnavano intere giornate passate in isolamento. Noi studenti abbiamo unito le forze e attinto alle nostre risorse per continuare il percorso scolastico al quale abbiamo, pur sempre, diritto, rivoluzionando il concetto classico di “scuola”, mettendo in discussione tutti i valori precedentemente acquisiti.
La domanda che sto per porvi richiede, per la risposta, un profondo esame di coscienza, la più sincera presa d’atto degli effetti delle decisioni prese: vi siete mai soffermati ad analizzare lo stress emotivo, e altrettanto psicologico, a cui siamo stati sottoposti?
La didattica a distanza ci ha segnato particolarmente, ma la peggiore esperienza è stata, ed è tutt’ora, la mancanza di comprensione da parte di persone che consideravamo quasi alla stregua di “modelli di vita”.
Sin da bambina, ero incuriosita da tutto ciò che mi circondava, dalle matite colorate che mia mamma riponeva nel mio zaino ogni mattina, alle singole storie che la mia insegnate era solita raccontare. La scuola è sempre stato un luogo in cui, ai miei occhi, era assente l’ignoranza (il male peggiore che possa esistere, a parer mio) e, soprattutto, la paura di essere incompresi.
15/09/2020, il Governo italiano afferma di aver lavorato incessantemente durante il periodo estivo ed è pronto a riaprire le scuole della penisola. Risultato? Tempo due mesi e sono stati costretti a richiudere; siamo punto e a capo. Sorpresi? Neanche noi.
Eravamo convinti di saper lavorare con questa dannata DAD, eppure riscontriamo gli stessi, identici problemi iniziali: scarsa connessione, problemi tecnici di ogni tipo, diminuzione della concentrazione e della voglia di continuare con questa, permettetemi di dirlo, inutile modalità. Ripeto, siete sorpresi?
Abbiamo difficoltà a farvi capire che ci sentiamo lasciati quasi allo sbando, quei “modelli di vita” di cui parlavo hanno ormai come unico obiettivo quello di farci ingurgitare più nozioni possibili, per poi farcele recitare a loro piacimento.
Eravamo coscienti di entrare in una scuola dove non c’è posto per la pigrizia e la non curanza per gli studi, certo, ma se avessimo saputo che il livello di comprensione umana sarebbe stato praticamente nullo, illustri professori, avremmo riconsiderato le nostre scelte. Non fraintendeteci, siamo fieri del percorso che abbiamo intrapreso ed essendo giunti quasi al termine di questa esperienza, non vogliamo lasciare questo ambiente così come lo abbiamo trovato. Proprio per questo vi chiediamo, ora, in questo momento così delicato, di seguirci nell’essere il cambiamento in cui tutti noi, ancora, crediamo.
La scuola non può essere un luogo in cui ansie e paure regnano sovrane, ma un posto in cui la curiosità non trova confini e l’educazione e il rispetto per il prossimo devono essere all’ordine del giorno.
Cercate di comprendere le nostre necessità, senza annientare le nostre capacità personali, e vi assicuro che non ci sarà spazio per future incomprensioni, poiché, con la giusta benevolenza, non avranno modo né luogo di esistere.

Presidenziali USA 2020: i sintomi per ora scompaiono, la crisi resta

Dall’altro ieri sera (ore italiane) il quadro intorno ai risultati delle appena trascorse elezioni presidenziali americane sembra acquistare un colore meno sfocato: Joe Biden, vincendo in Pennsylvania, ha superato la soglia dei 270 delegati necessari per essere eletto. La guerriglia legale di un Trump che, mentre rifiuta il concession speech, gioca a golf sui dolci declivi di Sterling (Virginia), sembra destinata a continuare, ma non “sfonda”, trova per ora meno sponde in quella magistratura, che pure ha provato in vari modi a “colonizzare” nei suoi anni da Presidente. Mettiamo però da parte il tourbillon e i toni derisori che passano per le bocche di scrittori e intellettuali così terrificati dai circa 71 milioni di voti per Trump da insolentire il loro stesso passato da sperticati laudatores dell’american way of life e proviamo a fissare alcune coordinate generali, prima di breve e poi di lungo periodo:

1) la strategia del centro liberale americano, impersonata dai clintonites e dagli obamians e avviata subito dopo le scorse elezioni di mid-term, è pienamente riuscita. Il suo obiettivo era duplice, e per questo non privo di una sua complessità realizzativa. Si trattava, infatti, da un lato di imprigionare la sinistra, fuori e dentro il Partito democratico, entro il quadro di compatibilità previsto dal sistema politico americano, che funziona attraverso la conventio ad excludendum nei confronti delle ali “estreme” (il goldwaterismo, a destra, e le varie forme di democrazia “radicale”, socialista, a sinistra); dall’altro, di scacciare il trumpismo dalle stanze del potere, con le sue scombiccherate anomalie, inadeguate per una potenza economica e politica che, benché in costante declino relativo, ha ancora alcune carte da giocare (soprattutto sul terreno tecnologico e militare). L’operazione era complessa soprattutto per un motivo: il centro liberale, che è a guardia degli interessi di Wall Street e di potenti lobby industriali, non ha alcuna intenzione di rinverdire i fasti del New Deal o di inaugurare una nuova stagione “riformista” (come fu capace di fare, in mezzo a terribili contraddizioni, durante gli anni ’60). È vero che il programma economico di Biden è più sensibile alle istanze della classe lavoratrice della Rust Belt di quanto fosse quello di Hillary Clinton. Ma sui capitoli centrali del “salario globale di classe” (costi dell’istruzione universitaria, della sanità etc.), Biden non ha promesso nulla di sostanziale (“nothing would fundamentally change”, ha detto l’attempato senatore a una platea di ricchi donatori qualche tempo fa; dovrebbero tenerlo a mente i suoi novelli cantori “progressisti” nelle desolate plaghe italiane). Questo avrebbe ancora una volta esposto il Partito democratico alla rincorsa della demagogia reazionaria, “populista”, anti-tecnocratica, se non fosse che Trump è Trump, e cioè apparentemente un difensore del forgotten man, della middle class in affanno; in realtà un promotore di ingenti tax cuts a favore dei più ricchi. Durante la pandemia, questo nodo si è sciolto, non solo per la sua indifferenza verso le preoccupazioni sanitarie di larghe sezioni di quell’elettorato che in passato non gli aveva negato il consenso (gli elettori over 65), ma anche per la sua plateale conversione a una politica più “reaganiana”, rivelata dalla sua ostilità al riaggiornamento dei piani di salvataggio. “Ognun per sé” (il liberismo) e “Dio per tutti” (con la nomina della fondamentalista Coney Barrett a giudice della Corte suprema) è tornato a essere il mantra della destra americana.

2) perché questa correzione di rotta? Il motivo sta probabilmente nella ripresa di vaste mobilitazioni di massa, dietro l’insegna di Black Lives Matter. La tumultuosa crescita di questo movimento ha spaventato il blocco sociale conservatore, inducendolo a stringersi ancora una volta al GOP e al suo leader, richiamato tuttavia alle funzioni elementari di protettore di law and order, di custode della sacrosanctitas della proprietà privata [ref]Di ciò sono emblema i coniugi McCloskey, immortalati mentre impugnano le armi per proteggere la loro villa dalle manifestazioni BLM (https://www.bbc.com/news/election-us-2020-53891184). Per questa superba prova di eroismo proprietario sono stati perfino invitati a parlare alla convention repubblicana.[/ref]. Ma perché BLM è cresciuto così vertiginosamente? Di questo movimento, come è noto, sono state fornite molte spiegazioni, che giustamente risalgono agli insuccessi dei tentativi di includere più organicamente la popolazione afroamericana entro i ranghi della democrazia. Ma sono state trascurate le motivazioni immediatamente politiche, la frustrazione provata da ampi segmenti dell’elettorato democratico-socialista per il fallimento dell’ultimo tentativo di riforma del sistema dall’interno, quello di Bernie Sanders. Ritirandosi dalle primarie democratiche senza ottenere nulla in cambio, né la promessa di alcuni posti-chiave nella amministrazione Biden né quella di mettere capo a qualche seria politica redistributiva, Sanders ha disarmato il suo campo, lo ha privato di direzione politica. A quel punto (Sanders si è ritirato dalle primarie democratiche a metà aprile; le grandi manifestazioni BLM appaiono alla fine di maggio) l’uscita di alcuni settori, specie giovanili, verso l’azione diretta e di massa era quasi inevitabile.

3) con ciò, ritorniamo all’oggi e al quadro che ci consegnano le elezioni presidenziali: Trump esce senz’altro sconfitto dalla contesa con Biden, ma ha rafforzato la sua presa sul blocco sociale conservatore, malgrado i mal di pancia delle aree più moderate del GOP, destinati probabilmente ad acuirsi. Biden, conformemente alla natura del suo stesso progetto, proverà a solleticare gli appetiti di questa parte del Partito repubblicano, promettendo a essa alcuni posti nella sua amministrazione; del resto, con un Senato che rimane nelle mani dei repubblicani, si tratta, per lui, di una scelta quasi obbligata. Il problema è l’assenza, in questo contesto profondamente instabile e polarizzato, di una credibile ipotesi strategica da parte della risorta sinistra democratico-socialista[ref]Fuori o dentro il partito democratico? Se fuori, partito del lavoro o dei movimenti? Organizzazione con un certo grado di centralizzazione o federazione dei movimenti, sulle orme della rainbow coalition degli anni ’80 etc.? [/ref]: tramortita dal successo dei liberali, di cui ha sottovalutato le ancora enormi capacità di influenza, essa oscilla fra collateralismo (nutrito dalla speranza che i movimenti sociali, facendo pressione sull’amministrazione Biden, riaprano spazi di manovra a Bernie, AOC etc.) e riflusso nella jacquerie urbana: die Organisationsfrage, la questione dell’organizzazione, di partito, sindacale etc., dovrebbe essere al centro delle preoccupazioni delle forze più avanzate della sinistra. Ma così è soltanto in ridottissima parte.

Per concludere: una destra sempre più radicale mantiene le sue posizioni, raggiungendo una sorta di “equilibrio statico”, per citare il Gramsci dei Quaderni, con il centro liberale, ancora in possesso di molte casematte. Di fronte a situazioni analoghe, Gramsci tuttavia avvertiva: questi equilibri non durano a lungo, vengono per lo più risolti dall’intervento di un tertium. E questo tertium, a sinistra, ancora non si vede.

Homo pandemicus: ideologia COVID e nuove frontiere del consumo.

Di Fabio Vighi
Come scrisse Ralf Dahrendorf nel lontano 1985, ‘la società centrata sul lavoro è morta, ma non sappiamo come seppellirla’ – e in effetti, aggiungiamo noi, il fetore comincia a farsi insopportabile. Rimaniamo cioè definiti dal produttivismo capitalista senza però poter più estrarre nuova ricchezza (plusvalore) da un “lavoro vivo” ormai estromesso da inarrestabili processi di automazione. Ma proprio l’individuo improduttivo e atomizzato della globalizzazione neoliberista, il soggetto “senza valore”, smarrito e infantilizzato, è oggi completamente assuefatto al dominio reale dei rapporti capitalistici. L’indole conformistica della piccola borghesia di un tempo si trasferisce oggi nell’aspirazione collettiva di appartenere a un “ceto mediocre” impegnato solo a consumare e sopravvivere, o a vivere per rimanere in vita. Solo l’essere-per-la-merce (insieme a un avvilente narcisismo fatto di palestra, addominali, tatuaggi, pilates, cardiofitness, ecc.) ci tiene uniti. Mai come ora la teologia feticistica del valore si afferma come ideologia, estendendosi a tutti i settori della vita, inclusi l’informazione, l’istruzione e la medicina.

Nota sull’intervista a Lukács del 1969

Sollecitato dai redattori di “Filosofia in movimento”, scrivo queste righe per chiarire lo scenario dentro il quale si inserisce l’intervista che Lukács concesse a Leandro Konder nel 1969. Per ragioni di spazio non ho avuto modo di fare questa opera di storicizzazione nel presentare la stessa intervista.
Innanzitutto lo stesso intervistatore va presentato: Leandro Konder. Nato nel 1936 a Petropolis, vicino a Rio de Janeiro, prima avvocato del lavoro, poi costretto all’esilio dal Brasile a causa del golpe militare del 1964, si rifugiò in Germania e in Francia. Nell’esilio approfondì lo studio della filosofia e del marxismo. Con Lukács aveva già intrattenuto un carteggio, insieme al suo amico Carlos Nelson Coutinho prima del golpe del 1964 – carteggio che è pubblicato in filosofiainmovimento. Nel 1978 poté fare ritorno in Brasile, dove intraprese la carriera accademica nelle facoltà di Storia e di Educazione. È morto nel 2014, dopo una lunga e tormentata malattia. Nel 1969 visitò Lukács a Budapest e da quella visita scaturì l’intervista di cui parliamo. La lingua dell’intervista fu il tedesco. L’intervista fu pubblicata in un grande giornale brasiliano Jornal do Brasil il 24 e 25 agosto 1969, proprio per il titolo che gli fu dato: “L’autocritica del marxismo”. La censura militare guardò più alle critiche che Lukács faceva al marxismo che alle proposte, che forse non furono neanche capite, così fu concesso il permesso di pubblicazione.
Lukács, nel 1969, aveva 84 anni, morirà due anni dopo, il 4 giugno 1971. Era un filosofo famoso in tutto il mondo, ma viveva isolato nella sua natia Ungheria. Non era particolarmente gradito al regime comunista di Kádár, perché era un pensatore indipendente e non disponibile a seguire le linee ideologiche del partito comunista ungherese. Alcune relazioni della C.I.A. che lo indicava come un dissidente sono citate in un mio articolo presente in filosofiainmovimento. L’anno precedente all’intervista, in occasione dell’invasione sovietica della Cecoslovacchia, a cui parteciparono anche truppe ungheresi insieme a quelle di altri paesi del Patto di Varsavia, Lukács aveva ribadito la sua posizione di indipendenza ideologica, scrivendo e inviando al Comitato Centrale del Partito, un saggio di argomento politico, Demokratisierung heute und morgen (La democrazia della vita quotidiana è il titolo in italiano). Naturalmente il saggio fu sepolto negli archivi del Partito, da dove riemerse soltanto nel 1985, suscitando un forte dibattito sull’analisi politica del vecchio Lukács.
Il tema centrale dell’analisi di Lukács è la sua polemica contro lo stalinismo, come ricorda anche nell’intervista. Una delle distorsioni politiche dello stalinismo era per Lukács il tatticismo, cioè la subordinazione delle scelte politiche non a un progetto strategico di lungo termine, ma a calcoli politici di dimensione ridotta, che, però, causavano enormi danni di immagine e di scelte politiche. Nell’intervista Lukács riferisce della crisi interna al Partito Comunista Francese, che non partecipò inizialmente alla Resistenza anti-nazista, perché l’URSS aveva firmato il patto di non belligeranza con la Germania. Questo patto di non belligeranza non si estendeva all’Italia e il Partito Comunista Italiano continuò senza limitazioni nella sua attività anti-fascista. La difformità di comportamenti, in base agli ordini di Mosca, ha segnato fortemente la storia futura, post-bellica, dei due partiti comunisti. Lukács ricorda che il tatticismo continua anche nella politica sovietica post-stalinista, in particolare nella politica estera, per cui alcuni paesi arabi, come l’Egitto, sono considerati socialisti, in contraddizione palese con la loro effettiva e reale struttura economica e sociale.
Come è detto nell’intervista Lukács, al momento dell’intervista stava scrivendo la sua Ontologia dell’essere sociale. Infatti Lukács fa riferimento al fenomeno dell’alienazione, che poi sarà indicata con il termine di estraniazione. L’estraniazione è l’argomento del quarto e ultimo capitolo dell’Ontologia dell’essere sociale. Per Lukács si tratta di un fenomeno specifico del capitalismo del XX secolo, per cui l’intera vita quotidiana dell’essere sociale è subordinata, addirittura progettata, dal sistema capitalistico. Così alla classica estrazione di plusvalore dal lavoro vivo del lavoratore, si unisce lo sfruttamento dei suoi consumi: il consumismo è un fenomeno specifico del capitalismo moderno, è un’energia irrefrenabile che spinge il capitalismo a sfruttare anche i bisogni dell’essere sociale e il loro soddisfacimento. I bisogni vengono indotti e controllati dalla pubblicità e dalla propaganda, come facevano i due sistemi totalitari, fascismo e nazismo. Il consumo è indirizzato verso le merci che il sistema capitalistico ha prodotto e predisposto a un consumo programmato. La psicologia dell’essere sociale è così manipolata e subordinata alla produzione delle merci. La totalità sociale è interamente programmabile e calcolabile. Lukács confessa che non crede che siano possibili crisi fondamentali nel capitalismo moderno. La capacità di manipolabilità del sistema sembra in grado di superare qualsiasi crisi e, in realtà, così è avvenuto negli ultimi cinquanta anni.
Dietro a questa capacità di manipolabilità del sistema capitalistico dominante, c’è la calcolabilità sia della produzione che del consumo. Il tema della calcolabilità era stato sviluppato dal grande amico di gioventù di Lukács, Ernst Bloch in Lo spirito dell’utopia, e Lukács riprese il tema già in Storia e coscienza di classe. Il tema è implicito ovviamente nella sua analisi dell’estraniazione nell’Ontologia dell’essere sociale. Sostengo questa implicita presenza, perché Lukács critica radicalmente la concezione del mondo del neo-positivismo – in particolare vi dedica un capitolo nella prima parte dell’Ontologia dell’essere sociale – che fa della calcolabilità lo strumento di analisi della realtà. Lukács si ribella a questa riduzione delle cose e degli esseri umani a numeri. In fondo, quindi, la calcolabilità è una forma ideologica del capitalismo moderno, un suo strumento di azione nella realtà sociale.
Lukács accusa il marxismo post-Lenin di essere stato incapace di analizzare i fondamenti teorici del capitalismo contemporaneo. Egli sostiene che il marxismo deve riprendere la sua concezione razionale e storicistica della realtà sociale. L’irrazionalismo è da lui considerato il grande avversario del marxismo. Così fenomeni come l’esistenzialismo – di cui però salva alcune analisi di Sartre, ma condanna in blocco Heidegger –, il neopositivismo e anche alcune tendenze considerate marxiste, come quelle della Scuola di Francoforte, sono asservite all’ideologia borghese in lotta contro la ragione dialettica. In pratica le tendenze dominanti la scena della filosofia della seconda metà del Novecento sono considerate da Lukács come oppositrici del marxismo. La reazione a questa generale opposizione lukácsiana fu il considerare Lukács uno stalinista. Il giudizio di “stalinista” ha condizionato fortemente la diffusione della conoscenza delle opere del Lukács maturo. In realtà Lukács fu una vittima dello stalinismo sia per l’ostracismo decretato alle sue opere nei paesi del socialismo realizzato, sia nei confronti della persona, arrestato per due volte – una nella Russia stalinista nel 1941 e una seconda in Ungheria per la sua partecipazione alla Rivoluzione del 1956 – e isolato dal regime post-stalinista ungherese – isolamento favorito anche dalla ostilità degli intellettuali occidentali.
Soltanto in America latina il pensiero di Lukács ha avuto un notevole successo, che continua ancora oggi. Infatti Lukács, come si nota nell’intervista, non assume una posizione eurocentrica nei confronti del suo interlocutore brasiliano. Anzi sprona gli intellettuali latinoamericani a sviluppare una propria analisi della loro realtà sociale ed economica, cioè a non ripetere gli errori degli intellettuali marxisti occidentali che non hanno saputo ripetere l’analisi compiuta dai fondatori del marxismo. Egli si considerava un semplice indicatore di tendenze da sviluppare.
Per concludere queste righe di esplicazione, ricordo il giudizio di Lukács nei confronti di Gramsci. Lukács non conosceva l’italiano e le opere di Gramsci, almeno fino agli anni Sessanta, non erano ampiamente tradotte in inglese, francese o tedesco, ancor meno in ungherese, le lingue che Lukács conosceva; quindi la sua conoscenza di Gramsci non era ampia, ma malgrado questa ristrettezza il suo giudizio è indicativo: nel considerare Gramsci come un teorico che dà indicazioni generali, le quali devono essere tratte dallo studio del contesto storico ove Gramsci agì, Lukács invita a trattare Gramsci come un classico del marxismo. Invita a analizzare dettagliatamente il rapporto che il pensiero di Gramsci ha intessuto con la storia che lui ha vissuto e ha visto. È lo stesso lavoro di ricerca che lui compì nei confronti di Marx.

Politica- una introduzione filosofica

L’obiettivo che questo volume si prefigge è quello di presentare in modo sintetico le questioni principali della filosofia politica, con particolare attenzione alle teorie e ai problemi del tempo presente. La trattazione è articolata in tre parti.
Nella prima parte («La politica tra realismo e valori») si presentano le grandi questioni di fondo che stanno alla base della riflessione teorica sulla politica: per un verso la politica non può fare a meno di un riferimento etico e valoriale, per altro verso rimane comunque una dimensione caratterizzata dal conflitto e dalla lotta per il potere. Si tratta dunque di pensare insieme queste due dimensioni, cosa che molto spesso le filosofie politiche non sono riuscite a fare. I temi affrontati nella prima parte sono dunque: la definizione della politica, il «realismo politico», i rapporti della politica con il potere e la violenza, da un lato, con l’etica e la giu- stizia dall’altro.
Nella seconda parte («I principî della giustizia politica») vengono delineate le coordinate essenziali del patto politico moderno e sviluppati i concetti fondamentali della politica nella modernità (liberalismo, democrazia e socialismo) e la loro articolazione concreta nelle contemporanee democrazie costituzionali.
Anche in questa parte si ragiona su un duplice registro. In primo luogo si presentano i punti principali della democrazia costituzionale: diritti fondamentali, rappresentanza politica, divisione dei poteri, giustizia sociale. In secondo luogo si mostra come la promessa democratica del potere condiviso sia ampiamente ridimensionata dalle cristallizzazioni di potere non democratico che permangono ben salde anche nelle democrazie avanzate (poteri economici, mediatici, tecnocratici). Si perviene quindi a una visione dinamico- conflittuale della democrazia e della giustizia sociale, come posta in gioco delle tensioni e degli antagonismi che attraversano la società.
Nella terza parte («Cosmopolitica: la politica oltre lo Stato») si mostra come gli approdi conseguiti a livello di politica statale vengano rimessi in discussione dalla centralità che acquistano, nell’età globale, le questioni che riguardano la politica oltre lo Stato. Il pensiero moderno ha visto gli Stati come entità che sono tra loro in un rapporto simile a quello dello «stato di natura» e si è posto innanzitutto il problema di superare questa condizione e di porre le basi per la pace tra i popoli. Ma oggi sono venuti in primo piano molti altri problemi sui quali non disponiamo ancora di visioni consolidate. Come possiamo pensare, realisticamente, la costruzione di un ordinamento cosmopolitico, nel contesto del quale gli Stati e i popoli cooperino in modo responsabile per farsi carico dei problemi comuni, dalle guerre locali al terrorismo, dal cambiamento climatico ai rischi sanitari globali? Gli Stati e i popoli sono legati da obblighi di assistenza reciproca, o è giusto che ognuno pensi per sé? Condividono responsabilità comuni di fronte a fenomeni come la fame, la povertà estrema, la negazione dei diritti umani da parte di regimi tirannici? E fino a che punto è legittimo che ogni Paese si chiuda dentro i propri confini? Sono queste, a parere di chi scrive, le nuove frontiere con le quali la filosofia politica si dovrà misurare oggi e domani.

Si ringraziano l’editore e l’autore per aver concesso la pubblicazione della premessa al testo.